La razza nel Nazionalsocialismo

di Gianantonio Valli

Teoria antropologica, prassi giuridica

Citazioni

Il processo dell’unione dell’anima col corpo – la discesa dell’anima nella materia – è, a voler vedere, la profonda tragedia dell’anima. Ma l’anima si assume tale terribile rischio come parte della necessità di discendere per poter poi ascendere ad altezze sconosciute […] La stessa Creazione, e la creazione dell’uomo, è precisamente tale rischio, una discesa per ascendere.

Rabbi Adii Steinsaltz, in A. Kurzweil, 1996

La forza della visione del mondo dell’ebraismo riposa nella fondamentale concezione ebraica delle anime ebraiche del popolo ebraico, le quali sono contenute nel serbatoio delle anime della comunità ebraica. I nostri saggi hanno detto: “Una pianta non cresce dal basso senza l’intervento di un angelo dall’alto”.

il Capo Rabbino askenazita israeliano Abraham Schapiro, in Hila Tov, 1992

Una nazione dispersa che ricorda il proprio passato e lo mantiene in relazione col presente avrà certamente un futuro come popolo e forse anche un’esistenza più gloriosa di quella passata.

Lev Levanda, in A. Kurzweil, 1996

Il popolo d’Israele è assolutamente refrattario all’idea di Stato, considerato come collettività giuridicamente 0rganizzata sopra in determinato territorio. Gli ebrei hanno viva in loro, per tradizione millenaria, la coscienza di popolo e di razza: una solidarietà settaria li riunisce in un nesso unico in qualunque parte del globo essi si trovino. L’ebreo potrà vivere l’intera esistenza della Nazione dove è nato, ma la sua struttura, i suoi sentimenti si manterranno sempre ebraici e mai nazionalizzati. La storia d’Israele prova e documenta questa innegabile verità. Subirono infatti le più grandi sconfitte morali, essendo banditi da una successione interminabile di Stati; e sempre si mantennero compatti, gelosissimi della omogeneità della loro razza. Tutti quei signori che condannano con violenti apostrofi le teorie razziste e le misure precauzionali antisemite dovrebbero leggere, nella vera storia sociale, che gli ebrei furono i primi a praticare l’endogamia: a impedire cioè con il controllo e l’applicazione di sanzioni severissime che un appartenente alla loro razza si unisse in matrimonio con un individuo di razza diversa.

Cesare Bonacossa, Il vecchio mondo in congedo assoluto, 1941

Es ist heute aber ebenso wichtig, den Mut zur Schönheit zu finden wie den zur Wahrheit: oggi è però importante trovare il coraggio per la bellezza altrettanto come per la verità. Il nemico mondiale contro cui siamo in lotta ha scritto sulle sue bandiere la distruzione del vero e del bello. È riuscito a far passare l’apprezzamento dei sentimenti più naturali in parte come stupido, in parte come risibile, in parte persino come infame. Tutti i grandi sentimenti e le grandi virtù caratteriali sono state da lui schernite, derise o infangate. È riuscito a far perdere a molti il coraggio di riconoscersi apertamente nella propria razza, o addirittura di prenderne le difese.

Adolf Hitler, discorso alla sessione culturale al Reichsparteitag, 5 settembre 1938

C’è forse al mondo cosa più bella / di questa che ho avuto dagli avi? / Io monto a cavallo nell’alba nebbiosa / la mia mano scansa i beni di strada / splende un aratro in terra turingia / e solca la mia terra!

Börries von Münchausen (nato nel 1974, suicida nel marzo 1945, di fronte all’imminente

 perdita del suo bene più prezioso), Eigen Land (La mia terra), in L.L. Rimbotti

Un mito antico, destato da uomini moderni, si rianimava impadronendosi della coscienza, della fantasia, del sangue di milioni di uomini, risvegliati nella loro volontà e nel loro istinto d’impadronirsi della vita. Tutto questo era un corpo estraneo rispetto alla società occidentale del Novecento, portava i segni inconfondibili di una rivolta pensata e attuata contro la modernità e in nome di valori ritenuti eterni, non immolabili sull’altare del progresso, per sfamare l’insaziabile moloch consumista costruito dal capitalismo calvinista […] Tornare non al sistema di vita della società preindustriale e precristiana, ma al suo sistema di valori (comunità, ordine, gerarchia, senso della consanguineità della stirpe, amore per la terra, culto per la natura…) e disporre questi valori in qualità di fondamenta sulle quali erigere una civiltà padrona della tecnica: questo l’intendimento finale, la meta ultima del nazionalsocialismo. Il che significò nulla di meno che invertire la rotta della storia, spezzare il giogo di una rappresentazione temporale rettilinea, e disporsi invece a pensare la storia come costante emergere, inabissarsi e riaffermarsi di forze e valori in perenne pòlemos tra di loro […] Il Terzo Reich appare come un edificio che si leva dal caos della prima metà del secolo XX in virtù delle ascendenze storiche e culturali da un lato e popolari dall’altro. La “strana coppia” che in esso viene fatto marciare allo stesso ritmo – la tradizione e la modernità – è la sintesi evidente di un procedimento più interno, costruito sulla concessione di attributi sacri a nozioni eterne: il sangue e la terra innanzi a tutte […] La creazione di una nuova religiosità eroica fondata sull’etica comunitaria fu la conciliazione dell’eredità legata alla Prussia e agli Ordini cavallereschi con quella proveniente dagli strati più interni della cultura popolare: in questo senso veramente il nazionalsocialismo può essere visto come il riassunto moderno di tutte le esperienze del germanesimo storico. Il significato messianico dell’andare incontro al destino, sacrificando a questo compito la propria volontà, che Hitler pose all’inizio del suo cammino di rivoluzionario, ci rivela che con il nazionalsocialismo non si è soltanto sul terreno della politica, e nemmeno solo su quello dell’ideologia.

Luca Leonello Rimbotti, Il mito al potere – Le origini pagane del nazionalsocialismo, 1992

TEORIA ANTROPOLOGICA

Per quanto da millenni gli adepti del Popolo Eletto si siano interrogati, ed ancora instancabilmente s’interroghino, sul loro essere esistenziale, la definizione di «ebrei» ha trovato formulazione non solo al loro interno, bensì anche nell’elaborazione scientifica, antropologica, religiosa e politica degli studiosi, degli ideologi e degli statisti nazionalsocialisti. In questo saggio non ci proponiamo di trattare dei predecessori e dell’azione politica del nazionalsocialismo né di illustrare i

provvedimenti adottati per dare soluzione alla «questione ebraica» in Germania e allontanare dall’Europa milioni di individui considerati inassimilabili e irriducibilmente nemici, ma di esporre le definizioni da esso date, attraverso gli studi di antropologia e le disposizioni legislative, dei gruppi appartenenti all’ebraismo.

Preliminare ad ogni discorso è la definizione del concetto di «razza». Mentre i concetti di «specie» e «sottospecie» vedono, soprattutto il primo, obiettivi criteri per la loro definizione, quello di razza è invece sempre rimasto privo di parametri inequivoci e scientificamente codificati (cosa che, per inciso, non comporta certo l’inesistenza delle razze, ma unicamente l’impotenza della scienza a stabilirne una precisa demarcazione). Una specie non è solo un raggruppamento di individui

morfologicamente simili, ma una comunità riproduttiva i cui membri si riconoscono e ricercano come potenziali compagni sessuali, con nascita di prole fertile dalla loro unione. La specie risulta perciò essere un’unità ecologica che interferisce come tale con le altre unità insieme alle quali vive, ed un’unità genetica consistente in un patrimonio genico intercomunicante, del quale l’individuo è un temporaneo e limitato recipiente.

Divisione tassonomica successiva alla specie è la sottospecie, popolazione regionale di una specie politipica che si distingue dalle popolazioni sorelle per il fatto di occupare un territorio geografico distinto e pressoché isolato, e che pur essendo legata alle altre dal criterio della riproduttività fertile è tuttavia dotata di differenze morfologiche e fisiologiche considerevoli. In persistenza di un isolamento territoriale completo la sottospecie assume i caratteri di una specie in potenza, può cioè col tempo dare origine a nuove specie, alla fine anche molto diverse da quella originaria. Nell’ambito di tali popolazioni inoltre, a causa di meccanismi di varia natura, possono instaurarsi singoli complessi di geni per cui determinati sottogruppi vengono a differenziarsi da altri della medesima sottospecie. A tali sottogruppi, e solo ad essi, è scientificamente corretto attribuire il termine di razza, o meglio «razza primaria», vocabolo che in passato è impropriamente servito

e tuttora impropriamente serve per designare le sottospecie umane (razza «bianca», «nera» o «gialla»: i «ceppi primari» di Kroeber) o al contrario etnie (gruppi determinati da un complesso di caratteri includente sì un aspetto fisico comune, ma anche lingua, religione, costumi e mentalità comuni), aggregati nazionali e perfino gruppi linguistici e comunità religiose.

Definizione di tipo storico-biologico, la razza si basa, per quanto concerne la specie umana, su particolari caratteri morfologici, anatomici, genetici, nonché psicologici e spirituali presenti, ad espressività più o meno elevata, negli individui del gruppo (sostenendo l’inscindibilità di corpo e spirito, ben aveva fustigato nel 1940 Paul Bruchhagen: «Da rigettare è la tesi che la razza sia solo e soltanto un aspetto corporeo, ma da rigettare è anche la tesi di Spengler ed altri che vi siano

solo razze spirituali»). La mancanza di criteri scientificamente codificati rende ragione delle molteplici classificazioni delle razze da sempre operate dai vari studiosi. «Ogni scienza definisce il concetto di quanto tratta. Il concetto di razza non è ancora stato chiarito scientificamente. La definizione è un compito che spetta alla sistematica generale della psicologia razziale in quanto scienza», rileva ancora Bruchhagen.

Il frammischiamento di due o più razze (generalmente affini) può dare origine, in condizioni di isolamento riproduttivo e su congrua scala temporale, ad una razza secondaria o «storica», dotata di un più sfuggente statuto scientifico/biologico che non le razze progenitrici, ma portatrice di una non minore, concreta legittimità storica ed esistenziale. Un’articolata definizione di «razza secondaria» è stata esplicitata nel 1939 dall’insigne medico e antropologo francese Georges Montandon, docente alla Sorbona e spirito scientifico tra i più liberi (ferito da partigiani antifascisti nella sua abitazione il 3 agosto 1944, mentre la moglie, che aveva aperto la porta, era stata assassinata con una pistolettata, lo studioso viene ricoverato all’ospedale Lariboisière, poi trasferito in Germania, ove muore a Fulda il 30): «La parola razza si applica, o dovrebbe applicarsi, e continua, almeno per la maggioranza degli etnologi e degli antropologi, ad applicarsi ad un gruppo umano definito unicamente dai suoi caratteri fisici o somatici. Ma oggi, nei paesi fascisti – per semplificare, chiameremo paesi fascisti quelli che, conformemente all’abitudine secolare degli ebrei, fanno a loro volta ciò che gli ebrei chiamano razzismo, ma che bisognerebbe chiamare etnismo e che, infine, per farsi comprendere più facilmente, bisognerebbe chiamare tutt’in una volta etnismo e razzismo – nei paesi fascisti, dicevo, si chiama razza ciò che noi chiamiamo etnia e, quando si vogliono precisare i due sensi della parola razza, si dice, in quei paesi, “razza etnica” per dire etnia, e “razza antropologica” per razza in senso proprio. La ragione di questa terminologia, nei paesi fascisti, è che la parola razza è conosciuta da tutti, mentre la parola etnia è ignorata dalla massa».

In parallelo, in L’école des cadavres Céline aveva fustigato gli ottusi, gli ignavi o i troppo furbi: «Beninteso, salvo rare e molto coraggiose eccezioni, i dotti della Scienza ufficiale, quasi tutti ebrei o massoni, negano puramente e semplicemente l’esistenza della razza ebraica. Per tagliare ancora più corto a ogni pericolosa controversia, trovano ancora più espedienti per negare puramente e semplicemente l’esistenza delle razze e della razza bianca ariana, certamente, in particolare […] Comunque, malgrado tutto, nondimeno, si trova sempre qualche dissenziente, qualche negatore di luoghi comuni nei quadri più scelti della Scienza più ufficiale, come Georges Montandon, professore di Etnologia alla Scuola di Antropologia di Parigi. Ecco ciò che dichiara questo irreprensibile studioso nel suo recente opuscolo “Messa a punto del problema delle razze”: […] “Si perverrà così alla seguente conclusione riguardo al problema antropologico giudaico. Coloro

che dicono ‘Non c’è una razza ebraica’, oppure ‘Gli ebrei rappresentano un’etnia, non una razza!’, giocano con le parole. Certo, prima di tutto esiste un’etnia ebraica; è l’etnia ebraica che gioca un ruolo nella storia. Si può pure dire, da un punto di vista antropologico, ‘Non c’è una razza ebraica’, nel senso che la somma dei caratteri giudaici non è sufficiente per mettere questo tipo sullo stesso piano d’altri ai quali è conferita dignità razziale. Ma, se non c’è una razza ebraica in questo senso, c’è un tipo razziale ebraico che permette, in numerosissimi casi, di riconoscere gli ebrei dal loro fisico”».

Con altrettanta chiarezza si era espresso, dopo avere premesso la definizione di razza formulata dall’antropologo Hans F.K. Günther («the racial zealot, il fanatico della razza», di Robert Proctor), il dottor Curt Rosten nel popolare Das ABC des Nationalsozialismus, capitolo “La questione razziale dal punto di vista nazionalsocialista!”: «Esistono dunque, generalmente, popoli di razza pura? A tale domanda possiamo rispondere con un netto “no”, poiché pressoché tutti i popoli costituiscono miscugli razziali. Ciò che fa apparire diverso ogni popolo è il diverso rapporto tra le razze che lo formano. In un popolo è maggiormente rappresentata una razza, in un altro un’altra. Anche gli ebrei non sono un popolo razzialmente puro [sind kein rassereines Volk]. Ma, per quanto anche i popoli europei siano costituiti da miscugli razziali, ciò che sempre fa apparire gli ebrei una razza estranea [Fremdrasse] discende dal fatto che nel miscuglio razziale del popolo ebraico predominano caratteristiche fisiche e spirituali [leibliche und seelische Eigenschaften] di razze extraeuropee consolidate. A prescindere però dagli ebrei, anche ogni altro individuo appartenente a razze extraeuropee ci appare sempre come qualcosa di estraneo. Donde nasca la più o meno grande avversione nei confronti della razza ebraica, l’ho illustrato in un altro capitolo di questo stesso libro. Ma perché noi, che pure non siamo un popolo razzialmente puro, siamo contrari a mischiarci con gli ebrei? In un certo qual modo le razze europee sono fra loro collegate da rapporti di consanguineità, mentre gli ebrei sono una razza biologicamente estranea [eine blutsfremde Rasse] e gli incroci tra razze biologicamente estranee non contribuiscono in nulla all’ascesa di un popolo [absolut nicht zur Höherentwicklung eines Volkes beitragen]».

Consapevoli sia delle difficoltà di una definizione scientificamente fondata, sia del fatto che non esistono più, ai nostri giorni e da secoli, razze primarie o «pure», i più autorevoli esponenti nazionalsocialisti hanno infatti sempre avuto chiari i termini del problema, sia sotto l’aspetto teorico-ideologico, sia sotto quello praticopolitico.

Talché se polemica è nata, e tuttora perdura, sul senso e sulla posizione razziale del nazionalsocialismo, ciò è dovuto in primo luogo al deliberato obliare la sostanza e la profondità dei numerosissimi studi di antropologia, medicina sociale, igiene e demografia compiuti non solo dagli esponenti di quel movimento ma anche dagli studiosi che li hanno preceduti, in tutta Europa, negli ultimi decenni dell’Ottocento.

Tra i primi ad accostarsi in senso scientifico – ovviamente con la terminologia dell’epoca – alla «questione razziale» sono i francesi Arthur De Gobineau e Georges Vacher de Lapouge; i tedeschi Julius Langbehn, Rudolf Virchow, Guido von List, Jörg Lanz von Liebenfels, Paul Anton de Lagarde e Richard Wagner; l’inglese Houston Stewart Chamberlain, genero di Wagner; l’ebreo austriaco Otto Weininger.

Per la sola Erb- und Rassenpflege, «igiene ereditaria e razziale», si possono poi fare i nomi dei tedeschi, molti attivi prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo: Erwin Baur, Karl Heinrich Baur, Agnes Blum, Max Hildebert Boehm, Friedrich Burgdorfer, F. Dubitscher, Werner Feldscher, Eugen Fischer, Albert Friehe, Gerhard Friese, Jakob Graf, Bernard Groethuysen, Maxim von Gruber, Arthur Gütt, Wilhelm Hildebrandt, Geza von Hoffmann, E. Jörns, Igo Kaup, Friedrich Keiter, Hansjoachim Lemme, Fritz Lenz, D. Linden, Hermann Lundborg, Emil Hugo Möbius, Hermann Muckermann, Alexander Paul, Alfred Ploetz, Kurt Pohlisch, Ernst Rodenwaldt, Curt Rothenberger, E. Rüdin, H. Schade, Wilhelm Schallmayer, J. Schottky, Julius Schwab, Hermann Werner Siemens, Martin Staemmler, B. Steinwallner, Lothar Stengel von Rutkowski, F. Stumpfl, Otmar von Verschuer, Hans Weinert, S. Wellisch, Friedrich von Wettstein, Ludwig Woltmann e Matthes Ziegler.

La filosofia, l’ideologia, la storia e l’antropologia etnica, la psicologia, la medicina sociale e la demografia, che tante relazioni hanno con l’igiene razziale, sono coltivate, oltre che da taluni degli studiosi sopra nominati, da scienziati, storici e sociologhi quali Karl Astel, Ejnar Baaben, Adolf Bartels, Carl Böhm, Kurt Brenger, Paul Bruchhagen, H. Bryn, Hans Burkhardt, Ludwig Ferdinand Clauss, Richard Walter Darré, Paul Dermann, J. Ditel, Ernst Dobers, Richard Eichenauer, Egon von

Eickstedt, Rolf Ludwig Fahrenkrog, Wilhelm Franke, Georg Frommolt, Hans Geisow, H. Geissel, Walter Groß, Hans F.K. Günther, Siegfried Günther, Jakob Wilhelm Hauer, Otto Hauser, Adolf Helbok, W. Hellpach, Otto Helmut, Herbert Hentschel, Michael Hesch, Kurt Higelke, Hans Hinkel, F. Hoffmann, Herbert Hoffmann, Egon Hundeiker, Werner Huttig, Paul Irrgang, Erich Rudolf Jaensch, W. Jaensch, Rostislav Jendyk, Steffen Kamp, Fritz Kern, Kisskalt, Gustav Kossinna, Ernst Krieck,

Werner Kulz, Eidur G. Kvaran, Emil Lehmann, Robert Lehmann, Herbert Linden, Bruno Luxenberg, K. Magnussen, Jon Alfred Mjöen, Theodor Mollison, Helmut Nicolai, Eugen Ortner, Siegfried Passarge, Gustav Paul, Johannes Paulsen, Bruno Petermann, Bernhard Pier, Josef Pfitzner, Otto zu Rantzau, Otto Reche, Rolf C. Reiner, Fritz Reinhardt, J. Riess, Ernst Rittershaus, Ferdinand Rossner, Falk Ruttke, Peter Sachse, Heinz Saeßner, Karl Saller, Walter Scheidt, Ludwig Schemann, Arno Schickedanz, Werner Schmidt, Ludwig Schmidt-Kehl, Bruno K. Schultz, Wolfgang Schultz, Walter Schultze, Paul Schultze Naumburg, Gregor Schwartz-Bostunitsch, I. Schwidetzky, G. Spannanus, Karl Spiess, Wilhelm Stapel, W. Stolpe, Hans Thieler, Alexander Thomsen, Hermann Ullmann, Walter Wallowitz, Arthur Wetz, Heinrich Wolf, K.F. Wolff ed Hermann Wurmbach.

I centoquaranta autori da noi citati  non sono del resto che i più autorevoli, i più attivi, i più noti e i più ufficiali, avanguardie e testimoni di centinaia di autori minori o meno puntuali che trattano dell’argomento razziale in libri e riviste dei più disparati settori della vita culturale. Pressoché ignote alle masse dei nostri giorni sono la varietà e l’entità della produzione libraria e della pubblicistica edite nei dodici anni del Terzo Reich, talché buon gioco hanno avuto i nemici del

nazionalsocialismo nel tacciarlo di «incultura», «oscurantismo» e mero attivismo. A sfatare tale tesi basti anche solo considerare i quattro volumi della Liste der auszusondernden Literatur, «Elenco dei Libri da Selezionare», compilata dall’Abteilung Volksbildung der Sowjetischen Militär-Administration in Deutschland, «Divisione per l’Educazione Popolare dell’Amministrazione Militare Sovietica in Germania».

Editi a Berlino nel 1946, 1947, 1948 e 1953, i volumi riportano, in ordine alfabetico per autore, rispettivamente: 13.223 titoli di libri e 1502 di periodici; 4739 di libri e 98 di periodici; circa 9400 di libri e 500 di periodici; circa 6000 di libri e 450 di periodici. Il totale degli scritti «da selezionare», vale a dire da mettere all’Indice, da sottrarre cioè al pubblico, ammonta quindi a oltre 33.000 volumi e 2500 periodici. Degli esponenti politici del nazionalsocialismo vengono inoltre proibite tutte le opere, come tutte le opere vengono proibite – per quanto attiene a questo saggio – di autori quali Darré, Günther, Gütt, Hauer, Hinkel, Krieck, Nicolai, Reinhardt e Ruttke. La prima lista e i tre aggiornamenti sono il risultato dell’esame di due milioni di volumi, per un milione editi dal 1914 al 1933 e per l’altro dal 1933 al 1945).

La «selezione» concerne però per la quasi totalità il milione di scritti pubblicati nei dodici anni del nazionalsocialismo, in quanto ritenuti di gran lunga più pericolosi per l’opera di «rieducazione» del popolo tedesco; come già detto, anche gli Occidentali, del resto, e con la stessa ferocia, svolsero nelle loro Zone un’intensa campagna «liberatoria» non solo con decreti, tribunali ed esecuzioni, ma col controllo totale dell’educazione scolastica, delle case editrici, della stampa e della radio.

«L’Elenco dei Libri da Selezionare» – recitano i curatori nel primo volume – «deve costituire un ausilio per i competenti uffici ed addetti al fine dell’applicazione delle ordinanze del Governo Militare, onde sottrarre al pubblico uso tutte quelle opere che hanno un contenuto fascista o militarista, che contengono progetti di espansionismo politico, che illustrano la dottrina razziale nazionalsocialista o che sono rivolte contro gli Alleati. Per un esame secondo questi parametri furono in primo luogo considerate le opere tedesche pubblicate negli anni del regime hitleriano, dunque negli anni dal 1933 al 1945. Per certi versi furono prese in considerazione anche le opere pubblicate negli anni precedenti […] Molti libri che, senza essere nazionalsocialisti o militaristi nella loro totalità, mostrano tuttavia assunti isolati degni di riprovazione, saranno ripresi per una successiva verifica. Accanto a questi libri, assenti dal presente Elenco, mancano poi opere che non

sono state finora sottoposte all’esame della Commissione, poiché le giacenze delle librerie tedesche, sulle quali è stato composto l’Elenco, hanno potuto essere rilevate dai depositi soltanto a lavori in atto».

In tutti i casi l’Elenco non esime i responsabili delle biblioteche e delle librerie dall’adoperarsi attivamente, secondo l’intendimento delle ordinanze, nel vietare il prestito e la vendita di pubblicazioni non esaminate e perciò non comprese nell’Elenco. Il medesimo intendimento deve portare al divieto, al sequestro ed alla segnalazione di tutti quei giornali e di quelle riviste che «mostrano espressamente uno spirito fascista o contengono in gran copia saggi ed articoli influenzati in senso fascista». Dei libri, quando non altrimenti previsto, sono da considerare sotto divieto tutte le edizioni e le ristampe; dei periodici, tutte le annate.

Quanto la sottrazione, allo studioso, all’indipendente, al curioso ed al semplice uomo della strada, delle testimonianze e delle fonti primarie del nazionalsocialismo (un semplice conto dei libri demoproibiti ci rivela la pubblicazione media quotidiana di almeno otto opere maudits – e di complessive duecentotrenta quotidiane – per tutti i giorni dell’anno e per ognuno di quei dodici anni) ha giovato ad una corretta, non faziosa comprensione di quel fenomeno epocale costituito dai fascismi europei?

Motivi d’incomprensione della concezione razziale del nazionalsocialismo sono in secondo luogo, oltre alla sottrazione delle fonti primarie al comune lettore e all’uomo della strada, l’uso volutamente scorretto dei termini usati dal nazionalsocialismo e la mistificazione delle sue tesi da parte degli avversari, in particolare dopo la demonizzazione olocaustica. Con la devastante vittoria dei nemici radicali della Germania e di ciò che essa ha rappresentato nel campo dello spirito come nel divenire storico, abbiamo infatti assistito per mezzo secolo non solo ad una greve imposizione alle masse – attraverso l’aggressione multi-mediale – della loro versione degli eventi come dato «intangibile e definitivo», ma anche, e soprattutto, del loro linguaggio e della loro semantica, vera neolingua orwelliana. Il risultato di tale occhiuta attenzione è stato un rozzo, maligno, caricaturale stravolgimento delle tesi e dei significati conferiti ad uomini e cose dal nazionalsocialismo. L’obiettiva difficoltà dell’approccio alla questione razziale è infatti ben presente alla mente dei più responsabili esponenti politici e dei più obiettivi studiosi tedeschi.

«Col concetto di “razza”» – scrive l’antropologo Richard Eichenauer, già curatore dell’opera di Darré Neuadel aus Blut und Boden, «La nuova nobiltà di sangue e suolo», rifacendosi al maestro e più noto Hans F.K. Günther – «inizia la confusione in persona. Nelle conversazioni come sulla stampa si possono ancor oggi incontrare espressioni come “razza tedesca, italiana, slava, ebraica” e similari. Propriamente il concetto di razza nulla ha da spartire con alcuno di tali attributi. In

altri termini: si confondono ancor oggi spesso: razza e Volkstum [termine per il quale manca l’equivalente italiano e che corrisponde alla risultante di un insieme di concetti quali: nazionalità, etnia, popolo inteso come spiritualità e costumanze, carattere nazionale, comunità socioantropologica; va quindi intesa come identità etnonazionale, «l’insieme di tutto ciò che costituisce lo specifico modo di essere di un popolo»; pur essendo qualcosa di più di «nazione», nel prosieguo lo tradurremo col più generico termine «nazione», intesa come sommatoria soprattutto spirituale e di costumi], razza e lingua, razza e cittadinanza, perfino razza e religione».

Quest’ultima equivalenza, continua Eichenauer, è poi quanto di più paradossale e scorretto possa esservi, e deve quindi assolutamente scomparire: «Nessuno può sostenere seriamente che un negro battezzato non sia più negro in conseguenza del suo battesimo; o che un uomo che si faccia o ritorni, per qualsivoglia motivo, musulmano, da cristiano che era, cambi con ciò la sua appartenenza razziale. La medesima cosa si può dire per il caso, per noi tedeschi così rilevante, in cui un ebreo abbandona la religione [più precisamente: Glaubensgemeinschaft, «comunità di fede»] dei suoi padri. I rapporti fra razza, popolo e Stato si confondono inoltre in parecchi cervelli soprattutto perché oggi, specialmente in Europa, anche l’appartenenza allo Stato ed alla nazione non sempre coincidono. Noi parliamo ad esempio erroneamente di razza “tedesca”, generando una doppia confusione, poiché non si sa se con il termine “tedesco” si debbano intendere tutti gli appartenenti al Reich tedesco o tutti i membri del Volkstum. Se si intende la prima cosa, l’espressione “razza tedesca” è chiaramente errata. E ciò perché la storia ha amaramente insegnato proprio a noi tedeschi come facilmente i confini statali possano separare uomini del medesimo sangue. La cittadinanza [Staatsangehörigkeit, «il far parte dello Stato», concetto solitamente tradotto con «l’appartenenza allo Stato» e che con la prima legge di Norimberga avrebbe mutato semantica, impropriamente tradotto con «sudditanza» – vedi infra] non esprime quindi assolutamente l’appartenenza razziale [Rassenzugehörigkeit] di un uomo».

«Anche se si possono addurre esempi nei quali nazione e cittadinanza più o meno coincidono, come in Francia [ricordiamo che Eichenauer ciò scrive nel 1935, poiché ai giorni nostri la Francia è, quanto alla “cittadinanza”, il paese più meticciato, antesignano dello ius soli e repulsivo dello ius sanguinis], è errato collegare la parola razza con un nome di popolo. Facendo ciò si favorisce la confusione tra razza e nazione. Per la nostra convinzione di tedeschi “l’inglese” appare fatto in

un certo modo; diversamente “il francese”, “il russo” e “l’italiano”. Certo i caratteri proprî di questi popoli si possono fare risalire a differenti rapporti razziali originari all’interno dei singoli complessi nazionali […] ma ognuno che conosca anche solo superficialmente questi popoli sa che oggi quella rappresentazione globale della loro esteriorità non sempre risponde al vero. Non tutti gli inglesi sono slanciati, magri e biondi; non tutti gli italiani sono di pelle scura, bassi e cortesi.

Nei territori tedeschi occupati dopo la guerra si poterono frequentemente vedere ufficiali francesi che, infilati in uniformi tedesche, non si sarebbe detto opportuno vestire altrimenti. Queste riflessioni dimostrano quindi che espressioni come razza “germanica” o “slava” sono egualmente errate, perché “germanico”, “slavo”, “romano” identificano gruppi di lingue o aggregati di nazionalità, riportandoci quindi sempre al concetto di popolo, non a quello di razza».

«Lo stesso accade infine per concetti come “indoeuropeo” o “semitico”. Entrambe le espressioni indicano una parte ben precisa della nazione, e cioè l’appartenenza linguistica. Anche qui, nell’affinità linguistica, persistono accennati certi legami di razza col passato, ma ai popoli parlanti lingue indoeuropee o semitiche appartengono uomini di razze molto diverse. All’opposto, abbiamo esempi a sufficienza di come individui e gruppi umani che cambiano la loro lingua

mantengono tuttavia intatta la loro razza. Gli ebrei parlano ovunque le lingue dei popoli che li ospitano; i negri degli Stati Uniti parlano inglese; i normanni studiano in Normandia il francese e in Inghilterra l’anglosassone; la lingua di Roma scacciò tutte le lingue dei popoli detti romanzi, senza che una successiva trasformazione razziale fosse tuttavia collegata con questo mutamento di lingua. Noi quindi concludiamo: Le affinità e le differenze linguistiche non si dimostrano di per se stesse razziali».

«E tuttavia l’esperienza insegna che le nazioni, ad esempio quelle europee, sono chiaramente diverse l’una dall’altra. Non ha proprio nulla a che vedere la razza con queste diversità? Rispondere affermativamente sarebbe certo errato. In tutti i popoli europei si trovano pressoché le stesse razze, ma in rapporti quantitativi diversissimi tra loro. È questo rapporto quantitativo a determinare in grande misura l’essenza generale dei popoli. Per lo più non dipende da questo rapporto quantitativo se una razza è più o meno rappresentata in un popolo, ma dalla forza con cui è in esso rappresentata e dal fatto che essa, in conseguenza delle sue forze, è o meno nella condizione di influenzare in modo rilevante o decisivo il volto fisico e spirituale di quel popolo. Lo studio delle razze è una scienza dei gruppi; i suoi dati parlano quindi talora male quando si cerchi di applicarli al caso individuale. Essi parlano però per la media del gruppo. Riassumendo allora con Günther: “La cittadinanza è un concetto giuridico, la nazione un concetto storico e di costumi; la razza è un concetto delle scienze naturali applicate all’uomo: un concetto dell’antropologia descrittiva […] La nazione unisce per lo più uomini della stessa lingua e della stessa civiltà, lo Stato uomini di un medesimo delimitato territorio; la razza uomini con gli stessi caratteri ereditari fisici e spirituali [più esattamente: seelischen, “dell’anima”, n.d.A.]”. In queste proposizioni di Günther abbiamo anche una definizione utilizzabile del concetto di “razza”. Diciamo quindi: “Le razze sono gruppi umani con gli stessi caratteri ereditari”. Poiché però oggi si tralascia l’aspetto spirituale dell’uomo, si direbbe forse meglio: “Le razze sono gruppi umani con gli stessi caratteri ereditari fisici e spirituali”».

Eichenauer identifica poi, e connota seguendo Günther, le razze primarie europee in sei gruppi: nordico (nordisch), fàlico (fälisch, o dàlico, o cro-magnoide), occidentale (westisch, o mittelländisch, mediterraneo, o mediterranisch), alpino (ostisch, orientale, o dunkel-ostisch, orientale scuro), dinarico (dinarisch), baltico orientale (ostbaltisch o hell-ostisch, orientale chiaro). Per quanto concerne le caratteristiche fisiche e spirituali delle sei razze, di cui non è qui luogo parlare, rinviamo il lettore a Günther e di Clauss (già allievo del fenomenologo Edmud Husserl e dello psicologo del profondo Carl Gustav Jung) e agli italiani Julius Evola e Adriano Romualdi.

Dopo aver tratteggiato il divenire storico-razziale delle principali nazioni europee, lo studioso nazionalsocialista viene a parlare dell’ebraismo, aprendo il discorso con una notazione personale: «In un colloquio con un conoscente insolitamente sincero, egli mi disse: “So bene che ci sono tedeschi, ebrei, negri, ma per il resto non conosco molto della questione razziale”. Questa frase è significativa: l’attenzione del mio conoscente si era portata, come accade per la maggior parte della gente, da un lato su di una razza lontana (i “negri”), dall’altro sull'”antisemitismo” nella sua forma corrente. In effetti, fino a non molto tempo fa nei circoli non scientifici la “questione razziale” era considerata quasi sinonimo di “questione ebraica”. Solo il formidabile sviluppo della ricerca sulle razze ha portato a conoscenza, in circoli più ampi, del fatto che, in fondo, l’occuparsi dell’ebraismo per lo studio delle razze non è un caso eccezionale, e cioè non è altro che lo studio

razziale di una certa nazione. La particolare importanza della questione ebraica per la storia tedesca dei nostri giorni si chiarisce soltanto in riferimento alle particolarità epocali e spaziali della nostra situazione. Noi usiamo per l’appunto l’espressione “studio di una nazione”. In essa si esprime un fatto che, sebbene sia oggi ripetuto quasi quotidianamente, è tuttavia un possesso effettivo e profondo di pochi: l’ebraismo non è una razza, ma una nazione».

«Il popolo ebraico» – ribadisce agli allievi a Vienna il professor Jakob Graf, concordando non solo con la più equilibrata scienza tedesca della razza, ma proprio col Capo del nazionalsocialismo – «è un miscuglio di razze [Rassengemisch; già Sombart aveva parlato degli ebrei quale «ethnisches Gemisch, miscuglio etnico»; dell’ebreo J.M. Judt ricordiamo la definizione di Konglomerat] nel quale la parte principale è composta dalle razze anatolica [vorderasiatisch, o dell’Asia Anteriore,

successivamente chiamata anche levantina, armenoide, o taurica, prima portatrice del famoso «naso ebraico»] ed orientale [orientalisch]».

Anche l’italiano Leone Franzì, illustrando ai connazionali nel 1939 la «fase attuale del razzismo tedesco», si esprime in modo similare: «Concetto fondamentale [delle tesi razziste tedesche] è il considerare l’ebreo non una razza, ma unicamente una comunità etnico-nazionale la quale, per ragioni sconosciute, si è mantenuta integra attraverso i secoli e che deriva dalla fusione di molteplici razze originarie, anche se sulla definizione di queste razze non vi è completo accordo

(bianca e negra secondo alcuni, orientale e levantina secondo altri)».

«Se si definisce razza un gruppo umano con lo stesso patrimonio ereditario» – continua Eichenauer – «ne consegue che gli appartenenti ad una stessa razza debbono essere così simili nel fisico che, perlomeno ad un occhio esperto, li si può riconoscere come simili. È però un fatto che nell’ebraismo gli individui si mostrano così diversi che persino i loro connazionali [Volksgenossen] non li riconoscono – così come avverrebbe per l’aspetto di individui tedeschi o francesi. Devono perciò esserci nell’ebraismo individui di razze diverse. Ricordiamo inoltre con poche parole che naturalmente l’ebraismo non rappresenta però una mera comunità religiosa. In verità nell’ebraismo fin dall’inizio comunità religiosa e nazione sono strettamente connessi; oggi ci sono però notoriamente molti ebrei che non fanno più parte della confessione mosaica. Chi volesse dire di costoro che non sono più ebrei dovrebbe misconoscere non solo i dati biologici, ma avrebbe

contro di sé, quali testimoni, gli ebrei stessi, poiché essi considerano notoriamente dei loro anche i connazionali non mosaici. «L’ebraismo è invero più difficilmente riconoscibile come nazione in quanto gli mancano due cose che abbiamo in precedenza considerato quali segni di

riconoscimento degli aggregati nazionali: non ha un territorio sul quale raggrupparsi come padrone (cioè: non ha uno Stato) e non ha una propria lingua. Quando si ammettesse la riuscita di una fondazione statale ebraica – in Palestina od altrove – quando si presupponesse più remotamente la realizzazione delle aspirazioni all’introduzione del neo-ebraico come lingua di uso corrente, la nazione ebraica non si discosterebbe più dalle altre anche sotto questi due aspetti. Come si dia il caso che nonostante la mancanza di lingua essi restano così strettamente uniti fra loro, lo vedremo più avanti. Se l’ebraismo è una nazione, deve allora essere, come ogni altra nazione odierna, un miscuglio di razze diverse. Considerare la sua strutturazione razziale è dunque il nostro prossimo compito».

Eichenauer passa quindi all’esame storico della formazione e del consolidamento del Volkstum ebraico: «Sulla conformazione razziale della prima, popolazione stabilitasi in Palestina non c’è ancora concordanza di vedute; i più la considerano westisch. Nel quarto millennio a.C. troviamo in quel paese la razza anatolica [vorderasiatisch]. La sua patria primordiale sono state le terre caucasiche, dalle quali essa nel quarto e quinto millennio si era diffusa per tutta l’Asia Minore. Già

nel terzo millennio dobbiamo poi con tutta verosimiglianza ammettere migrazioni di gruppi nordici in Palestina. Le loro più antiche tracce sono reperibili […] nelle grandi costruzioni di pietra, nei dolmen e nelle tombe megalitiche. Noi vi abbiamo già considerato anche gli amorrei con i loro ceti superiori nordici, così come lo saranno i filistei che vi giungeranno più tardi. Accanto a questi entrano poi nella questione, quali portatori di impronte nordiche, i mitanni, che nel secondo

millennio subentrano come strato dominante delle città palestinesi. Essi ci si presentano come individui di razza nordica attraverso le rappresentazioni date di loro dai dipinti e dai bassorilievi egizi ed attraverso i nomi indoeuropei di persone e di divinità, la cui conformazione molto si apparenta a quelli dell’India antica. «Come terza componente del miscuglio razziale antico-palestinese si aggiunge la razza orientale [orientalisch, “semitica”]. Già la gran massa del popolo amorrei sembra essere stata di tale razza; si nomina da lui una delle migrazioni semitiche, la “migrazione amorrea o cananea”. Essa ha il suo inizio intorno al 2500. Ad essa appartiene, come “più recente ondata” (Günther [Rassenkunde des jüdischen Volkes, “Antropologia del popolo ebraico”, cui si affiancano gli ebrei J.M. Judt con Die Juden als Rasse – Eine Analyse aus dem Gebiete der Anthropologie, “Gli ebrei come razza -Un’analisi dal punto di vista dell’antropologia”, Maurice Fishberg con Die Rassenmerkmale der Juden – Eine Einführung in ihre Anthropologie, “Le caratteristiche razziali degli ebrei – Una introduzione alla loro antropologia” e Fritz Kahn con Die Juden als Rasse und Kulturvolk, “Gli ebrei come razza e civiltà”]), la migrazione degli ebrei in Palestina, che la seguì tra il 1400 ed il 1200: “Possiamo individuare due migrazioni principali degli ebrei, una dal nord, che penetra nel territorio del futuro regno di Israele, una dal sud, che occupa il territorio del futuro regno di Giuda. Il nome della stirpe che migra dal sud, quella degli habiru, è stato più tardi conferito al popolo intero: gli ebrei (in ebraico, ibrim)”. Aggiungiamo infine ancora qualche elemento delle razze camita (etiopica) e negra, che si possono peraltro supporre già per la Palestina antica [non meravigli tale apporto di sangue, ammesso anche da Kahn], ed abbiamo elencato tutte le componenti del miscuglio razziale dal quale si costruì il popolo ebraico nei secoli prima di Cristo”».

«Il popolo ebraico» – scrive Walter Grundmann – «nasce dall’incontro tra le stirpi orientali e le stirpi anatoliche che si trovavano già sul posto con il loro strato superiore di origine nordica: “razza orientale come base, razza mediterranea come aggiunta, razza anatolica come seconda più forte base ed elementi nordici di quando in quando incrociati” [Eugen Fischer, Rassenentstehung und älteste Rassengeschichte der Hebräer]. Dalla differenza tra ebrei e arabi, i quali non posseggono la componente anatolica ma appartengono soprattutto alla razza orientale, possiamo riconoscere cosa ha prodotto il frammischiamento con gli elementi razziali anatolici. Gli incroci nordici, che innanzitutto poterono essere rinforzati dall’incontro coi filistei, si lasciano riconoscere nelle età più antiche nei ceti dominanti, ma si perdono progressivamente col passare del tempo. Per l’origine nordica, Günther parla per la prima età ebraica di circa il 10-15% del complesso ereditario totale delle stirpi ebraiche, quota che nei secoli intorno all’anno zero è ancora circa il 5-10%».

Con inizio dell’era volgare – lo abbiamo detto – la composizione razziale delle genti ebraiche trova quella stabilizzazione che avrebbe sostanzialmente mantenuto per due millenni, per cui ben corretto è l’appunto di Kahn: «Die Juden sind kein Rassentyp gewesen sondern geworden!, Gli ebrei non sono stati un tipo razziale, lo sono diventati!». Se di «razza» ebraica possiamo quindi con qualche legittimità parlare, dobbiamo sempre avere presente che essa, come tanti altri aggregati

odierni, non è certo una razza «primaria» o «pura». A differenza tuttavia di tutti gli altri aggregati nazionali odierni, il Volkstum ebraico, compattato dall’incessante predicazione talmudica dell’«elezione divina», se ha perso bensì milioni e milioni di individui – entrati in altre nazioni a modificarne o, se vogliamo, a pervertirne in modo più o meno sottile la conformazione razziale –

ha sempre mantenuto una sostanziale chiusura nei confronti di ogni altra realtà biologica. Le ottanta generazioni di incroci interni e la virtuale (e spesso effettiva) assenza di esoincroci per due millenni hanno dato vita ad un rimescolio di geni all’interno di quell’aggregato, con la formazione di una non meno legittima «razza secondaria».

È questa «razza secondaria», o «storica», che gli ebrei più ortodossi cercano oggi di «fissare» e salvare dalla disgregazione. È con essa che, legittimamente considerata dal nazionalsocialismo, con tutti i distinguo e le intelligenti eccezioni, come razza tout court, deve confrontarsi ancor oggi ogni spirito libero che voglia restare fedele alla memoria e al retaggio spirituale-biologico – a quel complesso inscindibile di corpo, anima e spirito, il Körperlich-Seelisch-Geistiges di Rolf Reiner – dei Padri.

Quanto al problema della cosiddetta «superiorità razziale», equilibrate sono le tesi di Eichenauer, espressione della più vera, completa e radicale concezione razziale  nazionalsocialista, rieccheggiata anche da Walter Groβ, medico, capo dell’Ufficio per la Politica Razziale della NSDAP, deputato, autore e curatore di numerosi saggi sulla razza e l’ebraismo, dal 1942 capo del dipartimento Scienze Naturali dell’Amt Rosenberg (nato nel 1904, cadrà combattendo a Berlino, nella sua casa, il 25 aprile 1945): “Noi apprezziamo il fatto che i membri di un’altra razza siano diversi da noi […]. Se quest’altra razza sia migliore o peggiore, non ci è possibile giudicare. Perché questo esigerebbe che superassimo i nostri limiti razziali per la durata del giudizio e assumessimo un’attitudine superumana, perfino divina, dalla quale soltanto potrebbe essere formulato un verdetto impersonale sul pregio o il difetto di tante fra le molte forme viventi dell’inesauribile Natura” (in Der duetsche Rassengedanke und die Welt, 1939).

Già cinque anni prima, lo stesso Groβ aveva espresso gli stessi concetti in un discorso pienamente inserito nella visione del mondo pagana, poi diffuso in opuscolo a larghissima diffusione, tenuto a Colonia il 13 ottobre ad un convegno femminile durante il congresso del Partito del Gau Köln-Aachen: “Nel nostro Reich, noi separiamo ciò che ci appartiene, perché è sangue del nostro sangue, da ciò che non ha legami con noi, in quanto straniero. E stiamo facendo quanto è giusto non soltanto in questo momento, ma per l’eternità. Credetemi, cari compatrioti, non è vero, come alcuni sostengono, che questa dottrina sia un segno di arroganza o di superiorità o di millanteria. Noi non ci reputiamo migliori di altre razze sulla terra. No, non ci crediamo migliori, neppure pensiamo che gli altri siano peggiori di noi. Noi insistiamo soltanto su un punto, una legge stabilita dallo stesso creatore: al mondo ogni uomo è diverso da un altro e ciascuna razza dall’altra. Gli altri possono essere migliori o peggiori, ma sono certo differenti da noi e poiché sono diversi vi è una sorta di muro fra noi e ciò è parte delle leggi della vita. Questo è il nucleo del pensiero razziale nazionalsocialista. Il nostro obiettivo non è quello di oltraggiare gli altri o dire: quanto sono grande! Anzi,noi teniamo all’umile riconoscimento che ogni parte sana della vita possiede il suo angolo nel mondo e i suoi compiti speciali. Ciò è giusto e vero tanto per gli esseri umani quanto per le piante e gli animali in tutta la loro varietà. Sappiamo che una specie non è più preziosa di un’altra. Ma sappiamo anche che ciascun genere di vita ha diritto al’esistenza fino a quando si mantiene puro e forte. Solo quando un albero produce i suoi frutti ha diritto alla vita. Altrimenti verrà abbattuto e distrutto. Noi non sappiamo perché le cose stanno così, e sarebbe sciocco chiederne la ragione. Ma stanno così. Il nostro compito è quello di accettare semplicemente le leggi che governano l’umana esistenza ed  acconsentire al fatto che siamo nati tedeschi in Germania, e non cinesi o eschimesi. Ciò non per le nostre virtù, neppure per i nostri difetti e neanche per nostra volontà. E’ stata la volontà del destino che viene dall’alto. Non abbiamo altra scelta se non quella di accettare questa sorte e sviluppare le capacità che il destino ci ha accordato secondo la necessità e la legge. Gli altri possono svilupparsi seguendo la propria strada, nella propria terra. Noi dobbiamo dare ascolto all’interiorità del nostro stesso popolo, per attingere dal nostro sangue e dal nostro retaggio quella forza di cui abbiamo bisogno per costruire la nostra patria […] Muoviamoci sul cammino del sangua e della razza che non trascura la fede, la conoscenza e il senso delle potenze superiori. Seguiamo questa strada, che non è un cammino di materia, superstizione ed eresia,bensì una via di profonda umiltà e di pietà nei confronti delle leggi divine”.

Oltre agli esponenti e alle opere ufficiali e semi-ufficiali di cui abbiamo riportato e riporteremo le conclusioni, ricordiamo che identiche sono le analisi dei manuali ufficiali e operativi:

   1. Der rassische und völkische Grundgedanke des Nationalsozialismus, “Fondamenti ideologici razziali e nazionali del nazionalsocialismo”, del professor Wolfgang Schultz dell’Università di Monaco, e

   2. Vom Wesen der Volksgemeinschaft, “Essenza della comunità di popolo”, del segretario di Stato al ministero delle  Finanze dottor Fritz Reinhardt, numeri 4 e 7 della raccolta Die Verwaltungs-Akademie – Ein Handbuch für den Beamten im nationalsozialistischen Staat, Band I: Die

weltanschaulischen, politischen und staatsrechtlichen Grundlagen des nationalsozialistischen Staates, “Scuola superiore di amministrazione – Manuale per i funzionari dello Stato nazionalsocialista, vol.I: I fondamenti ideologici, politici e giuridici dello Stato nazionalsocialista”;

   3. Das Rassengedanke und seinegesetzliche Gestaltung, “La concezione razziale e la sua strutturazione giuridica”, a cura del Capo della Sicherheitspolizei e del Sicherheitsdienst, “Nur für den Gebrauch innerhalb der Sicherheitspolizei und des SD, Solo per uso interno della SP e del SD”, della serie Schriften für politische und weltanschauliche Erziehung der SP und des SD, “Scritti per l’educazione politica e ideologica della SP e del SD”;

   4. il numero 2, Die Gesetze des Lebens – Grundlage unserer nationalsozialistischen eltanschauung, “Le leggi della vita – Fondamenti della nostra visione del mondo nazionalsocialista”, degli SS Handblätter für die weltanschaulische Erziehung der Truppe, “Opuscoli SS per l’educazione ideologica dei militari”, editi dal Reichsführer SS – SS Hauptamt.

Tale concezione riposa infatti su un postulato, che è poi anche il risultato dello studio disincantato del divenire umano: l’impossibilità di una razionale classificazione gerarchica delle razze. O, meglio, l’inesistenza di un Sistema di Valori comune, l’assenza di parametri condivisi, comunemente applicabili ed egualmente accetti dalle varie razze (cosa che, con diverse articolazioni, è alla base delle concezioni spengleriane della storia).

Ed è per questo, aveva scritto nell’ufficiale periodico NS-Briefe del 1° giugno 1927 il trentaseienne Dietrich Klagges – poi capo del governo di Braunschweig dal 1933 al 1945, arrestato, torturato

e accusato di «crimini contro l’umanità», nel 1950 condannato all’ergastolo dalla BRD in base alla legge di occupazione, pena ridotta a quindici anni nel 1957 (rifiutando peraltro i testi a discarico perché avrebbero «testimoniato a sua discolpa»), indi scarcerato dopo un dodicennio di vessazioni e morto nel 1971 – che «non esiste alcuna nazione idonea e destinata a dominare e possedere la Terra, nessuna può realizzare da sola gli obiettivi dell’umanità; le nazioni sono destinate a vivere una accanto all’altra, collaborando. Perciò è la pace, e non la guerra, la condizione naturale tra le nazioni».

Ancor più autorevole nell’affermare l’irriducibilità di una razza all’altra e l’impossibilità di una strutturazione gerarchica dell’umanità – data anche l’ontologica incapacità umana di comprendere davvero il destino del mondo – è Adolf Hitler al Reichstag, il 30 gennaio 1937: «La più grande rivoluzione compiuta dal nazionalsocialismo è quella di avere spalancato le porte al riconoscimento che tutti gli errori umani sono contingenti e con ciò rimediabili, all’infuori di uno: l’errore sull’importanza di mantenere puri il sangue e la stirpe, vale a dire l’essenza propria dataci da Dio. A noi uomini non spetta di giudicare perché la Provvidenza abbia creato le razze, ma solo di riconoscere che essa castiga chi offende la sua creazione […] Come il riconoscimento della rotazione della Terra intorno al sole rivoluzionò il concetto dell’universo, così dalla dottrina nazionalsocialista del sangue e della razza risulterà un mutamento radicale delle idee e del quadro della storia umana del passato e dell’avvenire […] A noi mortali non è dato di riconoscere o di rilevare il senso e lo scopo della esistenza delle razze create dalla Provvidenza».

Ben aggiunge Luca Leonello Rimbotti: «Il relativismo culturale proprio alla concezione germanica del mondo – come, più in generale, a quella della tradizione occidentale – fondava in questo modo la vita vissuta con l’ispirazione, ripetendo così gli antichi canoni dialettici del divenire e dell’essere: Erlebnis (esperienza) ed Ergriffenheit (commozione) costituiscono per l’animo nordico di ogni epoca i modelli perenni cui affidare la stabilità dei riferimenti culturali come di quelli comunitari. La mistica “nostalgia delle origini” che pervade la riflessione dell’uomo nordico di fronte ai grandi quesiti esistenziali possiede comunque un solido terreno sul quale poggiare la fermezza della propria specificità ed affidarla alla corsa del tempo. Quel terreno è la stirpe. La stirpe, il genos dei greci antichi: ed anche per essi il vissuto è lo specchio che riflette il mondo delle idee […] Il panteismo germanico era insomma il culto della natura e delle sue forze, espresso attraverso il mistico rapporto d’amore con la Madre Terra, che sanciva l’unione indissolubile tra la razza e il suolo in cui essa viveva; ed era insieme culto della vita, in tutte le sue manifestazioni. Si può dire che nella religiosità politeista l’uomo, in virtù di questa sua così sviluppata sensibilità per il sacro, si élevi al divino, evitando il processo inverso, di un piegarsi cioè della divinità alla sfera umana, come finirono col fare forme di religione poi sopravvenute a gestire la loro vocazione più egemonica che spirituale […] La totale “ebraicizzazione” degli antichi popoli ariani, i quali finirono spogliati delle loro memorie, della loro cultura, della loro più antica religiosità, generò dunque la frattura, dapprima solo concettuale, in seguito anche sociale e storica, tra il presente e la tradizione».

Irriducibili tra loro e ad un modello comune sono quindi i diversi aggregati razziali e i Sistemi di Valori da essi generati (e che li hanno a loro volta informati in un gioco di azione e retroazione di cui è arduo, quando non impossibile, stabilire la dinamica).

Questo, e solo questo, è il vero «scandalo» per la cultura e la sensibilità moderne, partorite dal monoteismo giudaico: l’antiuniversalismo radicale, così difficile da capire per gli antirazzisti di ogni epoca e latitudine, a partire dai primi galilei e passando per gli innumeri movimenti pauperistici, ereticali e protestanti, nonché per la Grande Chiesa cattolica, fino al liberalismo, al marxismo e alla poltiglia democratica dei nostri giorni (e, purtroppo, financo a certo amore di polemica dei razzisti «spiritualisti» alla Evola).

 Questo, e solo questo, non la volontà di prevaricazione di una razza sull’altra, è lo «scandalo»: l’inesistenza, il rifiuto di un comune sistema di giudizio che permetta di allineare su gradini più o meno elevati le diverse razze umane (usiamo il termine razze non certo con connotazione

aridamente scientifica, ma per legittima opportunità semantica).

Non esiste una scala comune di valori. Non esistono, in quanto non possono esistere, un superiore e un inferiore razionalmente identificabili. Esistono solo gruppi indifferenti o nemici. Esiste solo la pratica lotta per l’affermazione di questa o di quella razza, esiste solo il prevalere storico di questa o di quella razza. E, quindi, il prevalere di questo o di quel Sistema di Valori. La maggior bontà che si può riconoscere a questa o a quella razza è data dai risultati che l’agire dell’una o dell’altra implica, o meglio ha implicato e implicherà, per l’umanità tutta e per l’elevazione dell’essere umani, per la comprensione e la strutturazione del mondo da parte della specie uomo (di un mondo in ogni caso già dato e di cui la specie uomo mai conoscerà le coordinate essenziali). Ed anche questo, in ogni caso, resta un criterio opinabile, contestabile e vago, essenzialmente convenzionale, se non altro perché il «bene» inteso da una razza è diverso dal «bene» inteso da un’altra razza, e perché il bene e il male, più che il presente, li giudicheranno le generazioni future.

Se da una parte questa posizione risulta in un certo senso più «morbida» della «dura» affermazione classificatoria su un’unica scala di valori, non dimentichiamo che proprio la mancanza di un comune Sistema di Giudizio – prova della splendida plasticità e dell’incredibile varietà dell’essere umani – isola ogni razza nel suo solipsismo, negando un sostanziale sentire comune interrazziale (è forse necessario ribadire che si parla di gruppi, di anima della razza, e non di individui?).

I termini «superiore» e «inferiore» assumono valore soltanto all’interno di un gruppo, per individui e per parti di quel gruppo. Solo un razzismo intellettualmente limitato può pretendere di forgiare, ed imporre, una scala di valori comune e «giudicare» in base ad essa altre razze.

Questo, ripetiamo, è il vero «scandalo»: il rifiuto di parametri comuni (al di fuori ovviamente, di quelli più materiali come il sesso, il denaro o la fame) e, quindi, di un destino comune e, quindi, di un’origine comune (che non sia da una «scimmia» o da un Adamo comune) e, quindi, di una divinità comune, cioè di un Unico Dio.

Questa è la prima questione – metafisica – del contendere, e questo hanno sempre ben capito le genti del monoteismo, coloro che hanno avuto in sorte di avere rivelato dalla voce stessa di Dio il mistero dell’esistenza umana e del Cosmo. Tutto ciò che va genericamente sotto il nome di paganesimo, vale a dire tutti i politeisti, i kofer ba-iqqar dell’islamismo – i «negatori della cosa principale» – questi sono i veri, radicali avversari di ogni universalismo e antirazzismo, di ogni

mistificazione e confusione, di ogni disprezzo e tracotanza.

La fusione – la con-fusione – biblica-babelica ed entropica è anche il dettato, la consegna imposta ai suoi eletti dalla divinità giudaico-paolino-evangelica. Ma altri Dei esistono, che impongono il rispetto per il mistero dell’uomo e del cosmo.

In tal modo, reitera Umberto Malafronte, se la prospettiva radicalmente razzista non comporta alcun principio di uguaglianza, «la difesa di una identità razziale non implica alcun principio di superiorità di una razza sull’altra. L’idea che cerchiamo di affermare è quella di una pura differenziazione come bene generale da salvaguardare. Negare al tempo stesso uguaglianza (meglio parità) e superiorità tra le razze e i popoli può sembrare una aporìa insuperabile. Ma noi ribadiamo: per far discendere dal principio di differenziazione un criterio di superiorità occorrerebbe un sistema di valori universalmente condiviso [egualmente, nota il docente universitario USA Norman Cantor, ebreo, anche per l’antropologo, sempre ebreo, Franz Boas «non esiste gruppo etnico o cultura superiore ad un altro/a, aperché empiricamente non si può fondare una categoria di giudizio comparativo. Ogni popolo dev’essere valutato nel proprio contesto e nelle proprie forme di azione sociale»]. Nel caso di popoli e razze disomogenei escludiamo a priori un tale postulato e sul piano logico formale dobbiamo ricorrere al “terzo incluso”, che ci permette di conciliare concetti da ritenersi opposti solo all’interno di un quadro logico rigido ed assoluto […] In realtà, dietro ogni universalismo, dietro ogni cosmopolitismo si nasconde il virus etnocentrico, un (inconfessato ed inconfessabile) senso di superiorità che fa ritenere quella che è l’espressione culturale di un popolo come valida per qualsiasi altro popolo».

«Una visione del mondo monodimensionale» – continua Malafronte – «si è espressa nella storia nelle forme più spurie: dall’altruismo missionario al genocidio programmato, da un certo nazionalismo sciovinista di stampo borghese all’internazionalismo marxista. Simile visione ha in sé i prodromi di una autentica esclusione prevaricante. Il linguaggio sovvertito dei nostri tempi definirebbe quest’ultima “razzismo”, ma è necessario usare un’altra espressione, in quanto il

termine “razzismo” nella guerra delle parole deve assumere una accezione positiva differenzialista».

In modo simile nel 1934 si era espresso il nazionalsocialista Karl Saller, membro delle SA e antropologo medico docente all’università di Gottinga: «Dobbiamo […] rifiutare ogni mescolanza con le razze allogene per salvaguardare la nostra specie. Ciò non implica nessun giudizio di valore sugli altri popoli e razze e, a maggior ragione, sulle razze rappresentate nel corpo del nostro popolo tedesco» (in Biologie des deutschen Volkskörper, “Biologia del corpo del popolo tedesco”,

riportato da Edouard Conte e Cornelia Essner).

In modo simile nel 1935 si era espresso Eichenauer, dopo avere tratteggiato il plurisecolare percorso della «questione ebraica»: «Non c’è perciò affatto un immotivato odio per gli ebrei, bensì un ben fondato senso di difesa, quando i popoli rigettano la loro influenza, soprattutto la commistione con loro. Poiché al proposito si sono spesso affermate sciocchezze usando il concetto di “inferiore”, dobbiamo chiederci infine cosa questo possa significare nella vita dei popoli e

delle razze. Che vi siano nell’ebraismo individui inferiori, ciò non significa nulla, poiché di tali ve ne sono dappertutto, ed inoltre non dobbiamo certo questionare se ve ne siano in una nazionalità più che in altre, perché ciò ci condurrebbe a discussioni senza fine. Possiamo tranquillamente ammettere che nell’ebraismo la maggioranza è composta da individui di costumi irreprensibili, e tuttavia sostenere che si dovrebbe giungere, dal punto di vista di un corretto studio razziale, ad un

rigetto dell’elemento ebraico per i popoli caratterizzati in senso nordico. Ciò perché, abbiamo già stabilito più volte, non esiste una valutazione per così dire sovrarazziale del divenire umano, bensì ci si può sempre soltanto chiedere cosa valga un certo determinato spirito per una comunità nazionale razzialmente determinata». «Gli ebrei, ha scritto anche Günther, sono inferiori al gruppo nordico non in sé, ma soltanto in relazione al complesso ereditario del (conformato in senso nordico) popolo tedesco, così come un individuo nordico è e deve essere inferiore per il complesso delle caratteristiche ereditarie del (conformato in senso anatolico [vorderasiatisch]) popolo ebraico».

 Con ciò, continua Eichenauer, «si vede chiaramente che queste argomentazioni nulla hanno a che vedere con colpa o innocenza. Non c’è certo colpa nell’essere ebreo; ma c’è colpa se un gruppo umano conformato tenta di intrufolarsi in un altro già conformato e stabile, poiché il risultato di questo tentativo, intenzionale o meno che sia, può sempre solo portare a considerare l’intruso come un ordigno esplosivo e a far sì che egli debba poi tendere, come dice Günther, “a rinforzare un modello eterogeneo ed estraneo”. Così anche il movimento popolare ebraico, il sionismo, ha riconosciuto che le tendenze dei cosiddetti ebrei assimilazionisti portano danno non solo agli europei ma anche, necessariamente, al giudaismo. La corretta comprensione razzialescientifica

delle cose non nutre dunque l’odio, bensì è al contrario l’unica durevole possibilità di giungere col tempo ad una pace durevole. Chi voglia considerare la questione ebraica nel modo con cui è stata sviluppata in quest’opera si porrà, senza che gli abbisogni di comportarsi in modo passionale ed offensivo, su di un terreno che è più saldo di una roccia».

Più precisamente, col Günther di Rassenkunde des jüdischen Volkes: «Quegli “antisemiti” che cercano di provare una qualche “inferiorità” razziale degli ebrei non troveranno sostegno da parte dell’antropologia razziale e della genetica [von rassenkundlich-vererbungswissenschaftlicher Seite], poiché sarebbe difficile trovare una qualche scala generale per giudicare le razze ed i popoli [denn es würde schwer sein, irgendeinen allgemeinen Maßstab zur Beurteilung von Rassen und Völkern]»; ed ancora: «Non è una qualche “inferiorità” del miscuglio razziale ebraico a costituire il nocciolo della questione ebraica, bensì la sua singolarità razzialmente determinata [sondern dessen rassisch-bedingte Andersartigkeit], in primo luogo l’estraneità della sua anima razziale all’interno dei popoli dell’Occidente, in altra maniera conformati [vor allem dessen rassenseelische Fremdheit innerhalb der rassisch anders zusammengesetzen abendländischen Völker]».

In modo simile, un ventennio prima si era espresso Werner Sombart, uno dei proto-maestri del nazionalsocialismo: «In nessun campo, del resto, la valutazione soggettiva ha cagionato tanto male, in nessun dominio ha tanto ritardato la conoscenza della realtà oggettiva, come nell’àmbito della “questione delle razze”, e specialmente in quello della “questione ebraica” […] È lecito, ad esempio, mostrare come tanto i popoli quanto gli uomini debbano venir giudicati secondo quel che sono e secondo quel che fanno. Ma bisogna affrettarsi ad aggiungere che, in ogni caso determinato, il criterio ultimo rimane di ordine soggettivo: che non è quindi ammissibile parlare di razze “superiori” e “inferiori” – sostenendo riguardo agli ebrei che essi partecipano di queste e di quelle – poiché alla fine è il sentimento eminentemente personale di ciascuno a decidere del valore o del non-valore dei caratteri etnici e delle manifestazioni dell’operato di un popolo […] Chi, ad eccezione di Dio, potrebbe giudicare del valore “oggettivo” del carattere o dell’agire di un determinato individuo o di un determinato popolo? Non esiste individuo né razza di cui si possa dire che risultano “oggettivamente” superiori o inferiori a un altro individuo o ad un’altra razza. E quando uomini seri nondimeno si arrischiano ad emettere giudizi di questo tipo, nessuno può contestare loro il diritto di esprimere ciò che si risolve in una opinione essenzialmente personale. Ma non appena essi vogliono dare ai propri giudizi di valore il carattere di giudizi oggettivi e generali, siamo noi allora ad avere il diritto di spogliarli della dignità che hanno usurpata, senza arretrare – dati i pericoli che generalizzazioni di questo tipo comportano – dinanzi all’impiego dell’arma più efficace nelle battaglie delle idee: il ridicolizzare l’avversario. In effetti, non v’è nulla di più comico che vedere i rappresentanti di certe razze, di certi popoli, vantare la propria razza, il proprio popolo (al pari di un fidanzato riguardo alla sua fidanzata) come la razza “eletta”, come il popolo “superiore”, attribuendo ad essi inestimabile valore».

E con Eichenauer, Günther e Sombart concorda, preannunciandoli anzi, il «rabbino comunista» Moses Hess, scagliandosi – lui ebreo – contro «gli innati pregiudizi di razza che sono un oltraggio a tutta l’umanità».

Il concetto di doverosità della separazione tra le varie «razze» umane vede quindi la sua base teorica in primo luogo in un fondamento metafisico, consistente nel riconoscimento dell’irriducibilità a un modello comune dei diversi Sistemi di Valori che esse hanno espresso e da cui sono state a loro volta conformate nel divenire storico, e in un fondamento etico, consistente nell’assoluto rispetto della loro specifica individualità e quindi nella considerazione dell’immoralità di ogni atteggiamento missionaristico.

Altri aspetti, direttamente discesi dalla riflessione sul mondo della natura e sull’agire storico dell’uomo, deve tuttavia sempre avere presenti l’essere umano.

La doverosità della vita separata delle razze (primarie o secondarie che siano) trova infatti due ulteriori capisaldi: l’uno di ordine scientifico-biologico e l’altro storico-politico; da cui necessariamente conseguono atteggiamenti «pratici», fattuali. Atteggiamenti che non tollerano comode (e irresponsabili) neutralità, né ammettono visioni così «superiori» e prassi così «astratte» come invece li permette, ed anzi li esige, la speculazione metafisica ed etica.

Nessuna contraddizione, comunque, si riesce a scorgere nell’accettare e nel conciliare le due posizioni, «teorica» e «pratica». L’ideale, la cosa ottimale sarebbe certo l’intima coerenza di prassi e di azione, ma ben raramente si danno nella storia momenti in cui non incalzi l’urgenza e si possa con tranquillità calare nel reale e compiutamente inverare la propria teoria. Se non altro perché gli uomini non operano nell’astrazione di un mondo vuoto, su una tabula rasa in cui possano a

loro piacimento imprimere tutto ciò che reputino giusto (o comodo, se lo si voglia), ma nel turbinìo di altre realtà, in uno spazio e in un tempo che hanno già comunque trovato una loro concreta «legittimazione» dal passato e per i quali è sempre in corso una lotta onde conferir loro sensi e risonanze.

Il quarto decennio di questo secolo è appunto stato epoca tra le centrali della storia dell’uomo. Epoca ad «alta tensione» in cui nel cuore d’Europa sono venute a catalizzarsi, in virtù del pensiero e dell’azione di Hitler e del suo movimento, motivi ideali di plurimillenaria ascendenza e pratiche urgenze di vita nel cozzo non solo di nazioni in lotta per la sopravvivenza e la supremazia, ma – scontro metafisico – di ideologie e visioni del mondo.

 La «questione razziale» è stata uno dei motivi qualificanti, da una parte e dall’altra, della lotta tra l’universalismo demoliberal-marxista e il radicamento nei valori del sangue e suolo degli Stati fascisti. Ciò ha inevitabilmente comportato la brusca discesa nel reale, dalle pagine dei libri, dalle nobili analisi, dalle asettiche formulazioni teoriche, della «questione razziale» a un punto tale che essa si è fatta arma e mito per una lotta senza quartiere.

Quanto di tale dissidio siano stati coscienti gli statisti tedeschi, lo rilevano le parole pronunciate da Hitler agli intimi il 13 febbraio 1945, in un momento cioè in cui, consapevole del crollo epocale di tutto un mondo spirituale ed umano, riconsidera senza più tatticismi o pratiche urgenze, con pacata fermezza, le questioni nodali dell’umanità: «L’ebreo è per definizione lo straniero inassimilabile e che rifiuta di assimilarsi. Ciò distingue l’ebreo dagli altri stranieri: egli pretende di avere in casa vostra gli stessi diritti di un membro della comunità pur rimanendo ebreo. Egli considera come dovuta questa possibilità di giocare simultaneamente su due tavoli; è l’unico al mondo a rivendicare un privilegio così esorbitante. Il nazionalsocialismo ha posto il problema ebraico sul piano dei fatti: denunciando la volontà di dominio mondiale degli ebrei; attaccandoli sistematicamente su tutti i fronti; estromettendoli da ogni posizione da loro usurpata; braccandoli dappertutto con l’assoluta determinazione di liberare la Germania dal cancro giudaico. Per noi si è trattato di un’indispensabile cura disintossicante iniziata all’ultimo momento, quando non eravamo ancora stati asfissiati e sommersi. Questa operazione, una volta riuscita in Germania, si sarebbe allargata a macchia d’olio. Ciò sarebbe stato fatale, perché è normale che la salute trionfi sulla malattia. Gli ebrei si sono resi subito conto del pericolo – e questa è la ragione che li ha spinti ad ingaggiare un duello mortale contro di noi. Bisognava distruggere il nazionalsocialismo a qualunque prezzo, anche se il pianeta intero dovesse essere distrutto».

Dopo aver rilevato che, comunque finisca il conflitto, la questione ebraica è ormai stata posta nella sua vera luce per tutti i popoli della terra, Hitler afferma che l’antigiudaismo non potrà mai sparire, poiché gli stessi ebrei lo alimenteranno e lo rianimeranno senza sosta: «Dico questo al di là da ogni sentimento di odio razziale; non è augurabile per nessuna razza mescolarsi con le altre razze. Il meticciato sistematico – senza per questo negare buoni risultati fortuiti – non ha mai dato buoni esiti. La volontà di preservarsi pura è una prova di vitalità e di salute da parte di una razza. È naturale che ognuno sia orgoglioso della propria razza; ciò non implica alcun disprezzo nei confronti delle altre. Non ho mai pensato che un cinese o un giapponese fossero inferiori a noi. Essi appartengono ad antiche civiltà, e ammetto pure che il loro passato sia superiore al nostro. Hanno ragione di esserne fieri così come noi siamo fieri della civiltà alla quale apparteniamo».

A causa degli ultimi tre secoli, iniziati con le atroci devastazioni biologiche/politiche della Guerra dei Trent’Anni, secoli caratterizzati da divisioni intestine, guerre di religione, influenze ideologiche straniere e dall’opera dissolvente del cristianesimo, l’orgoglio basato sull’appartenenza ad una razza non è mai esistito in Germania, con la conseguenza che, di fronte ad altre più radicate stirpi quali l’inglese o l’ebraica, «l’orgoglio razziale dei tedeschi, anche quando si manifesta ed assume un atteggiamento aggressivo, è [in realtà] soltanto una reazione che compensa un complesso d’inferiorità provato da molti tedeschi. Inutile dire che ciò non riguarda i prussiani. Fin dall’epoca di Federico il Grande, costoro hanno acquistato quell’orgoglio semplice e tranquillo che contraddistingue le persone sicure di sé, le quali sono ciò che sono senza ostentazione. Grazie alle qualità che li caratterizzano, i prussiani sono stati capaci, e lo hanno dimostrato, di realizzare l’unità tedesca. Il nazionalsocialismo è stato in grado di dare a tutti i tedeschi quell’orgoglio che, fino a questo momento, era stata la caratteristica dei soli prussiani».

Solo l’opera del nazionalsocialismo è stata in grado di dare al popolo tedesco, in un tempo incredibilmente breve, quell’orgoglio che fino ad allora era stata caratteristica unicamente dei prussiani: «Il nazionalsocialismo fonderà nel suo crogiolo tutte le particolarità dell’anima tedesca. Ne uscirà il tipo del tedesco moderno, lavoratore, responsabile, sicuro di sé e semplice nello stesso tempo, orgoglioso non di quel che rappresenta individualmente bensì della sua appartenenza organica ad una grande totalità comunitaria che susciterà l’ammirazione degli altri popoli. Questo sentimento di superiorità radicato nell’anima tedesca non implica alcun desiderio di annientare gli altri. Noi abbiamo esaltato questo sentimento persino con una certa esagerazione, ma ciò era

necessario in rapporto al punto di partenza».

Altrettanto equilibrate altre considerazioni: «Il nostro razzismo è aggressivo solo nei confronti della razza ebraica. Noi parliamo di razza ebraica per comodità di linguaggio, poiché non esiste, in senso proprio e dal punto di vista genetico, una razza ebraica. Esiste tuttavia una realtà di fatto a cui, senza la minima esitazione, si può attribuire questa qualifica e che, inoltre, viene ammessa dagli stessi ebrei. Si tratta dell’esistenza di un gruppo umano spiritualmente omogeneo cui gli ebrei di tutto il mondo hanno coscienza di appartenere, quale che sia il paese di cui, sotto il profilo amministrativo, essi sono cittadini. È il gruppo umano che denominiamo razza ebraica. Quindi non si tratta assolutamente – benché la religione ebraica talvolta serva loro da pretesto – di una comunità religiosa né di un legame costituito dall’appartenenza ad una comune religione. La razza ebraica è prima di tutto una razza interiore. Se essa deriva dalla religione ebraica, se è

stata plasmata da quest’ultima, purtuttavia la sua essenza non è puramente religiosa, poiché la razza ebraica comprende alla stessa maniera sia gli atei dichiarati che i sinceri praticanti. A ciò bisogna aggiungere il legame rappresentato dalle persecuzioni subite nel corso dei secoli, che gli ebrei dimenticano sempre di aver provocato. Sotto il riguardo antropologico, gli ebrei non presentano le caratteristiche che potrebbero fare di loro una razza unica. È purtuttavia indubbio che ciascun ebreo cela nelle proprie vene qualche goccia di sangue specificamente ebraico».

Una razza interiore, continua Hitler, scorgendo nella storia la riprova della correttezza dell’impostazione razziale del divenire umano (e in ciò, per inciso, concordando col più vero giudaismo), è qualcosa di più solido e durevole di una razza «meramente» biologica: «Trapiantate un tedesco negli Stati Uniti, e ne farete un americano. L’ebreo, dovunque vada, rimane un ebreo. È un essere naturalmente inassimilabile. Ed è il suo stesso carattere a renderlo refrattario

all’assimilazione e a definirne la razza. Ecco una prova della superiorità dello spirito sul corpo! La folgorante ascesa avvenuta nel corso del XIX secolo ha radicato negli ebrei la consapevolezza della loro potenza, inducendoli a gettare la maschera. Questo fatto ci offre il modo di combatterli in quanto ebrei riconosciuti e aggressivamente fieri di esserlo. Data la credulità del popolo tedesco, non possiamo esimerci dal lodare questo accesso di sincerità da parte dei nostri più mortali nemici».

La «razza» non è quindi per Hitler un fatto esclusivamente materiale, e non è d’altra parte neppure un «mito», anche se come «mito» è stata nominata ed usata, talora con estremo realismo, sia da lui che dai maggiori esponenti nazionalsocialisti. Poiché ci siamo proposti di usare il rasoio della ragione, deve però essere obbligo al lettore il riconoscere che altri miti – giudaico-cristiani – ritenuti oggi più «nobili» (l’uguaglianza, la libertà democratica, la fraternità, la scienza, il progresso, per non dire dell’«umanità») sono stati crudamente usati a giustificare ben più devastanti politiche di potenza e non mentite, durature prassi di sterminio.

Per converso, nota Rimbotti, «il fatto deprecabile che da un’esigenza prettamente spirituale, da un’ansia di elevazione ai misteri del sovrannaturale quali furono il paganesimo antico e la sua riscoperta moderna, concepita questa per lo più come chiave di liberazione da una dogmatica teologica opprimente e da un moralismo falso e mortificante, il fatto dunque che da un anelito religioso sia scaturito qualcosa di diverso, se pure tangenziale, cioè una forma di razzismo esclusivista che fu in seguito usato come leva di sollevamento per interessi nazionali, questo fatto non intacca né la sostanza né il valore del neopaganesimo, del quale importa qui porre in rilievo i connotati di rivolta religiosa pensata come riscatto della spiritualità dell’uomo e della sua restituzione a determinate suggestioni interiori naturali, spontanee, innate, e non imposte da un certo numero di dottrinari».

Ed ancora più chiaramente, in rapporto particolare ad Alfred Rosenberg: «Gli innegabili scivoloni nell’infatuazione pangermanica o nella denigrazione acritica pensiamo che debbano vedersi nella loro sostanza di sovrastrutture. Il razzismo biologico, a volte davvero irritante, che è presente nella cultura nazionalsocialista, e quindi nello stesso Rosenberg, non fu che il frutto di un’epoca avvelenata, e spesso è inquadrabile nel contesto delle devastanti pressioni psicologiche operate

dalla presenza del bolscevismo. Rosenberg ebbe la vita segnata dall’osservazione diretta degli eccessi della rivoluzione russa: fu testimone oculare degli eccidi, delle macabre sarabande comuniste (come quella dell’orgiastica profanazione delle tombe dei duchi di Curlandia), delle sanguinose violenze cui si abbandonarono i rossi nella regione baltica, e da tutto questo ne trasse un’impressione da incubo. Nolte sottolinea come questo fatto debba essere considerato nella sua giusta dimensione, prima di esprimere un affrettato giudizio morale. Certamente tali vicende influirono sulla psicologia di molti europei, creando i presupposti di un’occasionale estremizzazione dei parametri ideologici. Fu in tale contesto che nacque l’imperativo di opporre il terrore al terrore. Ma al di là dei sedimenti reattivi, ogni spirito libero è bene in grado oggi di verificare senza forzature che l’ideologia nazionalsocialista presenta il suo lato di più originale valore proprio nei significati religiosi, etici, interiori che intese presentare come le tappe di un cammino rivoluzionario. Il mito neopagano di nuova redenzione è un mito dello spirito e un’esigenza intima, culturale e storica: è l’antico sogno dell’inquieta anima faustiana che si leva a pretendere il definitivo suo connubio con la coscienza profonda del popolo».

In uno dei primi volumi usciti in Italia sulle tematiche razziali, Il mito del sangue (la prima edizione è del 1937), il pensatore tradizionalista Julius Evola, dopo aver esposto il percorso ideologico delle concezioni razziali in Europa a partire dai primi antropologi settecenteschi, viene a trattare di quella nazionalsocialista. In quello che il giovane Delio Cantimori a più riprese raccomanda come «strumento di informazione sicura e completa» sul problema razziale, Evola critica da una parte «il razzismo ateo e populista della sinistra nazi» alla Walther Darré e dall’altra le tesi «razionaliste» e neopagane elaborate da Alfred Rosenberg e dallo stesso Hitler, tacciandole di biologismo materialistico.

 «Molto vicino agli ambienti rivoluzionario-conservatori, [Evola] non risparmia critiche e giudizi severi nei confronti delle impostazioni basilari del nazionalsocialismo» – scrive Nicola Cospito – «che, a suo modo di vedere, aveva usurpato le idee e addirittura lo stesso linguaggio della Rivoluzione Conservatrice, annacquandone la dottrina dello Stato, l’Ordenstaatsgedanke, e procedendo sulla strada di un populismo volgare e sostanzialmente plebeo».

Ancora nel 1942 (e poi nelle Note sul Terzo Reich del 1974), illustrando le posizioni italiane sulla questione razziale in uno schema progettuale della rivista italotedesca Sangue e Spirito, egli si esprime come se il problema spirituale – «la razza interiore», «la razza dell’anima» – fosse stato in Germania trascurato, misconosciuto, sottovalutato. E ciò non solo da studiosi del calibro di un Hans F.K. Günther o di un Ludwig Clauss (ma anche, ad esempio da un Buno Petermann con Das Problem der Rassenseele, “La questione dell’anima razziale”), quanto proprio dagli statisti nazionalsocialisti: «La dottrina fascista della razza prende quindi posizione contro ogni tentativo di limitare la razza all’àmbito scientifico-materiale e di esulare dall’àmbito dei valori spirituali. Essa rifiuta la concezione di un unilaterale condizionamento dei più alti valori e delle capacità dell’uomo dalla pura razza del corpo. Questi valori e capacità dipendono dalla razza interiore che normalmente si serve della razza somatica come mezzo di espressione e di azione […] La perfezione e la purezza della razza del corpo sono da considerare come condizioni

[necessarie, anche se non sufficienti]

per la completa realizzazione della razza interiore».

Certamente l’esigenza di semplificazione e la pratica lotta politica hanno talora condotto Hitler ad esprimersi in modo eccessivamente rigido (ma, abbiamo visto, più con una terminologia «indelicata» che con errati concetti, più con una forma che con una sostanza impropria). E d’altra parte il suo linguaggio suona un po’ duro e certo desueto alle orecchie degli uomini raziopacifici dei nostri giorni.

Ma è meno duro il linguaggio della vita? Sono state meno dure, per gli europei in particolare e per l’umanità tutta, le conseguenze della vittoria della «parte nobile e umana» nei conflitti mondiali?

È forse meno duro l’osceno spettacolo dell’anomìa delle città; dello sfacelo della natura; della morte del Sacro; della perdita di senso e di scopo per la vita; del denaro e del successo come Unico Dio; dell’effimero elevato a sistema; del proliferare mostruoso della finanza apolide; del frammischiarsi insensato e delinquenziale delle etnie; della scomparsa, nelle nazioni «evolute», di quell’indispensabile tessuto connettivo che sono i ceti medi e, ancor prima, il contadinato? Della frenesia senza scopo che annienta le ore ed i giorni; dell’indifferenza e quasi dell’odio provato dai reggitori delle nazioni nei confronti della loro stessa gente; dell’atroce irresponsabilità dei padri e dei figli, dei governanti e dei governati, legati da ferree complicità, ignoranza e tacita idiozia; della diffusione metastatica della criminalità organizzata; della consunzione dei giovani nella droga e nel solipsismo; dell’ottuso pietismo; della presunzione universale; dei superlativi lasciti, alle generazioni future, di morbi sempre più gravi?

A prescindere dall’applicazione delle ideologie criminali del demoliberalismo e del marxismo, a tali aspetti si adattano invece alla perfezione le radicali espressioni uscite dalla penna di Hitler settant’anni or sono, preveggenti risposte non solo agli avversari, ma anche alle sottigliezze causidiche dei nobili filosofi: «Tutti questi fenomeni di decadenza sono in ultima analisi la conseguenza della mancanza di una precisa, e da tutti riconosciuta, visione del mondo; come pure della conseguente incertezza del giudizio e dell’atteggiamento dei singoli nei confronti dei grandi problemi del tempo. Sarebbe errore ravvisare nella ricchezza di cognizioni teoriche una prova caratteristica dell’idoneità e abilità a dirigere. Anzi, spesso è vero l’opposto. È raro il caso che grandi teorici siano pure grandi organizzatori, perché la grandezza del teorico e del programmatico è, in prima linea, riposta nella scoperta e nella fissazione di leggi astrattamente esatte, mentre

l’organizzatore deve essere anzitutto uno psicologo. Deve prendere l’uomo qual è e perciò lo deve conoscere: senza valutarlo troppo né troppo poco» (Mein Kampf, I 10). Inoltre, «è ozioso discutere se sia più importante additare all’umanità ideali e scopi o realizzarli. Qui, come nella vita, l’una cosa sarebbe del tutto priva di senso senza l’altra. La più bella idea teorica rimane priva di scopo e di valore se un capo non mette in moto, verso quella, le masse» (Mein Kampf, II 11).

* * *

La concezione razziale del nazionalsocialismo riposa, abbiamo detto, su quattro fondamenti: metafisico, etico, scientifico-biologico e storico-politico. Dei primi due abbiamo trattato con Eichenauer e Günther.

Delineiamo i terzi con la prosa di Hitler. Rifacendosi ai dati scientifici dell’epoca – in particolare, la teoria dell’evoluzione darwiniana e le scoperte di Mendel e dei genetisti del primo Novecento – il Capo del nazionalsocialismo inquadra tali elementi con spirito profondamente pagano, pur usando in talune pagine espressioni tipicamente cristiane, come «creatore», o perlomeno ambigue, per quanto di ascendenza filosofica stoica, come «provvidenza».

«Ci sono delle verità talmente ovvie che proprio perciò non sono viste o riconosciute dall’uomo della strada. Costui passa vicino, come cieco viandante, a queste verità spicciole, e poi stupisce altamente quando qualcuno scopre ciò che tutti dovrebbero sapere. Le uova di Colombo stanno a centinaia intorno a noi; sono i Colombo che, invece, scarseggiano. Così gli uomini vanno attorno quasi incoscienti nel giardino della natura, s’illudono di sapere ogni cosa; mentre poi, salvo

poche eccezioni, passano accanto al fondamento stesso della loro attività senza riconoscerlo: l’intima singolarità delle specie di tutti i viventi su questa terra» (Mein Kampf, I 11).

Tale singolarità, legge ferrea di tutte le manifestazioni delle volontà di vita, comporta in primo luogo che il simile vada col simile, ai fini della procreazione e della moltiplicazione. Quando tale fedeltà venga meno, la natura reagisce con tutti i mezzi «e la sua più visibile protesta consiste sia nel rifiutare ai bastardi un’ulteriore capacità creativa, sia nel limitare la fecondità dei prodotti; nella maggioranza dei casi essa toglie loro la forza di resistenza contro la malattia o gli attacchi nemici» (ibidem).

E anche questo è naturale: «Ogni incrocio di due esseri di grado diverso dà come prodotto un che di mezzo tra i livelli disparati dei due genitori. Ciò significa: la creatura starà più su dell’elemento inferiore della coppia, ma non sarà così elevato come il superiore. Perciò, nella lotta contro questa specie più alta, essa dovrà soccombere. Simili accoppiamenti contraddicono la volontà della natura, che tende a migliorare i prodotti vitali».

Se le cose non stessero così, continua il Capo del nazionalsocialismo, «cesserebbe ogni miglioramento della specie e subentrerebbe il contrario. Siccome i mediocri sorpassano per numero i migliori, a uguali condizioni di procreazione e di possibilità vitali i peggiori aumenterebbero rapidamente, finché il migliore non venga cacciato di scena» (ibidem).

È qui evidente che il giudizio di «migliore» non vede più valenze neutramente scientifiche – il «migliore» o il «più adatto» essendo per la biologia unicamente chi è in grado di lasciare dietro di sé un più vasto retaggio genetico, cioè una più numerosa prole – ma veri e propri, e perciò contestabili, giudizi di valore.

Come che sia, il risultato di ogni incrocio di razze – e non si vede perché proprio e soltanto l’essere umano debba fare eccezione – è l’abbassamento della razza superiore, la retrogradazione fisica e spirituale, inizio di un contagio lento, ma inarrestabile: «Contribuire ad un simile stravolgimento significa pertanto peccare contro la volontà del Creatore. E questo modo di procedere viene difatti punito come peccato. In quanto l’uomo tenta di ribellarsi alla ferrea legge della natura, egli è coinvolto nella lotta contro i fondamenti cui deve la sua stessa esistenza come uomo, perciò la sua azione contro la natura lo porta ineluttabilmente a rovina» (ibidem).

L’intima coerenza etico-storica (teorico-pratica) della sua concezione razziale Hitler la riesplicita, in forma colloquiale, ai più stretti collaboratori vent’anni più tardi, mentre l’ultima lotta devasta interi continenti, sanzionandola con le conclusioni di un ethos metafisico-religioso-sacrale: «La terra continua a girare. Che sia l’uomo a uccidere la tigre, o la tigre a sbranare l’uomo! Il più forte s’impone, è la legge della natura. Il mondo non cambia, le sue leggi sono eterne. C’è di quelli che

dicono che il mondo è brutto e che vogliono lasciare questa vita. A me, invece, questo mondo piace […] Per facilitargli la morte, la Chiesa tende all’uomo l’esca di un mondo migliore. Noi invece ci limitiamo a chiedergli di foggiare degnamente la sua vita. Per far ciò, l’uomo non ha che da conformarsi alle leggi naturali. Ispiriamoci a questi princìpi e finiremo per trionfare sulla religione. Ma ciò non significa che il nazionalsocialismo possa mai mettersi a scimmiottare una religione mediante l’istituzione di un culto. La sua unica ambizione dev’essere di costruire scientificamente una dottrina che non sia niente di più che un omaggio alla ragione. Il nostro dovere è di insegnare agli uomini a vedere ciò che c’è di bello e di veramente meraviglioso nella vita, a non diventare prematuramente iracondi e stizzosi. Noi vogliamo godere pienamente di ciò che è bello, aggrapparvici – ed evitare, nella misura del possibile, tutto ciò che potrebbe nuocere ai nostri simili» (23 settembre 1941, dai Tischgespräche, i colloquiali discorsi trascritti per ordine di Bormann).

L’umiltà che l’uomo deve osservare nei confronti del cosmo e della Forza che lo regge torna come motivo dominante un mese più tardi: «Considerato nei suoi elementi materiali, l’universo ha la stessa composizione, che si tratti della terra, del sole o di un qualunque pianeta. È escluso che oggi si possa pensare che la vita organica esista soltanto sul nostro pianeta. Le conoscenze apportate dalla scienza danno la felicità all’uomo? Questo non lo so. Ma constato che l’uomo può essere

felice pascendosi di false conoscenze. M’inchino: bisogna saper essere tolleranti» (24 ottobre 1941).

«È

[tuttavia]

insensato incoraggiare l’uomo nell’idea che egli sia un re della creazione, come la scienza materialistica del secolo scorso ha tentato di fargli credere. Questo stesso uomo che per spostarsi più rapidamente inforca un cavallo, questo mammifero senza cervello! Non conosco pretesa più ridicola. I russi potevano prendersela con i loro pope, ma non avevano il diritto di attentare al concetto di una Forza suprema. È un fatto che noi siamo delle deboli creature e che

esiste una Forza creatrice. Volerlo negare è da stolti. In tal caso, meglio credere qualcosa di falso che non credere proprio niente. Che cosa rappresenta quel piccolo professore bolscevico che ha la pretesa di trionfare sulla creazione? Simili uomini, noi li schianteremo. Che facciamo appello al catechismo o alla filosofia, noi abbiamo pur sempre in serbo alcune possibilità, mentre loro, con le loro concezioni puramente materialistiche, possono soltanto divorarsi a vicenda» (ibidem).

Nella notte dal 28 al 29 dicembre 1941, mentre milioni di europei – tedeschi, italiani, ungheresi, romeni, finlandesi e slovacchi, insieme a volontari di ogni altro paese d’Europa – eroicamente resistono nella neve delle trincee alla mostruosa offensiva sovietica, Hitler si apre nuovamente a chi lo circonda: «La grande tragedia dell’uomo è che egli comprende, sì, il meccanismo delle cose, ma che le cose stesse rimangono un enigma per lui. Noi siamo in grado di dissociare gli

elementi di una molecola. Ma quando dobbiamo spiegare il perché di una cosa, la parola ci fa difetto. Ed è ciò, che porta l’uomo a concepire l’esistenza di una Forza superiore. Se farò costruire un osservatorio a Linz, farò imprimere queste parole sulla facciata: “I cieli proclamano la gloria dell’Eterno”. È meraviglioso che in tale occasione l’uomo abbia formato l’idea di Dio. L’onnipotenza che ha creato i mondi ha certamente impartito ad ogni essere animato il senso della propria

funzione. In natura tutto avviene conformemente a ciò che deve avvenire».

Dopo avere scoperto le leggi della natura, l’uomo deve assecondare la natura stessa con l’intelligenza, senza pretendersene signore e padrone. Per il vero uomo religioso è infatti somma blasfemia il comando jahwistico dato a Noè dopo il diluvio – comando, ripetiamo, che ha legittimato e tuttora legittima, sopravvivendo secolarizzato nelle filosofie del progresso liberali e marxiste, il saccheggio del mondo: «E la paura di te, e il terrore di te sarà sopra ogni animale della terra, e sopra ogni uccello dell’aria, e sopra tutto ciò che si muove sulla terra, e sopra tutti i pesci del mare; essi sono posti nelle tue mani. Ogni mobile cosa che vive sarà cibo per te; io te le concedo tutte come le verdi erbe» (Genesi IX 2-3; in parallelo, stupenda, già nel 1845, la precisazione del proudhoniano Alphonse Toussenel in Les Juifs, rois de l’époque – Histoire de la féodalité financière: «Disgraziatamente, tutti i lettori della Bibbia, che si chiamino ebrei, ginevrini, olandesi, inglesi o americani, devono aver visto scritto sul loro libro di preghiere che Dio ha concesso a coloro che servono la sua legge il monopolio dello sfruttamento della terra, dato che tutti questi popoli mercantili profondono, nell’arte di ricattare il genere umano, lo stesso fervido fanatismo religioso»).

Dimostrando il più profondo rispetto per il Cosmo, Hitler si scaglia contro tale pretesa: «A questo punto interviene naturalmente l’impudente e sciocca critica dei moderni pacifisti ebrei: “L’uomo è fatto per vincere la natura”. Milioni di persone ripetono questa idiozia ebraica, e credono magari di essere eversori della natura; mentre non possiedono come arma che una idea, e anche questa così limitata che non ne può derivare una reale raffigurazione di un mondo effettivo» (Mein

Kampf, I 11).

Aspra, se possibile ancor più radicale, da religiosa la critica si fa storica e politica: «L’uomo raccoglie qua e là qualche briciola di verità, ma non saprebbe dominare la natura. Anzi, deve sapere che dipende dalla creazione. E quest’atteggiamento porta più lontano che non le superstizioni alimentate dalla Chiesa. Il cristianesimo costituisce il peggiore dei regressi che l’umanità abbia mai potuto subire ed è stato l’ebreo, grazie a questa invenzione diabolica, a ricacciarla quindici secoli indietro. Solo la vittoria dell’ebreo attraverso il bolscevismo sarebbe un male ancora peggiore. Se il bolscevismo trionfasse, l’umanità perderebbe il dono di ridere e di gioire. Non sarebbe più che una massa informe, condannata al grigiore e alla disperazione. I sacerdoti dell’antichità erano più vicini alla natura e cercavano modestamente il significato delle cose. Il cristianesimo, invece, promulga i suoi dogmi inconsistenti e li impone con la forza. Una simile religione porta in sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinose» (notte dal 20 al 21 febbraio 1942).

«Ma anche a prescindere dal fatto che l’uomo non ha mai vinto la natura e al massimo è riuscito a sollevare il velo sopra qualcuno dei suoi infiniti e giganteschi segreti; che perciò egli non inventa niente, ma soltanto scopre; che non domina la natura, ma soltanto è diventato, in grazia della conoscenza di alcune leggi naturali, il signore di altre creature cui questa conoscenza appunto manca – a prescindere dunque da tutto questo: una mera idea non può distruggere le leggi del

divenire dell’umanità, dato che essa dipende, a sua volta, dagli uomini, e quindi dalle leggi che ne stanno a fondamento» (Mein Kampf, I 11).

Del tutto conseguente è quindi il passaggio alla considerazione del quarto fondamento della «questione razziale». Nel ricordo delle tesi di Nietzsche che la fondazione (e cioè, meglio, il riconoscimento) dei Valori per un gruppo umano – e la loro diffusione (accettazione) al gruppo stesso – non è stata, non è e non può essere che opera di singoli (vedi Al di là del bene e del male IX 260 e Teognide di Megara), il Capo del nazionalsocialismo afferma che: «Determinate idee sono

legate a determinate persone. Questo vale soprattutto per quei pensieri la cui sostanza non deriva da una verità scientifica, ma dal mondo dei sentimenti. Tutte queste idee che non hanno nulla in comune con la fredda logica, ma rappresentano espressioni emotive od immagini morali, sono strettamente congiunte all’esistenza degli uomini, alla cui forza creativa e rappresentativa esse devono la loro esistenza» (Mein Kampf, I 11).

È allora del tutto logico che le idee – che la civiltà che tutte insieme le idee connotano – dipendono dagli uomini e non viceversa, e che dunque per conservare determinate idee – una determinata civiltà – è necessario conservare gli uomini che le hanno prodotte, le mantengono e le producono: «È una discussione oziosa quella che vuol ricercare quale razza fosse la originaria portatrice della cultura umana, cioè l’autentica fondatrice di ciò che chiamiamo in sintesi: umanità. È molto più semplice impostare questo problema sul tempo d’oggi; in questo caso la risposta appare facile ed evidente. Ciò che noi vediamo oggi, in materia di cultura o d’arte o di scienza o di tecnica è quasi esclusivamente il prodotto geniale dell’ariano».

Il vero creatore di cultura nel mondo è, per Hitler, l’ariano, inteso però non tanto come singolo individuo, quanto come possibilità offerta da una comunità razziale omogenea, serbatoio dei più alti valori finché si mantenga, nel suo pur ampio ed articolato àmbito, non intaccata da altri patrimoni genici, e cioè da altri tipi razziali: «La mescolanza di sangue e la conseguente diminuzione del livello della razza è l’unica causa della morte delle antiche culture; gli uomini non si distruggono in conseguenza di guerre perdute, ma soltanto per la perdita di quella forza di resistenza che è peculiare ad un sangue puro» (ibidem).

Il valore primo dell’ariano, testimoniato da tutta la storia, la causa della sua capacità costruttiva e formativa, non sta comunque per Hitler nella sua pur rilevante intelligenza, cioè nella capacità di capire il mondo e se stesso, di rappresentare la realtà mediante concetti astratti e di elaborare i medesimi, ma nella coscienza e nella volontà di subordinare gli interessi personali al bene della comunità.

Concetto espresso dal motto che fin dal 24 febbraio 1920, data di pubblicazione del

programma della NSDAP, identifica al 24° dei 25 punti la concezione sociale della Rivoluzione Nazionalsocialista: «Gemeinnutz [geht] vor Eigennutz», «L’interesse comune [viene] prima dell’interesse individuale» (la formula sarà anche il motto del Winterhilfswerk, il Soccorso d’Inverno, la principale organizzazione assistenziale del partito, nonché incisa sullo spessore della moneta da un Reichsmark, l’unità valutaria tedesca). «Questa volontà di sacrificio, questa messa in gioco del proprio lavoro e della propria vita per la comunità, appare più marcata negli ariani. La grandezza di costoro non è tanto nelle loro capacità intellettuali, quanto nella misura della loro capacità di porre tutte le loro qualità al servizio della comunità. L’istinto della conservazione ha raggiunto presso di loro la forma più nobile, in quanto subordinano volontariamente il proprio io alla comunità e, quando l’ora lo voglia, giungono anche al sacrificio di se stessi […] Questa mentalità che fa indietreggiare l’interesse del proprio io a vantaggio della conservazione della comunità è la vera premessa per ogni autentica cultura umana» (Mein Kampf, I 11).

La premessa per ogni miglioramento di se stessi e la possibilità di elevazione per l’intera umanità giacciono profonde nelle fibre del popolo tedesco. È inoltre profondamente germanico, ed anzi fondamento del Sistema di Valori indoeuropeo, pensare che solo chi sia responsabile e «capace», indipendentemente dal ceto cui appartiene, debba socio-politicamente elevarsi, e che «l’incapace debba cedere il posto».

«Per permettere ad ogni tedesco dotato ed attivo [fähigen und fleßigen] di giungere a un più alto grado di istruzione e con ciò di assumere posti di comando, lo Stato dovrà provvedere ad un’essenziale ristrutturazione di tutta la nostra pubblica istruzione. I piani di studio di tutti gli istituti dovranno essere adeguati alle necessità della vita pratica. La comprensione di tale concezione dello Stato sarà un obiettivo già dei primi anni di scuola (educazione civica). Vogliamo che vengano istruiti a spese dello Stato i bambini particolarmente dotati, figli di genitori poveri, a prescindere dal loro ceto o dalla loro professione», proclama il punto 20 del programma della NSDAP.

«Il popolo è una comunità reale, e al contempo una comunità storica: comunità reale nel senso di comunità di lingua, di origini, di parentela, di civiltà, di costumi, di storia, di miti, di suolo e di clima. La comunità reale è al contempo retaggio e possesso; la comunità storica è sinonimo di missione e di creazione. È dal fatto che noi poniamo nel popolo le fondamenta dello Stato, che lo Stato deriva la propria dignità, il proprio scopo, la propria forza e la propria potenza. Il sentimento

nazionale è amplissimamente diffuso nei larghi strati del popolo, contrariamente a quanto accade con gli intellettuali cosmopoliti», assevera Hitler al Reichstag il 30 gennaio 1937.

«L’idea sociale», commenta Johannes Ohquist, «poggia innanzitutto su una forza morale, cioè su una concezione della vita umana che non è condizionata dai rapporti esteriori, ma da una legge interna che determina l’attitudine degli uomini fra loro. Si parla di principio democratico. Ma questo è divenuto un concetto sospetto, quando non pericoloso, poiché è stato falsato e spogliato della sua essenza primitiva. Per quanto concerne i rapporti morali e sociali degli uomini tra

loro, il nazionalsocialismo esige un mutuo rispetto. Per esprimerlo, non c’è che un vocabolo: il dovere. È il solo imperativo che s’indirizza a tutti e non accorda ad alcuno un privilegio rispetto al suo prossimo. Davanti a tale elemento tutti sono uguali, i forti come i deboli, i poveri come i ricchi, chi comanda come chi obbedisce […] Lo Stato nazionalsocialista poggia dunque su questi tre pilastri: razza, comunità nazionale, socialismo. Il popolo è il suo nucleo e la sua sostanza vivente, il

Partito la sua volontà e il suo spirito che plasma la sostanza, lo Stato lo strumento al servizio del Partito per realizzare l’idea. Perché lo Stato non è un fine in se stesso. È solo il mezzo per raggiungere gli obiettivi più alti […] Lo Stato non è il contenuto, ma la forma; è il recipiente, il contenuto è il popolo. Essi non sono in opposizione, bensì inscindibilmente legati l’uno all’altro. Lo Stato è il popolo organizzato. E il popolo non è la somma dei cittadini, ma una comunità di destino

nazionale e sociale ove ognuno ha il proprio compito e il proprio dovere, e dove non potrebbe deporre tale dovere senza ferire la legge morale del socialismo. Perché l’individuo non è un tutto in se stesso, ma un membro della comunità nazionale passata, presente e futura, una personalità il cui valore consiste nel suo agire in favore della nazione. Sopra la volontà di ogni connazionale sta l’imperativo: “L’interesse comune viene prima dell’interesse individuale”. Il socialismo non

è una politica sociale fatta da elemosinieri, ma una dottrina che impegna ogni membro della nazione a concepire e condurre la propria vita come un servizio reso al popolo».

Antitetica a quella moderna e liberale è infatti la concezione nazionalsocialista dell’essere umani. A ribadire il concetto è nel 1941, nel pieno del conflitto, il Reichspressechef (responsabile per la stampa nel Reich) Otto Dietrich in “I fondamenti spirituali della nuova Europa”: «La lotta che si combatte oggi sui campi di battaglia e sui mari con l’ultima ratio dei popoli, la forza delle armi, è, ormai non v’è dubbio, nel più profondo una lotta tra due visioni del mondo. Dietro gli eserciti e gli squadroni di ferro e di acciaio, e con loro, è in atto una lotta mondiale degli spiriti, in cui una nuova idea di convivenza umana, scaturita dai popoli più civili del continente europeo [il tedesco e l’italiano], combatte per la propria libertà e per il proprio futuro contro le potenze spirituali del passato […] Con la visione del mondo che ci offre l’idea nazionalsocialista, si è compiuta una rivoluzione teoretica assiale: il passaggio dall'”io” al “noi”, dall’individuo alla comunità. Con essa si è verificata una breccia nel mondo dello spirito, che pone rimedio ad un plurisecolare errore di pensiero!».

«Il pensiero individualista ha come errata premessa che l’uomo è un individuo [Einzelwesen] e che come tale dovrebbe essere considerato in ogni espressione di vita. Su tale premessa teoretica apparentemente irreprensibile e auto-evidente, ma falsa, fu alzato per secoli, torre di Babele, l’edificio del pensiero individualista. Mancò all’acume di tanti filosofi di quest’epoca individualista la nozione che l’uomo come “io” isolato non possiede in questo mondo alcuna realtà, che in tutti i suoi comportamenti è un essere sociale, nella famiglia, nella naturale [naturgebunden, «legata alla natura»] comunità di un popolo, di una razza, di una nazione di cui è parte, in una totalità alla quale è unito, in grado maggiore o minore. Era loro sfuggito il fatto essenziale che la comunità, nella quale la vita umana trascorre dalla culla alla bara, non è solo la condizione del suo essere e delle sue possibilità di azione, ma anche la premessa concettuale, la categoria del suo pensiero. Non avevano riconosciuto che in ogni aspetto della vita umana associata il mondo della realtà non ci si presenta come pensiero individualista, liberalista, ma come pensiero integrale, cosciente della comunità [ganzheitliches, gemeischafstbewußtes Denken], non avevano riconosciuto che nell’adesione dell’essere alla comunità naturale [naturgegeben, «data dalla natura»] sono racchiuse anche tutte le forze conoscitive dell’individuo. Il pensiero individualistico fu il grande errore costruttivo di tutta un’epoca. È grande fatto del nostro tempo l’esserci liberati dal viluppo dell’individualismo, dal quale i movimenti sociali del secolo passato non poterono liberarsi da sé, e aver visto nella comunità l’unico fondamento possibile del nostro pensiero e comportamento. Con ciò si è compiuta una delle più profonde rivoluzioni nella storia del pensiero. Questa rivoluzione del pensiero è la chiave che apre una nuova era […] Di nuovo oggi si compie nel pensiero una

rivoluzione copernicana dello spirito. Oggi scopriamo che il mondo non ruota intorno all’individuo ma alla comunità, al popolo, dal cui destino viene condotto l’individuo».

Ed ancora: «Libertà è una parola solenne ed entusiasmante, ma spesso anche incompresa e mistificata. Come in ogni tempo ha attratto gli spiriti migliori, così in ogni tempo anche i peggiori l’hanno usata per i loro scopi. È un luogo comune del sentimento e del pensiero, ove l’individualismo celebra vere orgie. La libertà dell’individuo, così afferma l’individualismo, è il primo nato dei diritti umani. Ma già questo avvio del pensiero è falso. Già Aristotele insegnava: “Il popolo è conforme alla natura più che non l’individuo”. La fonte dei nostri concetti non è il singolo, ma, come ho esposto, la comunità. Ogni concetto di libertà, dunque, che non si fondi sulla comunità, non si fonda sulla realtà delle cose. Un concetto di libertà che non esca dalla comunità è a priori falso e inutilizzabile per qualsivoglia conoscenza nel campo della vita associata. Esso opera non in senso favorevole alla vita, ma in senso distruttivo della vita [il nietzscheano «dire sì alla vita»: Er wirkt nicht lebensbejahend, sondern lebenszerstörend]. Perciò anche la cosiddetta “libertà individuale”, come affermano senza riflettere e banalmente i suoi apostoli, non è qualcosa che sia stato conferito all’uomo dalla natura. Dalla natura gli è data la coscienza della comunità, la coscienza del dovere verso la comunità in cui è nato. Il concetto individualistico di libertà richiede lo scioglimento del singolo da questo dovere nei confronti della comunità. Perciò, la sensibilità linguistica definisce chi si sottrae ai doveri verso la propria comunità anche come “individuo” o “soggetto”».

«Il fondamento politico del nazionalsocialismo è la concezione politica popolare dello Stato. Il nazionalsocialismo non cerca conquiste imperialiste, ma il raccoglimento interno e la concentrazione nazionale. Prova indiscutibile è il potente movimento di ritorno della nazione tedesca voluto dal nazionalsocialismo in modo così unico, il ritorno del sangue tedesco alla madrepatria. La concezione politica popolare dello Stato non è volta ad un’espansione esterna dispersiva di forze [kraftzersplittende], ma alla costruzione interna razionale e ad assicurare i fondamenti della vita nazionale. Il nazionalsocialismo ha evidenziato l’idea che i rapporti tra gli Stati possono essere strutturati stabilmente se i lineamenti delle nazioni sono chiari e definiti, se i capi sono radicati responsabilmente e autorevolmente nel popolo […] Perciò il Partito Nazionalsocialista non è un partito in senso parlamentare, ma il partito del popolo tedesco per eccellenza. È il grande custode della coscienza sociale della Nazione, sente il polso del popolo, vigila sui suoi moti più fini, le sue ansie e bisogni, le sue esigenze e desideri, le sue gioie e dolori. È colui che l’aiuta e lo consiglia, che trasferisce incessantemente le sue iniziative dal basso all’alto. Ha dato responsabilità politica a centinaia di migliaia di connazionali di ogni ceto e professione, dando con ciò la possibilità a decine di migliaia di tedeschi di giungere ai posti di comando dello Stato con una

prova politica. Ha unito organicamente e inscindibilmente con la vita della Nazione l’eterno flusso della gioventù e creato una selezione dei capi che porta ad un incessante impegno vitale le generazioni a venire. Col Partito acquista concreta esistenza non una discutibile volontà parlamentare, ma la vera volontà del popolo. Coi suoi princìpi educativi, operativi e selettivi, esso ha dato alla Nazione un sistema meraviglioso e funzionale, il ritmo di forze sempre auto-rinnovantisi».

Ed ecco ancora Hitler, sempre il 30 gennaio 1937: «Certi di non sbagliare, noi procediamo verso un ordine che – come in ogni altro settore della vita nazionale – garantisce, anche nel campo del governo politico del paese, un processo di selezione ovvio e naturale, attraverso il quale gli elementi veramente capaci del nostro popolo sono destinati a diventare i dirigenti della Nazione, indipendentemente dalla nascita, dalle origini, dal nome e dai beni di fortuna. La bella verità proclamata dal grande Corso, che ogni soldato ha nella giberna il bastone di maresciallo, troverà in questo paese il suo coronamento politico. Esistono un socialismo più bello e più splendido, una democrazia più vera e genuina di questo nazionalsocialismo che, grazie alla sua organizzazione, fa sì che ognuno dei milioni di fanciulli tedeschi, purché a ciò destinato dalla Provvidenza, possa arrivare al sommo della scala gerarchica della Nazione? E ciò, si badi, non è pura teoria! Nell’odierna Germania nazionalsocialista è per tutti noi una ovvia realtà. Io stesso, chiamato a questo posto dalla fiducia del popolo, vengo dal popolo. Tutti i milioni di lavoratori sanno benissimo che alla testa del Reich non si trova un letterato straniero o un apostolo rivoluzionario internazionale, bensì un tedesco uscito dalle loro file. Del resto, numerosi figli di operai o di contadini si trovano oggi a posti di comando, in questo Stato nazionalsocialista, e alcuni, anzi, sono ministri, luogotenenti e dirigenti del partito.

«Beninteso, il nazionalsocialismo vede anche qui soltanto il popolo nel suo insieme, e giammai una classe. L’obiettivo della rivoluzione nazionalsocialista non era di trasformare una classe privilegiata in una classe di paria, bensì di creare un unico ordine di cittadini con eguali diritti ed eguali doveri. Noi non abbiamo annientato milioni di cittadini degradandoli a lavoratori forzati; il nostro obiettivo era di trasformare dei lavoratori forzati in cittadini tedeschi. Infatti tutti i tedeschi

comprenderanno una cosa, e cioè che le rivoluzioni, come atti di violenza, possono essere soltanto di breve durata; se non sono in grado di costruire qualcosa di nuovo, esse, non essendo altro che eccessi, sono destinate a consumare, in breve tempo, ciò che è rimasto in piedi. All’atto violento della presa del potere è indispensabile segua tosto una proficua opera di pace. Chi elimina delle classi per creare altre classi, pone il germe di nuove rivoluzioni! Chi oggi è borghese e comanda, sarà domani nuovamente proletario, condannato ai lavori forzati in Siberia, e un giorno spererà di essere liberato, così come il proletario che una volta era oppresso e ora crede di comandare. Ecco perché la rivoluzione nazionalsocialista non ha mai avuto intenzione di affidare il potere a una determinata classe per eliminarne un’altra, bensì il contrario: il suo fine era di garantire a tutto il popolo germanico, con la organizzazione delle masse, la possibilità di svolgere non solo un’attività economica, ma anche politica».

«Chiusa» verso l’esterno, la comunità della razza e della nazione, del sangue e del suolo vede al suo interno la massima parità di diritti e l’assenza di barriere fra i ceti. Come rileva Rainer Zitelmann (1991): «L’obiettivo di Hitler era la sostituzione della borghesia con una nuova élite, reclutata in gran parte anche dalle file della classe operaia. Infatti, così come la borghesia deteneva tutte le qualità più negative – fiacchezza, debolezza, viltà, mancanza di energia – le classi lavoratrici possedevano tutte le doti migliori, la forza e l’energia […] Alla luce di ciò si comprendono anche le ripetute prese di posizione di Hitler a favore del miglioramento

delle possibilità di ascesa sociale per gli appartenenti ai ceti svantaggiati (soprattutto operai), nel quadro di un futuro Stato nazionalsocialista. Egli era un fervente sostenitore di una “uguaglianza delle opportunità” che portasse ad una maggiore mobilità sociale e all’aumento delle possibilità di ascesa dei lavoratori».

Ed ancora: «Anche se furono intrapresi dei tentativi in direzione della formazione di una “nuova élite” che avrebbe dovuto sostituire a lungo andare quella vecchia, i vertici del nazionalsocialismo furono spesso in disaccordo sul modo con cui costituire la nuova classe dirigente: al proposito, ad esempio, le concezioni di Himmler incontrarono sempre l’opposizione tanto di Hitler, quanto di Goebbels e di altri esponenti di punta del partito. Hitler insisteva nel dire che era sbagliato

selezionare le persone basandosi sulle loro qualità fisiche, come invece faceva Himmler, che elesse a criteri selettivi delle SS la statura corporea, le fattezze del viso, il colore dei capelli e degli occhi e la struttura fisica nel suo complesso. Come annotò Goebbels nel suo diario il 26 giugno 1936, “il Führer disapprova aspramente il lavoro delle commissioni razziali”. Lo stesso Goebbels, il cui aspetto fisico non sarebbe certo rientrato nei criteri ideali delle SS, si scagliò con veemenza contro l'”idiozia del materialismo razziale, che guarda soltanto al biondo ossigenato e non allo spirito e al comportamento”».

Egualmente Walther Darré, responsabile dal 1929 della politica rurale nazionalsocialista e in seguito ministro per l’Agricoltura e l’Alimentazione: «Noi rifiutiamo […] per principio ogni speculazione intellettuale contraria all’eguaglianza sociale, in altre parole ogni costituzione di caste nel corpo del nostro popolo. In termini generali, tutto quel che si rivela affine alla concezione di casta è da respingere» (l’unica giustificazione morale di una divisione in caste si ha, per una società, quando due razze molto differenti l’una dall’altra sono costrette dalla storia a vivere fianco a fianco ed una risulta, come si è verificato in India per gli indoarî e le genti dravidiche, «molto superiore all’altra. Nella casta si trova la “frontiera del sangue”, essa costituisce un modo per evitare una penetrazione del sangue inferiore nella casta dei Signori»).

Ed ancora Zitelmann (1998), ribadendo la centralità nel pensiero hitleriano del concetto che Stato ed economia non sono fini a se stessi, ma mezzi per uno scopo, cioè la difesa e il mantenimento della comunità nazionale: «Poiché secondo lui malsani rapporti sociali avrebbero condotto al crollo, alla pura rovina fisica del popolo, egli attribuì alla questione sociale un’importanza primaria sotto questo aspetto. E dunque, non fu affatto pietà o compassione ciò che indusse Hitler a porre

l’accento sull’importanza della questione sociale. Egli stesso lo riconobbe in un discorso [tenuto ad Erlangen il 31 luglio 1931: “… se qualcuno mi chiede: ‘perché Lei è socialista’, rispondo: ‘perché credo che il nostro popolo non possa continuare ad esistere, come popolo, se non è sano in ogni sua parte’. Non posso raffigurarmi futuro per il nostro popolo quando vedo che da un lato passeggiano cittadini pasciuti e dall’altro gridano masse di emaciati lavoratori. Mi interrogo sul

nostro futuro, mi interessa solo il mio popolo, come sarà fra cent’anni, tutto dipende da questo. Non per compassione verso il singolo sono socialista, ma solo in funzione del nostro popolo. Voglio che il popolo che ci ha dato la vita continui ad esistere anche in futuro”».

Concetti ripetuti a Otto Wagener, suo consulente economico, nel 1931: «Non sono entrato in politica per aprire la strada a un socialismo internazionale […] Io porto al popolo tedesco il socialismo nazionale, la dottrina politica della comunità di popolo, la comunione di tutti coloro che fanno parte del popolo tedesco, che sono pronti e vogliono sentirsi parte inscindibile e corresponsabile della totalità del popolo». Per la qual cosa il nazionalsocialismo non era merce da esportazione, tesi sempre affermata: «Sono decisamente contrario a qualsiasi tentativo di esportare la dottrina nazionalsocialista. Se gli altri paesi desiderano conservare il sistema democratico, e correre così verso la rovina fatale, noi dobbiamo rallegrarcene – tanto più che nel medesimo tempo, grazie al nazionalsocialismo, noi ci trasformiamo, lentamente e sicuramente, nella più solida comunità popolare che si possa immaginare» (20 maggio 1942).

«In un discorso tenuto il 30 gennaio 1939» – continua Zitelmann (1998) – «si chiariscono i momenti egualitari del pensiero di Hitler, e tale eguagliamento (che doveva essere solo la base per la creazione di una nuova élite) s’indirizzava in primo luogo contro la borghesia, contro le classi un tempo dominanti e la loro pretesa a diritti particolari e privilegi: “Ma questa nuova selezione dei capi deve, in quanto fenomeno sociale, venire liberata da numerosi pregiudizi che non posso non definire una bugiarda e, nel profondo, insensata morale sociale. Non c’è atteggiamento che non abbia la sua giustificazione ultima nell’utilità da esso scaturente per la totalità del popolo. Ciò che è chiaramente insignificante o persino dannoso per l’esistenza della totalità del popolo, non può venire considerato un’etica al servizio di un ordine sociale. E sopra tutto: possiamo pensare una comunità di popolo solo osservando leggi valide per tutti. Non è cioè tollerabile aspettarsi o pretendere che una persona osservi princìpi che per un’altra sono insensati, dannosi o anche solo insignificanti. Non ho alcuna comprensione per gli sforzi di ceti sociali decadenti di estraniarsi dalla vita reale trincerandosi dietro una siepe di leggi di ceto disseccate e divenute irreali per sopravvivere artificialmente per mezzo di esse. Certo, se ciò accade per assicurare alla propria decadenza la pace eterna, allora non abbiamo nulla da obiettare. Se invece si vuole intralciare la vita che avanza, allora l’assalto di una gioventù irrompente eliminerà tosto questa sterpaglia. L’odierno Stato popolare tedesco non conosce pregiudizi sociali. Non conosce perciò etiche sociali particolari. Conosce solo le leggi della vita e le necessità comprese dall’uomo tedesco con la ragione e la conoscenza. Il nazionalsocialismo le ha comprese e vuole vederle rispettate».

Impostazione giudicata da Enrico Syring sentita e sincera: «Dal punto di vista sociopolitico la creazione di una “comunità di popolo [Volksgemeinschaft]” tedesca fu l’obiettivo primario di Hitler. Al riguardo, anche tale progetto va inteso come un ulteriore strumento della “politica razziale” nazionalsocialista, in vista di quella più salda intima unione di tutti i tedeschi che doveva abbracciare ogni classe e ceto e che doveva essere raggiunta anche attraverso una cosciente demarcazione nei confronti degli ebrei. Hitler non poteva né voleva abolire ogni differenza sociale. Il far parte di un certo ceto piuttosto che di un altro doveva essere libero e non più, come in passato, “ereditato” dalle precedenti generazioni. Piuttosto, almeno in teoria, ci si aspettava da ogni giovane tedesco “ariano” che, indipendentemente dalla sua estrazione, si acquistasse, lottando con le proprie forze, il rango e il posto sociale che gli spettavano individualmente per le proprie capacità e disponibilità nei confronti del bene comune. In particolare, doveva essere data ai figli dei ceti più bassi la possibilità per ascendere socialmente. Inoltre, Hitler voleva che in futuro il credito goduto dal singolo nella società fosse indipendente dalla sua posizione sociale. Chiunque con tutte le proprie capacità e impegnandosi con tutto se stesso – fosse imprenditore od operaio, professore o spazzino, “lavoratore della mente” o “lavoratore del pugno” – si fosse dedicato,

nel suo àmbito, al bene comune, avrebbe per questo dovuto godere, malgrado le sussistenti differenze di reddito, sostanzialmente dello stesso credito sociale. Non più la posizione sociale in sé, ma unicamente la disponibilità mostrata per il – tale definito dai nazionalsocialisti – “grande compito comune [große gemeinsame Sache]” sarebbe stato il termometro per misurare il credito sociale. Tutti i tedeschi “ariani” avrebbero dovuto, gradualmente, farsi “compatrioti” e

“compatriote” [“Volksgenossen” und “Volksgenossinnen”] l’uno nei confronti dell’altro».

«Una comunità umana organizzata in Stato» – aveva scritto nei primi anni Trenta il sociologo Otto Ammon, docente a Vienna – «sopporterà tanto meglio la lotta se essa si conformerà al principio secondo cui ad ogni posto deve trovarsi la persona più adatta ad occuparlo. Anche se nasce nella condizione più bassa, l’uomo altamente dotato deve poter occupare il posto che gli compete, perfino il primo, se nessuno nella comunità lo supera quanto a capacità. L’uomo di nascita superiore deve cedere il suo posto se non ha più la capacità di occuparlo degnamente: lo esige l’interesse comune. In ciò risiede il problema sociale più importante: dalla sua soluzione non dipende soltanto il benessere del popolo all’interno dello Stato, ma anche la sua vittoria nella lotta per l’esistenza in caso di conflitto esterno».

«Ognuno di noi è storia» – completa nel 1934 in Deutsche Gottschau, “La visione tedesca di Dio”, Wilhelm Hauer, presidente della Deutsche Glaubensbewegung, “Movimento per la religiosità tedesca”, docente di Sanscrito e poi di Indologia, Storia Comparata delle Religioni e Visione del Mondo Ariana a Tübingen – «in quanto diviene, cioè è svolgimento sotto il potere di forze profonde. Ma solo là dove c’è popolo c’è storia in senso stretto. Poiché la storia è l’insorgere di una forma definita dal sangue e dallo spirito di un popolo in uno spazio assegnatogli dal destino. Il popolo è un organismo che cresce secondo un interiore destino […] Il divenire di un popolo si svolge dal suo interno. I suoi più alti destini vengono foggiati dalla sua profondità creatrice. Niente è caso. I suoi grandi uomini e donne, i suoi capi e veggenti nascono secondo quel profondo volere del destino che inabita il popolo. Esso è il volere divino».

I ceti superiori del popolo – le élites di paretiana memoria, quelli che nella storia hanno sempre fornito la struttura della classe politica di una nazione – se non possono rinnovarsi con i propri elementi o non lo vogliono, accettando l’apporto di sangue degli altri ceti, non solo giungono prima o poi essi stessi ad estinzione, ma portano a rovina l’intera nazione da cui sono scaturiti e che li ha «riconosciuti», accettati e legittimati (l’esempio più clamoroso di tale deleteria chiusura è

costituito dalla parabola storica della società spartana).

Questa motivazione costituisce il fondamento primo dell’etica sociale del nazionalsocialismo (e del fascismo in senso lato): «I pregiudizi di classe non potrebbero sussistere in uno Stato come il nostro, dove il proletariato produce uomini di tanta superiorità. Qualsiasi organizzazione ragionevole deve favorire l’avvento degli individui di valore. Ho voluto che le organizzazioni scolastiche del Partito permettessero al bambino più povero di aspirare alle funzioni più elevate, avendone le capacità. Il Partito, d’altra parte, deve vigilare a che la società non sia divisa in compartimenti, di modo che ciascuno possa affermarvisi rapidamente. Altrimenti, il malcontento mette radici e l’ebreo si trova in ottimo posizione per sfruttarlo. È indispensabile che si stabilisca un equilibrio, di modo che i conservatori irriducibili siano annientati al pari degli anarchici ebrei e bolscevichi […] Come sono propugnatore di un massimo di equità nell’ordine sociale stabilito, così mi sento in diritto d’infierire con spietato rigore contro chi pretendesse di minare quest’ordine. L’ordine che io costruisco deve essere di una solidità a tutta prova ed è per questo che soffocheremo qualsiasi tentativo di sovvertire quest’ordine. Ma in questa società nazionalsocialista niente sarà trascurato per situare debitamente la competenza e il talento. Noi vogliamo davvero che ciascuno possa foggiarsi il suo destino. Che coloro che sono atti al comando possano comandare, gli altri siano agenti esecutivi. Occorre valutare senza partito preso le attitudini e i difetti di ciascuno – affinché ciascuno possa occupare il posto che gli si addice per il maggior bene della comunità» (27 gennaio 1942).

Poiché, secondo Hitler, all’interno del popolo tedesco è soprattutto l’elemento nordico, in virtù delle sue caratteristiche razziali, ad informare le strutture portanti dell’anima nazionale, è in primo luogo su tale elemento che incombe il dovere di custodire l’originaria spiritualità ariana. È quindi a tal scopo che egli con vigore sostiene: «Non avrò pace finché non sarò riuscito a ricostituire un nucleo di sangue nordico dovunque la popolazione abbia bisogno di essere rigenerata. Se, al

tempo delle migrazioni, tra le grandi correnti etniche che esercitavano la loro influenza, al nostro popolo sono stati assegnati doni così diversi, questi hanno assunto tutto il loro valore soltanto in ragione dell’esistenza di un nucleo razziale nordico […] poiché noi possediamo una facoltà che congloba tutte le altre: il senso imperiale, il potere di ragionare e di costruire freddamente» (12 maggio 1942).

PRASSI GIURIDICA

L’opera del Günther cui abbiamo fatto riferimento – Rassenkunde des deutschen Volkes, Antropologia del popolo tedesco – fu edita per la prima volta nel 1922 e vide in undici anni sedici edizioni; quella di Eichenauer uscì per la prima volta nel marzo 1934 e fu ristampata l’anno seguente; nel 1932 Mein Kampf, comparso in due volumi nel 1925 e nel 1927, conta 77 edizioni con una tiratura complessiva di 1.060.000 copie (dieci anni più tardi sarebbe arrivata a 690 edizioni, con una tiratura complessiva, sempre solo in lingua tedesca, di 8.150.000 copie).

Come noto a ogni storico obiettivo, nel 1934 l’ebraismo internazionale, coi suoi punti di forza in Inghilterra e negli USA, intensifica quell’aspra, aggressiva guerra contro la Germania – retta dal nazionalsocialismo a partire dal 30 gennaio 1933 – che la sua sezione «interna» aveva scatenato contro il popolo tedesco ancor prima del novembre 1918. Poiché non è qui la sede di trattare del secolare percorso storico dell’ebraismo, come illustrato in dodici tappe storiche dal Capo del

nazionalsocialismo, rimandiamo il lettore direttamente alle pagine in questione (Mein Kampf, I 11).

Che la cosiddetta «rivoluzione russa» si debba poi propriamente identificare con un vero e proprio «colpo di stato bolscevico» diretto ed agìto in prima persona, per la quasi totalità della sua dirigenza, dall’ebraismo, è cosa ormai pacifica. Basti qui richiamare, con le parole di Hitler, quella plastica sensazione, quella cognizione degli eventi e dei protagonisti del comunismo sovietico un tempo patrimonio della memoria europea: «Quando ha raggiunto il potere politico, l’ebraismo getta la maschera. L’ebreo popolare e democratico si trasforma in ebreo sanguinario e tiranno del popolo. In pochi anni egli tenta di sradicare i portatori dell’intelligenza nazionale e togliendo ai popoli la loro guida naturale e spirituale li fa maturi per una soggezione permanente. Il più spaventoso esempio di ciò ci offre la Russia, dove l’ebreo lasciò morire di fame od uccise trenta milioni di uomini con una rabbia fanatica e selvaggia e sotto tormenti inumani; e ciò per assicurare ad un mucchio di ebrei letterati e banditi di Borsa il dominio su un grande popolo» (Mein Kampf, I 11).

Consapevole dell’indifferibilità di provvedimenti a tutela interna e internazionale della nazione tedesca, il governo del Reich adotta rapidamente misure legislative per difendere gli interessi, i valori, il concreto sangue germanico. A ritorsione per il boicottaggio internazionale proclamato a tempo indeterminato contro la Germania, il 31 marzo 1933 il ministro della Giustizia di Prussia, Hans Kerrl, emana il primo decreto di esclusione, limitando l’attività degli ebrei nel mondo legale.

Ventiquattr’ore più tardi viene proclamata una giornata di boicottaggio dei negozianti e dei professionisti ebrei, sotto la guida di Julius Streicher, Gauleiter di Norimberga.

Un decreto che esclude gli ebrei dall’amministrazione civile viene approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 aprile. La Legge per la Ricostruzione e la Semplificazione dell’Amministrazione Civile dello Stato, firmata da Hitler, dal ministro degli Interni Frick e da quello delle Finanze Schwerin von Krosigk, prevede la messa a riposo di tutti i funzionari civili «che non siano di sangue ariano», ad eccezione dei militari che hanno prestato servizio al fronte nella guerra mondiale e delle persone i

cui figli o padri sono caduti in guerra. Un successivo decreto dell’11 aprile, definisce «non ario» chi ha per genitori o per nonni degli individui non-arî, e particolarmente degli ebrei. A tal fine è sufficiente che sia non ariano anche uno soltanto dei genitori o dei nonni. Alla stessa stregua viene considerata la discendenza extraconiugale, mentre l’adozione da parte di genitori arî non è riconosciuta valida agli effetti di conferire automaticamente all’adottato la qualifica di ario. La medesima legge dispone che nel caso in cui la discendenza ariana sia incerta debba venire richiesto il parere di esperti nominati dal ministero degli Interni. Questi provvedimenti valgono per tutti i funzionari pubblici del Reich, dei Länder e degli enti dipendenti, compresi quelli di diritto pubblico e gli istituti di assicurazione. La Reichsbank e le Ferrovie tedesche sono autorizzate ad applicare gli stessi criteri al proprio personale, criteri che, sia pure in modo «giudizioso», possono essere applicati anche nei riguardi degli avventizi.

Il 30 giugno, viene approvata una legge sull’assunzione dei funzionari pubblici: «Chi non è di discendenza ariana o è sposato con persona di discendenza non ariana, non può essere assunto come funzionario del Reich. I funzionari del Reich che contraessero matrimonio con una persona di discendenza non ariana saranno licenziati». Nella considerazione della non-arianità «non è più decisiva una qualche fede religiosa od un nome, ma unicamente la discendenza, cioè

l’appartenenza ad una data razza».

Alle sensibilità moderna di quel lettore che ritenga “urtanti”tali criteri, lo storico potrebbe invitare a considerare che: 1) propositi e precetti ben immorali ha imposto per millenni ed impone l’insegnamento biblico-talmudico; 2) Più o meno ufficialmente, a torto o ragione ma in ogni caso con piena consapevolezza, il popolo tedesco si trova in guerra contro un popolo-Stato dotato di infinite “quinte colonne”; 3) ancor oggi, negli anni 2000, per quanto un arabo faccia addirittura parte della Corte Suprema, il democratrico Israele non accetta arabi quali funzionari governativi di livello più o meno elevato; 4) assoluto è il divieto per i non ebrei a prestare servizio nelle forze armate; 5) vietata è anche la partecipazione di cittadini israeliani non-ebrei, cioè cristiani o musulmani, alla vita comunistica dei kibbutzim.

Da quelle prime due, l’emanazione di leggi antiebraiche prosegue senza interruzioni: quattrocentotrenta provvedimenti legislativi saranno emanati fino al novembre 1944, quarantuno dei quali entro la fine del 1933. Dell’asprezza delle «vessazioni» subite fino al momento della radicalizzazione del conflitto con l’ebraismo mondiale testimonia comunque lo storico ebreo George Mosse: «Eccettuati i liberi professionisti, poco fu fatto per indebolire la posizione economica della maggioranza degli ebrei tedeschi. È vero che tra il 1933 e l’autunno del 1937 furono espropriati i beni di pochi ebrei molto in vista e potenti, per lo più proprietari di giornali e di grandi magazzini, ma, malgrado il boicottaggio decretato il 1° aprile 1933 [della durata di un giorno, o meglio di sei-otto ore, e di sabato, giorno di chiusura-riposo per gli ebrei osservanti], i commercianti ebrei continuarono a guadagnare di che vivere un’esistenza accettabile».

«Una pietra miliare negli annali dell’antisemitismo» (così sempre Mosse) rappresenta invece il settimo Congresso del Partito Nazionalsocialista a Norimberga (da martedì 10 a lunedì 16 settembre 1935), significativamente chiamato Parteitag der Freiheit, «Congresso della Libertà». Il motto di tale adunanza (a differenza di quello del precedente «Congresso dell’Unità e della Forza» tenutosi nel 1934) suona Wehrfreiheit durch Wehrpflicht, «Libertà di difesa attraverso il dovere di difesa».

Nel tardo pomeriggio del 15 settembre, alla presenza dei deputati del Reichstag riuniti in seduta straordinaria nel Kulturvereinshaus (Casa della Cultura), Hermann Goering dà lettura di tre leggi, che vengono accolte con entusiastiche acclamazioni.

La prima, firmata da Hitler, Frick e dal capo di Stato Maggiore von Blomberg, non concerne la questione ebraica. Essa impone come bandiera nazionale e commerciale del Reich i colori bianco, nero e rosso con lo svastica, che non solo va a sostituire la vecchia bandiera imperiale nero-bianco-rossa introdotta da Hindenburg l’11 marzo 1933 (affiancata con pari dignità dalla bandiera nazionalsocialista), ma soprattutto cancella il tricolore nero-rosso-oro della Repubblica di Weimar, introdotto nel novembre 1918 dopo il crollo del secondo Reich (sarà in seguito riesumato quale vessillo della Repubblica Federale). Pur mantenendo i colori della Germania imperiale, diverso è tuttavia lo spirito sotteso alla nuova insegna: «La bandiera di una volta andava bene per il Reich di una volta, così come, grazie a Dio, la Repubblica scelse la bandiera che va bene per lei […] Noi non ci proponiamo di destare dalla morte il vecchio Reich, crollato per i propri errori, ma di fondare uno Stato nuovo […] In qualità di socialisti nazionali noi ravvisiamo nella bandiera il nostro programma. Nel rosso ravvisiamo l’idea sociale del movimento, nel bianco l’idea nazionalista e nella croce uncinata la missione di combattere per la vittoria dell’uomo ario e per il trionfo dell’idea del lavoro creatore, che fu e sarà sempre antigiudaico» (Mein Kampf, II 7).

Le altre due leggi, rimaste alla storia come Leggi di Norimberga – «il più micidiale strumento legislativo della storia d’Europa», le avrebbe definite Gerald Reitlinger – riguardano essenzialmente gli ebrei tedeschi e rivestono un grado di importanza maggiore.

Una prima, Reichsbürgergesetz, «Legge sulla Cittadinanza del Reich», firmata da Hitler e da Frick, stabilisce appunto i criteri per l’acquisizione della cittadinanza. Già il 14 luglio 1933 il gabinetto aveva approvato un decreto che autorizzava la revoca della cittadinanza e la confisca delle proprietà nei confronti di coloro che, avendo ottenuto la cittadinanza sotto la repubblica di Weimar, risultassero «indesiderabili», nonché nei confronti dei cittadini tedeschi emigrati all’estero che avessero dato prova di slealtà verso il Reich. Il 23 agosto successivo Frick aveva così tolto la cittadinanza a parecchi transfughi anche di notevole fama, la maggior parte dei quali ebrei. In seguito la legislazione in materia aveva incorporato sporadici ampliamenti, come il decreto di Hitler e Frick del 15 maggio 1935 che negava l’esistenza di diritti automatici all’acquisizione della cittadinanza e subordinava ciascun caso all’esame e all’approvazione delle autorità competenti.

La seconda legge del 15 settembre è più radicale e specifica. Essa distingue, in base a criteri ideologico-razziali, fra «membri dello Stato» (Staatsangehörige) e veri e propri «cittadini» (Reichsbürger, «cittadini del Reich»), dotati come tali della pienezza dei diritti politici. Nella seconda categoria rientrano solo persone di sangue tedesco od affine, che con il loro comportamento abbiano dimostrato il desiderio e le capacità di servire lealmente il popolo e lo Stato tedeschi.

Dopo che il precedente regolamento sulla cittadinanza del 5 febbraio 1934 aveva abolito la cittadinanza dei Länder, lasciando ai loro governi la facoltà di prendere decisioni in materia di diritto di cittadinanza solo in nome e per incarico del Reich, la nuova legge ed i suoi regolamenti esecutivi dànno attuazione al quarto punto del programma della NSDAP per cui, come commenta Giuseppe Lo Verde: «Può essere cittadino dello Stato chi fa parte della comunità popolare. Della comunità popolare può far parte soltanto chi è di sangue tedesco senza riguardo alla confessione. Nessun israelita può perciò far parte della comunità popolare. Chi non è cittadino dello Stato, può vivere in Germania solo come ospite e deve sottostare alla legislazione per gli stranieri».

La ratio di tale posizione è spiegata dallo stesso Hitler in Mein Kampf, II 3: «Il diritto di cittadinanza s’acquista oggi in prima linea col nascere entro i confini d’uno Stato. La razza o l’appartenenza alla nazione non hanno in ciò nessuna parte. Un negro, vissuto una volta nei territori di protettorato tedesco ed ora dimorante in Germania, mette al mondo un figlio che è “cittadino tedesco”. E così, ogni figlio di ebrei o di polacchi o di africani o di asiatici può essere senz’altro dichiarato

cittadino tedesco […] L’acquisto della cittadinanza si svolge non diversamente dall’ammissione in un club automobilistico. Il candidato presenta la sua richiesta, si procede ad un’indagine, la richiesta è accolta, ed un bel giorno gli si fa conoscere con un biglietto che è diventato cittadino dello Stato. E la notizia gli è data in forma umoristica: a colui che finora è stato uno zulù od un cafro si comunica che “è diventato tedesco”!

«Siffatto privilegio è la prerogativa di un semplice funzionario. In un batter d’occhio questo funzionario fa ciò che nemmeno il Cielo potrebbe fare. Un tratto di penna, e un mongolo diventa un autentico “tedesco”. Non solo non ci si cura della razza di quel nuovo cittadino, ma non ci si preoccupa nemmeno della sua sanità fisica. Egli può essere roso dalla sifilide quanto vuole, tuttavia è benvenuto quale cittadino per lo Stato odierno, purché non rappresenti né un onere finanziario né un pericolo politico. Così ogni anno lo Stato assorbe elementi velenosi da cui non può più liberarsi».

Lo Stato Nazionale ripartisce invece gli abitanti in tre categorie: cittadini, membri dello Stato, stranieri. La nascita non rende di per se stessa cittadino un individuo, bensì gli conferisce l’«appartenenza allo Stato»: «Questa, per sé, non rende capaci di coprire cariche pubbliche né di esercitare un’attività politica partecipando ad elezioni […] Il giovane di nazionalità tedesca, appartenente allo Stato, ha l’obbligo di compiere l’educazione scolastica prescritta ad ogni tedesco. Così si assoggetta all’educazione necessaria a diventare un membro del popolo avente coscienza della razza e della nazionalità […] Quando il giovane, sano e virtuoso, ha terminato il servizio militare, gli viene conferito nella maniera più solenne il diritto di cittadinanza [Staatsbürgerrecht]». Il certificato di cittadinanza deve «essere conferito con un solenne giuramento da prestare alla comunità nazionale e allo Stato. Questo documento deve essere come un legame allacciante tutti i ceti e varcante tutti gli abissi».

Nel riservare l’acquisto della cittadinanza agli appartenenti allo Stato «di sangue tedesco o affine», la legge sostituisce il termine «discendenza ariana» che si ritrova nella legislazione precedente, al quale non si era potuto ascrivere un preciso significato giuridico a cagione della sua provenienza dagli studi linguistici. Concretamente possono divenire cittadini tedeschi, oltre alle persone di sangue tedesco, i misti (Mischlinge) di secondo e di primo grado, gli appartenenti agli altri

popoli europei e i discendenti di questi che siano di razza pura, fermo restando che la cittadinanza non viene conferita automaticamente, ma dopo valutazione di ogni singolo caso. Il conferimento è costituito da un atto amministrativo, dalla concessione cioè della «patente di cittadinanza» (Reichsbürgerbrief). I principali diritti ad essa collegati sono l’elettorato e la capacità di rivestire un impiego pubblico. A colui che intende acquisire la cittadinanza, oltre che il possesso

dell’appartenenza allo Stato e delle premesse di carattere razziale, la legge richiede una terza condizione: che egli «sia idoneo e intenzionato di servire fedelmente il popolo tedesco ed il Reich». L’attestazione di questa volontà e di questa idoneità è data soprattutto dall’effettuata prestazione del Servizio del Lavoro (RAD Reichsarbeitsdienst) e del servizio militare.

Fanno seguito a questa altre leggi contenenti limitazioni di diritto pubblico per le persone che non sono di sangue tedesco od affine: così i regolamenti sulla professione di medico del 13 dicembre 1935, di veterinario del 3 aprile 1936, di avvocato del 21 febbraio 1936 e di farmacista del 18 aprile 1937. Tutte queste professioni, per la concezione nazionalsocialista dei rapporti sociali, non sono più considerate «libere», ma «vincolate al popolo ed allo Stato» (Volks- und

Staatsgebundene Berufe), per cui i professionisti in questione sono investiti di pubbliche funzioni.

La terza legge del 15 settembre – o Seconda Legge di Norimberga – Gesetz zum Schutze des deutschen Blutes und der deutschen Ehre, «per la difesa del sangue e dell’onore tedesco», firmata da Hitler, Frick, dal ministro della Giustizia Franz Gürtner e da Rudolf Hess quale Stellvertreter («sostituto facente funzione») del Führer, comincia con il constatare che la purezza del sangue tedesco costituisce il requisito primo per la continuazione del popolo tedesco e con l’affermare l’incrollabile decisione del Reichstag di assicurare in tal senso il futuro della nazione.

Già il Taschenwörterbuch des Nationalsozialismus, “Dizionario tascabile del Nazionalsocialismo”, pubblicato in seconda edizione nel 1934 a cura di Hans Wagner dal Nationalsozialistischer Lehrerbund, “Lega nazionalsocialista degli insegnanti” (la seconda edizione porta il titolo “Dizionario tascabile del Nuovo Stato”), aveva recitato alla voce Mischehen, “Matrimoni misti”: «Essi sono matrimoni fra appartenenti a razze diverse. Il principio razziale del nazionalsocialismo richiede da ogni cittadino la tutela della razza e la conservazione della purezza del sangue. Di conseguenza i matrimoni tra appartenenti a razze diverse non sono nazionalsocialisti. Eccetto le disposizioni per il riordinamento del pubblico impiego [la citata legge del 7 aprile 1933] la legislazione non ha finora proibito i matrimoni misti, ma essi sono divenuti praticamente impossibili in virtù del comportamento del popolo».

La nuova legge proibisce ora, sotto pena del carcere, i matrimoni o le relazioni extra-coniugali fra ebrei e cittadini tedeschi, di sangue tedesco o affine. Tali matrimoni, anche se contratti all’estero per eludere la legge, sono dichiarati nulli (lo Statistisches Jahrbuch für das Deutsche Reich annate 1937-1941/42 riporta per il delitto di Rassenschande, «disonoramento della razza», 1911 condanne a pene varianti dal minimo di un giorno al massimo di quindici anni di carcere, e

precisamente: 11 nel 1935, 358 nel 1936, 512 nel 1937, 434 nel 1938, 365 nel 1939, 231 nel 1940). Inoltre, gli ebrei non possono assumere come persone di servizio donne di sangue tedesco o affine di età inferiore ai 45 anni (età considerata limite per la fertilità). Agli ebrei è infine vietato esporre la bandiera nazionale e del Reich, nonché portare i colori del Reich. Hanno invece l’esplicito permesso di esporre e portare i colori ed i simboli ebraici, facoltà il cui esercizio è tutelato dallo Stato. Ben dissonanti dall’odierno sentire sono le reazioni di due autorevoli organi ebraici ufficiali, come del principale periodico delle SS.

Già il 17 settembre, infatti, la Jüdische Rundschau, organo della ZDfD Zionistische Vereinigung für Deutschland, pubblicaun entusiastico editoriale, ove afferma che il Reich “soddisfa le richieste del Congresso Sionista Mondiale, quando dichiara che tutti gli ebrei residenti in Germania sono una minoranza nazionale [e non religiosa]. Una Volta che gli ebrei sono riconosciuti come minoranza nazionale, è nuovamente possibile stabilire relazioni normali tra la nazione tedesca e la nazione ebraica. Le nuove leggi offrono alla minoranza ebraica in Germania la propria vita culturale, la propria vita nazionale. In futuro agli ebrei sarà possibile fondare proprie scuole, un loro proprio teatro, le proprie associazioni sportive. In breve, il popolo ebraico potrà essere artefice del proprio futuro sotto ogni aspetto della vita nazionale […]La Germania ha dato alla miniranza ebraica l’opportunità di vivere basandosi sulle proprie forze e concede la protezione dello Stato per questa vita separata della minoranza ebraica. Il processo che porta dalla comunità ebraica alla nazione verrà incoraggiato e contribuirà allo stabilimento di migliori rapporti tra le due nazioni”.

Ancora più plausi giungono il giorno 19 da parte di Der Israelit, organo della comunità ortodossa in Germania, quando il periodico, dopo avere espresso il proprio appoggio all’idea di autonomia culturale e di educazione separata, approva senza ambiguità l’interdizione a calebrare matrimoni misti.

Il 26 settembre segue poi, tra le tante voci ufficiali di parte tedesca, l’himmleriano Das Schwartze Korps: “L’avere riconosciuto la comunità ebraica quale comunità razziale basata sul sangue e non sulla religione porta il governo tedesco a garantire incondizionatamente l’integrità razziale di questa comunità. Il governo tedesco è in piena sintonia col grande movimento della comunità ebraica chiamato sionismo, il quale riconosce la solidarietà degli ebrei in tutto il mondo e rigetta ogni concetto di assimilazione. Su questa base, la Germania vara misure che in futuro avranno un ruolo determinante nella risoluzione della questione ebraica nel mondo”.

Due mesi dopo la promulgazione, il 14 novembre, le due leggi ricevono una prima conferma con un Regolamento Esecutivo. Un secondo Regolamento, specificamente inerente alla Legge sulla Cittadinanza, viene emanato il 21 dicembre.

Un inquadramento della ratio delle due leggi, espressione del «nuovo atteggiamento dello spirito tedesco», ma radicate nella più profonda anima della Germania, viene offerto nel 1941 agli italiani dal Lo Verde, insigne giurista palermitano: «I concetti giuridici nazionalsocialisti sono […] formulati tenendo conto del processo di formazione del popolo tedesco e in particolar modo del fatto che il popolo tedesco ha assunto la sua particolare caratteristica della razza nordico-falica

(nordisch-fälisch). Con tale constatazione non si disconosce che il popolo germanico, come tutti gli attuali popoli civili, rappresenta un miscuglio di razze, miscuglio fra quelle che i biologi hanno determinato come razze-tipo. La proporzione nella quale avviene il miscuglio determina l’essenza ed il modo di manifestarsi di un popolo, fermo essendo che soltanto le cosiddette razze composte costituiscono delle realtà empiriche. Il miscuglio degli elementi razziali contenuti in un popolo

avviene di regola entro i limiti del popolo stesso. Dato che tale procedimento dura da secoli e continua con ogni generazione, tutti gli appartenenti ad un popolo sono il frutto dei più svariati incroci. Il popolo è una comunità di propagazione in forte misura segregata da secoli e magari da millenni dai popoli vicini. I più importanti elementi razziali dei popoli moderni si ritrovano perciò in germe o sviluppati in ogni appartenente al popolo. Si viene così alla conclusione che più che una razza composta si tratta di un vincolo di sangue esistente nei singoli popoli che diventa più forte dopo ogni nuova generazione e che dà luogo a quella che opportunamente si è chiamata una

razza secondaria o storica. Tali razze secondarie formano la base organica del carattere nazionale, che va formandosi per la tradizione sociale attraverso le particolarità della storia di un popolo».

La diversità della composizione razziale costituisce ovviamente una divisione del popolo. Il collegamento razziale che progredisce con ogni generazione fa del popolo una stirpe (Artgemeinschaft, «comunità di natura e di modo d’essere», la natio di latina ascendenza), di cui forma biologicamente il nucleo la razza determinante di quel popolo, che, in parte più o meno grande ed in forma più o meno incisiva, è attiva in ogni appartenente al popolo. La stirpe si presenta così come il «corpo del popolo», per cui in tedesco si parla di Volkskörper. Poiché tuttavia la strutturazione razziale tedesca è stata storicamente presente come Reich, «impero», e non come «nazione», essa comprende anche popolazioni estranee alla stirpe tedesca: «Ma la diversità della composizione razziale non è a confondersi con l’esistenza in Germania dopo la formazione del grande Reich di gruppi di popolazioni non tedesche. Il Führer ha dichiarato più volte che egli

respinge ogni forma di germanizzazione o di assimilazione violenta di queste popolazioni. Le leggi che proteggono le popolazioni non tedesche non sono state ancora riunite in un ordinamento organico, né potrebbero esserlo, data la brevità del tempo trascorso dalla formazione del grande Reich» (e del conflitto allora in corso, voluto mondiale da Inghilterra, USA ed Unione Sovietica proprio per impedire la realizzazione di una comunità dei popoli europei intorno al più forte,

determinato e centrale nucleo germanico).

Quanto agli aspetti normativi della Seconda Legge di Norimberga, prima di passare ad esporli come chiariti nel decreto (Verordnung) supplementare del 14 novembre, è necessario soffermarci sull’argomento identità ebraica, considerata nell’ottica del nazionalsocialismo. È il decreto applicativo che, nella parte riguardante la Legge sulla Cittadinanza, definisce giuridicamente i concetti di «ebreo» e di «misto ebreo». Uno dei commenti più esaustivi al proposito è quello formulato dai giuristi W. Stuckart ed R. Schiedermair in Rassen- und Erbpflege in der Gesetzgebung des Dritten Reiches, «Tutela della razza e del patrimonio ereditario nella legislazione del Terzo Reich», edito a Lipsia nel 1939, del quale riportiamo integralmente i tre corrispondenti sottocapitoli, tratti dall’opera di Horst Seidler e Andreas Rett.

A IL PUNTO DI PARTENZA PER LA DEFINIZIONE LEGALE DEI CONCETTI.

In linea di principio la classificazione di un individuo consegue all’appartenenza razziale dei suoi nonni. In tal modo si può di regola rinunciare ad una indagine biologico-razziale [su di lui]. Poiché ogni persona ha quattro nonni, bisogna distinguere, in senso biologico-razziale: ebrei completi [Volljuden], ebrei a tre quarti [Dreivierteljuden], ebrei a metà [Halbjuden] ed ebrei a un quarto [Vierteljuden]. Questa quadripartizione non è stata accettata dalla legislazione razziale. In linea di principio la legge fa distinzione fra due soli gruppi: «ebrei» e «misti ebrei». Poiché per la classificazione razziale di un individuo è determinante l’appartenenza razziale dei nonni, la decisione se quell’individuo sia ebreo o misto ebreo presuppone la determinazione dell’appartenenza razziale dei nonni. Ne consegue che si rende necessario rintracciare i nonni ebrei completi; in linea di principio non vengono presi in considerazione i nonni con solo una parte di sangue ebraico.

I. Per la determinazione dell’appartenenza razziale dei nonni ha valore la presunzione, strettamente legale, che un nonno è considerato ebreo completo se ha fatto parte della comunità religiosa ebraica (praesumptio iuris et de iure).

1. Questa presunzione trova conferma nel fatto che un tempo l’appartenenza razziale all’ebraismo coincideva di regola con l’appartenenza alla comunità religiosa ebraica e che il frammischiamento delle razze si è diffuso solo nelle ultime generazioni. Un nonno di un individuo oggi vivente che abbia fatto parte della comunità religiosa ebraica, deve perciò essere, di regola, anch’egli razzialmente ebreo completo.

a) In primo luogo la presunzione [giuridica] facilita ogni conclusione. Essa esclude senz’altro ricorsi infondati, e difficilmente confutabili, sul fatto che un nonno possa aver fatto parte della comunità religiosa ebraica ma fosse di sangue tedesco o misto.

b) Inoltre, poiché la presunzione è [giuridicamente] inconfutabile, essa significa che un uomo che ha fatto parte della comunità ebraica è considerato ebreo completo anche se è in effetti solo misto o di sangue tedesco. Nella misura in cui la presunzione

[giuridica]

della realtà non fosse corretta o comportasse aspetti di effettiva durezza [wirkliche Härten], il Führer e Cancelliere del Reich può accordare esenzioni.

c) La presunzione ha valore soltanto per la classificazione dei nipoti e non per quella dei nonni, anche se essi hanno fatto parte della comunità religiosa ebraica. Quando si tratti di determinare la posizione giuridica di un nonno, per la classificazione razziale bisogna risalire ai suoi nonni.

d) Quando non operi la presunzione [giuridica], bisogna ricorrere esclusivamente all’evidenza biologico-razziale.

2. In linea di principio l’appartenenza alla comunità religiosa ebraica si fonda su segni oggettivi. Qualora si volesse affiancare ad essi segni soggettivi o prescindere completamente dal considerare l’appartenenza, legalmente definita, alla comunità religiosa ebraica, si entrerebbe per ogni caso in pesanti e complicati procedimenti di prova. Ciò viene evitato appunto con l’uso dell’elemento «presunzione» [giuridica].

Possono essere considerati segni oggettivi di appartenenza alla comunità religiosa ebraica:

a) L’ingresso nella comunità religiosa ebraica che consegue alle usuali cerimonie rituali.

b) La conseguente registrazione negli elenchi della circoscrizione sinagogale ebraica.

c) Il conseguente pagamento delle tasse di culto.

3. È indifferente la lunghezza del periodo in cui il nonno ha fatto parte della comunità religiosa ebraica. Un nonno che abbia fatto parte della comunità religiosa ebraica anche solo per un certo periodo va considerato ebreo completo. Anche qui possono venire appianate particolari durezze [besondere Härten], che sorgano in conseguenza del criterio di presunzione [giuridica], attraverso un’esenzione accordata dal Führer e Cancelliere del Reich.

II. Nel caso che il nonno non abbia mai fatto parte della comunità religiosa ebraica, si dà effettiva la presunzione che egli non fu di razza ebraica (praesumptio iuris). Questa presunzione può tuttavia venire confutata. Occorre allora accertare che il nonno fu razzialmente ebreo completo, se deve essere inserito nella classificazione razziale del nipote.

B LE SINGOLE DEFINIZIONI DEI CONCETTI.

a) Il concetto di ebreo.

I. Nell’intendimento della legge è ebreo, a prescindere dalla cittadinanza [Staatsangehörigkeit] e dal sesso:

1. Chi discende da quattro nonni ebrei completi.

2. Chi discende da tre nonni ebrei completi e da un nonno non ebreo [similmente, l’Ordinanza del Maresciallo Petain del 18 ottobre 1940, stabilirà che «est regardé comme Juif» una persona con tre nonni «de race juive», o anche con due soli nonni «de la même race» quando sia ebreo il coniuge].

Agli ebrei completi sono parificati anche gli ebrei a tre quarti in relazione alla loro predominante percentuale di sangue ebraico.

II. È da considerare ebreo anche il cittadino [Staatsangehörige] tedesco che discende da due nonni ebrei completi e da due altri non-ebrei, se egli:

1. Al 16 settembre 1935 (giorno della promulgazione della Legge sulla Cittadinanza) ha fatto parte della comunità religiosa ebraica o vi è entrato successivamente.

2. Al 16 settembre 1935 era sposato con un ebreo o con un ebreo si è successivamente sposato.

3. Discende da un matrimonio celebrato dopo il 17 settembre 1935 (giorno dell’entrata in vigore della Legge per la Protezione del Sangue) con uno degli ebrei di cui a «I 1» e «I 2».

4. Discende da un rapporto extra-matrimoniale con uno degli ebrei di cui «I 1» e «I 2» e nasce dopo il 31 luglio 1936 fuori del matrimonio.

b) Il concetto legale di misto.

Misto ebreo è chi discende da uno solo o da due nonni razzialmente ebrei completi, nella misura in cui non debba essere considerato ebreo (vedi supra «II 1–2»).

I. I misti ebrei [Jüdische Mischlinge] si dividono in due gruppi:

1. I misti di primo grado (ebrei a metà), cioè coloro che discendono da due [soli] nonni ebrei.

Di essi fanno parte le persone discese da due nonni ebrei completi, che «sono da considerare ebrei». Questi non vanno classificati tra i misti ebrei, ma tra gli ebrei (vedi supra «a II 1–4»).

2. I misti ebrei di secondo grado (ebrei a un quarto), cioè coloro che discendono da un solo nonno ebreo completo.

II. Questa distinzione gioca un ruolo importante per le disposizioni di legge valevoli per i misti ebrei, soprattutto per quanto concerne i divieti matrimoniali. Naturalmente in ambo i gruppi non vengono considerati quei misti per i quali la parte di sangue non ebraica è tedesca. Le notazioni «misto di primo grado» e «misto di secondo grado» non si trovano nella legge, ma sono introdotte da una circolare del ministro degli Interni del 26 novembre 1935 […]

c) L’applicazione dei concetti.

I. I concetti legali di «ebreo» e «misto ebreo» sono esclusivi, cioè non autorizzano una corrispondente applicazione in casi analoghi. Da ciò consegue tra l’altro che:

1. Se un individuo ha nonni che hanno una sicura impronta di sangue [Bluteinschlag] ebraica ma non sono ebrei completi, le impronte di sangue ebraiche non vengono sommate. Piuttosto, riguardo alla definizione se un nipote sia ebreo o misto ebreo, non si tiene conto dei nonni che non sono ebrei pieni. La legge non considera dunque affatto i bisnonni e non conosce ebrei a tre ottavi [Dreiachtel-] o a cinque ottavi [Fünfachteljuden].

2. La sposa di sangue tedesco di un ebreo è di sangue tedesco. Ciò vale anche quando si sia convertita alla comunità religiosa ebraica.

II. La distinzione terminologica operata dalla legge tra individui che «sono ebrei» [Juden sind] e individui che «sono da considerare ebrei» [als Juden gelten] tiene conto solo della distinzione biologico-razziale esistente tra i due gruppi, ma non ha alcuna importanza giuridica. La posizione giuridica di tutti gli individui compresi sotto il concetto di ebreo (supra «a I II») è comunque la stessa in ogni caso. Una disposizione di legge che usa la definizione di «ebreo» concerne perciò sempre tutti gli ebrei, senza riguardo se «sono ebrei» o «sono da considerare ebrei».

C ESENZIONI.

Il Führer e Cancelliere del Reich può concedere esenzioni dal disposto dei decreti esecutivi della Legge sulla Cittadinanza del Reich.

I. La concessione di un’esenzione comporta l’equiparazione giuridica di un ebreo o di un misto ebreo con le persone di sangue tedesco, o l’equiparazione giuridica di un ebreo con un misto ebreo, e precisamente limitata all’àmbito per il quale l’esenzione è stata concessa.

L’esenzione può essere concessa solo dal Führer e Cancelliere del Reich. Le domande devono essere inoltrate alle più alte autorità amministrative competenti del luogo di residenza o del domicilio abituale del richiedente.

II. Tale disposizione serve ad appianare eventuali durezze subentranti, che oltrepassano lo scopo della legge. La concessione dell’esenzione è da considerarsi solo in casi previsti e del tutto particolari:

1. Quando gravi motivi consigliano di discostarsi dalle norme di legge nell’interesse della comunità e non solo nell’interesse del richiedente.

2. Quando il richiedente sembra degno dell’esenzione in considerazione delle sue caratteristiche personali, soprattutto razziali, spirituali e caratteriali, delle sue benemerenze e del suo atteggiamento politico.

Complimentandoci con quel lettore che abbia seguito con vigile cura le ostiche pagine appena trascorse, veniamo, più brevemente, al decreto applicativo della Legge per la Protezione del Sangue. Esso afferma in primo luogo che le persone di sangue tedesco possono contrarre matrimonio fra loro e con i misti di II grado. In ambedue i casi la prole viene considerata di sangue tedesco. Con i misti di I grado essi possono contrarre matrimonio soltanto in base a speciale

autorizzazione.

I misti di II grado non possono contrarre matrimonio fra loro; possono invece contrarre matrimonio con i misti di I grado dietro autorizzazione. La prima delle disposizioni vale a favorire l’assorbimento dei misti di II grado da parte della popolazione di sangue tedesco. Per la stessa ragione i misti di II grado non possono contrarre matrimonio con individui tre quarti ebrei ed ebrei completi. I misti di I grado possono, dietro autorizzazione, contrarre matrimonio con persone di

sangue tedesco. Essi possono anche stipulare matrimonio fra loro; i figli sono considerati egualmente misti di I grado. Essi possono anche stipulare matrimonio con individui per tre quarti ebrei e con gli ebrei completi. In questi casi sono considerati ebrei ambedue i genitori ed i figli. I tre quarti ebrei non possono stipulare matrimonio con persone di sangue tedesco né con i misti di II grado. In tutti gli altri casi potranno contrarre matrimonio e saranno considerati ebrei sia i coniugi che i figli. Lo stesso è per gli ebrei completi.

Che il problema dei Mischlinge sia sempre stato presente alla mente degli statisti nazionalsocialisti lo testimonia nella pratica la vicenda del Maresciallo dell’Aria Erhard Milch, figlio di padre ebreo e braccio destro di Hermann Göring. Arrestato il 4 maggio 1945 a Siegerhagen presso Neustadt nello Schleswig-Holstein, percosso a sangue malgrado sia invalido per un incidente automobilistico, vilipeso e derubato delle decorazioni e di ogni avere dai britannici, e non solo da sottufficiali e ufficiali ma persino da un generale, portato a Norimberga il 12 ottobre quale teste d’accusa, l’Halbjude Milch – il vero artefice e potenziatore della Luftwaffe nel 1942-44, giubilato da Hitler il 23 maggio 1944 – non solo rifiuta di avallare le menzogne che gli si vogliono imporre contro gli ex camerati, ma si schiera con la difesa, in particolare di Göring, col quale peraltro si era trovato spesso in aspro disaccordo, quali che siano le conseguenze (andrà incontro a settimane carcere duro nel bunker di punizione a Dachau). Due altri alti gradi con genitore o nonno ebrei sono il generale d’aviazione Helmuth Wilberg, stratega del Blitzkrieg, precipitato nel novembre 1941 in volo di addestramento, e l’ammiraglio Hans-Georg von Friedeburg, ultimo comandante della Kriegsmarine, cofirmatario della resa a Reims e suicida il 23 maggio a protesta contro l’ignobile arresto dell’ultimo governo del Reich.

La presenza nei ranghi della Wehrmacht di militari di ascendenza ebraica più o meno completa (decine di migliaia di Mischlinge, «meticci», e perfino centinaia di Volljuden, «ebrei completi, al cento per cento»), dichiarati di sangue tedesco da Hitler, è stato per mezzo secolo uno dei più riposti e «scandalosi» demosegreti. Solo nel 1997 il giovane storico militare texano Bryan Mark Rigg, di genitori in parte ebrei tedeschi e docente a Cambridge, riporta nominativamente la presenza di 1200 soldati ebrei, parecchi dei quali addirittura con genitori o parenti internati nei campi, elencando 2 feldmarescialli, 10 generali e 23 colonnelli, almeno 20 dei quali decorati con le massime onorificenze. «Decine di migliaia di soldati di ascendenza ebraica» – scrive Rigg – «prestarono servizio nella Wehrmacht nel corso del conflitto mondiale, per la massima parte con l’autorizzazione di Hitler. Tra loro vi erano centinaia di ufficiali di grado elevato e pluridecorati con alte responsabilità di comando: ufficiali di Stato Maggiore e perfino generali […] Tra i documenti, ad esempio, si trova una lista dell’ufficio personale dell’Alto Comando dell’Esercito coi nomi di 77 alti ufficiali della Wehrmacht, di cui i nazisti sapevano che erano essi stessi cosiddetti Mischlinge o sposati con ebree o con Mischlinge. Tutti i 77, tra i quali 25 generali, erano stati “arianizzati” da Hitler».

Terminiamo con le definizioni di ebreo date 1. dal governo italiano col Regio Decreto 17 novembre 1938-XVII n.1728, art.8 (ove il termine «razza» non è usato con rigida accezione scientifica, ma è sinonimo di «stirpe, nazione, sangue»), 2. dal secondo Statut des Juifs francese, varato il 2 giugno 1941 dal commissario generale agli Affari Ebraici Xavier Vallat e pubblicato sul Journal Officiel il 27, nel quale la definizione ha carattere non solo razziale, ma anche religioso (al primo Statuto,

varato dal ministro della Giustizia Alibert il 3 ottobre 1940 e pubblicato sul J.O. l’8 ottobre, segue l’abrogazione del decreto Crémieux il 7 ottobre), e 3. dal governo slovacco di monsignor Jozef Tiso col “Codice ebraico” n. 198/1941 del 9 settembre 1941 (Nariadenie zo dza 9. septembra 1941 o pràvnom postaveni Zidov, duecentosettanta articoli definitori e normativi, raccolti in dieci sezioni).

. Quanto al primo: «Agli effetti di legge: a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di

nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazione di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1â ottobre 1938-XVI, apparteneva a religione diversa da quella ebraica».

. Quanto al secondo, è ebreo: «1. Un individuo, appartenente o meno ad una confessione religiosa, che abbia tre nonni di razza ebraica o anche solo due quando il coniuge abbia due nonni ebrei. Il nonno di religione ebraica è considerato membro della razza ebraica. 2. Un individuo che sia di religione ebraica o lo sia stato fino al 25 giugno 1940 e abbia due nonni di razza ebraica. La non appartenenza alla religione ebraica è attestata producendo prove dell’appartenenza a una

confessione riconosciuta dallo Stato avanti la legge 9 dicembre 1905. Il disconoscimento o l’annullamento del riconoscimento di un figlio considerato ebreo non hanno effetto riguardo alle precedenti disposizioni».

.Quanto al terzo, è ebreo: “Art. 1 […] senza distinzione di sesso, cji: a) da almeno tre generazioniè discendente da ascendenti di razza ebraica [tali definiti, come per il nazionalsocialismo, dall’appartenenza alla comunità religiosa ebraica]; b) è incrocio [mesianec] ebreo chi è discendente da almeno due nonni di razza ebraica ed inoltre (1) alla data del 20 aprile 1939 apparteneva alla religione ebraica o è diventato tale dopo questa data, (2) si è sposato con un ebreo dopo il 20 aprile 1939, (3) è discendente di un coniuge che ha contratto matrimonio con una persona appartenente alla razza ebraica dopo il 20 aprile 1939, (4) è nato da una relazione extra-matrimoniale con un ebreo in data successiva al 20 febbraio 1940″.

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Volgendo questo saggio al termine, invitiamo il lettore a confrontare i criteri dell’«essere ebreo» dati dagli ebrei con quelli della legislazione nazionalsocialista.

Come è generalmente risaputo, e a prescindere dagli individui convertiti, dai coniugi accettati e dal criterio della frequentazione della comunità religiosa, per gli ebrei halachici è «ebreo» chiunque sia nato da madre ebrea, e questo a prescindere se la madre abbia avuto anche ascendenti non-ebrei. Per la legge israeliana può poi essere ebreo, indipendentemente dal sesso del genitore o dell’avo – e dato per ebreo completo l’avo o il bisavolo – anche un individuo che abbia un solo

quarto di sangue ebraico. Il che vale a dire, rovesciando la prospettiva, che – in via di pura teoria – può  essere considerato ebreo addirittura un individuo con tre quarti di sangue gentile.

Per il nazionalsocialismo, in parallelo, può essere accolto ed assorbito nella più ampia comunità di sangue tedesco anche un individuo con sangue ebraico al cinquanta per cento (misto di I grado), ottenendo in tal modo per i suoi figli uno status giuridico privo di discriminazione. Se un nonno (vedi supra «A II») non risulta iscritto nelle liste sinagogali, e in assenza di evidenti motivazioni per essere considerato ebreo, viene automaticamente considerato non ebreo. A proposito della «politica di demarcazione» matrimoniale prescritta delle due Leggi di Norimberga scrive Franzì: «È interessante, inoltre, notare come mentre nessuna eccezione si fa per l’ebreo puro, qualcuna può essere ammessa per l’ebreo al cinquanta ed al venticinque per cento, ed inoltre come individui, sia

pure ariani, sposati ad elementi ebraici, vengano considerati quali ebrei al cinquanta in quanto si ritiene che essi debbano indubbiamente avere una affinità di idee con l’elemento israelita o, in ogni modo, debbano essere stati influenzati dal mondo ebraico».

Evidentemente esiste una contraddizione tra l’ultima considerazione del Franzì e il commento di Stuckart e Schiedermair in «e I 2» – contraddizione parzialmente spiegabile col considerare l’individuo del Franzì come di sesso maschile.

Quanto al concetto di «arianità», anch’esso vede una certa interna articolazione, differente secondo l’impegno politico del singolo. Così, mentre per la maggior parte delle attività gli ebrei al di sotto del quarto (misti di II grado) vengono considerati ariani sotto quasi tutti gli aspetti, per gli appartenenti alla NSDAP, come per le loro consorti, è richiesta un’ascendenza ariana pura dal 1800 in poi. Per gli appartenenti alle SS, nucleo germinale e punto di partenza biologico per lo sperato «riscatto» nordico della nazione tedesca, oltre a particolari caratteristiche di natura fisica, caratteriale ed intellettuale è richiesta un’ascendenza ariana a partire dal 1650.

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Se il lettore dovesse chiederci una personale opinione su quanto esposto, dovremmo confessare di essere rimasti spesso sorpresi, tanto è discorde il quadro rispetto alle immagini correnti da ormai mezzo secolo.

La prima impressione – a prescindere da un indubbio, urtante sentimento di artificiosità, derivante in primo luogo dall’essere noi immersi nel clima psicoesistenziale di un mondialismo che rende ostico un tale approccio alla problematica razziale – concerne la serietà dell’elaborazione nazionalsocialista delle norme giuridiche.

La seconda: il fondarsi della definizione di «ebreo» non tanto sui pur numerosi dati biologici, quanto su oggettivi criteri religioso-sociali.

La terza: l’accettazione e il «recupero», a certe condizioni di garanzia, di un sangue ebraico anche percentualmente cospicuo (nella Grande Germania del 1939 sono 72.000 i misti di I grado, 42.000 quelli di II grado).

La quarta: il senso del reale – così lontano dagli invasamenti «teutonici» cui ci ha assuefatto una cinquantennale pubblicistica anti-«nazista» – ed anzi proprio il buon senso nel riconoscere la complessità storica di ogni singola fattispecie razziale.

La quinta: la profondità di pensiero di Hitler quanto all’elaborazione di motivi etico-religiosi consonanti coi fondamenti dell’ethos pagano.

La sesta:il duro equilibrio, da situare in un’epoca di sangue e ferro che vede da un lato l’aggressione del modialismo liberale e dall’altro l’immane stragismo bolscevico, della legislazione nazionalsocialista e in particolare di Hitler.

Tutto ciò, e mille altre cose di cui si potrebbe trattare, in primo luogo il ripristino della verità sugli eventi più controversi della storia contemporanea – in particolare sull’effettivo destino degli ebrei europei nel conflitto mondiale – ci conferma come l’«odio» per il sangue ebraico che si suole imputare al fascismo tedesco possa essere inteso come forma di difesa contro una snaturante realtà mondialista.

Uno degli obiettivi del nazionalsocialismo è certo consistito nella esclusione della presenza ebraica dal suolo europeo, ma non mediante quell’Olocausto che rintrona le orecchie dell’umanità da mezzo secolo, bensì attraverso il riassorbimento del patrimonio genetico dei Mischlinge nel più vasto patrimonio genetico europeo e l’allontanamento degli ebrei dalla Germania e  dall’Europa, più volte ribadito agli intimi.

notte dall’8 al 9 agosto 1941 – «Se c’è un popolo che ha il diritto di ordinare delle evacuazioni, questo popolo siamo noi, poiché a più riprese abbiamo dovuto evacuare la nostra stessa popolazione. Dalla sola Prussia Orientale sono dovuti migrare ottocentomila uomini. Il nostro grado di sensibilità è dimostrato dal fatto che consideriamo il massimo della brutalità l’aver liberato il nostro paese da seicentomila ebrei. E tuttavia abbiamo ammesso senza recriminazioni, e come una cosa inevitabile, l’evacuazione dei nostri compatrioti!».

25 ottobre 1941 – «Dalla tribuna del Reichstag ho profetizzato al mondo ebraico che gli ebrei sarebbero scomparsi dall’Europa qualora la guerra non si potesse evitare. Questa razza di criminali ha sulla coscienza i due milioni di morti della guerra mondiale, e ora ne ha già centinaia di migliaia. Che non mi si venga a dire che ciò nonostante non possiamo rinchiuderli nelle regioni paludose dell’Est! Chi si cura dei nostri uomini?».

19 novembre 1941 – «Il piagnucolare che fanno oggi alcuni borghesi sotto il pretesto che gli ebrei devono andar via dalla Germania è un aspetto caratteristico di questi baciapile. Hanno forse pianto quando ogni anno centinaia di migliaia di tedeschi, non potendo guadagnarsi il pane sul nostro suolo, dovevano emigrare? Costoro non avevano parentele nel mondo, erano abbandonati a se stessi, partivano per l’ignoto. Niente di simile per gli ebrei, i quali hanno dappertutto degli zii,

dei nipoti, dei cugini. La pietà dei nostri borghesi è in tale occorrenza decisamente inopportuna».

25 gennaio 1942 – «Bisogna agire radicalmente. Quando si cava un dente, lo si cava d’un colpo solo, e il dolore non tarda a scomparire. L’ebreo deve levar le tende dall’Europa. Altrimenti nessun accordo sarà possibile tra europei».

27 gennaio 1942 – «L’ebreo deve andarsene, scomparire dall’Europa. Se ne vada in Russia! Quando si tratta degli ebrei ignoro qualsiasi sentimento di pietà. Saranno sempre il fermento che anima i popoli gli uni contro gli altri. Seminano zizzania dappertutto, tanto fra gli individui quanto fra i popoli. Dovranno sloggiare anche dalla Svizzera e dalla Svezia. Dove sono in pochi, è là che sono più pericolosi. Mettete cinquemila ebrei in Svezia – in poco tempo vi occupano tutti i posti di

potere! Evidentemente, ciò li rende più facilmente riconoscibili. È assolutamente naturale che noi ci preoccupiamo della questione sul piano europeo. Infatti, scacciarli dalla Germania non basta. Non possiamo ammettere che essi conservino posizioni di agguato alle nostre porte. Vogliamo essere al sicuro da tutte le infiltrazioni».

4 aprile 1942 – «È abbastanza strano constatare come le nostre classi superiori, le quali non si sono mai preoccupate di centinaia di migliaia di emigranti tedeschi né della miseria di questi, si abbandonino a un sentimento di compassione per la sorte degli ebrei che noi intendiamo scacciare. I nostri compatrioti dimenticano troppo facilmente che gli ebrei hanno complici nel mondo intero».

15 maggio 1942 – «E su questi stessi ebrei, specialisti nella pugnalata alla schiena, la nostra borghesia si impietosisce quando noi li spediamo in qualche località dell’Est! Ciò che tuttavia è strano è che la nostra sentimentale borghesia non abbia mai versato una lacrima sui duecentocinquantamila o trecentomila tedeschi che, anno dopo anno, si vedevano costretti a lasciare il loro paese».

Crollato per interna dissoluzione il marxismo, più chiara deve farsi la visione, per ogni buon europeo, di quel maggiore nemico dell’uomo e dei popoli identificato da Giorgio Locchi, Alain de Benoist e Guillaume Faye a cavallo dei primi anni Ottanta, epoca in cui il comunismo incombente sui due tronconi d’Europa appariva ai più come l’unico, vero, assoluto nemico. L’ironia della Storia, in un lasso di tempo incredibilmente breve, ha definitivamente indicato e sempre più indica nel liberalismo il nemico più fermo e agguerrito, il nemico strategico e metafisico, il nemico principale della visione del mondo, degli interessi e del concreto agire europei.

Tale cancro dell’uomo era stato identificato già mezzo secolo fa da Alfred Rosenberg: «Chi si propone di impedire il declino dell’Europa deve definitivamente staccarsi dalla concezione del mondo liberale, disgregante dello Stato, e raccogliere tutti gli elementi, uomini e donne, ognuno nel suo specifico campo d’azione, per la parola d’ordine: protezione della razza, forza del popolo, disciplina dello Stato».

L’osservanza delle leggi del sangue, la difesa della razza e del popolo – serbatoio vivente e potenziale di energia della Nazione – in un momento supremo in cui decine di milioni di individui di ogni colore, incitati dal verbo assassino dell’Unico Dio, dagli interessi della Finanza mondiale e dai Supremi Docenti, si preparano a sommergere l’Europa è certo soltanto la premessa, ma la premessa vitale per ogni riscatto.

«Quel che si può dire di qualsiasi popolo» – assevera Hitler il 20 agosto 1942 in un pensiero che fa giustizia di tutta la paccottiglia di Herrenvolk e Untermenschen, darwinisticamente elaborata in epoca guglielmina (ma non dimentichiamo che il darwinismo socio-politico-storico era allora patrimonio comune dell’intellettualità e dei ceti dirigenti di ogni paese!) – «è che, nel complesso, non è né buono né cattivo. La massa non possiede né il coraggio di distinguersi nel bene né la mollezza necessaria per splendere nel male. È il peso impresso dagli estremi che fa pendere la bilancia in un senso o nell’altro».

Ma coloro che incarnano, interpretano e sostanziano di realtà le più alte espressioni del Sistema di Valori di una nazione possono sorgere solo dal popolo stesso. È quindi doveroso e morale mantenere quanto più indenne il patrimonio genico del popolo, segmento temporale della nazione, poiché solo in ciò risiede la speranza che i valori dei Padri tornino a fissare per l’uomo direttrici più alte e più giuste.

La degenerazione di un popolo, la perdita della differenziazione così a fatica conquistata nel divenire storico, la sua discesa nel caos spirituale e nello smarrimento biologico, significano molto più che la regressione biologica di quel popolo.

Significano l’esaurirsi dell’uomo – di ogni uomo, bianco o nero, nomade o sedentario, primitivo o evoluto – il disfacimento di ogni civiltà, la morte di ogni Sistema di Valori, la scomparsa di ogni dio. Decaduto un popolo nella sua corporeità, persa la continuità biologica della stirpe, «non rimangono a testimonianza dell’Eterno né le religioni né gli Stati» (Hitler a Norimberga il 16 settembre 1935).

Si spezza la continuità coi Padri, perisce il concetto di nazione, si segmenta nel solipsismo

ogni esistenza, s’annulla ogni afflato divino, si spegne ogni sentire sacrale.

Per quanto una «purezza» non sia oggi possibile né recuperabile – come non lo era mezzo secolo fa, cosa della quale sono sempre stati consapevoli i Capi delle rivoluzioni europee – compito di ogni essere umano, sua prerogativa, suo vanto, sua forza deve tuttavia essere la fedeltà quanto maggiore alla propria eredità biologica e, quindi, spirituale.

Ciò in quanto, assevera Hitler: “Ogni cosa su questa terra è migliorabile. Ogni sconfitta può essere la causa di una futura vittoria. Ogni guerra persa, la base di una prossima ripresa. Ogni necessità, lo stimolo dell’energia umana; e da ogni soggezione possono sorgere le forze di una rinascita – finché il sangue sia conservato puro” (Mein Kampf, I 11).

Non ho consegnato il popolo ario

nelle mani dello straniero