12 Aprile 2017
Criminali di guerra sempre e comunque
In poche ore è successo ciò che nessuno si aspettava potesse mai accadere sul piano internazionale e, specialmente, sul fronte siriano. Partiamo dal principio, e cerchiamo di fare un po’ di ordine.
Qualche giorno fa i mass media internazionali battono la grancassa: il regime del despota Assad ha utilizzato armi chimiche nella provincia siriana di Idlib, provocando la morte di una sessantina di persone, la maggior parte delle quali donne e bambini. Il coro è unanime: Assad se ne deve andare, è un tiranno che va rovesciato, etc. Secondo la ricostruzione russa, invece, l’attacco aereo che ha causato vittime civili sarebbe stato lanciato si dal regime di Assad, ma contro un deposito dei ribelli, dove nessuno sapeva che fossero contenute armi chimiche che si sarebbero poi propagate nell’aria, causando morti e feriti. Del resto, questa seconda versione parrebbe più plausibile: la Siria già nel 2014, con la stessa supervisione degli Stati Uniti e della comunità internazionale, con la collaborazione delle Nazioni Unite aveva già smantellato il proprio arsenale nucleare. Il regime, pertanto, non poteva disporre di armi chimiche. Semmai il problema, a questo punto, sarebbe un altro: i terroristi siriani anti-Assad dove si sarebbero procurati le armi? Non dai depositi governativi che, come detto, sono stati smantellati già qualche anno fa.
La sensazione è quella di un deja vù. Già a Ghouta, nel 2013, il Presidente siriano era stato accusato di aver adoperato armi chimiche contro la popolazione civile. Anche in quel caso la risonanza mediatica internazionale fu enorme. L’uso del gas contro vittime inermi venne però smentito qualche mese dopo dal giornalista Seymour Hersh, Premio Pulitzer. Del resto che la notizia fosse solo una scusa per provocare un intervento armato degli Stati Uniti in Siria era già stato dimostrato dai fatti: persino Barack Obama, uno che non si faceva certo scrupoli a bombardare nazioni sovrane infischiandosene completamente del diritto internazionale e che ha sempre permesso l’ascesa e l’ingorssamento delle file dei miliziani dello Stato islamico in funzione anti Assad, in quel caso non aveva ordinato un intervento militare.
Qui la Storia sembra ripetersi ma, purtroppo, il finale è ben diverso. Non si sa ancora cosa abbia spinto Trump ad agire. Del resto egli stesso, solo due giorni fa, dichiarò che rovesciare Assad non era una priorità dell’amministrazione americana, facendo illudere i più ottimisti, noi compresi, che ci fosse un ulteriore margine di avvicinamento e di comunanza di intenti con la Russia.
Forse sarà stato la grancassa mediatica, amplificata da quell’Osservatorio sui Diritti Umani in Siria che altro non è che un unico individuo che emette comunicati ben comodo nella sua sede londinese; forse sarà stata una necessità di prestigio interno: non sarebbe la prima volta (Pearl Harbour docet) che un Presidente americano senta il bisogno di riscuotere consensi interni mediante una guerra internazionale; forse sarà stata l’opera di normalizzazione che l’apparato neocon stava conducendo, lentamente, ai fianchi del neo Presidente americano.
Sta di fatto che questa “aggressione contro uno Stato sovrano”, come l’ha definita Putin, segna un cambio nettissimo dell’amministrazione americana che, solo fino a qualche giorno fa, sembrava aver preso tutt’altra direzione. Come è stato possibile? Cosa c’entra la Turchia e Israele, che esultano come due scolaretti al loro ultimo giorno di scuola? Quest’ultimo, per bocca del suo Ministro dell’Interno, al giornale israeliano Yediot Ahoronot aveva dichiarato che lo Stato sionista aveva le prove che l’attacco chimico che aveva provocato una sessantina di morti civili fosse stato sferrato dall’aviazione di Assad e che fossero state utilizzate armi chimiche, bandite dalla comunità internazionale. La fonte, però, avrebbe dovuto insospettire chiunque. Anche qui si respirava aria di deja vù, e sembrava di rivedere una brutta copia di quel Colin Powell che tenne un discorso alla sede delle Nazioni Unite, sventolando una fiaschetta in cui asseriva fosse contenuto l’antrace che Saddam Hussein aveva utilizzato in Iraq. Ora sappiamo che era una gigantesca bufala con la quale gli Stati Uniti presero in giro il mondo intero, e nessuno di quella amministrazione è mai stato richiamato da un Tribunale Internazionale di guerra a rispondere dei crimini americani e dell’invasione dell’Iraq.
Donald Trump è stato normalizzato. Di più: ha virato decisamente verso le posizioni obamiane (per quanto nemmeno Obama aveva mai avuto il coraggio di condurre une guerra aperta contro la Siria di Assad, preferendo lavorarla ai fianchi con i ribelli jihadisti siriani e provocando danni dalle conseguenze che stiamo vedendo tutt’oggi in Medio Oriente). Di più: è diventato “clintoniano”. Il suo messaggio alle nazioni civili unite nella lotta contro il terrorismo ha quasi sapori messianici. Se qualcuno, come il sottoscritto, si era illuso che qualcosa, almeno qualcosa, potesse cambiare nella politica estera americana, da stanotte in poi è stato ampiamente smentito. Il Presidente che avrebbe potuto porre un freno all’imperialismo e all’arroganza americana in campo internazionale lascia lo spazio al solito Presidente guerrafondaio, degno compare dei Bush e degli Obama che si sono avvicendati negli ultimi anni nello Studio Ovale.
Oggi è una giornata triste per tutti gli uomini liberi. Però, forse, non è ancora arrivato il momento di gettare la spugna. Quando l’ultimo Stato sovrano sarà invaso, saccheggiato, distrutto e umiliato, forse, allora, avremo perso. Quel giorno, speriamo, non è ancora arrivato. Ora più che mai: forza Siria! Forza Assad!