La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo
“La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo”, di Gianantonio Valli
RIASSUNTO DA
“La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo”, di Gianantonio
Valli
Edizioni Effepi di Genova – 1360 pagine – dicembre 2010
I paesi
usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale hanno subito, nel corso degli
anni, una violentissima e martellante, azione rieducatoria. Quello
che è stata instillato nei tedeschi, negli italiani e, negli ultimi anni
esteso praticamente a tutte le genti (compresi popoli che non hanno avuto ruolo
attivo nella seconda guerra mondiale), è stato un generalizzato e totalizzante
senso di colpa per quello che è universalmente noto come “l’olocausto”.
Sono ben pochi i sociologi, teorici della comunicazione, storici o
psicologi che non abbiano speso parole durissime nei confronti non solo del
Terzo Reich, ma del popolo tedesco tutto così come ormai non si contano più i
numerosi libri che parlano, se non dell’olocausto, almeno di quale sia la grande
dignità del popolo ebraico. La rieducazione delle generazioni successive a
quella che visse la seconda guerra mondiale è stata portata a
compimento grazie ad un attacco a trecentosessanta gradi che ha coinvolto tutti
i canali d’informazione dall’analisi storica al giornalismo, dalla sociologia
alla psicologia, ma quello di gran lunga più persuasivo è quello
che oggi definiamo non più “dell’arte” ma “dell’intrattenimento” (cinema,
spettacoli televisivi, narrativa, musica). Di gran lunga Hollywood è stata una
voce tanto influente da modificare i costumi di tutto il mondo omologandoli a
quello americano. Non sarebbe insensato definire Hollywood il “Ministero di
Cultura e Propaganda” dell’Internazionale ebraica, e il mezzo di cui dispone è
dei più efficaci in assoluto, dato il coinvolgimento sinestetico che
l’esperienza cinematografica comporta senza fornire necessariamente
informazioni vere.
E infatti il cinema, è stato dal dopoguerra ad oggi, il mezzo principe di ogni
campagna rieducatoria a stelle e strisce, non solo concernente in
esclusiva i fatti della Seconda Guerra Mondiale. Si pensi soltanto, con
riferimento alle tensioni internazionali attuali, quanti siano i personaggi
negativi incarnati da attori cinesi o medio orientali, si pensi al periodo
maccartista e ai trionfalismi anticomunisti celebrati negli anni ottanta dalle
pellicole d’azione, oltre che, ovviamente, alle innumerevoli pellicole
sull’olocausto. Va ricordato come, quasi a simbolico battesimo, le prime
riprese cinematografiche riguardanti i campi di concentramento nazisti portino
la firma di un cineasta di mestiere come Alfred Hitchcock.
E già nel ’47, mentre le macerie d’Europa fumano ancora, cominciano ad uscire
le prime pellicole in cui i tedeschi vengono presentati come l’incarnazione del
male, alieni a veri eroismi, e sostanzialmente fanatici mentre dall’altra parte
(alleati o resistenza), brillano le più elevate virtù guerriere. Ma è nel ’56
che vede luce la prima pellicola a tema esclusivamente olocaustico, tema
destinata a dar vita, negli anni, a un vero e proprio genere cinematografico a
sé, sganciato ormai completamente dalla definizione di “storico”, tanto che si
potrebbe a buon titolo parlare di olo-fiction.
E’ interessante riscontrare come la caratterizzazione dei personaggi tedeschi presenti
nelle pellicole americane dedicate alla seconda guerra mondiale risponda a dei
modelli ideal-tipici (con palesi fini rieduca tori/didattici) abbastanza
stereotipati sia nel fisico che nei tratti caratteriali e riconducibili
solitamente a tre distinte categorie: quella isterica e nervosa alla Hitler,
quella rozza, spesso grassoccia alla Himmler, o ancora la figura segaligna,
silenziosa e sadica un po’ Goebbels un po’ Mengele. Non sempre presente,
ma comunque diffusa è quella del giovane idealista, modellato sulla figura di
Rudolf Hess, che entrerà in crisi di coscienza vedendo la cruda realtà di
ciò che è realmente il nazionalsocialismo, decidendo, spesso con un sacrificio,
di riscattare i propri “errori”.
Queste” maschere” sono rinvenibili praticamente in ogni film più o meno legato
all’immaginario relativo alla seconda guerra mondiale, dalla prova di più alta
arte cinematografica alle pellicole più popolari siano esse dei film
comunemente definiti “d’azione” od opere con intenti e fruitori di livello più
elevato. Qualunque sia il contesto narrativo, è pressoché impossibile trovare
soldati tedeschi che manifestino caratteristiche differenti da quelle poc’anzi
citate. A seconda del contesto narrativo possono servire a suscitare
orrore nello spettatore, oppure suscitarne il riso quando, in versioni più
caricaturali, vengono inserite in contesti comici. Nell’uno o nell’altro caso
si tratta sempre di reazioni “di giudizio negativo” che si producono in capo
allo spettatore e che sedimenteranno così nella sua coscienza, andando a
costituire una base, un substrato di difficile eliminazione. E’ in un certo
senso un processo di addestramento non dissimile dall’instillamento del senso
del peccato di matrice giudaico cristiana: qualcosa che deposita nel profondo
una sorta di pregiudizio latente come un herpes che prima o poi si manifesta.
Ed è impensabile qualsiasi levata di scudi per difendere l’intelligenza dello
spettatore: questi stereotipi e le pellicole che li accolgono sono intoccabili.
Un esempio che tutti possiamo esperire senza andare troppo lontano lo si ha
nella lettura di recensioni di pellicole a tema olocaustico. Se la
critica alla caratterizzazione di un personaggio è uno dei punti focali di ogni
recensione, è praticamente impossibile, o perlomeno estremamente difficile
vedere tacciata di inverosimiglianza la caratterizzazione di un personaggio
nazista in qualche eccessivo “film da giorno del ricordo” . Non è possibile
nemmeno imputare alla sola intellighenzia giudaica questa mentalità, giacché
sono innumerevoli anche gli autori non ebrei caratterizzati da questo doppio
atteggiamento, siano essi consapevoli o meno del ruolo cui stanno adempiendo.
Senza contare che scrivere su un giornale quanto poco credibile sia la
caratterizzazione di un nazista in un film può essere il primo passo per farsi
identificare come “apologeta del Nazismo”.
Questo genere di stereotipo fa il paio con un’altra arma tutt’altro che banale:
quella delle scelte lessicali.
Eclatante, ma non isolato, è il caso della parola “nazionalsocialismo”
ormai universalmente sostituita dalla sua forma contratta: “nazismo”, una
parola monca non direttamente riconducibile ad un modello politico
(socialismo nazionale), e che viene comunemente identificata con un generico
sistema fondato sull’odio, la paura, la ghettizzazione e l’intolleranza
verso i deboli. Sono moltissimi i film americani (che, piaccia o no,
condizionano il linguaggio comune di tutto l’occidente), in cui si usa la
parola “nazista” o “fascista” in contesti del tutto incoerenti con quello
che le due parole, originariamente, significavano. In soldoni: nazismo(o
fascismo)=male. Non si parla più di politica, ma di una sorta di
dimensione spirituale negativa, una qualità umana sinonimo di malvagità. Un
nazista non è un individuo interessato a un certo discorso politico, né un
militante che ha vissuto negli anni del Terzo Reich in Germania, ma un
“cattivo”, nel senso puro e totale che solo i bambini sanno dare a questa
parola.
Se questo processo di indottrinamento, per quanto discutibile, è tipico nella
prassi dei vincitori di una guerra, e sebbene la produzione di prodotti filmici
o letterari da esportazione sia stata già di per sé di enorme portata nei
cinquanta anni successivi alla fine della guerra, è con 1993, con l’uscita,
cioè dello Spielberghiano Shindler’s list (opera benedetta anche da Bill
Clinton che lo dirà la principale ispirazione per l’intervento in Bosnia) , che
si passa da una produzione non sistematica, alla canonizzazione di un nuovo
tipo di opera, ormai totalmente libera dai paletti della credibilità storica.
Da allora, non passerà anno senza che vengano proposti al pubblico almeno un
paio di film sull’olocausto, meglio se in concomitanza con le celebrazioni per
il giorno della memoria. Curioso che il film venga accreditato come
“documento”, quando si tratta della riduzione cinematografica di un romanzo di
Thomas Keneally . Come “narrativa” il romanzo è catalogato, e così viene
definito all’alba della sua prima edizione, datata 1986. Ma la definizione di
“romanzo” viene sostituita dalle parole “opera” o “documento” sulle fascette
promozionali in concomitanza con l’uscita del film del ‘93. Per quanto nel
nostro Occidente, col superio ormai da anni colonizzato dalla lobby atlantico
sionista, il film non abbia suscitato particolari scalpori, in paesi non ancora
o non del tutto americanizzati, è stato percepito come una grande
manifestazione di odio antitedesco, tanto che il primo ministro malese Mahahtir
Mohamad ravvisò nell’opera uno strumento di colonizzazione culturale
in quanto film che elogiava solo le virtù di un unico popolo e ne vietò
l’importazione, ma l’indignazione planetaria e l’accusa di antisemitismo lo
costrinsero a ritrattare nel giro di una manciata di mesi.
Interessanti anche le opere di ripulitura ai danni di chiunque abbia preso le
distanze dal film, a partire dalla ottantaseienne vedova Shindler che smentì
l’esistenza di una lista stilata dal marito, mentre asseriva di essere a
conoscenza di una lista in cui si entrava dietro pagamento. Costretta a
vedere più volte il film anche alla presenza di Clinton, finirà, forse per
esasperazione, o forse perché ben foraggiata, a sposare la causa del film.
Nel giro di pochissimo, premiato con Golden Globe e Oscar vari, il film diventa
un vero e proprio strumento didattico a uso e consumo delle scuole di mezzo
mondo, in una sorta di lavaggio del cervello collettivo. La cosa curiosa, è
osservare quanto le dichiarazioni degli spettatori usciti dalla sala, dei
critici e degli storici spesso confondano “l’accaduto” con “il narrato”, e
finiscono col considerare il film (da un punto di vista strettamente tecnico di
ottima fattura) un documento. Ancora più significativo è osservare come molte
dichiarazioni degli spettatori usciti dalla sala vertano più sull’indignazione,
il disprezzo, il risentimento nei confronti dei nazisti (se non proprio del
popolo tedesco) che non sulla qualità del film. Ma l’uscita al cinema e
la proposizione nelle scuole è solo l’inizio giacché in più paesi, due anni
dopo l’uscita del film, verranno effettuate delle serate a tema con la
trasmissione del film senza interruzioni pubblicitarie, preceduto e seguito da
dibattiti e documentari sulla Shoah.
L’immedesimazione emotiva è pure il meccanismo su cui fanno leva i musei
dell’olocausto spuntanti in un po’ tutto il mondo, persino a due passi da
Hiroshima, a suprema beffa della più dolorosa memoria recente del Giappone.
L’obiettivo è chiaramente colonizzare le coscienze creando una sorta di
“complesso” una sorta di precedente, un peccato originale che possa gravare su
tutti dato lo storicamente inedito tentativo di trasformare il lutto di un
popolo in un lutto di tutte le genti.
Se le opere
artistiche a tema sono tante, e abbiamo visto come oggi sia
sicuramente un vero e proprio filone letterario/cinematografico quello
delle storie a tema olocaustico, può essere interessante fare una digressione
su quella che è in un certo senso il capostipite di tutte le opere “popolari”
sulla materia e certamente il più noto: il Diario di Anna Frank.
La storia intorno a questo testo è piuttosto torbida e ricca di curiose e poco
edificanti vicende giudiziarie che hanno visto protagonista il padre Otto
relativamente ai diritti a lui spettanti su opera di intelletto, ma quello che
interessa rilevare in questa sede è la violentissima campagna di repressione
perpetrata contro chiunque abbia osato sollevare dei dubbi sulla veridicità del
documento (dubbio assolutamente legittimo trattandosi di un prodotto letterario
la cui vicenda riguardante stesura e ritrovamento è abbastanza rocambolesca e
piena di zone d’ombra)vedendosi poi appioppare l’etichetta di
“antisemita”, anche quando a parlare sono stati tecnici e studiosi di
grafologia o di psicologia.
A ciò si aggiunga la reiterata sottrazione dei testi originali , tutelati dalla
fondazione “Anna Frank” che si è occupata di recente di far uscire nuove
edizioni aggiornate (?) del “diario” (oggi i diari), a perizie”.
Oltre a ciò, la certezza che ne esistano almeno dieci diverse bozze (due della
quali ad opera del padre per eliminare parti scabrose) che sicuramente non
aiutano a ritenere degno di fede un testo così rimaneggiato, sempre
ammettendone la reale esistenza originale che, data la torbidezza delle acque
intorno, meriterebbe perlomeno la possibilità di poterne dubitare
l’esistenza. Nonostante tutto ciò, nonostante il legittimi dubbi,
nonostante la consapevolezza che negli anni in cui il testo sarebbe stato
scritto in Polonia le biro non fossero arrivate, porre dei semplici
interrogativi sulla veridicità delle vicende narrate el’autenticità del testo è
costato a molti la reputazione e spese processuali, e di recente si è definito
ogni attacco a quell’opera “equivalente a un atto di terrorismo”(Rosellina
Balbi).
Negli anni ottanta, quasi a voler rinvigorire la strenua difesa
dell’autenticità del diario dimostrando che non si trattava di un caso isolato,
si è avuto un florilegio di svariati miracolosi ritrovamenti analoghi, che
hanno rimpolpato la schiera di opere di presunte “autentiche” memorie
olocaustiche. Dato il volume di quei testi, i rocamboleschi ritrovamenti e le
altrettante zone d’ombra sui ritrovamenti stessi o sull’identità degli autori,
sono enormi i dubbi relativi alla autenticità di molti di essi come per il loro
capostipite.
Di storie più o meno simili, tutelate da editori compiacenti e salutate come
testi sacri da un’opinione pubblica appecorata ne sono state pubblicate
moltissime, ma è interessante la vicenda del romanzo “sopravvivere coi lupi” di
Miriam Defonseca, storia di una ragazzina ebrea scampata ai campi di
concentramento. L’autrice la definisce “autobiografica” fino al 2008, quando le
presunte origini ebraiche dalla Defonseca vengono smentite a tutta pagina dai
giornali. Le bizzarre argomentazioni addotte dall’autrice per giustificarsi
(rifiuto della propria famiglia, dolore, confusione senile), vengono prese per
buone dalla critica ufficiale che fa prontamente uscire una nuova edizione
dell’opera di fiction storica.
Ed è proprio quest’ultima espressione la chiave di lettura del monumentale impianto
narrativo, letterario, cinematografico che si muove intorno all’olocausto.
Quello che ormai ci viene mostrato non è documento storico e non è narrativa in
senso stretto, ma una sorta di “zona grigia” entro la quale vengono inserite
informazioni difficilmente verificabili o falsificabili tali da creare un
substrato emotivo la cui eliminazione è ardua.
E questa “zona grigia”, se ha dei limiti stabiliti dalla verificabilità dei
dati quando si parla di Storia in senso stretto, non conosce praticamente confini
nel contesto più propriamente definito d’intrattenimento: dai film “di
evasione” ai videogiochi, senza ignorare il mondo dei fumetti. In questi
territori la licenza è data per scontata (si pensi alle pellicole definite
“nazi-erotiche” degli anni settanta come “Ilsa la belva delle SS”, o
semplicemente alla quadrilogia di Indiana Jones)e ha un pesante valore
propagandistico, data la diffusione e soprattutto la violenza del mezzo: una
stanza buia in cui si rimane immobili, in silenzio, bombardati da musica e
immagini per il cinema, un ipnotico e “automatizzante” isolamento sensoriale
per i videogiochi delle ultime generazioni, un silenzioso e autarchico silenzio
per la lettura di libri o fumetti.
Particolarmente interessante, per l’effetto che può sortire su delle coscienze
in via di sviluppo, è il caso dei videogiochi, vere e proprie
“terre di nessuno”, mondi virtuali non raggiunti dall’occhio di un critico, un
insegnante o un genitore, ma al contempo spaventosamente persuasive e suscettibili
di “educare” un giovane con messaggi reiterati ossessivamente. Il mondo video
ludico è forse quello che ha maggiormente contribuito, negli ultimi trent’anni
alla costituzione di una sorta di superio antinazista, avendo preso per mano
un’intera generazione dalla prima metà degli anni ottanta in poi con le
simulazioni militari in cui è possibile rivivere le esperienze della seconda
guerra mondiale (nella maggioranza dei casi schierati dalla parte dei “buoni”
Alleati), o si deve fermare una qualche fantascientifica rinascita del nazismo
(su tutti l’arcinota saga di Castle of Wolfenstein, nata nell’81 ed evolutasi
di pari passo con l’evoluzione degli home computer, basata su storie
riguardanti i soliti scienziati pazzi al soldo dei nazisti, mostri e eroici
soldati pronti a spazzare via l’ingiustizia dalla faccia della terra).
Anche il mondo dei fumetti non è esente dalla presenza di una forte componente
di condanna del nazionalsocialismo, si pensi soltanto a molti dei fumetti
prodotti dalle due più importanti case editrici americane (Marvel e DC
Comics). Presso la Marvel una delle testate di punta è Capitan America, con
protagonista un supersoldato creato durante la Seconda Guerra Mondiale con
l’uso di sieri (che a onor del vero possono ricordare gli esperimenti attribuiti
al dottor Mengele) per contrastare il nazismo, e non dimentichiamo il Superman
della DC: un apolide alieno che fornisce ai terrestri il proprio aiuto eroico
ed indispensabile, un po’ come la missione che gli ebrei si sono auto
attribuiti. E sono peraltro due ebrei (Jerome Siegel e Joe Shuster)gli autori
che hanno ideato le prime storie del personaggio. Interessante notare come
l’eroe porti sul suo costume, per quanto diversamente mescolati, i colori della
bandiera statunitense, e così pure l’Uomo Ragno, eroe di punta della casa
editrice concorrente. Ma se entrambe le case editrici hanno una tale
vastità, e soprattutto una serializzazione delle testate, che comportano un
avvicendarsi di autori fra i quali di tanto in tanto ne emerge qualcuno non
allineato con la mentalità americano-ebraica (vedansi il Nietzschiano Frank
Miller degli esordi o Alan Moore, meritevole quest’ultimo di aver trasmesso
elementi tradizionali nelle sue opere e messo perennemente in cattiva luce
massoneria e banchieri), non si può dire lo stesso delle realtà più piccole,
quelle che danno alla luce singole opere come il Maus di Art Spiegelmann, un
fumetto sull’olocausto con protagonisti animali antropomorfi. Si è creato un
sottofilone fumettistico interamente dedicato alla divulgazione della cultura
ebraica o di fumetti sull’olocausto. L’Italia non è esente da questo tipo di
fenomeno, tra le importazioni di un imprecisato numero di romanzi a fumetti
scritti da ebrei, e la stesura da parte di autori italiani sulla cultura
ebraica. E’ della Rizzoli la stampa della biografia a fumetti di Anna Frank e
di un imprecisato numero di albi di matrice marcatamente sionista carichi di
umori tragici con l’ombra dell’Olocausto sempre sullo sfondo.
Non dimentichiamo poi il ruolo che ha avuto la Bonelli nella formazione
culturale di tutta l’Italia: prima coi Western (Tex, Zagor, ecc…) che hanno
creato nella mentalità comune il mito della frontiera e del cowboy che si batte
per una pace democratica, poi con periodici d’ambientazione diversa (su tutti
Dylan Dog e Martin Mystere), che hanno propagato in maniera virulenta una
mentalità sinistroide, tendenzialmente laica, antirazzista, buonista, tale da
far apparire quei giornalini per ragazzi e adolescenti come delle appendici
mensili al Manifesto.
I riferimenti espliciti alle vicende del Popolo Eletto non sono sempre
chiaramente ravvisabili nelle opere d’intrattenimento fin qui menzionate
(eccezion fatta, ovviamente per quelle esplicitamente riferite al tema), ma la
mentalità da esse propagata è evidente e riconoscibile. C’è sempre una
ingiustizia molto marcata perpetrata ai danni di un soggetto debole da parte di
un personaggio riconducibile a delle stereotipazioni psicologiche e spesso
estetiche standard cui, per induzione mediatica, finiamo per attribuire, se non
un preciso colore politico, perlomeno una ben definita identità culturale e
caratteriale. E’ su questo meccanismo silenzioso che si impianta il potere
persuasivo delle opere narrative prese qui sommariamente in esame.
Nella nostra natura, in una zona che spetta agli addetti ai lavori se definire
culturale o innata, alberga uno spontaneo senso di giustizia che si manifesta
con una certa intensità se assistiamo ad un atto ingiusto sia esso reale o
rappresentato in una finzione scenica. L’impatto del nostro sentire con la
violenza su un debole o un indifeso suscita sempre un riflesso molto intenso
che scatenerà delle reazioni sia psicologiche sia fisiche di disagio,
repulsione, desiderio di rivalsa, di vendetta o semplicemente pietà nel
senso più moderno della parola.
Ebbene, l’addestramento indotto dai ministeri della pubblica istruzione, da
certo cinema e da certa letteratura, da spettacoli televisivi serializzati
oltre e, come abbiamo appena visto, dalle mostre permanenti sugli orrori
dell’Olocausto (ma non solo questo) ha fatto sì che, nel giro di un paio
di generazioni, sia cresciuta una nuova genia di individui incapaci di avere
reazioni equilibrate essendo stati sottoposti da praticamente ogni parte ad un
bombardamento informativo che si può riassumere in questa frase: “guarda
che cattivi sono quegli individui, sei libero di schifarti, puoi odiarli”. Da
sottolineare come oggi la stessa cosa stia avendo luogo anche nei confronti
della chiesa cattolica e della classe politica, tra scandali e accuse di vario
tipo, reali o meno, perennemente sotto i riflettori della vergogna. E sulla
base di questa esortazione a “guardare”, “giudicare”, e “odiare”, gli
uomini del ventunesimo secolo sanno di poter vivere i propri personali “due
minuti d’odio” dal sapore Orwelliano. Significativo il culto ormai
generalizzato per la legalità in quanto valore, presa come a sé stante e
slegata da significati ulteriori, culto che porta a far giudicare come
“criminale” anche solo un evasore fiscale, figura non certo degna d’encomio, ma
divenuta negli anni uno dei puntaspilli preferiti dei forcaioli di professione,
cosa che peraltro ci dà il polso di quanto il denaro sia salito in cima alla
scala di valori di ogni uomo dell’Occidente (Il denaro, codice dell’uomo,
protetto dal diritto positivo, creato dall’uomo). Ed è indicativo che molti
movimenti vengano definiti sempre in senso negativo: ANTI-razzista,
ANTI-comunista, ANTI-nazista, NO-global, e via elencando, fino ad arrivare al
recente nuovo movimento: quello degli indignados. Ma indignati rispetto a cosa?
Probabilmente neppure loro lo sanno perché l’indignazione è un meccanismo che
entra in atto in presenza di un fenomeno che lo stimola. Senza qualcosa che
susciti tale reazione in negativo, la marmaglia manifestante di fatto non
esiste e non è riconoscibile non avendo una proposta positiva di base, un reale
quadro di riferimento. In poche parole, questo pseudo movimento, così come
quello del cosiddetto Popolo Viola, nato sulle “prestigiosissime ed autorevoli”
pagine di Facebook e Twitter, non ha un nome sensato in quanto di per se stesso
non esiste, ma è in grado di essere “attivato” in presenza di una efficace
campagna giornalistica su qualsiasi argomento legato alle politiche economiche
o una ingiustizia di qualsivoglia tipo, meglio se perpetrata da un politico di
destra o dal clero (e con gli attacchi al clero si lasciano alle spalle pure il
concetto di religione, sempre però senza mai toccare quella ebraica). Se questa
cosa non ricorda le tecniche sciamaniche di zombificazione, gli invasamenti o
le “possessioni”, può essere solo perché si tende a studiare sempre
separatamente fenomeni in realtà contigui, ma a ben vedere cosa altro è se non
una frenesia da invasamento, ciò a cui sono sottoposte queste masse, questo
braccio armato pronto a mettersi al servizio dello stregone politico di turno
in presenza di un comando che viene da una campagna mediatica? Che coscienza di
sé, quale identità può avere un individuo che riesce ad affermarsi solo in
quanto negatore di qualcosa, solo in quanto accusatore, solo in quanto capace
di giudicare negativamente? A ben vedere questo tipo di impostazione mentale è
il punto d’arrivo di quella filosofia firmata da Max Horkeimer che tendeva a
elevare la freudiana ricerca del piacere teorizzata da Freud, quindi
l’individualismo detto in altri termini, in contrapposizione con il senso di
comunità tipico dei nazifascismi.
In pratica la modernità in atto.
Una prospettiva che, se percorsa fino in fondo, porta alle forme di vita
autistiche che oggi già si intravedono nel mondo. So che è possibile avere,
quindi voglio avere, e se non posso avere mi arrabbio (cantava un ispiratissimo
Franco Battiato “le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che
crea falsi miti di progresso”). Questa è la struttura dialettica alla base
delle teorie di certi pseudo movimenti che, in modi diversi, con nomi diversi,
e con modalità diverse, dalle proteste degli anni sessanta ha luogo in
Occidente. A ben vedere certi cachinni sloganistici nascono da una struttura
dialettica interiore che non può non ricordare quella dei capricci di un
bambino, cosa che di fatto è, visto che quella in corso è una infantilizzazione
(anzi, una “adolescenzializzazione”) delle masse che torna a vantaggio di
qualsiasi fornitore di servizi, giacché l’obiettivo finale è ottenere un uomo
innocuo, manipolabile, e valido in quanto capace di produrre reddito, consumare
un numero altissimo di beni, e far crescere l’economia. In fondo per il Talmud
non sono forse i non ebrei definiti come “bestiame”? L’idea che l’evoluzione in
corso stia andando in quella direzione non è poi tanto fantasiosa, soprattutto
alla luce dei moltissimi intellettuali ebrei al lavoro per colpevolizzare ogni
componente virile rimasta nel pensiero occidentale.
E per eliminare ogni identità, per screditare ulteriormente ogni possibile
difesa di un essere umano più austero e vero, più virile, vengono proposte
teorie psicologiche sempre nuove a difesa del “pensiero debole”, o di diretta
condanna di ogni “pensiero forte”. L’idea di fondo è che l’etnocentrismo di
tutte le culture non ebraiche sia una aberrazione patologica che va eliminata,
ma sull’elitarismo ebraico si tace sempre e non si dice nulla. La violenza, il
culto della forza sono condannate e spesso ricondotte a una qualche disfunzione
sessuale (da sempre si punta sulla vergogna della propria identità per
paralizzare e delegittimare). Ma le brutalità e il genocidio in corso in medio
oriente da parte della bestia bicefala Israeliano/statunitense non sono a loro
volta condannate.
La colpevolizzazione di tutto ciò che di fatto rientra in un patrimonio che per
convenzione novecentesca usiamo ancora definire “di destra” è totale e
violentissima, e viene spesso associata a delle dispercezioni di sé, a delle
perversioni sessuali palesi o latenti e sulla base di ciò si parla di
“necessità di rieducare”. Nessun popolo sconfitto più di quello tedesco è stato
accusato di aberrazioni assurde, latenti pulsioni sadomasochistiche e altre
amenità simili che, con parole diverse ma sempre riferite alla sfera sessuale
venivano attribuite ai nemici di chi ha il coltello dalla parte del manico. Si
pensi alle accuse di promiscuità sessuale riferite ai pagani, alle streghe, ai
catari, a qualsiasi tipo di “infedele”. A ben vedere, questo è un trucco
vecchio come il mondo che ancora funziona egregiamente, dati gli scandali
sessuali che oggi coinvolgono preti e politici, scandali di elaborata fattura
atlantica (Berlusconi, Strauss Kann, Clinton) che affondano le radici in una
tradizione che sa esattamente dove colpire per suscitare una reazione censoria
indignata, violenta e spietata.
Ovviamente questi atteggiamenti Torquemadeschi antisessuali scompaiono
completamente lasciando che il sinistro di turno apra le braccia e accolga il
“diverso” quando si parla di omosessualità. In quei casi si condanna
l’omofobia, anch’essa ovviamente attribuita o ad omosessualità latente, oppure
a una insicurezza di fondo e non accettazione del diverso, quindi ricondotta
agli stessi meccanismi alla base di quello che viene, nel senso comunemente
oggi in uso, definito razzismo.
Il problema, come si vede, non è solo di questione politica, di propaganda filo
sionista e umiliazione nella sconfitta, ma pone dei sinistri interrogativi in
materia antropologica sull’evoluzione dell’umanità.
E’ forse questa domanda l’aspetto più inquietante della questione: se un gruppo
di persone, sulla base di una serie di teorizzazioni accademiche (scuole
di Francoforte, Berkeley, Chicago…) che in realtà sono solo l’attualizzazione
in chiave scientifica di tecniche vecchie come il mondo, è stata in grado di
prosciugare delle menti nel giro di tre generazioni, se questo processo di
semplificazione e automazione delle coscienze attraverso lo spettacolo non solo
non si sta arrestando, ma sta subendo accelerazioni che con l’avvento della
telematica e della cultura “da tasto destro” sono diventate vertiginose
all’inverosimile, quale è il fine di questo processo e quali le chiavi per
resistere davanti a un così soverchiante ma purtroppo invisibile dispiegamento
di forze?
La risposta non è semplice perché sono realmente esigue le fonti “altre”
rispetto alla voce “ufficiale” e per ogni voce dissenziente è subito pronto il
bastone per rimettere nei ranghi il ribelle di turno. Lo si vede in materia di
immigrazione, dove non è possibile in alcun modo dire “torniamo indietro e
chiudiamo le frontiere”, persino con la crisi economica in corso e la scarsità
di risorse.
La “doppia morale ebraica” ha una sua chiarissima manifestazione nella strana
posizione assunta nei confronti dell’immigrazione, vera e propria
ossessione attuale per l’Occidente. Se da una parte, infatti, la comunità
ebraica, neppure tanto velatamente, ha sempre mantenuto l’atteggiamento
elitario che la contraddistingue, la sua intellighenzia si è dall’altro lato
sempre prodigata nel promuovere la massima liberalità nei confronti del
fenomeno migratorio, facendosi sostenitrice di ogni “tolleranza”, di ogni
abbattimento di barriere territoriali ed etniche, promuovendo attraverso arte,
comunicazione e teorie sociologiche la più totale apertura tenendo sempre sullo
sfondo le ombre della seconda guerra mondiale coi suoi orrori e il
“martirio del popolo eletto” quale spauracchio ed esempio negativo da non
ripetere.
Il nemico da abbattere è in questa ottica sempre lo stesso: la mentalità
di chi, singolo o gruppo, rivendichi la propria identità di sangue e di suolo,
rivendicazione sempre comunque messa in una luce fanatica, xenofoba,
gretta e violenta, indipendentemente dal fatto che il discorso possa contenere
una idea di rispetto per la diversità.
Quello che viene attaccato, e che viene malignamente presentato come
“razzismo” o “xenofobia” è il concetto di tradizione dove per
“tradizione” si intende, in questa sede, semplicemente il
patrimonio storico, linguistico, religioso, etnico e di suolo di un
popolo.
Discorsi che peraltro, prima della rieducazione avvenuta col secondo
dopoguerra, non erano tabù e ai quali, al contrario, si appellava praticamente
ogni parte politica ad eccezione della internazionale operaia (le stesse
rivendicazioni “socialiste” sudamericane non prescindono mai da una forte
componente nazionalistica, tanto per fare un esempio recente).
Oggi, al contrario, quello che viene sempre tirato in causa in ogni tipo di
discorso, sia esso di argomento prettamente politico o sociologico, è un
antirazzismo militante che vede nell’incrocio, nel meticciato e
nell’annullamento di ogni identità razziale, culturale, storica e territoriale
un imperativo morale, quando non il fine ultimo della Storia. A rincarare la
dose c’è la chiesa cattolica che, con le sue prospettive ecumeniche, le
sue aperture all’altro, e l’indottrinamento dei giovani “papa boys”, sta
creando, anzi ha creato, un allevamento di bovini bipedi.
Cancellato il concetto di eredità storica, annullata ogni differenziazione,
riconosciuto il diritto di “mobilità” ai flussi migratori, quello che resta è
una concezione esclusivamente territoriale del legame sociale, un legame che
può essere riconosciuto solo presso l’ufficio dell’anagrafe, giacché il culto
dei morti, la religione, e tutti i legami “invisibili” sociali sono banditi
sostituiti dal mero status di “cittadino”, nulla a che vedere col “civis” .
Nello status di cittadino, essendo esso una questione meramente burocratica,
ogni soggetto è fattualmente intercambiabile e sostituibile in un modo non
molto dissimile dalla concezione tayloristica dei lavoratori. Da un certo punto
di vista si può ritenere in fase di compimento una sorta di estensione delle
dinamiche della fabbrica a tutti gli aspetti del vivere civile ma la cosa
curiosa è che per molti questa non è una sconfitta, ma al contrario un punto
d’arrivo: l’affermazione di una nuova umanità “mobile” e cangiante, frutto di
una mescolanza di razze e culture apolide e “libera”. La teoria in odor di new
age del “transumanesimo” lavora in questo senso promuovendo una delirante idea
di uomo camaleonte libero di cambiare territorio e regole di appartenenza,
coltivando peraltro anche la poligamia e la poliandria (la prospettiva della “liberazione
sessuale” è la chiave di fidelizzazione che garantisce l’attaccamento ad ogni
pensiero modernista). E su toni meno deliranti si muove un’altra nuova
tendenza. Quella dell’adozione di bambini stranieri, colorati, e i
polveroni sollevati nei confronti di coppie che, al momento di adottare un
bambino, avevano manifestato la volontà di adottarne uno di razza bianca per
timore di eventuali difficoltà di integrazione in un piccolo paese.
Due esempi del genere in Italia. Saltare agli onori della cronaca ed essere
tacciati di razzismo per aver semplicemente manifestato interesse per la
serenità del bimbo di cui ci si vuol prendere cura.
Riconducibile a una mentalità più o meno analoga è l’accoglimento di
personaggi stranieri nel mondo dell’intrattenimento (o rincoglionimento?)
televisivo italiano. Dalle miss alle modelle passando per gli sportivi, mai
come negli ultimi dieci anni si è avuta una invasione di cognomi ed etnie
certamente non oriunde nel nostro Olimpo dello spettacolo e dello sport. L’idea
che il grande occhio della TV così trasmette è quella di una estesa famiglia
multietnica e mescolata. E, dato l’effetto persuasivo che sappiamo avere lo
spettacolo ripetitivo della Tv, sempre più simile ad un salotto di discussione
a cui si partecipa come spettatori passivi, ciò non può che essere lesivo della
coscienza di identità sia linguistica (parlare un italiano biascicato e
impreciso è la prassi per molti di questi personaggi) che etnica e culturale.
E lo scenario da utopia negativa delineato poco sopra in merito alla “nuova
umanità” simile a bestiame, neppure tanto lontano, è solo il risultato finale,
poiché sul breve periodo la dinamica in corso pone un altro ordine più
immediato di problematiche. Se è vero, infatti, che la retorica del politically
correct mira ad educare l’ occidente al culto del “non essere”, è altrettanto
vero che le stesse bocche si ostinano non solo a sbraitare per il
riconoscimento della cittadinanza al maggior numero di “migranti” (sensato, nel
loro quadro di riferimento politico e non), ma addirittura a riconoscere a
questi gli stessi diritti che, se rivendicati da uno stanziale, vengono letti
in negativo e stigmatizzati come segno di intolleranza o razzismo.
…E tutte quelle parole che negli ultimi anni sono diventate le priorità di
chiesa, scuola, organi assistenziali, giornali, spettacolo.
Quello che si viene a ottenere accettando il “diverso” attraverso un
ridimensionamento dei propri valori e della propria identità storica e
territoriale, però, non è il tanto millantato melting pot di razze e culture
che secondo i fautori del cosmopolitismo e del panmixismo porterebbe a un
miglioramento generale, quanto piuttosto un frazionamento dei territori urbani
in ghetti, frazionamento che ha il suo paradigma, le sue “prove generali”, nei
ghetti delle grandi città statunitensi (e che ormai già si rivede pari pari
nelle metropoli italiane, francesi, tedesche), dove le minoranze mantengono ben
salde, le proprie radici, in barba a qualsiasi idea di integrazione, finendo
poi per generare attriti tra le varie comunità, attriti che coinvolgono
anche e soprattutto quella ospitante. E la mancata integrazione genera, per
quel che concerne l’uso della lingua, un altro tipo di problematica che va a
ripercuotersi sulle nuove generazioni, poiché si assiste in questi anni, nella
popolazione scolastica, a uno smarrimento identitario nella mente dei bambini
autoctoni persi in una babele che finisce col rallentare, per gli ovvi problemi
linguistici, lo svolgimento dei programmi ministeriali da parte degli
insegnanti, cosa che ovviamente rende molto più difficile
l’apprendimento.
E’ un problema attuale e di difficile soluzione cui figure macchiettistiche e
poco credibili (come si può prendere sul serio un Borghezio? Come i
rappresentanti della Lega finiscono per fare il gioco opposto a quello che
vorrebbero ottenere).
Al di là dei problemi della scuola, non serve ricordare i vertiginosi
aumenti di criminalità, sia organizzata, sia micro, i cui protagonisti sono in
gran parte, dati giudiziari alla mano, immigrati. Il problema viene
spesso minimizzato dalle sinistre, o peggio interpretato come colpa della
mancata integrazione dovuta alla diffidenza locale, ma è reale, concreto,
attuale. E le cause della “mancata integrazione”, sono forse da ricercarsi
casomai nella (legittima) componente identitaria di chi migra mantenendo il
culto delle proprie origini, e che si vorrebbe noi non avessimo più. Dal
momento in cui l’eredità viene posta non più come un valore da trasmettere, ma
come un disvalore da cancellare, vengono messe in discussione tutte le forme di
legame e convenzione sociale, e possiamo vedere ogni giorno questo processo in
corso nella capricciosa sequela di rivendicazioni che da ogni fonte, dai più
triviali reality show alle più serie riviste di cultura viene vomitata nel
nostro quotidiano. Che il bersaglio sia la morale comune, la famiglia, la
chiesa o lo stato (qualsiasi cosa oggi la parola rappresenti), il messaggio è
sempre lo stesso: bisogna superare le barriere che una gretta tradizione vuole
porre. Chi si fa portatore di valori che definiremo “tradizionali” nel
senso comune del termine, viene sempre e comunque presentato in una luce
estremamente negativa, spesso dileggiato e deriso, così che il messaggio
democratico ne esca ancora più forte. Ma quale è la risultante di un simile
processo teso a cancellare gli importantissimi legami invisibili (ben più
importanti di una carta di identità o un diritto di cittadinanza) degli
occupanti di un territorio? Molto semplicemente, un tipo d’uomo svirilizzato,
consumista, infantilizzato e sostanzialmente vuoto, più simile ad una bestia
d’allevamento che non a una fiera. Un essere programmabile perché “tabula rasa”
dimentica del contesto che lo ha realizzato, un essere adatto all’anonimato
delle case alveare giapponesi o delle aberrazioni estetiche della architettura
sovietica dei tempi che furono. In fondo, ciò a cui mira il concetto di
“globalizzazione”, portato avanti da praticamente ogni paese, non è che questo:
la creazione di un mercato senza barriere o confini abitato da anonimi
ingranaggi della macchina economica.
Non più un uomo, ma un tubo digerente, terminale della macchina economica.
E a tal proposito, che ruolo ha in questo processo l’ebreo? In un certo senso,
l’idea è quella di un “suggeritore” o, se si vuole essere più drammatici, di
“addestratore”. Le case dei goym sono le case degli animali recita con
pochi giri di parole il Talmud.
Da quando tutti i paesi del mondo si sono messi a piangere in coro l’olocausto
celebrando il giorno della memoria, allestendo musei sulla Shoah ovunque, infarcendo
i programmi ministeriali di studi monografici sull’olocausto ed ossessionando
l’umanità con un bombardamento mediatico, continuo e violentissimo,
paragonabile al “metodo Ludovico” del film “arancia meccanica”, gli ebrei hanno
indossato una corona di spine grazie alla quale si sono potuti permettere di
salire sul podio e indossare vesti messianiche assumendo il non richiesto
ruolo di “ispiratori” che impediscano, attraverso il loro esempio, il
riprodursi di simili esperienze nella storia. Non gli armeni (che il correttore
di Microsoft segnala come parola non esistente), non i pochi pellerossa
rimasti. Solo loro: gli ebrei.
Affinché la storia non partorisca un altro “mostro” come il Terzo Reich, dicono
tutti (dal filosofo allo storico, al giornalista liberale), è necessario
aprirsi alla diversità dello straniero e nessuno meglio del popolo eletto, un
popolo senza terra, può insegnare al mondo la via dell’accettazione dell’altro.
Anzi, il loro esilio millenario sarebbe servito proprio a questo:
annunciare il messaggio di fraternità e uguaglianza a tutti gli esseri umani.
E in questa prospettiva torna nuovamente in gioco la doppiezza ebraica: da una
parte l’dea di un popolo senza terra che reca con sé la buona novella e
arricchisce i paesi che lo ospitano, dall’altra la presenza di Israele che,
come una sorta di faro o centro di gravità, ispira la comunità ebraica nel
mondo essendo la manifestazione del regno di Dio sulla terra: un paese che è la
patria per gli ebrei che non ne hanno ed ha un ruolo di ispirazione per tutti i
popoli della terra, ma fonda il suo “equilibrio” sul sangue palestinese.
Così Max Dimont: la storia ebraica consiste in una serie unica di eventi,
casuali o finalistici che siano stati, i quali hanno avuto il pratico effetto
di preservare gli ebrei in quanto ebrei in un “esilio” che permise loro di
compiere la dichiarata missione di annunciare la fraternità di tutti gli esseri
umani. Se tale missione sia stata istituita da Dio o retroattivamente
attribuita a Dio dagli stessi ebrei, ciò non cambia in alcun modo la nostra
tesi di un destino manifesto degli ebrei. Ancor più, noi sosteniamo che lungi
dall’essere una maledizione, l’esilio degli ebrei è una benedizione. Non è una
punizione per i peccati, ma un fattore chiave per la sopravvivenza
dell’ebraismo. Lungi dal condannare gli ebrei all’estinzione, li portò alla
libertà […]Il nostro dramma vuole che se gli ebrei devono adempiere il loro
destino manifesto, devono sopravvivere in esilio tra i non-ebrei per tutto il
tempo necessario. La storia, quindi, deve prevedere un centro nazionalista
ebraico in Palestina per conservare l’identità del messaggero, e centri
universalistici ebraici sparsi nel mondo per diffondere il messaggio.
Fortunatamente, coi profeti assistiamo al sorgere di due di tali centri del
giudaismo, uno universalista in prospettiva, creato per gli ebrei che vogliono
vivere in esilio volontario, l’altro nazionalista in prospettiva, creato per
gli ebrei che vogliono ritornare a Gerusalemme per riaffermare i loro legami
con Sion […] Allora i profeti seminarono i semi per due idealità del giudaismo.
Una è un giudaismo ideologico, universalista for export nella Diaspora, per il
mondo in generale. L’altra è un giudaismo umanistico, nazionalista for domestic
consumption a Sion, per gli ebrei. Consonanti col tema lurianico-cabbalistico
che la redenzione d’Israele annuncerà la redenzione dell’uomo, queste due
correnti profetiche del giudaismo confluiranno un giorno in una sintesi di storia
ebraica e di storia mondiale. Nei secoli, il pendolo della storia ebraica è
destinato ad oscillare tra questi due concetti profetici di nazionalismo
umanistico e universalismo ideologico […] La Scrittura esige la creazione di
due giudaismi: l’uno, governo tra i popoli stranieri, l’altro, fortezza patria
[one a government in exile, the other a homeland citadel]
. Se infatti tutti gli ebrei esiliati tornassero a Gerusalemme, l’intelaiatura diasporica costruita nell’esilio babilonese crollerebbe e l’elezione del Popolo Eletto perderebbe il suo senso. Se, d’altra parte, gli ebrei non tornassero a Gerusalemme, perderebbe senso il nostro dramma, perché non ci sarebbe più Sion a trattenere gli ebrei nell’orbita del giudaismo».
Calabi Zevi: “Da continente bianco e monoculturale l’Europa sta diventando
multirazziale e policulturale. Non è preparata. A noi tocca educare al
pluralismo religioso, etnico, politico e culturale. Nel giro di due o tre
generazioni il nostro continente sta perdendo la sua relativa omogeneità per
diventare multietnico. È ineluttabile che, come nei vasi comunicanti, avvengano
grandi spostamenti di popolazione fra paesi poveri ad alta natalità e paesi
ricchi a bassa natalità. Questo afflusso di persone diverse genera angoscia;
crea il meccanismo del capro espiatorio e un rigetto di chi è percepito come
diverso. L’Europa deve saper controllare le proprie paure istintive e gestire
con intelligenza questa trasformazione, così che diventi un fattore di crescita”.
E ancora:
“Quanti amano la democrazia hanno il compito, e il dovere, di difendere la
memoria, per salvare le future generazioni dagli orrori che la mia generazione
ha dovuto vivere.
Rimbalza sempre più frequente la domanda: gli italiani sono o non sono
antisemiti, sono o non sono razzisti? I due fenomeni hanno radici storiche,
religiose, sociali e culturali diverse, ma rappresentano entrambi,
nell’immaginario collettivo, la “diversità” recepita come una minaccia alla
propria identità. In un’Europa percorsa da grandi flussi di immigrazione e che
sta diventando sempre più multietnica e multiculturale [nonché
“multicriminale”… ci si consenta il termine, giudicato dalla
Bundesverfassungsschutz, la polizia spionistica demotedesca, «spregiativo della
dignità umana» e quindi da bandire in quanto «verfassungsfeindlich,
anticostituzionale», perseguendo con carcere e multe milionarie chi osasse
pronunciarlo], la paura di “perdere il controllo” del proprio territorio può
scatenare meccanismi difensivi-offensivi che tendono a proiettare sui “diversi”
le proprie paure, le proprie difficoltà, la propria aggressività. È un fenomeno
latente in tutti noi, non ci sono da una parte i razzisti e dall’altra gli
antirazzisti. Liberarsene è una conquista quotidiana che si raggiunge
approfondendo la conoscenza dell’altro e scoprendo quanto ci somigli. Le nostre
differenze sono solo epidermiche, a fior di pelle. Il sangue, ovunque, è rosso,
e identiche sono le lacrime di ogni madre che pianga il proprio figlio ucciso.
Poiché la società multiculturale, con le sue differenti lingue, etnie,
religioni, usanze appare come l’unico futuro immaginabile per l’Europa, non ci
resta che rimboccarci le maniche e lavorare insieme perché ciò avvenga con
razionalità e spirito di giustizia. La scuola è, e deve essere, il grande
laboratorio da dove usciranno i cittadini “dalle molte origini” dell’Europa che
sta nascendo.”
Esistono poi delle frange di certa destra (come pure, con ragioni specularmente
opposte, di certa sinistra), che vedono l’islamizzazione d’Europa, il più
scottante e dibattuto tema riguardante l’immigrazione date le problematiche di
integrazione religiosa che comporta, come un fenomeno da salutare con favore in
quanto portatore di valori tradizionali, se non uguali ai nostri, perlomeno
affini da porre in netta contrapposizione con l’americanizzazione imperante. Vi
si vede,in sostanza, una possibilità di resistenza, un argine alla marea
atlantista. A ben vedere, questa è una vera e propria allucinazione collettiva,
una esterofilia provinciale e frivola vissuta con lo stesso atteggiamento
sognante di un bambino che schiaccia il naso contro una vetrina di giocattoli
che non avrà: prima di tutto perché l’unico modo per accogliere quella che è
(perlomeno nei grandi numeri) l’attuale cultura islamica è annullarsi:
l’Occidente è, agli occhi dell’islamico moderno e precipitato, terra di
infedeli da occupare, non certo terra di “fratelli”. Lo dimostra l’ostile
isolazionismo in cui vivono trincerati gran parte degli immigrati provenienti
da paesi di fede islamica. Una vita solo di poco più aperta rispetto a quella
condotta dagli imperscrutabili e ormai onnipresenti cinesi. L’unica forma di
integrazione possibile sarebbe una totale accettazione della loro legge, e non
uno scambio, giacché essi soffrono, pur con una maggiore dignità, di una
patologia da cui sono affetti anche ebrei e cristiani: la convinzione di far
parte di una elite destinata a informare di sé e guidare poi tutto il mondo.
Dovremmo rinunciare a ciò che siamo in qualità di europei. In secondo luogo, (o
per meglio dire in conseguenza di quanto appena detto), proprio questo è il
gioco disgregante voluto dagli strateghi del mondialismo e della
globalizzazione. Rinunciare alle proprie radici (ammesso che esse siano ancora
vive) per accogliere una cultura “altra” è il passo definitivo verso la morte e
aprirebbe scenari che si possono persino prevedere con una certa euristica
precisione. Il punto è che chi viene da un mondo orientato secondo valori
diversi è portatore da una mentalità che non può essere compatibile con quella
che lo accoglie. Valori, ideali, sistemi e prospettive sul mondo, quando troppo
diversi, non sono conciliabili e finiscono col cozzare. La cosa interessante è
che il modernismo a tutti i costi promuove sì questa tolleranza della diversità
e riconosce ipocritamente il diritto al rispetto dei propri costumi, ma poi lo
esclude da certi contesti come quello del formalismo nel mondo del lavoro.
Il presunto “arricchimento culturale” vagheggiato da più parti (non solo, come
spesso si usa ritenere, a sinistra), è una sorta di mito che va ridimensionato,
se non cancellato. Non si è visto, negli ultimi dieci anni, nessun
avvicinamento fra le comunità (islamiche e non) presenti in Europa, al
contrario si è potuta osservare una certa radicalizzazione del separatismo, con
i conseguenti problemi di incomunicabilità sia per questioni linguistiche (se
ti isoli restando tra i tuoi consimili non imparerai mai la lingua del paese
che ti sta ospitando e contribuirai a generare il caos), sia per i costumi.
Ogni tanto salta fuori qualche giornalista che prende ad esempio un piccolo
centro parrocchiale, una comunità laica o qualche circolo culturale presso il
quale sono avvenuti degli “avvicinamenti”. Ma, a parte l’ovvia considerazione
che un singolo caso non può rappresentare l’andazzo generale, vi è poi da
osservare che solitamente in quelle realtà quello che ha luogo si riassume
sempre in due possibili alternative:
a) lo snaturamento dell’immigrato, secolarizzato, cristianizzato o
semplicemente attenuato nei sui tratti caratterizzanti, cosa che di per sé può
avere valore per una convivenza civile e meno aspra ma certamente non rientra
in una idea di arricchimento né per noi né per lui. Da parte nostra è
prepotenza, da parte sua è sconfitta.
b) un’occasionale avvicinamento esclusivamente conoscitivo come una gita allo
zoo che si estrinseca in “gruppi di lavoro”, mostre, conferenze, organizzate
spesso da circoli Arci o da associazioni cattoliche. In buona sostanza una
forma di esotismo estetizzato utile per la stesura di resoconti e le riprese di
un documentario (ri)educativo di Raitre, ma che difficilmente porta ad
ulteriori passi in avanti.
La verità è che culture differenti non possono realmente coesistere se non
mantenendo molto ben chiare le reciproche differenze e, in un contesto sovraffollato
e soprattutto sempre più povero come quello attuale, le suddette differenze
finiscono inevitabilmente col diventare pretesto per conflitti di difficile
risoluzione date le incompatibilità di fondo.
E questa è una considerazione che risponde anche a un’altra argomentazione
tipica con cui si usa difendere il fenomeno dell’immigrazione: quella secondo
cui le migrazioni ci sarebbero sempre state. Ebbene, è difficile immaginare una
possibile analogia fra quello che poteva essere il fenomeno migratorio in un
mondo vergine, poco popolato, non frazionato, non in progressivo impoverimento
di risorse economiche e ormai anche naturali, e quello attuale, sempre più
prossimo al collasso economico e al cataclisma naturale. E a proposito di
collasso è opportuno ricordare come le sinistre no global, nelle loro proteste,
contestino la questione economica ma non quella delle migrazioni, che vi è in
realtà ouroboricamente collegata. Vero è che negli ultimi anni, rispetto ai
tempi in cui la globalizzazione (economica) era il demonio per la sinistra, la
protesta in tal senso si è totalmente attenuata ed è stata riassorbita, tanto
che ormai, ad eccezione di rarissimi casi sicuramente non rilevanti, la
globalizzazione non viene più messa in discussione. Non esiste più, o perlomeno
non ha più un peso politico, una sinistra realmente opposta alla
globalizzazione ed al mondialismo. Oggi sono tutti “indignati” e la parola
d’ordine è casomai “legalità”. Quello che resta sono singole figure
macchiettistiche, autori paranoici, libri più o meno deliranti sulla
cospirazione o il Nuovo Ordine Mondiale i quali, lungi dall’aiutare a venire a
capo della verità, tendono a screditare (volontariamente o meno non è chiaro)
qualsiasi teoria complottista. E’ più facile sentir parlare di razze aliene che
controllano il destino dell’umanità da secoli piuttosto che di dinamiche
politico-economiche.
Quanto al discorso secondo cui sarebbe opportuno, da parte nostra,
accogliere altre genti in virtù del nostro essere a nostra volta stati
“migranti” un secolo fa, si può facilmente obiettare dicendo che 1) non si può
“pagare” per un fenomeno storico che ha interessato persone che non esistono
più 2)ai tempi ogni immigrato era forza lavoro, mentre oggi, nell’epoca delle
macchine, non è affatto scontato che la presenza fisica di un individuo si
trasformi in impiego data l’automatizzazione di molti di quei lavori che un
tempo richiedevano “braccia”, tanto più che oggi si migra alla ricerca di un
generico benessere, non necessariamente di un lavoro. La ricerca del “Paese del
Bengodi”. E infatti la stragrande maggioranza di essi, dati alla mano, finisce
o per essere sfruttata col lavoro nero o (peggio) finisce a rimpolpare le fasce
disagiate divenendo un peso per il paese ospite, quando non va a militare nella
delinquenza più o meno organizzata per poi infoltire la già straripante
popolazione carceraria. Il lavoro nero (o schiavitù), la prostituzione,
la delinquenza (organizzata e non) sono, dati alla mano, la realtà in cui vive
la maggioranza degli immigrati (di fatto vera e propria manovalanza
intercambiabile ed invisibile). E forse, il modo più costruttivo di
aiutare un popolo in difficoltà non è farsi invadere, ma aiutarlo “a casa sua”,
con interventi mirati sul posto, a patto di avere i mezzi per farlo.
L’unico motivo per cui molta sinistra tiene a spingere per la massima apertura
all’immigrazione, è quella di creare nuovi gruppi d’interesse da trasformare in
massa votante, mentre la chiesa ecumenica, tra crisi di fedeli e anche di
vocazioni, non può che cercare di favorire il più possibile l’accoglimento
degli stranieri per non morire e proiettare un’idea mondialista di scuola
Wojtyla.
Le parole che spaventano di più gli addestratori del politically correct,
oggi sono, alla luce di questi problemi, la parola “xenofobia”, oppure
“razzismo” (senza contare l’omofobia, concetto che osiamo definire inventato di
sana pianta, dato che riguarda una sfera che TEORICAMENTE dovrebbe per
definizione non essere conoscibile all’esterno rientrando sotto la cupola del pudore
che dovrebbe avere ogni essere umano in quanto tale, senza contare che
“omofobia” letteralmente, dovrebbe significare “paura del simile”, non certo
dell’omosessuale).
E quella della manipolazione o stravolgimento del linguaggio, è una delle armi
più subdolamente invasive in forze al disegno mondialista che, con
espressioni come “globalizzazione” si pone come obiettivo la “conquista del
mondo”. Tale manipolazione avviene sotto tre aspetti fondamentali:
1.Il prestito di parole inglesi tendenti a creare un gergo, una sorta di
linguaggio tecnico (si pensi ai tanti prestiti in uso nel giornalismo) che può
far venire in mente l’idea della neolingua di 1984 di Orwell.
2. L’attribuzione a determinati vocaboli di significati distanti da
quello etimologico originario, spesso attribuendovi anche dei “valori” positivi
o negativi di stampo moralistico (si pensi solo alla valenza spregiativa
assunta in meno di dieci anni dalla parola “negro”).
3.La confusione intorno al significato di certe parole trasformate in vere e
proprie polisemie.
Se i primi due punti sono tutto sommato riconoscibili senza troppi sforzi da
qualsiasi osservatore che abbia vissuto abbastanza a lungo da assistere a certe
evoluzioni linguistiche e di costume, il terzo, quello della doppiezza o della
molteplicità semantica, passa più inosservato sia perché ne siamo totalmente
imbevuti dato il bombardamento informativo cui siamo sottoposti
quotidianamente, sia perché quell’approccio linguistico ha contaminato tutti
gli ambienti didattici e tendiamo a prendere per linguaggio
“professionistico” proprio quel gergo in cui molte parole sono snaturate del
loro senso.
Non si tratta di un puro e semplice problema di forma, perché il linguaggio,
essendo lo strumento con cui la psiche si relaziona con l’esterno, influenza la
struttura della psiche stessa e, se ambiguo o poco chiaro, non può non finire
con il comprometterne le categorie mentali e dunque pregiudicarne l’analisi del
reale. In altre parole: se distruggo gli strumenti della mente o li corrompo,
impedisco alla mente di lavorare in modo corretto, esprimersi, e sarà più
facile “addestrarmi”.
Interessante, come caso esemplare dell’abuso delle polisemie, è prendere
la coppia di opposti “fascismo/democrazia”.
In questa contrapposizione si può riscontrare quanto detto poco sopra al punto
due e al punto tre (distanza dal significato originario e polisemia).
Nessuna parola è stata abusata, consumata e resa amorfa, consunta più di
“fascismo”.
Dal dopoguerra in poi la parola fascismo è stata del tutto slegata dal suo
significato storico diventando qualcosa di assolutamente nebuloso e
confuso che ha il vago sapore di “autoritario”, violento”, “totalitario”,
sprezzante nei confronti dei più deboli” o più genericamente
“antidemocratico”. Un simbolo del male da affiancare alla parola “Satana”,
ormai desueta a causa della secolarizzazione della cultura.
La valenza con cui si usa la parola “fascismo” è sempre fortemente
negativa e posta in antitesi con “democrazia”, che al contrario identifica il
bene assoluto, il fine, l’ideale finale verso cui ogni esperienza storica
dovrebbe tendere.
Il solo nominare l’una o l’altra parola sortisce nell’individuo una serie di
reazioni che sono il frutto della stratificazione culturale avvenuta grazie
all’uso tutto made in USA della parola. E’ infatti da lì che comincia ad essere
usata la parola “fascist” o “fascism” come termine quasi
onnicomprensivo(onnicomprensivo di tutto ciò che è malvagio od ingiusto), cosa
peraltro valida anche per “nazism”, che subisce l’ulteriore onta di
essere del tutto slegata dal concetto di nazional-socialismo e ridotta alla
propria sola forma contratta dalla quale è difficile risalire all’originale
significato.
E sempre più spesso, persino in contesti accademici, le si utilizza per
identificare non una tendenza politica bensì una “personalità”. Si parla di
“pulsioni fasciste”, di “personalità fasciste” e via discorrendo
contrapponendole al concetto di “democratico”, anch’esso spesso utilizzato in
contesti del tutto avulsi da quello politico, tanto che è spesso usato come
sinonimo di “gentile”, “umano”, “equo”, e via zuccherando.
Le parole “razzismo” e anche “razza” hanno subito a loro volta un simile
stravolgimento tanto che ormai è estremamente raro parlare ancora di “razze
umane” e della loro non uguaglianza. Se lo si fa, lo si fa al singolare,
identificando l’umanità come gruppo unico e l’ibridazione come il fine della
vita stessa. L’idea originaria di razzismo, non era affatto sinonimo di
“discriminazione” come lo è oggi, ma era piuttosto l’identificazione di un tipo
di studio che indagava appunto la “razza” intesa come patrimonio di sangue,
cultura e identità.
Al massimo oggi si può sentir parlare al singolare di “razza umana” , e se si
vuole parlare di differenze ci si riferirà a “diversi popoli” o “differenti
culture”. L’idea di una identità “di sangue e di suolo” è ormai totalmente
tramontata ed esiste solo come esempio negativo di idea obsoleta e
vergognosa, e la stessa parola “popolo” oggi è stata scremata di tutte le
sue connotazioni identitarie e richiama casomai l’uso che ne ha sempre fatto il
marxismo: una idea molto più simile a quella di un volgo indistinto e
impersonale, più riconducibile alla idea suggerita dalla parola “massa” quando
usata un senso spregiativo.
Parlare di mera “evoluzione della lingua” non permette di comprendere quali
siano gli effetti a lungo raggio di questi stravolgimenti che hanno una precisa
valenza strategica non dissimile dal tacere un importante evento storico o
distruggere i simboli del potere di un regime caduto. L’obiettivo è quello di
operare una sorta di lobotomia della cultura, l’eliminazione di una branca, di
un aspetto identitario ritenuto da chi tesse le fila un pericolo per lo status
quo.
E’ di fatto una vera e propria uccisione.
Qualcuno potrebbe liquidare queste osservazioni con una espressione riduttiva
molto in voga negli ultimi anni: “è solamente una questione semantica”.
Ebbene, è esattamente così!
Ma l’avverbio “solamente” è fuorviante,
perché proprio sulla “semantica” si gioca la progettualità rieducatoria in
corso. Stravolgere l’uso dei vocaboli non è mera mutazione di significato ma
anche di significante, con tutto ciò che ovviamente ne consegue a livello
coscienziale.
Sottoporre alle nuove generazioni un questionario in cui le si interroga sul
significato di certe parole come quelle sopra prese in esame riserverebbe
notevoli sorprese, ma ciò non occorre giacché basta tendere l’orecchio a
qualsiasi telegiornale, conversazione fra giovani, leggere i giornali per
osservare non solo che negli ultimi anni le parole d’ordine sono “legalità” e “
democrazia” contro dei nemici definiti quasi sempre come “fascisti” o
“criminali”, “razzisti” o “nazisti”. L’impeto livoroso con cui il giovane
borghese parla dei “fascisti” è talmente carico da far sembrare di
essere in pieno regime.
E questo dà da pensare perché non esiste attualmente un solo politico che non
usi in occidente la parola “democrazia” come obiettivo finale della propria
attività. Né che si permetta di mettere in dubbio il capitalismo stesso, che è
poi il vero regime attualmente in piedi erroneamente definito “fascismo” dalla
massa quando si stacca dal capezzolo e fa i capricci.
E’ opportuno a questo punto fare una piccola digressione sull’origine della
parola “razza” per scremarla dalla strana aura di diffidenza e demonizzazione
che sembra aver investito il suo senso quando la si riferisce agli esseri
umani.
Le ipotesi sull’origine della parola sono due: la prima, la più accreditata, è
che derivi dal latino “ratio” (modo, qualità, natura), e l’uso che se ne fa già
ai tempi di Machiavelli è appunto legato al significato di “sorta”, “specie”,
ma poco per volta assumerà il senso di “stirpe”, dunque “razza” come noi la
intendiamo, trasmettendosi con questo significato anche nelle lingue contermini.
Con la mediazione del francese, la parola si trasmetterà anche nella Gran
Bretagna con la parola race, e sarà pure assorbita dal tedesco.
A metà ottocento il termine è ancora neutro e scarico di qualunque
valenza negativa e viene usato indifferentemente da tutti in tutti i
contesti in un modo che agli occhi moderni può sembrare impensabile dato il
senso assunto oggi.
Lo Zingarelli degli anni settanta per la prima volta in Italia dà un segno, una
valenza negativa alla parola “razzismo”, definendolo come una teoria che esalta
la qualità della razza e la necessità di difenderla mantenendo pura la propria,
evitando commistioni con altre, tenendole in stato di inferiorità.
Già intorno agli anni cinquanta tuttavia la parola assumeva un segno
negativo destinato col tempo ad assumere il carattere che oggi vediamo usato
nel linguaggio comune. Per conseguenza logica anche il vocabolo “razza”,
se riferito all’essere umano, subisce lo stesso trattamento per cui, se un
individuo lo usa in contesti antropologici finisce per far suonare dei
campanellini d’allarme sollevando un coro da massaie di disapprovazione.
Un destino non dissimile ha subito la parola “negro” in Italia.
Da termine che, derivando dl latino niger, individuava gli individui di razza
africana per via della pigmentazione della loro pelle, la parola si è negli
ultimi quindici anni caricata di una valenza negativa che mai nel corso della
nostra storia ha avuto. E’ stato un lavoro operato da teorici dell’informazione
e giornalisti che hanno poco per volta scardinato il senso di una parola del
tutto innocua.
La cosa curiosa è osservare la ragione. In poche parole ci si è lasciati
insegnare dagli statunitensi il modo in cui dovremmo usare la nostra lingua.
Perché?
Perché la “g” compresa fra la “e” e la “r” della parola genera una assonanza
con il vocabolo “nigger”, che negli stati uniti viene utilizzato, in senso
spregiativo, in riferimento agli afroamericani. Si vuole identificare in
“negro” la traduzione letterale di “nigger”. Ma, a parte il fatto che l’uso che
si fa di una parola in una lingua non può influenzarne l’uso in un’altra, la
cosa che, drammaticamente, nessuno ha saputo o voluto ricordare negli ultimi
quindici anni è che il senso letterale della parola nigger non è affatto la
traduzione di “negro” (che al contrario è proprio “negro”,plur.:”nigroes”),
bensì la parola che identifica il bruco nero della rapa. Ed è in questa ottica,
simile a quella con cui noi definiamo “feccia” qualcosa che disprezziamo
profondamente, che la parola negli stati uniti viene usata per offendere
le persone di colore. Quindi quello che ci viene intimato di fare quando ci si
dice che la parola “negro” sarebbe una parolaccia è rinunciarne all’uso di una
nostra parola per la semplice assonanza fonetica con un’offesa in un’altra
lingua. A ben vedere questa cosa non può non suonare grottesca come le scene
farsesche del cinema comico in cui un ignorante traduce non a senso, non
letteralmente, ma per fonetica, un discorso italiano in inglese limitandosi a
troncare le parole con formule del tipo “yes, un poc’”, oppure crede di poter
parlare in spagnolo limitandosi ad aggiungere la desinenza “os” ad ogni parola
italiana che pronuncia. L’errore è nella sostanza dello stesso tipo.
Questa confusione espressiva dà abbastanza chiaramente il polso della
situazione in cui versiamo, situazione di reale “invasione” nel senso di vera e
propria invasione mentale, visto che di fatto non siamo più certi nemmeno della
nostra lingua. Che certe dinamiche si producano spontaneamente o rispondano a dei
precisi intenti teorizzati, è un discorso che merita delle considerazioni a
parte, è tuttavia opportuno ricordare che anche in quest’ultimo caso, la
dinamica posta in essere continua poi spontaneamente ad evolvere, come una
coltura batterica inizialmente realizzata da un biologo, ma poi autosufficiente
nel proprio sviluppo o, esempio forse più calzante, come quella coppia di
conigli che fu importata in Australia da una famiglia inglese e finì per
proliferare autonomamente mettendo in crisi l’agricoltura locale a inizio
secolo non avendo i conigli un nemico naturale in quella terra. Ovviamente
ritenere le scelte semantiche come un insieme separato e non collegato agli
altri non rende giustizia all’allarmante quadro d’insieme.
E’ opportuno infatti ricordare che il linguaggio non è mero segno
linguistico, non è solo “codice di comunicazione”, ma è uno strumento che
permette all’individuo di rapportarsi con la realtà, indagarla, osservarla,
darle un nome e così facendo contribuisce alla costituzione della forma mentis
dell’individuo stesso. Se si priva un soggetto di tale strumento, o gliene si
forniscono di menomati, incompleti, eufemistici, il risultato è una totale o
parziale incapacità di espressione che pregiudica le stesse facoltà cognitive
dell’individuo, una sorta di lobotomia operata attraverso la privazione di un
linguaggio proprio.
Poco per volta sta venendo alla luce una neolingua eufemistica, tecnica, debole
e sostanzialmente inespressiva che non permette un reale rapporto con la realtà
e priva gli individui degli strumenti con cui potrebbero, per esempio,
speculare, discutere, comprendere, e soprattutto protestare.
Interessante a tal proposito è il sempre più incomprensibile linguaggio
dell’economia, diventato ormai linguaggio di prassi per il giornalismo, giacché
l’argomento principe da qualche anno a questa parte è proprio l’economia, croce
per molti, delizia per pochi.
Chi sia digiuno di determinate nozioni si troverà a fare i conti con una serie
di sigle, definizioni, parole straniere confuse insieme in un fritto misto che
lo porterà a non comprendere quali siano i termini del problema. Un po’ come se
l’inconoscibilità del divino fosse stata sostituita dall’inconoscibilità della
macchina economica. Rispetto a certi termini ci si deve abbandonare a una
accettazione fideistica, a meno di non essere degli esperti o degli studiosi in
materia. Questo è un potente mezzo, un reale giogo con cui la stragrande
maggioranza della popolazione viene tenuta nell’ignoranza.
Si tratta di una ben precisa strategia di controllo tesa a “sdentare”
potenziali tigri che potrebbero rivoltarsi contro i detentori dello status quo.
Perché con che mezzi si può contro informare se ogni individuo è sottoposto a
un lavaggio del cervello che lo porta a 1)non conoscere fino in fondo ciò di
cui si sta parlando dato l’asettico tecnicismo di certi vocaboli
2)diffidare di chi fa uso di certe parole ritenute segno di personalità di tipo
negativo?
La risposta è che, pur essendoci gli strumenti tecnici per contro informare,
la maggioranza delle persone è ormai troppo addestrata a diffidare dei
“ribelli” intesi con il senso che Junger dava alla parola. E, a screditare
ulteriormente coloro che si impegnano a pronunciare il loro sacro “NO” e
cercano di portarlo a conoscenza d’altri, c’è la criminalizzazione di certi
concetti e la confusione linguistica, grazie al rumore prodotto intorno a certe
figure accusate spesso di “paranoia complottista”.
Da tempo, in seno al dibattito politico meno terra terra (ma non per questo
necessariamente di rango elevato visto che ormai l’argomento lo toccano tutti)
è in corso il conflitto tra complottisti ed anticomplottisti. Fra chi cioè
ritiene esista un disegno preciso dietro alle dinamiche politico-economiche e
chi ritiene questo tipo di discorso o inutile perché riferito a cose per
definizione inconoscibili, o frutto di semplice fantasia, dietrologia,
paranoia.
A screditare le tesi complottiste, oltre alla quantità di persone che, più o
meno in buona fede, credono a quello che vedono, ritengono che oggetto del
conflitto politico sia effettivamente quello che ci viene mostrato dai canali
ufficiali d’informazione, e hanno una effettiva fiducia nelle istituzioni,
esiste uno sterminato arcipelago di “complottisti all’amatriciana” che
intorbidiscono spaventosamente le acque finendo per screditare chiunque
provi a scervellarsi su cosa davvero accada nella stanza dei bottoni.
Interrogarsi ad alta voce su quali siano le reali dinamiche che si producono
“dietro le quinte” nella politica o nell’economia (parole ormai sostanzialmente
intercambiabili visto che la politica consiste non più nella realizzazione del
buon governo, ma nel semplice “far quadrare i conti nei limiti del possibile
riuscendo anche a trarne dei vantaggi personali”), sebbene sia forse il modo
più naturale di porsi rispetto ai canali ufficiali di informazione , è ormai il
primo passo per farsi consegnare, agli occhi dei più, il certificato di
“paranoico” o, peggio, credulone (il che la dice lunga su dove sia finito il
buonsenso comune visto che dubitare di una notizia di seconda mano, nei
rapporti umani prima ancora che nell’apprendimento di qualsivoglia informazione
cronachistica, è buona norma per qualsiasi persona assennata). Del resto ormai
gli scaffali di tutte le librerie sono invasi da testi che attribuiscono a
razze aliene o satanisti da operetta il controllo del mondo, per cui parlare di
“complotto” fa subito scattare l’allarme che porterà a liquidare il tutto come
baggianate fumettistiche. In alternativa a questi testi tutto sommato politically
correct, vi è poi una certa produzione proveniente da ambienti di una destra
che, inverosimilmente radicata su posizioni semplicistiche e ottuse, è lo
speculare opposto del politically correct (e come questo è assolutamente
fasulla e per molti versi di scuola americana, più vicina a una mentalità da
Klu Klux Klan, figlia di un egoismo tipicamente borghese e del tutto avulsa da
idee di riforma dell’uomo e dello Stato). Tra i flutti di una abnorme
produzione di questo tipo, tra fanatismo estremista, comicità alla Beppe
Grillo, testi ai limiti della fantascienza, e satira da regime,
soffocano quasi in silenzio (o peggio, stracapiti e male interpretati) i più
garbati e sensati interventi televisivi, giornalistici, o saggistici su
argomenti oggettivamente verificabili come il signoraggio bancario, la
Trilaterale, il Bilderberg Group, e via discorrendo. Il risultato è che parlare
di sionismo o dinamiche mirate in seno all’economia equivale a parlare di
alieni. Questo innaturale scetticismo indotto è quantomeno curioso, visto
che, in riferimento alla realtà italiana, gli stessi detrattori del
complottismo ritengono assolutamente naturale ed appurato il ruolo che le logge
massoniche hanno avuto nella storia italiana non solo recente. Si accetta una
prospettiva complottista in merito alla morte di Pasolini, di Enrico Mattei,
Ustica (nei limiti ovviamente di ciò che ci è stato lasciato intravedere),
delle “stragi di stato”, ma non si riconosce la possibilità di un
“complottismo” oltre i confini italici, come se mafia, logge massoniche o
semplici secondi fini fossero una prerogativa del nostro paese al pari della
pizza e del mandolino, non la prassi che da sempre ha contraddistinto la
politica e i suoi intrighi. Persino davanti ai recenti scandali sessuali che
hanno interessato l’Italia (da Marrazzo a Berlusconi) e non solo (vedasi
Strauss-Kahnn) non si è voluto vedere qualcosa che andasse oltre l’immediatezza
dello scoop e lo screditamento politico conseguente, anche quando, come nel
caso dello scandalo Marrazzo, ci sono scappati almeno due morti.
A ben vedere, certa poco credibile spazzatura fantascientifica, serve proprio a
screditare chi cerca di fare un discorso serio e credibile sulla possibilità
che ci sia qualcosa di più di quello che quotidianamente ci dicono i mezzi
d’informazione. Interessante (e molto probabilmente non casuale) che buona
parte di quel tipo di cospirazionismo da operetta in odor di fantascienza che
intorbidisce le acque provenga per la massima parte proprio dai più avanzati
paesi dell’Occidente americanizzato se non dall’America stessa, ovvero
quell’area che ha tutto l’interesse a screditare il cosiddetto complottismo.
Il punto è che, alla luce della velocità con cui oggi è possibile raccogliere
informazioni, pare davvero ridicolo parlare di “complotto” non perché ciò sia
frutto di oscuri e fantasiosi impianti paranoidi, ma per l’esatto contrario: la
parola sta diventando obsoleta ai limiti del ridicolo essendo ormai tutto sotto
la luce del sole, e le dinamiche sono molto più semplici, visibili e per nulla
misteriose di quanto non si voglia pensare. Il non vedere i fili del
burattinaio è solo frutto di un addestramento mediatico che sarebbe facilmente
aggirabile se si mantenesse il “distacco dello studioso” nel rapportarsi coi
comuni canali di informazione.
Il predominio statunitense, ora messo in discussione dalle nuove potenze
economiche ma ancora carico delle pretese egemonico-messianiche che hanno
caratterizzato la politica estera a stelle e strisce e la sua “esportazione di
democrazia”, l’appoggio incondizionato a Israele e l’impossibilità fattuale di
poter lanciare un messaggio a lungo raggio contro questa realtà da parte
di chiunque, sia esso uno storico, un giornalista od un politico, senza essere
bollato con gli epiteti infamanti di “antisemita”, “antidemocratico”,
“nazista” e via discorrendo, sono una realtà esperibile da chiunque si sforzi
di aprire un giornale.
Ha davvero senso parlare di “complotto?”. Non sarebbe forse più corretto, alla
luce dei fatti, parlare casomai di “indirizzo” o strategia, visto che di fatto
nulla è più taciuto e i vantaggi concreti che certi signori conseguono non sono
affatto nascosti, anche se gli interessi dichiarati sono altri? Il fatto che
solo dal Bilderberg, dalla commissione Trilaterale e dal CFR vengano fuori da
decenni le personalità che reggono la politica e l’economia mondiale, il fatto
che le agenzie di rating decidano di fatto la sorte di interi paesi, che le
banche siano istituzioni private che decidono della cosa pubblica, e che
dietro queste ci sia sempre una presenza ebraica con un indirizzo preciso non è
una fantasia, si tratta di informazioni raggiungibili da chiunque si armi, se
non di un libro, di un qualunque motore di ricerca, senza andare a spulciare
oscuri testi, ma solo leggendo tra le righe di innumerevoli articoli di
giornale. Oggi è tutto sotto la luce del sole, è tutto nei monumenti di
Washington, sulla banconota da un dollaro, tutto reperibile senza nessun
passaporto, autorizzazione e parola d’ordine, e viene presentato come una conquista.
Parlare di Nuovo Ordine Mondiale (“novus ordo secolorum” campeggia sulla
banconota da un dollaro sotto un simbolo massonico) fa sorridere gli
interlocutori. E richiama, grazie a una ridicolizzante campagna di
disinformazione (come abbiamo ricordato poco sopra), un immaginario
fantastico fatto di progetti di egemonia da parte di razze aliene, rettiliane,
demoniache o chi più ne ha più ne metta. Ma la globalizzazione cos’è? La
deregulamentation, l’abbattimento dei confini, la libera circolazione delle
merci, la delocalizzazione della manodopera, il mondialismo non sono forse
funzionali ad un “nuovo ordine mondiale” (scritto senza le maiuscole e con un
articolo indeterminativo davanti fa meno sorridere e forse induce qualche
riflessione in più) in cui una anonima (ed indistinta perché priva di identità)
massa è guidata da una regia che non possiamo più definire realmente occulta?
Non hanno forse come obiettivo la “conquista del mondo”,l’esportazione della
democrazia a suon di bombe, la delocalizzazione della manodopera in luoghi dove
costa meno e la gente viene tenuta in uno stato simile alla schiavitù? Cosa
progettavano, in fondo, i malvagi personaggi di certi romanzi per ragazzi?
La globalizzazione, presentata come naturale sbocco della storia dell’umanità,
non è che un mezzo con cui ben precisi gruppi di persone perseguono fini
sfruttando ogni mezzo possibile: dal diritto ai mezzi di comunicazione di
massa, passando persino per molte delle cosiddette controculture spesso
tutt’altro che spontanee e tese o a offrire dei contentini non dissimili dal
panem et circenses, o a creare un humus culturale che può confluire poi in una
mentalità allineata (senza andare a scavare tanto lontano, si pensi alla
carriera di molti “estremisti” che oggi militano nelle schiere dei partiti di
massa perorando cause sostanzialmente borghesi).
In questo quadro il denaro non è più ricchezza, ma uno strumento di controllo
che, posto in cima alla scala dei valori di ogni individuo, finirà (o per
meglio dire ha già finito) per diventare contemporaneamente carota e bastone
per la forza lavoro, ossessione e pensiero fisso come una sorta di chiave che
permette al bestiame carcerato un’ora d’aria. Solo coi soldi, oggi, si può
comprare una momentanea dose di libertà.
Solo un cieco può negare che è in corso da oltre un secolo una vera e propria
guerra a tutto campo tesa all’abbattimento di ogni identità culturale, di ogni
sovranità monetaria e territoriale. Osservando i singoli eventi storici,
concentrandosi con un troppo appassionato intento analitico, concentrandosi sui
“capitoli” come se si stesse osservando un film o un sussidiario
scolastico, è facile non accorgersi di questa condizione, ma una visione
d’insieme alle dinamiche prodottesi, diciamo, dal diciannovesimo secolo in poi,
non può non lasciare intravedere una ben precisa dinamica, un disegno il cui
fine è evidente fino all’imbarazzo e perfettamente dichiarato da pensatori e
politici ebrei che se ne stanno tutt’altro che in sordina.
Curioso osservare come, in un tempo in cui la secolarizzazione è la parola
d’ordine, la Chiesa e l’Islam (come pure qualsiasi forma di trascendenza) sono
messe all’angolo con sorprendente veemenza da ogni uomo “di cultura”
(virgolette d’obbligo, dato quello che oggi viene comunemente identificato come
cultura) che abbia una qualche minima visibilità, pochissime parole
vengano spese contro l’ebraismo e la sua profetica visione del mondo e
soprattutto della Storia intesa come processo di realizzazione del “regno di
Dio” sulla terra. A ciò si aggiunga il fatto che la democrazia (esportata dagli
americani a suon di bombe) è la parola d’ordine di Israele, il faro della
comunità ebraica sparsa per il mondo impegnata alla realizzazione di tale fine.
In questo scenario l’ONU e l’UNESCO hanno un ruolo determinante non perché
emettano provvedimenti vincolanti, ma perché hanno ruolo di propagare una forma
mentis, una scala di valori, un’influenza politica che informa di sé i leader
dei vari paesi che ne fanno parte. Non è tanto nell’attività diretta che l’ONU
agisce, ma nella creazione di una mentalità comune ispirata da valori demo
liberali attualmente al servizio dell’entità che ha vinto la seconda guerra
mondiale.
Scriveva Maurice Bardèche: “A questo punto della nostra analisi vediamo
dispiegarsi davanti ai nostri occhi il panorama del nuovo sistema. È infine una
specie di trasposizione. L’irrevocabilità dei trattati e l’indivisibilità della
pace non ci portano necessariamente alla schiavitù e a tutte le sue
conseguenze: malthusianesimo, controllo, occupazione. Ci abituano invece, e con
dolcezza, a un grado temperato degli stessi fenomeni, a una traduzione
sopportabile di quel vocabolario da schiavi. Non si tratta più di servaggio, ma
d’ingerenza, non di controllo ma di pianificazione, non di malthusianesimo ma
di esportazioni organizzate; ancora meno di occupazione, soltanto invece di
conferenze internazionali le quali sono una specie di consulti medici sulla
nostra temperatura democratica. Intorno al tavolo ci sono tutti; ognuno ha la
sua scheda per votare. Non ci sono vinti e vincitori. La libertà regna e
ciascuno respira non come si respira con un polmone artificiale, ma come si
respira nella cabina d’un batiscafo o di un aerostato dove la quantità di
ossigeno è regolata da un sapiente meccanismo d’immissione. Tutti hanno deposto
all’entrata un certo numero di idee false e di pretese superflue, come i
maomettani depongono le babbucce prima di entrare nella moschea. Tutti sono
liberi, perché ognuno prima di entrare ha giurato dì rispettare in eterno i
principi democratici, ha firmato cioè, prima di ogni altra cosa, un abbonamento
perpetuo alla costituzione degli Stati Uniti.” (Norimberga, ossia la Terra
Promessa- 1949)
Gli stessi decantati “diritti dell’uomo” di cui alla famosa dichiarazione,
presentata su ogni libro di storia come la più sublime conquista dell’umanità,
sono un potentissimo strumento di omologazione e abbattimento del diverso in
quanto non riconoscono la possibilità di un valore non conforme. Si tratta di
diritti congeniali soprattutto all’homo oeconomicus, all’imprenditore, al
borghese, all’occidentale animalizzato nel suo mondo positivista, e tesi al
mantenimento dell’ordine temporaneo e assolutamente contingente che questo
soggetto ha posto in essere nel mondo. La definizione di “universale” riferita
ad un prodotto della contingenza attuale finisce in questo modo per rinnegare
qualsiasi diverso sistema di valori e agire come una pialla su qualsiasi realtà
non omologa che verrà, forte di questo riconoscimento di universalità, “messa
in riga” con ogni mezzo, cosa che di fatto avviene di continuo “grazie” ai
Caschi Blu dell’Onu, perennemente in arrogante “missione di pace” a suon di
bombe in giro per il globo terraqueo.
Non serve la parola “cospirazione”, ormai, dato che gli organi internazionali
agiscono alla la luce del sole col silenzio di tutti, indipendentemente dai
conflitti politici interni a ciascun paese, dibattiti che ovviamente ci sono,
seppure all’interno di un orizzonte borghese e democratico. Un orizzonte che
oggi, certo,davanti alle nuove economie in crescita mostra la corda ma non
ammette altro da sé e con questa scusa sta letteralmente cancellando ogni
possibile “concorrenza” con l’uso sia della forza militare, sia con quello
dell’invasione culturale che nell’ultimo decennio ha dato la sua più energica
spallata ai cervelli grazie alla nascita di Internet.
Considerazioni, queste, fatte senza contare l’aspetto ecologico-ambientale,
spesso tirato in ballo per comodità da alcune sinistre, ma mai realmente
prospettato nella sua apocalittica concretezza.
Quello che forse un tempo era più legittimo definire “complotto” ma che oggi è
lo stato delle cose contro il quale ben pochi protestano è un dispiegamento di
forze su ogni piano del vivere civile: politica, polizia, istruzione,
spettacolo, produzione accademica, informazione, economia. Dal secondo
dopoguerra ad oggi queste entità impersonali hanno lavorato e tutt’ora lavorano
per portare a compimento una guerra contro lo spirito identitario (oggi
europeo, ma presto mondiale, vista la luce in cui i giornali mettono da qualche
anno Chavez), una lotta che ha luogo da duemila anni al servizio della
profetica allucinazione sionista. E’ vero che non è facile districarsi da
questa ragnatela informativo-istituzionale ed è altrettanto vero che chi lo fa
si vede puntato contro l’indice dalle pecore che Orwell descriveva ne “la
fattoria degli animali”, ma è altrettanto vero che, nonostante tutto ciò,
esistono coscienze che per indole o per esperienze personali riescono a
maturare una coscienza autonoma rispetto al Pensiero Unico. E quindi, di tanto
in tanto, compaiono figure non allineate che sicuramente portano del nutrimento
alle menti non del tutto addormentate. Le menti che, colte dal pessimismo,
ritengono irreversibile il processo in corso sbagliano non nel considerare
effettivamente drammatica la velocità della precipitazione attualmente in
corso, ma nel ritenere che non sia possibile, se non invertire il processo in
atto, perlomeno traghettare in mezzo a questo caos dei valori antitetici a
quelli dell’establishment, con l’auspicio che possano germogliare esseri
migliori nei prossimi tempi. Specie alla luce dell’attuale crisi economica, una
vera e propria resa dei conti che potrebbe dare un drammatico scossone allo
stato attuale delle cose. E’ in questa ottica che va organizzata l’unica
possibile risposta alla marea atlantista: resistenza e trasmissione dello
spirito europeo a coloro che verranno.