Il 3 giugno 2024 il ministro della Difesa Guido Crosetto e il suo quasi omologo francese Sébastien Lecornu (il cognome è tutto un programma) hanno deposto due corone d’alloro al cimitero militare francese di Monte Mario (Roma) per commemorare l’80°Anniversario della “liberazione” (leggi occupazione) di Roma e rendere omaggio ai militari caduti in combattimento ed ivi sepolti.
Detto cimitero, infatti, ospita le tombe di 1.888 soldati, di cui 1.142 tra marocchini, algerini e senegalesi, appartenenti al corpo di spedizione francese che combatté in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nel corso della cerimonia i due ministri non si sono astenuti dal recitare il consueto grottesco copione menzognero, pronunciando frasi deliranti, del tutto estranee alla realtà degli eventi di allora:
“Sono onorato di poter commemorare con voi l’ottantesimo anniversario della liberazione di Roma……..Il 4 giugno 1944 Roma venne liberata col contributo del Corpo di spedizione francese. Non si trattò solo di una vittoria militare ma vinsero anche i valori di libertà, democrazia e giustizia. Rispetto e gratitudine a quanti combatterono, molti dei quali riposano qui” (Crosetto);
“Nel corso del seconda guerra mondiale il popolo italiano si rese presto conto di avere al suo fianco nazioni affini (?) che lo avrebbero liberato dal pericolo (?). Una di queste era il popolo francese……Il 4 giugno 1944 si scrissero le pagine più belle della storia dei nostri due popoli, suggellando per sempre l’amicizia che ci unisce e dalla quale sarebbe poi scaturita la creazione della Comunità europea” (Lecornu).
E allora è il caso di rievocare quali furono i “valori di libertà, democrazia e giustizia”, nonché l’ “amicizia”, che caratterizzarono l’azione di coloro che “riposano” nel suddetto cimitero e di ripercorrerne la storia per capire quanto “rispetto e gratitudine” essi meritano.
L’8 novembre 1942 gli americani sbarcarono in Algeria (operazione “Torch”) e le truppe coloniali francesi del Nord Africa, fino ad allora agli ordini della Repubblica di Vichy, si arresero senza sparare un colpo. Il generale Charles De Gaulle, fuggito dalla Francia occupata dai tedeschi e capo del sedicente governo francese in esilio “Francia libera” (in realtà agli ordini degli angloamericani), allora, attinse a questo personale militare per creare il CEF (Corp Expeditionnaire Français), costituito per il 60% da marocchini, algerini e senegalesi e per il restante da francesi, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni. Vi erano però dei reparti esclusivamente marocchini di “goumiers” (dall’arabo qaum), i cui soldati provenivano dalle montagne del Rif ed erano raggruppati in formazioni denominate “tabor” (dal turco “tabur”, equivalente a battaglione), al cui interno sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori (djellaba) e sandali di corda. Erano individualmente equipaggiati non solo con le armi fornite loro dagli alleati (mitra Thompson cal. 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm), ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica e simpatica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti. Il loro comandante era il borioso plurivoltagabbana generale Alphonse Juin, nato in Algeria, che, da collaboratore dei tedeschi, era passato alle dipendenze di De Gaulle.
Il 10 Luglio 1943 il CEF sbarcò Sicilia al seguito degli angloamericani e si dedicò subito alla sua attività preferita: stupri, saccheggi e violenze di ogni genere ai danni della popolazione civile. Gli 832 magrebini del 4° tabor, aggregato agli americani che sbarcarono a Licata, compirono saccheggi e violentarono donne e bambini presso il paese di Capizzi, vicino Troina. Solo ad alcuni andò male, perché, sorpresi isolati, furono trucidati dai parenti delle vittime.
Gli Alleati, risalendo verso Nord pur con notevoli difficoltà, si impantanarono a Cassino, sulla Linea Gustav, dove i tedeschi, dal 17 gennaio al 18 maggio 1944, opposero una tenacissima ed eroica resistenza a nemici enormemente soverchianti per uomini e mezzi, impedendo loro l’avanzata verso Roma. A nulla valsero a scardinare le difese dei grüne Teufel (diavoli verdi) i terrificanti bombardamenti aerei a tappeto che rasero completamente al suolo l’abbazia di Montecassino e i continui assalti effettuati con l’impiego di carne da cannone (leggi polacchi e neozelandesi). Fu allora che il generale Juin, che di carne da cannone ne aveva da vendere, propose ai colleghi statunitensi e inglesi l’aggiramento del caposaldo nemico, avendo scoperto che una zona impervia del monte Petrella, a Est di Cassino, era stata lasciata parzialmente sguarnita dai tedeschi: su quel terreno, solo le sue truppe marocchine di montagna avrebbero potuto farcela. Infatti, con l’operazione “Diadem”, i “goumiers” riuscirono a sfondare la Linea Gustav e, attraversando l’altipiano di Polleca, si lanciarono verso Pontecorvo.
Il feldmaresciallo Kesselring, Oberbefehlshaber Süd, che nel frattempo aveva messo in salvo le opere d’arte che si trovavano all’interno dell’abbazia di Montecassino facendole trasportare in Vaticano, per tamponare lo falla inviò i suoi Panzegrenadier insieme a reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana di Frosinone), i quali, dopo accaniti combattimenti, dovettero soccombere. E’ accertato che gli ultimi soldati tedeschi rimasti a Esperia si suicidarono gettandosi in un burrone per non finire decapitati come altri loro commilitoni catturati. Questo avveniva mentre i marocchini cominciavano già a violentare moltitudini di donne, uomini e bambini sull’altopiano di Polleca, cosa che peraltro, dopo la Sicilia, avevano già fatto in Campania, Puglia, Abruzzo e Marche.
Nonostante i manifesti fatti affiggere dalle autorità repubblicane (alcuni disegnati da Gino Boccasile) che mettevano in guardia la popolazione civile dalle truppe di colore alleate e che, già prima della battaglia di Esperia, un ricognitore tedesco avesse lanciato sui monti Aurunci volantini che invitavano la popolazione a fuggire dalle prevedibili violenze delle truppe nordafricane e molti bambini fossero stati evacuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e inviati nelle colonie di Rimini, la maggior parte degli abitanti del luogo si limitò ad aspettare, con rassegnato distacco, il passaggio dei “liberatori”.
Fu così che, dopo la ritirata delle truppe italo-tedesche, vari paesi della Ciociaria vennero occupati dai coloniali francesi del CEF e ciò determinò l’inizio di un vero e proprio inferno per la popolazione civile. Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e lo stesso capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Dai verbali dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra risulta che anche “due bambini di sei e nove anni subirono violenza”. A Santandrea i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 “goumiers”; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera; morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella e, dopo la violenza di gruppo, venne ammazzata. A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini in un campo provvisorio. Qui si toccò l’apice della bestialità: dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Verbali dell’epoca, descrivono il tipico modus operandi del marocchini: bussavavo alla porta di una casa, che abbattevano se non veniva aperta; penetravano all’interno e, dopo aver colpito alla testa col calcio del fucile le donne per farle svenire, le portavano di peso all’esterno e le violentavano, mentre i loro parenti venivano tenuti a bada con le armi puntate su di loro, oppure malmenati e legati, oppure uccisi.
Quelli sopra descritti sono solo alcuni esempi di queste atrocità, riportati allo scopo di fornire un’idea di massima.
I comuni coinvolti nel Lazio meridionale furono Littoria, Lenola, Campodimele, Fondi, Formia, Itri, Sabaudia, San Felice Circeo, Sezze, Cori, Norma, Roccagorga, Maenza, Prossedi, Spigno Saturnia, Frosinone, Ceccano, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Villa Santo Stefano, Amaseno, Esperia, Supino, Pofi, Pratica, Pastena, Pico, Pontecorvo, Campodimele, S. Oliva, Castro dei Volsci, Grottaferrata, Giuliano di Roma e Sabaudia. Ma, dopo la caduta di Roma, le stesse violenze si verificarono nel Lazio settentrionale, nell’isola d’Elba e in provincia di Siena, in particolare a Siena, ad Abbadia San Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. E si tratta di elenchi incompleti.
Migliaia furono le donne contagiate da sifilide, blenorragia e altre malattie veneree e spesso contagiarono a loro volta i loro mariti. Così come migliaia furono quelle ingravidate: il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva, dopo la guerra, circa 400 bambini nati da quelle unioni forzate. Molte delle donne “marocchinate” furono poi scansate dalla comunità a causa dei pregiudizi di allora, ripudiate dalle famiglie e, a centinaia, finirono suicide o relegate ai margini della società. Una scia di sofferenze fisiche e psicologiche, quindi, che si trascinò per decenni.
Protagoniste di tali infami atrocità non furono però solo le truppe di colore. Da documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, risulta che anche i francesi presero parte alle violenze: a Pico, per esempio, furono violentate 51 donne (di cui nove minorenni) da 181 franco-africani e da 45 francesi. Dato questo episodio e considerando che i francesi europei costituivano il 40% di tutto il Cef, risulta limitativo addossare la responsabilità delle violenze ai soli “goumiers” marocchini e trascurare quella gravanti sugli “amici” francesi.
Stante il coinvolgimento dei bianchi, non presenti nei reparti “goumiers”, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del CEF. Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto. Questo atteggiamento perdurò fino all’arrivo in Toscana del CEF..
Sulla responsabilità di tali infamie c’è poco da scoprire, essendo essa del tutto palese. Infatti, un comunicato del generale Juin ai suoi uomini, emesso alla vigilia dell’ultima fase della battaglia di Cassino, così recitava: “Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto è promesso e mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete”.
Secondo alcuni autori questo comunicato fu poi diffuso ad arte per limitare nello spazio-tempo le violenze che durarono assai più di 50 ore, ovvero dal luglio 1943 all’ottobre 1944 quando i franco-coloniali lasciarono l’Italia e si imbarcarono per la Provenza. Solo nell’imminenza del ritorno in Francia alcuni dei violentatori furono puniti. Poco prima che i marocchini toccassero il suolo provenzale, infatti, i loro comandanti avevano deciso di riportarli severamente all’ordine, tanto che non si registrarono mai violenze ai danni di donne francesi. Una volta in Germania meridionale, invece, diedero nuovamente sfogo ai loro istinti bestiali sulle donne tedesche, come riportano alcuni recenti studi. Segno, questo, che le efferatezze di queste truppe avrebbero potuto essere certamente evitate se i loro comandanti lo avessero voluto e che quindi responsabile di esse fu e rimane la Francia, “vincitrice” di una guerra che ha perduto.
Infatti vi furono responsabilità a livello gerarchico-militare e politico mai indagate, ma assolutamente evidenti. Innanzitutto, a carico dei comandanti di divisione del CEF: Guillaume, Savez, de Monsabert, Brosset e Dody i quali, non solo non impedirono le violenze, ma le incentivarono: prima dell’attacco a Cassino, infatti, le truppe coloniali furono tenute consegnate in recinti di filo spinato, lontano dai loro bordelli, evidentemente per aumentarne l’aggressività. Ma il principale responsabile della barbarie è da ricercarsi, per un principio di responsabilità gerarchica, nel comandante in capo di “Francia libera”, Charles De Gaulle, che – è provato – durante il culmine delle violenze, si trovava, insieme al suo ministro della Guerra André Diethelm, proprio a Polleca presso il casolare del barone Rosselli, eletto a quartier generale avanzato del CEF. Vi sono fotografie inoppugnabili e anche un suo discorso che tenne, in loco, in quei giorni. Le violenze accadevano, quindi, sotto ai suoi occhi.
Va anche ricordato che, quando alcuni marocchini a Roma violentarono due donne e le gettarono poi da un treno in corsa, uccidendole, l’”Osservatore romano” e “Il Popolo” aprirono una accesa polemica, denunciando chiaramente le violenze che si verificavano ovunque i marocchini si fossero accampati. A questi rispose il giornale delle truppe francesi in Italia “La Patrie”, minimizzando l’accaduto. Ancora una volta, quindi, De Gaulle non poteva non sapere. Impossibile pensare, inoltre, che i comandanti alleati fossero all’oscuro di quegli eventi.
Ovviamente, al pari di quelli commessi dagli angloamericani, nessun rappresentante di questa ignobile repubblica di camerieri e lacché ha mai chiesto conto per tali crimini.
Quanto ai numeri, si può affermare, sicuramente minimizzando, che vittime delle violenze commesse dal CEF, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, furono almeno 60.000 donne stuprate nella sola provincia di Frosinone, ognuna quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma vi sono testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali, di cui furono vittime non solo donne, ma anche numerosissimi bambini e uomini, vanno annoverati i furti, gli incendi, i saccheggi e le distruzioni.
Questa è la vera storia di coloro che il ministrone della Difesa ha avuto l’impudenza di definire portatori dei valori di libertà, democrazia e giustizia e verso i quali ha dichiarato di nutrire rispetto e gratitudine.
Ma, per non fare torto a nessuno, bisogna anche ricordare che, nel pisciare fuori dal vaso, Crosetto ha avuto un ben più illustre precedessore: Jorge Mario Bergoglio, in arte Papa Francesco. Infatti il 2 novembre 2021, in occasione della ricorrenza dei defunti, quest’ultimo si è recato in “visita di preghiera” al cimitero militare francese di Monte Mario a Roma e sulle tombe dei caduti ha detto con serena disinvoltura: “Questa brava gente (sic) è morta in guerra, chiamata a difendere la patria, valori e ideali. E tante altre volte a difendere situazioni politiche tristi. Sono le vittime (sic), le vittime della guerra che mangia i figli della patria”.
Ignoranti o falsari della Storia? Forse entrambe le cose.
Giuliano Scarpellini