La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo

“La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo”, di Gianantonio Valli

RIASSUNTO DA “La fine dell’Europa – Il ruolo dell’ebraismo”,  di Gianantonio  Valli
Edizioni Effepi di Genova – 1360  pagine  –  dicembre 2010

I paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale hanno subito, nel corso degli anni, una violentissima e martellante,  azione rieducatoria. Quello  che è stata instillato nei tedeschi,  negli italiani e, negli ultimi anni esteso praticamente a tutte le genti (compresi popoli che non hanno avuto ruolo attivo nella seconda guerra mondiale), è stato un generalizzato e totalizzante senso di colpa per quello che è universalmente noto come “l’olocausto”.  Sono ben pochi i sociologi, teorici della comunicazione,  storici o psicologi che non abbiano speso parole durissime nei confronti non solo del Terzo Reich, ma del popolo tedesco tutto così come ormai non si contano più i numerosi libri che parlano, se non dell’olocausto, almeno di quale sia la grande dignità del popolo ebraico. La rieducazione delle generazioni successive a quella che visse la seconda guerra  mondiale  è stata portata a compimento grazie ad un attacco a trecentosessanta gradi che ha coinvolto tutti i canali d’informazione dall’analisi storica al giornalismo, dalla sociologia alla psicologia, ma quello di gran lunga più persuasivo  è  quello che oggi definiamo non più “dell’arte” ma “dell’intrattenimento” (cinema, spettacoli televisivi, narrativa, musica). Di gran lunga Hollywood è stata una voce tanto influente da modificare i costumi di tutto il mondo omologandoli a quello americano. Non sarebbe insensato definire Hollywood il “Ministero di Cultura e Propaganda” dell’Internazionale ebraica, e il mezzo di cui dispone è dei più efficaci in assoluto, dato il coinvolgimento sinestetico che l’esperienza cinematografica comporta senza fornire necessariamente informazioni vere.
E infatti il cinema, è stato dal dopoguerra ad oggi, il mezzo principe di ogni campagna rieducatoria  a stelle e strisce, non solo concernente in esclusiva i fatti della Seconda Guerra Mondiale. Si pensi soltanto, con riferimento alle tensioni internazionali attuali, quanti siano i personaggi negativi incarnati da attori cinesi o medio orientali, si pensi al periodo maccartista e ai trionfalismi anticomunisti celebrati negli anni ottanta dalle pellicole d’azione, oltre che, ovviamente, alle innumerevoli pellicole sull’olocausto. Va ricordato come, quasi a simbolico battesimo, le prime riprese cinematografiche riguardanti i campi di concentramento nazisti portino la firma di un cineasta di mestiere come Alfred Hitchcock.
E già nel ’47, mentre le macerie d’Europa fumano ancora, cominciano ad uscire le prime pellicole in cui i tedeschi vengono presentati come l’incarnazione del male, alieni a veri eroismi, e sostanzialmente fanatici mentre dall’altra parte (alleati o resistenza), brillano le più elevate virtù guerriere. Ma è nel ’56 che vede luce la prima pellicola a tema esclusivamente olocaustico, tema destinata a dar vita, negli anni, a un vero e proprio genere cinematografico a sé, sganciato ormai completamente dalla definizione di “storico”, tanto che si potrebbe a buon titolo parlare di olo-fiction.
E’ interessante riscontrare come la caratterizzazione dei personaggi tedeschi presenti nelle pellicole americane dedicate alla seconda guerra mondiale risponda a dei modelli ideal-tipici (con palesi fini rieduca tori/didattici) abbastanza stereotipati sia nel fisico che nei tratti caratteriali e riconducibili solitamente a tre distinte categorie: quella isterica e nervosa alla Hitler, quella rozza, spesso grassoccia alla Himmler, o ancora la figura segaligna, silenziosa e sadica un po’ Goebbels un po’ Mengele.  Non sempre presente, ma comunque diffusa è quella del giovane idealista, modellato sulla figura di Rudolf Hess,  che entrerà in crisi di coscienza vedendo la cruda realtà di ciò che è realmente il nazionalsocialismo, decidendo, spesso con un sacrificio, di riscattare i propri “errori”.
Queste” maschere” sono rinvenibili praticamente in ogni film più o meno legato all’immaginario relativo alla seconda guerra mondiale, dalla prova di più alta arte cinematografica alle pellicole più popolari siano esse dei film comunemente definiti “d’azione” od opere con intenti e fruitori di livello più elevato. Qualunque sia il contesto narrativo, è pressoché impossibile trovare soldati tedeschi che manifestino caratteristiche differenti da quelle poc’anzi citate.  A seconda del contesto narrativo possono servire a suscitare orrore nello spettatore, oppure suscitarne il riso quando, in versioni più caricaturali, vengono inserite in contesti comici. Nell’uno o nell’altro caso si tratta sempre di reazioni “di giudizio negativo” che si producono in capo allo spettatore e che sedimenteranno così nella sua coscienza, andando a costituire una base, un substrato di difficile eliminazione. E’ in un certo senso un processo di addestramento non dissimile dall’instillamento del senso del peccato di matrice giudaico cristiana: qualcosa che deposita nel profondo una sorta di pregiudizio latente come un herpes che prima o poi si manifesta. Ed è impensabile qualsiasi levata di scudi per difendere l’intelligenza dello spettatore: questi stereotipi e le pellicole che li accolgono sono intoccabili.
Un esempio che tutti possiamo esperire senza andare troppo lontano lo si ha nella lettura di recensioni  di pellicole a tema olocaustico. Se la critica alla caratterizzazione di un personaggio è uno dei punti focali di ogni recensione, è praticamente impossibile, o perlomeno estremamente difficile vedere tacciata di inverosimiglianza la caratterizzazione di un personaggio nazista in qualche eccessivo “film da giorno del ricordo” . Non è possibile nemmeno imputare  alla sola intellighenzia giudaica questa mentalità, giacché sono innumerevoli anche gli autori non ebrei caratterizzati da questo doppio atteggiamento, siano essi consapevoli o meno del ruolo cui stanno adempiendo. Senza contare che scrivere su un giornale quanto poco credibile sia la caratterizzazione di un nazista in un film può essere il primo passo per farsi identificare come “apologeta del Nazismo”.
Questo genere di stereotipo fa il paio con un’altra arma tutt’altro che banale: quella delle scelte lessicali.
Eclatante, ma non isolato, è il caso della parola  “nazionalsocialismo” ormai universalmente sostituita dalla sua forma contratta: “nazismo”, una parola monca  non direttamente riconducibile ad un modello politico (socialismo nazionale), e che viene comunemente identificata con un generico sistema fondato sull’odio, la paura, la ghettizzazione  e l’intolleranza verso i deboli. Sono moltissimi i film americani (che, piaccia o no, condizionano il linguaggio comune di tutto l’occidente),  in cui si usa la parola “nazista” o “fascista” in contesti  del tutto incoerenti con quello che le due parole, originariamente, significavano.  In soldoni: nazismo(o fascismo)=male.  Non si parla più di politica, ma di una sorta di dimensione spirituale negativa, una qualità umana sinonimo di malvagità. Un nazista non è un individuo interessato a un certo discorso politico, né un militante che ha vissuto negli anni del Terzo Reich in Germania, ma un “cattivo”, nel senso puro e totale che solo i bambini sanno dare a questa parola.
Se questo processo di indottrinamento, per quanto discutibile, è tipico nella prassi dei vincitori di una guerra, e sebbene la produzione di prodotti filmici o letterari da esportazione sia stata già di per sé di enorme portata nei cinquanta anni successivi alla fine della guerra, è con 1993, con l’uscita, cioè dello Spielberghiano Shindler’s list (opera benedetta anche da Bill Clinton che lo dirà la principale ispirazione per l’intervento in Bosnia) , che si passa da una produzione non sistematica, alla canonizzazione di un nuovo tipo di opera, ormai totalmente libera dai paletti della credibilità storica. Da allora, non passerà anno senza che vengano proposti al pubblico almeno un paio di film sull’olocausto, meglio se in concomitanza con le celebrazioni per il giorno della memoria. Curioso che il film venga accreditato come “documento”, quando si tratta della riduzione cinematografica di un romanzo di Thomas Keneally . Come “narrativa” il romanzo è catalogato, e così viene definito all’alba della sua prima edizione, datata 1986. Ma la definizione di “romanzo” viene sostituita dalle parole “opera” o “documento” sulle fascette promozionali in concomitanza con l’uscita del film del ‘93. Per quanto nel nostro Occidente, col superio ormai da anni colonizzato dalla lobby atlantico sionista, il film non abbia suscitato particolari scalpori, in paesi non ancora o non del tutto americanizzati, è stato percepito come una grande manifestazione di odio antitedesco, tanto che il primo ministro malese Mahahtir Mohamad  ravvisò nell’opera  uno strumento di colonizzazione culturale in quanto film che elogiava solo le virtù di un unico popolo e ne vietò l’importazione, ma l’indignazione planetaria e l’accusa di antisemitismo lo costrinsero a ritrattare nel giro di una manciata di mesi.
Interessanti anche le opere di ripulitura ai danni di chiunque abbia preso le distanze dal film, a partire dalla ottantaseienne vedova Shindler che smentì l’esistenza di una lista stilata dal marito, mentre asseriva di essere a conoscenza di una lista in cui si entrava dietro pagamento.  Costretta a vedere più volte il film anche alla presenza di Clinton, finirà, forse per esasperazione, o forse perché ben foraggiata, a sposare la causa del film.
Nel giro di pochissimo, premiato con Golden Globe e Oscar vari, il film diventa un vero e proprio strumento didattico a uso e consumo delle scuole di mezzo mondo, in una sorta di lavaggio del cervello collettivo. La cosa curiosa, è osservare quanto le dichiarazioni degli spettatori usciti dalla sala, dei critici e degli storici spesso confondano “l’accaduto” con “il narrato”, e finiscono col considerare il film (da un punto di vista strettamente tecnico di ottima fattura) un documento. Ancora più significativo è osservare come molte dichiarazioni degli spettatori usciti dalla sala vertano più sull’indignazione, il disprezzo, il risentimento nei confronti dei nazisti (se non proprio del popolo tedesco) che non sulla qualità del film.  Ma l’uscita al cinema e la proposizione nelle scuole è solo l’inizio giacché in più paesi, due anni dopo l’uscita del film, verranno effettuate delle serate a tema con la trasmissione del film senza interruzioni pubblicitarie, preceduto e seguito da dibattiti e documentari sulla Shoah.
L’immedesimazione emotiva è pure il meccanismo su cui fanno leva i musei dell’olocausto spuntanti in un po’ tutto il mondo, persino a due passi da Hiroshima, a suprema beffa della più dolorosa memoria recente del Giappone. L’obiettivo è chiaramente colonizzare le coscienze creando una sorta di “complesso” una sorta di precedente, un peccato originale che possa gravare su tutti dato lo storicamente inedito tentativo di trasformare il lutto di un popolo in un lutto di tutte le genti.

Se le opere artistiche a tema sono tante, e abbiamo visto come oggi  sia sicuramente  un vero e proprio filone letterario/cinematografico quello delle storie a tema olocaustico, può essere interessante fare una digressione su quella che è in un certo senso il capostipite di tutte le opere “popolari” sulla materia e certamente il più noto: il Diario di Anna Frank.
La storia intorno a questo testo è piuttosto torbida e ricca di curiose e poco edificanti vicende giudiziarie che hanno visto protagonista il padre Otto relativamente ai diritti a lui spettanti su opera di intelletto, ma quello che interessa rilevare in questa sede è la violentissima campagna di repressione perpetrata contro chiunque abbia osato sollevare dei dubbi sulla veridicità del documento (dubbio assolutamente legittimo trattandosi di un prodotto letterario la cui vicenda riguardante stesura e ritrovamento è abbastanza rocambolesca e piena di zone  d’ombra)vedendosi poi appioppare l’etichetta di “antisemita”,  anche quando a parlare sono stati tecnici e studiosi di grafologia o di psicologia.
A ciò si aggiunga la reiterata sottrazione dei testi originali , tutelati dalla fondazione “Anna Frank” che  si è occupata di recente di far uscire nuove edizioni aggiornate (?) del “diario” (oggi i diari), a perizie”.
Oltre a ciò, la certezza che ne esistano almeno dieci diverse bozze (due della quali ad opera del padre per eliminare parti scabrose) che sicuramente non aiutano a ritenere degno di fede un testo così rimaneggiato, sempre ammettendone la reale esistenza originale che, data la torbidezza delle acque intorno, meriterebbe perlomeno la possibilità di poterne dubitare l’esistenza.  Nonostante tutto ciò, nonostante il legittimi dubbi, nonostante la consapevolezza che negli anni in cui il testo sarebbe stato scritto in Polonia le biro non fossero arrivate, porre dei semplici interrogativi sulla veridicità delle vicende narrate el’autenticità del testo è costato a molti la reputazione e spese processuali, e di recente si è definito ogni attacco a quell’opera “equivalente a un atto di terrorismo”(Rosellina Balbi).
Negli anni ottanta, quasi a voler rinvigorire la strenua difesa dell’autenticità del diario dimostrando che non si trattava di un caso isolato, si è avuto un florilegio di svariati miracolosi ritrovamenti analoghi, che hanno rimpolpato la schiera di opere di presunte “autentiche” memorie olocaustiche. Dato il volume di quei testi, i rocamboleschi ritrovamenti e le altrettante zone d’ombra sui ritrovamenti stessi o sull’identità degli autori, sono enormi i dubbi relativi alla autenticità di molti di essi come per il loro capostipite.
Di storie più o meno simili, tutelate da editori compiacenti e salutate come testi sacri da un’opinione pubblica appecorata ne sono  state pubblicate moltissime, ma è interessante la vicenda del romanzo “sopravvivere coi lupi” di Miriam Defonseca, storia di una ragazzina ebrea scampata ai campi di concentramento. L’autrice la definisce “autobiografica” fino al 2008, quando le presunte origini ebraiche dalla Defonseca vengono smentite a tutta pagina dai giornali. Le bizzarre argomentazioni addotte dall’autrice per giustificarsi (rifiuto della propria famiglia, dolore, confusione senile), vengono prese per buone dalla critica ufficiale che fa prontamente uscire una nuova edizione dell’opera di fiction storica.
Ed è proprio quest’ultima espressione la chiave di lettura del monumentale impianto narrativo, letterario, cinematografico che si muove intorno all’olocausto. Quello che ormai ci viene mostrato non è documento storico e non è narrativa in senso stretto, ma una sorta di “zona grigia” entro la quale vengono inserite informazioni  difficilmente verificabili o falsificabili tali da creare un substrato emotivo la cui eliminazione è ardua.
E questa “zona grigia”, se ha dei limiti stabiliti dalla verificabilità dei dati quando si parla di Storia in senso stretto, non conosce praticamente confini nel contesto più propriamente definito d’intrattenimento: dai film “di evasione” ai videogiochi, senza ignorare il mondo dei fumetti. In questi territori la licenza è data per scontata (si pensi alle pellicole definite “nazi-erotiche” degli anni settanta come “Ilsa la belva delle SS”, o semplicemente alla quadrilogia di Indiana Jones)e ha un pesante valore propagandistico, data la diffusione e soprattutto la violenza del mezzo: una stanza buia in cui si rimane immobili, in silenzio, bombardati da musica e immagini per il cinema, un ipnotico e “automatizzante” isolamento sensoriale per i videogiochi delle ultime generazioni, un silenzioso e autarchico silenzio per la lettura di libri o fumetti.
Particolarmente interessante, per l’effetto che può sortire su delle coscienze in via di sviluppo,  è il caso dei  videogiochi,  vere e proprie “terre di nessuno”, mondi virtuali non raggiunti dall’occhio di un critico, un insegnante o un genitore, ma al contempo spaventosamente persuasive e suscettibili di “educare” un giovane con messaggi reiterati ossessivamente. Il mondo video ludico è forse quello che ha maggiormente contribuito, negli ultimi trent’anni alla costituzione di una sorta di superio antinazista, avendo preso per mano un’intera generazione dalla prima metà degli anni ottanta in poi con le simulazioni militari in cui è possibile rivivere le esperienze della seconda guerra mondiale (nella maggioranza dei casi schierati dalla parte dei “buoni” Alleati), o si deve fermare una qualche fantascientifica rinascita del nazismo (su tutti l’arcinota saga di Castle of Wolfenstein, nata nell’81 ed evolutasi di pari passo con l’evoluzione degli home computer, basata su storie riguardanti i soliti scienziati pazzi al soldo dei nazisti, mostri e eroici soldati pronti a spazzare via l’ingiustizia dalla faccia della terra).
Anche il mondo dei fumetti non è esente dalla presenza di una forte componente di condanna del nazionalsocialismo, si pensi soltanto a molti dei fumetti prodotti  dalle due più importanti case editrici americane (Marvel e DC Comics). Presso la Marvel una delle testate di punta è Capitan America, con protagonista un supersoldato creato durante la Seconda Guerra Mondiale con l’uso di sieri (che a onor del vero possono ricordare gli esperimenti attribuiti al dottor Mengele) per contrastare il nazismo, e non dimentichiamo il Superman della DC: un apolide alieno che fornisce ai terrestri il proprio aiuto eroico ed indispensabile, un po’ come la missione che gli ebrei si sono auto attribuiti. E sono peraltro due ebrei (Jerome Siegel e Joe Shuster)gli autori che hanno ideato le prime storie del personaggio. Interessante notare come l’eroe porti sul suo costume, per quanto diversamente mescolati, i colori della bandiera statunitense, e così pure l’Uomo Ragno, eroe di punta della casa editrice concorrente.  Ma se entrambe le case editrici hanno una tale vastità, e soprattutto una serializzazione delle testate, che comportano un avvicendarsi di autori fra i quali di tanto in tanto ne emerge qualcuno non allineato con la mentalità americano-ebraica (vedansi il Nietzschiano Frank Miller degli esordi o Alan Moore, meritevole quest’ultimo di aver trasmesso elementi tradizionali nelle sue opere e messo perennemente in cattiva luce massoneria e banchieri), non si può dire lo stesso delle realtà più piccole, quelle che danno alla luce singole opere come il Maus di Art Spiegelmann, un fumetto sull’olocausto con protagonisti animali antropomorfi. Si è creato un sottofilone fumettistico interamente dedicato alla divulgazione della cultura ebraica o di fumetti sull’olocausto. L’Italia non è esente da questo tipo di fenomeno, tra le importazioni di un imprecisato numero di romanzi a fumetti scritti da ebrei, e la stesura da parte di autori italiani sulla cultura ebraica. E’ della Rizzoli la stampa della biografia a fumetti di Anna Frank e di un imprecisato numero di albi di matrice marcatamente sionista carichi di umori tragici con l’ombra dell’Olocausto sempre sullo sfondo.
Non dimentichiamo poi il ruolo che ha avuto la Bonelli nella formazione culturale di tutta l’Italia: prima coi Western (Tex, Zagor, ecc…) che hanno creato nella mentalità comune il mito della frontiera e del cowboy che si batte per una pace democratica, poi con periodici d’ambientazione diversa (su tutti Dylan Dog e Martin  Mystere), che hanno propagato in maniera virulenta una mentalità sinistroide, tendenzialmente laica, antirazzista, buonista, tale da far apparire quei giornalini per ragazzi e adolescenti come delle appendici mensili al Manifesto.
I riferimenti espliciti alle vicende del Popolo Eletto non sono sempre chiaramente ravvisabili nelle opere d’intrattenimento fin qui menzionate (eccezion fatta, ovviamente per quelle esplicitamente riferite al tema), ma la mentalità da esse propagata è evidente e riconoscibile. C’è sempre una ingiustizia molto marcata perpetrata ai danni di un soggetto debole da parte di un personaggio riconducibile a delle stereotipazioni psicologiche e spesso estetiche standard cui, per induzione mediatica, finiamo per attribuire, se non un preciso colore politico, perlomeno una ben definita identità culturale e caratteriale. E’ su questo meccanismo silenzioso che si impianta il potere persuasivo delle opere narrative prese qui sommariamente in esame.
Nella nostra natura, in una zona che spetta agli addetti ai lavori se definire culturale o innata, alberga uno spontaneo senso di giustizia che si manifesta con una certa intensità se assistiamo ad un atto ingiusto sia esso reale o rappresentato in una finzione scenica. L’impatto del nostro sentire con la violenza su un debole o un indifeso suscita sempre un riflesso molto intenso che scatenerà delle reazioni sia psicologiche sia fisiche di disagio, repulsione, desiderio di rivalsa, di vendetta o semplicemente pietà  nel senso più moderno della parola.
Ebbene, l’addestramento indotto dai ministeri della pubblica istruzione, da certo cinema e da certa letteratura, da spettacoli televisivi serializzati oltre e, come abbiamo appena visto, dalle mostre permanenti sugli orrori dell’Olocausto (ma non solo questo) ha fatto sì che,  nel giro di un paio di generazioni, sia cresciuta una nuova genia di individui incapaci di avere reazioni equilibrate essendo stati sottoposti da praticamente ogni parte ad un bombardamento informativo che si può riassumere in questa frase:  “guarda che cattivi sono quegli individui, sei libero di schifarti, puoi odiarli”. Da sottolineare come oggi la stessa cosa stia avendo luogo anche nei confronti della chiesa cattolica e della classe politica, tra scandali e accuse di vario tipo, reali o meno, perennemente sotto i riflettori della vergogna. E sulla base di questa esortazione a “guardare”, “giudicare”,  e “odiare”, gli uomini del ventunesimo secolo sanno di poter vivere i propri personali “due minuti d’odio” dal sapore Orwelliano. Significativo il culto ormai generalizzato per la legalità in quanto valore, presa come  a sé stante e slegata da significati ulteriori, culto che porta a far giudicare come “criminale” anche solo un evasore fiscale, figura non certo degna d’encomio, ma divenuta negli anni uno dei puntaspilli preferiti dei forcaioli di professione, cosa che peraltro ci dà il polso di quanto il denaro sia salito in cima alla scala di valori di ogni uomo dell’Occidente (Il denaro, codice dell’uomo, protetto dal diritto positivo, creato dall’uomo). Ed è indicativo che molti movimenti vengano definiti sempre in senso negativo: ANTI-razzista, ANTI-comunista, ANTI-nazista, NO-global, e via elencando, fino ad arrivare al recente nuovo movimento: quello degli indignados. Ma indignati rispetto a cosa? Probabilmente neppure loro lo sanno perché l’indignazione è un meccanismo che entra in atto in presenza di un fenomeno che lo stimola. Senza qualcosa che susciti tale reazione in negativo, la marmaglia manifestante di fatto non esiste e non è riconoscibile non avendo una proposta positiva di base, un reale quadro di riferimento. In poche parole, questo pseudo movimento, così come quello del cosiddetto Popolo Viola, nato sulle “prestigiosissime ed autorevoli” pagine di Facebook e Twitter, non ha un nome sensato in quanto di per se stesso non esiste, ma è in grado di essere “attivato” in presenza di una efficace campagna giornalistica su qualsiasi argomento legato alle politiche economiche o una ingiustizia di qualsivoglia tipo, meglio se perpetrata da un politico di destra o dal clero (e con gli attacchi al clero si lasciano alle spalle pure il concetto di religione, sempre però senza mai toccare quella ebraica). Se questa cosa non ricorda le tecniche sciamaniche di zombificazione, gli invasamenti o le “possessioni”, può essere solo perché si tende a studiare sempre  separatamente fenomeni in realtà contigui, ma a ben vedere cosa altro è se non una frenesia da invasamento, ciò a cui sono sottoposte queste masse, questo braccio armato pronto a mettersi al servizio dello stregone politico di turno in presenza di un comando che viene da una campagna mediatica? Che coscienza di sé, quale identità può avere un individuo che riesce ad affermarsi solo in quanto negatore di qualcosa, solo in quanto accusatore, solo in quanto capace di giudicare negativamente? A ben vedere questo tipo di impostazione mentale è il punto d’arrivo di quella filosofia firmata da Max Horkeimer che tendeva a elevare la freudiana ricerca del piacere teorizzata da Freud, quindi l’individualismo detto in altri termini, in contrapposizione con il senso di comunità tipico dei nazifascismi.
In pratica la modernità in atto.

Una prospettiva che, se percorsa fino in fondo, porta alle forme di vita autistiche che oggi già si intravedono nel mondo. So che è possibile avere, quindi voglio avere, e se non posso avere mi arrabbio (cantava un ispiratissimo Franco Battiato “le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso”). Questa è la struttura dialettica alla base delle teorie di certi pseudo movimenti che, in modi diversi, con nomi diversi, e con modalità diverse, dalle proteste degli anni sessanta ha luogo in Occidente.  A ben vedere certi cachinni sloganistici nascono da una struttura dialettica interiore che non può non ricordare quella  dei capricci di un bambino, cosa che di fatto è, visto che quella in corso è una infantilizzazione (anzi, una “adolescenzializzazione”) delle masse che torna a vantaggio di qualsiasi fornitore di servizi, giacché l’obiettivo finale è ottenere un uomo innocuo, manipolabile, e valido in quanto capace di produrre reddito, consumare un numero altissimo di beni, e far crescere l’economia. In fondo per il Talmud non sono forse i non ebrei definiti come “bestiame”? L’idea che l’evoluzione in corso stia andando in quella direzione non è poi tanto fantasiosa, soprattutto alla luce dei moltissimi intellettuali ebrei al lavoro per colpevolizzare ogni componente virile rimasta nel pensiero occidentale.
E per eliminare ogni identità, per screditare ulteriormente ogni possibile difesa di un essere umano più austero e vero, più virile, vengono proposte teorie psicologiche sempre nuove a difesa del “pensiero debole”, o di diretta condanna di ogni “pensiero forte”. L’idea di fondo è che l’etnocentrismo di tutte le culture non ebraiche sia una aberrazione patologica che va eliminata, ma sull’elitarismo ebraico si tace sempre e non si dice nulla. La violenza, il culto della forza sono condannate e spesso ricondotte a una qualche disfunzione sessuale (da sempre si punta sulla vergogna della propria identità per paralizzare e delegittimare). Ma le brutalità e il genocidio in corso in medio oriente da parte della bestia bicefala Israeliano/statunitense non sono a loro volta condannate.
La colpevolizzazione di tutto ciò che di fatto rientra in un patrimonio che per convenzione novecentesca usiamo ancora definire “di destra” è totale e violentissima, e viene spesso associata a delle dispercezioni di sé, a delle perversioni sessuali palesi o latenti e sulla base di ciò si parla di “necessità di rieducare”. Nessun popolo sconfitto più di quello tedesco è stato accusato di aberrazioni assurde, latenti pulsioni sadomasochistiche e altre amenità simili che, con parole diverse ma sempre riferite alla sfera sessuale venivano attribuite ai nemici di chi ha il coltello dalla parte del manico. Si pensi alle accuse di promiscuità sessuale riferite ai pagani, alle streghe, ai catari, a qualsiasi tipo di “infedele”. A ben vedere, questo è un trucco vecchio come il mondo che ancora funziona egregiamente, dati gli scandali sessuali che oggi coinvolgono preti e politici, scandali di elaborata fattura atlantica (Berlusconi, Strauss Kann, Clinton) che affondano le radici in una tradizione che sa esattamente dove colpire per suscitare una reazione censoria indignata, violenta e spietata.
Ovviamente questi atteggiamenti Torquemadeschi antisessuali scompaiono completamente lasciando che il sinistro di turno apra le braccia e accolga il “diverso” quando si parla di omosessualità. In quei casi si condanna l’omofobia, anch’essa ovviamente attribuita o ad omosessualità latente, oppure a una insicurezza di fondo e non accettazione del diverso, quindi ricondotta agli stessi meccanismi alla base di quello che viene, nel senso comunemente oggi in uso, definito razzismo.
Il problema, come si vede, non è solo di questione politica, di propaganda filo sionista e umiliazione nella sconfitta, ma pone dei sinistri interrogativi in materia antropologica sull’evoluzione dell’umanità.
E’ forse questa domanda l’aspetto più inquietante della questione: se un gruppo di persone, sulla base di una serie di teorizzazioni accademiche  (scuole di Francoforte, Berkeley, Chicago…) che in realtà sono solo l’attualizzazione in chiave scientifica di tecniche vecchie come il mondo, è stata in grado di prosciugare delle menti nel giro di tre generazioni, se questo processo di semplificazione e automazione delle coscienze attraverso lo spettacolo non solo non si sta arrestando, ma sta subendo accelerazioni che con l’avvento della telematica e della cultura “da tasto destro” sono diventate vertiginose all’inverosimile, quale è il fine di questo processo e quali le chiavi per resistere davanti a un così soverchiante ma purtroppo invisibile dispiegamento di forze?
La risposta non è semplice perché sono realmente esigue le fonti “altre” rispetto alla voce “ufficiale” e per ogni voce dissenziente è subito pronto il bastone per rimettere nei ranghi il ribelle di turno. Lo si vede in materia di immigrazione, dove non è possibile in alcun modo dire “torniamo indietro e chiudiamo le frontiere”, persino con la crisi economica in corso e la scarsità di risorse.
La “doppia morale ebraica” ha una sua chiarissima manifestazione nella strana posizione assunta nei confronti dell’immigrazione,  vera e propria ossessione attuale per l’Occidente. Se da una parte, infatti, la comunità ebraica, neppure tanto velatamente, ha sempre mantenuto l’atteggiamento elitario che la contraddistingue, la sua intellighenzia si è dall’altro lato sempre prodigata nel promuovere la massima liberalità nei confronti del fenomeno migratorio, facendosi sostenitrice  di ogni “tolleranza”, di ogni abbattimento di barriere territoriali ed etniche, promuovendo attraverso arte, comunicazione e teorie sociologiche la più totale apertura tenendo sempre sullo sfondo  le ombre della seconda guerra mondiale  coi suoi orrori e il “martirio del popolo eletto” quale spauracchio ed esempio negativo da non ripetere.
Il nemico da abbattere è in questa ottica sempre lo stesso:  la mentalità di chi, singolo o gruppo, rivendichi la propria identità di sangue e di suolo, rivendicazione sempre  comunque messa in una luce fanatica, xenofoba, gretta e violenta, indipendentemente dal fatto che il discorso possa contenere una idea di rispetto per la diversità.
Quello che viene attaccato, e che viene malignamente  presentato come “razzismo” o “xenofobia” è il concetto di tradizione dove per “tradizione”  si intende, in questa sede, semplicemente il patrimonio  storico, linguistico, religioso,  etnico e di suolo di un popolo.
Discorsi che peraltro, prima della rieducazione avvenuta col secondo dopoguerra, non erano tabù e ai quali, al contrario, si appellava praticamente ogni parte politica ad eccezione della internazionale operaia (le stesse rivendicazioni “socialiste” sudamericane non prescindono mai da una forte componente nazionalistica, tanto per fare un esempio recente).

Oggi, al contrario, quello che viene sempre tirato in causa in ogni tipo di discorso, sia esso di argomento prettamente politico o sociologico, è un antirazzismo militante che vede nell’incrocio, nel meticciato e nell’annullamento di ogni identità razziale, culturale, storica e territoriale un imperativo morale, quando non il fine ultimo della Storia. A rincarare la dose c’è  la chiesa cattolica che, con le sue prospettive ecumeniche, le sue aperture all’altro, e l’indottrinamento dei giovani “papa boys”, sta creando, anzi ha creato,  un allevamento di bovini bipedi.
Cancellato il concetto di eredità storica, annullata ogni differenziazione, riconosciuto il diritto di “mobilità” ai flussi migratori, quello che resta è una concezione esclusivamente territoriale del legame sociale, un legame che può essere riconosciuto solo presso l’ufficio dell’anagrafe, giacché il culto dei morti, la religione, e tutti i legami “invisibili” sociali sono banditi sostituiti dal mero status di “cittadino”, nulla a che vedere col “civis” . Nello status di cittadino, essendo esso una questione meramente burocratica, ogni soggetto è fattualmente intercambiabile e sostituibile in un modo non molto dissimile dalla concezione tayloristica dei lavoratori. Da un certo punto di vista si può ritenere in fase di compimento una sorta di estensione delle dinamiche della fabbrica a tutti gli aspetti del vivere civile ma la cosa curiosa è che per molti questa non è una sconfitta, ma al contrario un punto d’arrivo: l’affermazione di una nuova umanità “mobile” e cangiante, frutto di una mescolanza di razze e culture apolide e “libera”. La teoria in odor di new age del “transumanesimo” lavora in questo senso promuovendo una delirante idea di uomo camaleonte libero di cambiare territorio e regole di appartenenza, coltivando peraltro anche la poligamia e la poliandria (la prospettiva della “liberazione sessuale” è la chiave di fidelizzazione che garantisce l’attaccamento ad ogni pensiero modernista). E su toni meno deliranti si muove un’altra nuova tendenza. Quella dell’adozione di bambini stranieri, colorati,  e i polveroni sollevati nei confronti di coppie che, al momento di adottare un bambino, avevano manifestato la volontà di adottarne uno di razza bianca per timore di eventuali difficoltà di integrazione in un piccolo paese.
Due esempi del genere in Italia. Saltare agli onori della cronaca ed essere tacciati di razzismo per aver semplicemente manifestato interesse per la serenità del bimbo di cui ci si vuol prendere cura.
Riconducibile a una mentalità  più o meno analoga è l’accoglimento di personaggi  stranieri nel mondo dell’intrattenimento (o rincoglionimento?) televisivo italiano. Dalle miss alle modelle passando per gli sportivi, mai come negli ultimi dieci anni si è avuta una invasione di cognomi ed etnie certamente non oriunde nel nostro Olimpo dello spettacolo e dello sport. L’idea che il grande occhio della TV così trasmette è quella di una estesa famiglia multietnica e mescolata. E, dato l’effetto persuasivo che sappiamo avere lo spettacolo ripetitivo della Tv, sempre più simile ad un salotto di discussione a cui si partecipa come spettatori passivi, ciò non può che essere lesivo della coscienza di identità sia linguistica (parlare un italiano biascicato e impreciso è la prassi per molti di questi personaggi) che etnica e culturale.
E lo scenario da utopia negativa delineato poco sopra in merito alla “nuova umanità” simile a bestiame, neppure tanto lontano, è solo il risultato finale, poiché sul breve periodo la dinamica in corso pone un altro ordine più immediato di problematiche. Se è vero, infatti, che la retorica del politically correct mira ad educare l’ occidente al culto del “non essere”, è altrettanto vero che le stesse bocche si ostinano non solo a sbraitare per il riconoscimento della cittadinanza al maggior numero di “migranti” (sensato, nel loro quadro di riferimento politico e non), ma addirittura a riconoscere a questi gli stessi diritti che, se rivendicati da uno stanziale, vengono letti in negativo e stigmatizzati come segno di intolleranza o razzismo.
…E tutte quelle parole che negli ultimi anni sono diventate le priorità di chiesa, scuola, organi assistenziali, giornali, spettacolo.
Quello che si viene a ottenere accettando il “diverso” attraverso un ridimensionamento dei propri valori e della propria identità storica e territoriale, però, non è il tanto millantato melting pot di razze e culture che secondo i fautori del cosmopolitismo e del panmixismo porterebbe a un  miglioramento generale, quanto piuttosto un frazionamento dei territori urbani in ghetti, frazionamento che ha il suo paradigma, le sue “prove generali”, nei ghetti delle grandi città statunitensi (e che ormai già si rivede pari pari nelle metropoli italiane, francesi, tedesche), dove le minoranze mantengono ben salde, le proprie radici, in barba a qualsiasi idea di integrazione, finendo poi per generare attriti  tra le varie comunità, attriti che coinvolgono anche e soprattutto quella ospitante. E la mancata integrazione genera, per quel che concerne l’uso della lingua, un altro tipo di problematica che va a ripercuotersi sulle nuove generazioni, poiché si assiste in questi anni, nella popolazione scolastica, a uno smarrimento identitario nella mente dei bambini autoctoni persi in una babele che finisce col rallentare, per gli ovvi problemi linguistici,  lo svolgimento dei programmi ministeriali da parte degli insegnanti, cosa che ovviamente  rende molto più difficile l’apprendimento.
E’ un problema attuale e di difficile soluzione cui figure macchiettistiche e poco credibili (come si può prendere sul serio un Borghezio? Come i rappresentanti della Lega finiscono per fare il gioco opposto a quello che vorrebbero ottenere).

Al di là dei problemi della scuola, non serve ricordare i vertiginosi aumenti di criminalità, sia organizzata, sia micro, i cui protagonisti sono in gran parte, dati giudiziari alla mano,  immigrati. Il problema viene spesso minimizzato dalle sinistre, o peggio interpretato come colpa della mancata integrazione dovuta alla diffidenza locale, ma è reale, concreto,  attuale. E le cause della “mancata integrazione”, sono forse da ricercarsi casomai nella (legittima) componente identitaria di chi migra mantenendo il culto delle proprie origini, e che si vorrebbe noi non avessimo più. Dal momento in cui l’eredità viene posta non più come un valore da trasmettere, ma come un disvalore da cancellare, vengono messe in discussione tutte le forme di legame e convenzione sociale, e possiamo vedere ogni giorno questo processo in corso nella capricciosa sequela di rivendicazioni che da ogni fonte, dai più triviali reality show alle più serie riviste di cultura viene vomitata nel nostro quotidiano. Che il bersaglio sia la morale comune, la famiglia, la chiesa o lo stato (qualsiasi cosa oggi la parola rappresenti), il messaggio è sempre lo stesso: bisogna superare le barriere che una gretta tradizione vuole porre.  Chi si fa portatore di valori che definiremo “tradizionali” nel senso comune del termine, viene sempre e comunque presentato in una luce estremamente negativa, spesso dileggiato e deriso, così che il messaggio democratico ne esca ancora più forte. Ma quale è la risultante di un simile processo teso a cancellare gli importantissimi legami invisibili (ben più importanti di una carta di identità o un diritto di cittadinanza) degli occupanti di un territorio? Molto semplicemente, un tipo d’uomo svirilizzato, consumista, infantilizzato e sostanzialmente vuoto, più simile ad una bestia d’allevamento che non a una fiera. Un essere programmabile perché “tabula rasa” dimentica del contesto che lo ha realizzato, un essere adatto all’anonimato delle case alveare giapponesi o delle aberrazioni estetiche della architettura sovietica dei tempi che furono.  In fondo, ciò a cui mira il concetto di “globalizzazione”, portato avanti da praticamente ogni paese, non è che questo: la creazione di un mercato senza barriere  o confini abitato da anonimi ingranaggi  della macchina economica.
Non più un uomo, ma un tubo digerente, terminale della macchina economica.
E a tal proposito, che ruolo ha in questo processo l’ebreo? In un certo senso, l’idea è quella di un “suggeritore” o, se si vuole essere più drammatici, di “addestratore”.  Le case dei goym sono le case degli animali recita con pochi giri di parole il Talmud.
Da quando tutti i paesi del mondo si sono messi a piangere in coro l’olocausto celebrando il giorno della memoria, allestendo musei sulla Shoah ovunque, infarcendo i programmi ministeriali di studi monografici sull’olocausto ed ossessionando l’umanità con un bombardamento mediatico, continuo e violentissimo, paragonabile al “metodo Ludovico” del film “arancia meccanica”, gli ebrei hanno indossato una corona di spine grazie alla quale si sono potuti permettere di salire sul podio e indossare vesti  messianiche assumendo il non richiesto ruolo di  “ispiratori” che impediscano, attraverso il loro esempio, il riprodursi di simili esperienze nella storia. Non gli armeni (che il correttore di Microsoft segnala come parola non esistente), non i pochi pellerossa rimasti. Solo loro: gli ebrei.
Affinché la storia non partorisca un altro “mostro” come il Terzo Reich, dicono tutti (dal filosofo allo storico, al giornalista liberale),  è necessario aprirsi alla diversità dello straniero e nessuno meglio del popolo eletto, un popolo senza terra, può insegnare al mondo la via dell’accettazione dell’altro. Anzi, il loro esilio millenario sarebbe servito proprio a  questo: annunciare il messaggio di fraternità e uguaglianza a tutti gli esseri umani.
E in questa prospettiva torna nuovamente in gioco la doppiezza ebraica: da una parte l’dea di un popolo senza terra che reca con sé la buona novella e arricchisce i paesi che lo ospitano, dall’altra la presenza di Israele che, come una sorta di faro o centro di gravità, ispira la comunità ebraica nel mondo essendo la manifestazione del regno di Dio sulla terra: un paese che è la patria per gli ebrei che non ne hanno ed ha un ruolo di ispirazione per tutti i popoli della terra, ma fonda il suo “equilibrio” sul sangue palestinese.
Così Max Dimont: la storia ebraica consiste in una serie unica di eventi, casuali o finalistici che siano stati, i quali hanno avuto il pratico effetto di preservare gli ebrei in quanto ebrei in un “esilio” che permise loro di compiere la dichiarata missione di annunciare la fraternità di tutti gli esseri umani. Se tale missione sia stata istituita da Dio o retroattivamente attribuita a Dio dagli stessi ebrei, ciò non cambia in alcun modo la nostra tesi di un destino manifesto degli ebrei. Ancor più, noi sosteniamo che lungi dall’essere una maledizione, l’esilio degli ebrei è una benedizione. Non è una punizione per i peccati, ma un fattore chiave per la sopravvivenza dell’ebraismo. Lungi dal condannare gli ebrei all’estinzione, li portò alla libertà […]Il nostro dramma vuole che se gli ebrei devono adempiere il loro destino manifesto, devono sopravvivere in esilio tra i non-ebrei per tutto il tempo necessario. La storia, quindi, deve prevedere un centro nazionalista ebraico in Palestina per conservare l’identità del messaggero, e centri universalistici ebraici sparsi nel mondo per diffondere il messaggio. Fortunatamente, coi profeti assistiamo al sorgere di due di tali centri del giudaismo, uno universalista in prospettiva, creato per gli ebrei che vogliono vivere in esilio volontario, l’altro nazionalista in prospettiva, creato per gli ebrei che vogliono ritornare a Gerusalemme per riaffermare i loro legami con Sion […] Allora i profeti seminarono i semi per due idealità del giudaismo. Una è un giudaismo ideologico, universalista for export nella Diaspora, per il mondo in generale. L’altra è un giudaismo umanistico, nazionalista for domestic consumption a Sion, per gli ebrei. Consonanti col tema lurianico-cabbalistico che la redenzione d’Israele annuncerà la redenzione dell’uomo, queste due correnti profetiche del giudaismo confluiranno un giorno in una sintesi di storia ebraica e di storia mondiale. Nei secoli, il pendolo della storia ebraica è destinato ad oscillare tra questi due concetti profetici di nazionalismo umanistico e universalismo ideologico […] La Scrittura esige la creazione di due giudaismi: l’uno, governo tra i popoli stranieri, l’altro, fortezza patria

[one a government in exile, the other a homeland citadel]

. Se infatti tutti gli ebrei esiliati tornassero a Gerusalemme, l’intelaiatura diasporica costruita nell’esilio babilonese crollerebbe e l’elezione del Popolo Eletto perderebbe il suo senso. Se, d’altra parte, gli ebrei non tornassero a Gerusalemme, perderebbe senso il nostro dramma, perché non ci sarebbe più Sion a trattenere gli ebrei nell’orbita del giudaismo».

Calabi Zevi: “Da continente bianco e monoculturale l’Europa sta diventando multirazziale e policulturale. Non è preparata. A noi tocca educare al pluralismo religioso, etnico, politico e culturale. Nel giro di due o tre generazioni il nostro continente sta perdendo la sua relativa omogeneità per diventare multietnico. È ineluttabile che, come nei vasi comunicanti, avvengano grandi spostamenti di popolazione fra paesi poveri ad alta natalità e paesi ricchi a bassa natalità. Questo afflusso di persone diverse genera angoscia; crea il meccanismo del capro espiatorio e un rigetto di chi è percepito come diverso. L’Europa deve saper controllare le proprie paure istintive e gestire con intelligenza questa trasformazione, così che diventi un fattore di crescita”.
E ancora:
“Quanti amano la democrazia hanno il compito, e il dovere, di difendere la memoria, per salvare le future generazioni dagli orrori che la mia generazione ha dovuto vivere.
Rimbalza sempre più frequente la domanda: gli italiani sono o non sono antisemiti, sono o non sono razzisti? I due fenomeni hanno radici storiche, religiose, sociali e culturali diverse, ma rappresentano entrambi, nell’immaginario collettivo, la “diversità” recepita come una minaccia alla propria identità. In un’Europa percorsa da grandi flussi di immigrazione e che sta diventando sempre più multietnica e multiculturale [nonché “multicriminale”… ci si consenta il termine, giudicato dalla Bundesverfassungsschutz, la polizia spionistica demotedesca, «spregiativo della dignità umana» e quindi da bandire in quanto «verfassungsfeindlich, anticostituzionale», perseguendo con carcere e multe milionarie chi osasse pronunciarlo], la paura di “perdere il controllo” del proprio territorio può scatenare meccanismi difensivi-offensivi che tendono a proiettare sui “diversi” le proprie paure, le proprie difficoltà, la propria aggressività. È un fenomeno latente in tutti noi, non ci sono da una parte i razzisti e dall’altra gli antirazzisti. Liberarsene è una conquista quotidiana che si raggiunge approfondendo la conoscenza dell’altro e scoprendo quanto ci somigli. Le nostre differenze sono solo epidermiche, a fior di pelle. Il sangue, ovunque, è rosso, e identiche sono le lacrime di ogni madre che pianga il proprio figlio ucciso. Poiché la società multiculturale, con le sue differenti lingue, etnie, religioni, usanze appare come l’unico futuro immaginabile per l’Europa, non ci resta che rimboccarci le maniche e lavorare insieme perché ciò avvenga con razionalità e spirito di giustizia. La scuola è, e deve essere, il grande laboratorio da dove usciranno i cittadini “dalle molte origini” dell’Europa che sta nascendo.”
Esistono poi delle frange di certa destra (come pure, con ragioni specularmente opposte, di certa sinistra), che vedono l’islamizzazione d’Europa, il più scottante e dibattuto tema riguardante l’immigrazione date le problematiche di integrazione religiosa che comporta, come un fenomeno da salutare con favore in quanto portatore di valori tradizionali, se non uguali ai nostri, perlomeno affini da porre in netta contrapposizione con l’americanizzazione imperante. Vi si vede,in sostanza, una possibilità di resistenza, un argine alla marea  atlantista. A ben vedere, questa è una vera e propria allucinazione collettiva, una esterofilia provinciale e frivola vissuta con lo stesso atteggiamento sognante di un bambino che schiaccia il naso contro una vetrina di giocattoli che non avrà: prima di tutto perché l’unico modo per accogliere quella che è (perlomeno nei grandi numeri) l’attuale cultura islamica è annullarsi: l’Occidente è, agli occhi dell’islamico moderno e precipitato, terra di infedeli da occupare, non certo terra di “fratelli”. Lo dimostra l’ostile isolazionismo in cui vivono trincerati gran parte degli immigrati provenienti da paesi di fede islamica. Una vita solo di poco più aperta rispetto a quella condotta dagli imperscrutabili e ormai onnipresenti cinesi. L’unica forma di integrazione possibile sarebbe una totale accettazione della loro legge, e non uno scambio, giacché essi soffrono, pur con una maggiore dignità, di una patologia da cui sono affetti anche ebrei e cristiani: la convinzione di far parte di una elite destinata a informare di sé e guidare poi tutto il mondo. Dovremmo rinunciare a ciò che siamo in qualità di europei. In secondo luogo, (o per meglio dire in conseguenza di quanto appena detto), proprio questo è il gioco disgregante voluto dagli strateghi del mondialismo e della globalizzazione. Rinunciare alle proprie radici (ammesso che esse siano ancora vive) per accogliere una cultura “altra” è il passo definitivo verso la morte e aprirebbe scenari che si possono persino prevedere con una certa euristica precisione. Il punto è che chi viene da un mondo orientato secondo valori diversi è portatore da una mentalità che non può essere compatibile con quella che lo accoglie. Valori, ideali, sistemi e prospettive sul mondo, quando troppo diversi, non sono conciliabili e finiscono col cozzare. La cosa interessante è che il modernismo a tutti i costi promuove sì questa tolleranza della diversità e riconosce ipocritamente il diritto al rispetto dei propri costumi, ma poi lo esclude da certi contesti come quello del formalismo nel mondo del lavoro.
Il presunto “arricchimento culturale” vagheggiato da più parti (non solo, come spesso si usa ritenere, a sinistra), è una sorta di mito che va ridimensionato, se non cancellato. Non si è visto, negli ultimi dieci anni, nessun avvicinamento fra le comunità (islamiche e non) presenti in Europa, al contrario si è potuta osservare una certa radicalizzazione del separatismo, con i conseguenti problemi di incomunicabilità sia per questioni linguistiche (se ti isoli restando tra i tuoi consimili non imparerai mai la lingua del paese che ti sta ospitando e contribuirai a generare il caos), sia per i costumi. Ogni tanto salta fuori qualche giornalista che prende ad esempio un piccolo centro parrocchiale, una comunità laica o qualche circolo culturale presso il quale sono avvenuti degli “avvicinamenti”. Ma, a parte l’ovvia considerazione che un singolo caso non può rappresentare l’andazzo generale, vi è poi da osservare che solitamente in quelle realtà quello che ha luogo si riassume sempre in due possibili alternative:
a) lo snaturamento dell’immigrato, secolarizzato, cristianizzato o semplicemente attenuato nei sui tratti caratterizzanti, cosa che di per sé può avere valore per una convivenza civile e meno aspra ma certamente non rientra in una idea di arricchimento né per noi né per lui. Da parte nostra è prepotenza, da parte sua è sconfitta.
b) un’occasionale avvicinamento esclusivamente conoscitivo come una gita allo zoo che si estrinseca in “gruppi di lavoro”, mostre, conferenze, organizzate spesso da circoli Arci o da associazioni cattoliche. In buona sostanza una forma di esotismo estetizzato utile per la stesura di resoconti e le riprese di un documentario (ri)educativo di Raitre, ma che difficilmente porta ad ulteriori passi in avanti.

La verità è che culture differenti non possono realmente coesistere se non mantenendo molto ben chiare le reciproche differenze e, in un contesto sovraffollato e soprattutto sempre più povero come quello attuale, le suddette differenze finiscono inevitabilmente col diventare pretesto per conflitti di difficile risoluzione date le incompatibilità di fondo.
E questa è una considerazione che risponde anche a un’altra argomentazione tipica con cui si usa difendere il fenomeno dell’immigrazione: quella secondo cui le migrazioni ci sarebbero sempre state. Ebbene, è difficile immaginare una possibile analogia fra quello che poteva essere il fenomeno migratorio in un mondo vergine, poco popolato, non frazionato, non in progressivo impoverimento di risorse economiche e ormai anche naturali, e quello attuale, sempre più prossimo al collasso economico e al cataclisma naturale. E a proposito di collasso è opportuno ricordare come le sinistre no global, nelle loro proteste, contestino la questione economica ma non quella delle migrazioni, che vi è in realtà ouroboricamente collegata. Vero è che negli ultimi anni, rispetto ai tempi in cui la globalizzazione (economica) era il demonio per la sinistra, la protesta in tal senso si è totalmente attenuata ed è stata riassorbita, tanto che ormai, ad eccezione di rarissimi casi sicuramente non rilevanti, la globalizzazione non viene più messa in discussione. Non esiste più, o perlomeno non ha più un peso politico, una sinistra realmente opposta alla globalizzazione ed al mondialismo. Oggi sono tutti “indignati” e la parola d’ordine è casomai “legalità”. Quello che resta sono singole figure macchiettistiche, autori paranoici, libri più o meno deliranti sulla cospirazione o il Nuovo Ordine Mondiale i quali, lungi dall’aiutare a venire a capo della verità, tendono a screditare (volontariamente o meno non è chiaro) qualsiasi teoria complottista. E’ più facile sentir parlare di razze aliene che controllano il destino dell’umanità da secoli piuttosto che di dinamiche politico-economiche.

Quanto al discorso secondo cui sarebbe opportuno, da parte nostra, accogliere altre genti in virtù del nostro essere a nostra volta stati “migranti” un secolo fa, si può facilmente obiettare dicendo che 1) non si può “pagare” per un fenomeno storico che ha interessato persone che non esistono più 2)ai tempi ogni immigrato era forza lavoro, mentre oggi, nell’epoca delle macchine, non è affatto scontato che la presenza fisica di un individuo si trasformi in impiego data l’automatizzazione di molti di quei lavori che un tempo richiedevano “braccia”, tanto più che oggi si migra alla ricerca di un generico benessere, non necessariamente di un lavoro. La ricerca del “Paese del Bengodi”. E infatti la stragrande maggioranza di essi, dati alla mano, finisce o per essere sfruttata col lavoro nero o (peggio) finisce a rimpolpare le fasce disagiate divenendo un peso per il paese ospite, quando non va a militare nella delinquenza più o meno organizzata per poi infoltire la già straripante popolazione carceraria. Il lavoro nero (o schiavitù), la prostituzione,  la delinquenza (organizzata e non) sono, dati alla mano, la realtà in cui vive la maggioranza degli immigrati (di fatto vera e propria manovalanza intercambiabile ed invisibile).  E forse, il modo più costruttivo di aiutare un popolo in difficoltà non è farsi invadere, ma aiutarlo “a casa sua”, con interventi mirati sul posto, a patto di avere i mezzi per farlo.
L’unico motivo per cui molta sinistra tiene a spingere per la massima apertura all’immigrazione, è quella di creare nuovi gruppi d’interesse da trasformare in massa votante, mentre la chiesa ecumenica, tra crisi di fedeli e anche di vocazioni, non può che cercare di favorire il più possibile l’accoglimento degli stranieri per non morire e proiettare un’idea mondialista di scuola Wojtyla.
Le parole che spaventano di più gli addestratori del politically correct,  oggi sono, alla luce di questi problemi, la parola “xenofobia”, oppure “razzismo” (senza contare l’omofobia, concetto che osiamo definire inventato di sana pianta, dato che riguarda una sfera che TEORICAMENTE dovrebbe per definizione non essere conoscibile all’esterno rientrando sotto la cupola del pudore che dovrebbe avere ogni essere umano in quanto tale, senza contare che “omofobia” letteralmente, dovrebbe significare “paura del simile”, non certo dell’omosessuale).
E quella della manipolazione o stravolgimento del linguaggio, è una delle armi più subdolamente invasive in forze al disegno  mondialista che, con espressioni come “globalizzazione” si pone come obiettivo la “conquista del mondo”. Tale manipolazione avviene sotto tre aspetti fondamentali:
1.Il prestito di parole inglesi tendenti a creare un gergo, una sorta di linguaggio tecnico (si pensi ai tanti prestiti in uso nel giornalismo) che può far venire in mente l’idea della neolingua di 1984 di Orwell.
2. L’attribuzione a determinati vocaboli  di significati distanti da quello etimologico originario, spesso attribuendovi anche dei “valori” positivi o negativi di stampo moralistico (si pensi solo alla valenza spregiativa  assunta in meno di dieci anni dalla parola “negro”).
3.La confusione intorno al significato di certe parole trasformate in vere e proprie polisemie.
Se i primi due punti sono tutto sommato riconoscibili senza troppi sforzi da qualsiasi osservatore che abbia vissuto abbastanza a lungo da assistere a certe evoluzioni linguistiche e di costume, il terzo, quello della doppiezza o della molteplicità semantica, passa più inosservato sia perché ne siamo totalmente imbevuti dato il bombardamento informativo cui siamo sottoposti quotidianamente, sia perché quell’approccio linguistico ha contaminato tutti gli ambienti didattici e tendiamo a  prendere per linguaggio “professionistico” proprio quel gergo in cui molte parole sono snaturate del loro senso.
Non si tratta di un puro e semplice problema di forma, perché il linguaggio, essendo lo strumento con cui la psiche si relaziona con l’esterno, influenza la struttura della psiche stessa e, se ambiguo o poco chiaro, non può non finire con il comprometterne le categorie mentali e dunque pregiudicarne l’analisi del reale. In altre parole:  se distruggo gli strumenti della mente o li corrompo, impedisco alla mente di lavorare in modo corretto, esprimersi,  e sarà più facile “addestrarmi”.
Interessante, come caso esemplare dell’abuso delle polisemie, è prendere  la coppia di opposti “fascismo/democrazia”.
In questa contrapposizione si può riscontrare quanto detto poco sopra al punto due e al punto tre (distanza dal significato originario e polisemia).
Nessuna parola è stata abusata, consumata e resa amorfa, consunta più di “fascismo”.
Dal dopoguerra in poi la parola fascismo è stata del tutto slegata dal suo significato storico diventando qualcosa di assolutamente nebuloso e  confuso che ha il vago sapore di “autoritario”, violento”, “totalitario”, sprezzante nei confronti dei più deboli” o più genericamente  “antidemocratico”. Un simbolo del male da affiancare alla parola “Satana”, ormai desueta a causa della secolarizzazione della cultura.
La valenza con cui si usa la parola “fascismo”  è sempre fortemente negativa e posta in antitesi con “democrazia”, che al contrario identifica il bene assoluto, il fine, l’ideale finale verso cui ogni esperienza storica dovrebbe tendere.
Il solo nominare l’una o l’altra parola sortisce nell’individuo una serie di reazioni che sono il frutto della stratificazione culturale avvenuta grazie all’uso tutto made in USA della parola. E’ infatti da lì che comincia ad essere usata  la parola “fascist” o “fascism” come termine quasi onnicomprensivo(onnicomprensivo di tutto ciò che è malvagio od ingiusto), cosa peraltro valida anche per  “nazism”,  che subisce l’ulteriore onta di essere del tutto slegata dal concetto di nazional-socialismo e ridotta alla propria sola forma contratta dalla quale è difficile risalire all’originale significato.
E sempre più spesso, persino in contesti accademici, le si utilizza per identificare non una tendenza politica bensì una “personalità”. Si parla di “pulsioni fasciste”, di “personalità fasciste” e via discorrendo contrapponendole al concetto di “democratico”, anch’esso spesso utilizzato in contesti del tutto avulsi da quello politico, tanto che è spesso usato come sinonimo di “gentile”, “umano”, “equo”, e via zuccherando.
Le parole “razzismo” e anche “razza” hanno subito a loro volta un simile stravolgimento tanto che ormai è estremamente raro parlare ancora di “razze umane” e della loro non uguaglianza. Se lo si fa, lo si fa al singolare, identificando l’umanità come gruppo unico e l’ibridazione come il fine della vita stessa. L’idea originaria di razzismo, non era affatto sinonimo di “discriminazione” come lo è oggi, ma era piuttosto l’identificazione di un tipo di studio che indagava appunto la “razza” intesa come patrimonio di sangue, cultura e identità.
Al massimo oggi si può sentir parlare al singolare di “razza umana” , e se si vuole parlare di differenze ci si riferirà a “diversi popoli” o “differenti culture”. L’idea di una identità “di sangue e di suolo” è ormai totalmente tramontata ed esiste solo come esempio negativo di idea obsoleta e vergognosa,  e la stessa parola “popolo” oggi è stata scremata di tutte le sue connotazioni identitarie e richiama casomai l’uso che ne ha sempre fatto il marxismo: una idea molto più simile a quella di un volgo indistinto e impersonale, più riconducibile alla idea suggerita dalla parola “massa” quando usata un senso spregiativo.

Parlare di mera “evoluzione della lingua” non permette di comprendere quali siano gli effetti a lungo raggio di questi stravolgimenti che hanno una precisa valenza strategica non dissimile dal tacere un importante evento storico o distruggere i simboli del potere di un regime caduto. L’obiettivo è quello di operare una sorta di lobotomia della cultura, l’eliminazione di una branca, di un aspetto identitario ritenuto da chi tesse le fila un pericolo per lo status quo.
E’ di fatto una vera e propria uccisione.
Qualcuno potrebbe liquidare queste osservazioni con una espressione riduttiva molto in voga negli ultimi anni: “è solamente una questione  semantica”.
Ebbene, è esattamente così!
Ma  l’avverbio “solamente” è fuorviante, perché proprio sulla “semantica” si gioca la progettualità rieducatoria in corso. Stravolgere l’uso dei vocaboli non è mera mutazione di significato ma anche di significante, con tutto ciò che ovviamente ne consegue a livello coscienziale.
Sottoporre alle nuove generazioni un questionario in cui le si interroga sul significato di certe parole come quelle sopra prese in esame riserverebbe notevoli sorprese, ma ciò non occorre giacché basta tendere l’orecchio a qualsiasi telegiornale, conversazione fra giovani, leggere i giornali per osservare non solo che negli ultimi anni le parole d’ordine sono “legalità” e “ democrazia” contro dei nemici definiti quasi sempre come “fascisti” o “criminali”, “razzisti” o “nazisti”. L’impeto livoroso con cui il giovane borghese   parla dei “fascisti” è talmente carico da far sembrare di essere in pieno regime.
E questo dà da pensare perché non esiste attualmente un solo politico che non usi in occidente la parola “democrazia” come obiettivo finale della propria attività. Né che si permetta di mettere in dubbio il capitalismo stesso, che è poi il vero regime attualmente in piedi erroneamente definito “fascismo” dalla massa quando si stacca dal capezzolo e fa i capricci.
E’ opportuno a questo punto fare una piccola digressione sull’origine della parola “razza” per scremarla dalla strana aura di diffidenza e demonizzazione che sembra aver investito il suo senso quando la si riferisce agli esseri umani.
Le ipotesi sull’origine della parola sono due: la prima, la più accreditata, è che derivi dal latino “ratio” (modo, qualità, natura), e l’uso che se ne fa già ai tempi di Machiavelli è appunto legato al significato di “sorta”, “specie”, ma poco per volta assumerà il senso di “stirpe”, dunque “razza” come noi la intendiamo, trasmettendosi con questo significato anche nelle lingue contermini. Con la mediazione del francese, la parola si trasmetterà anche nella Gran Bretagna con la parola race, e sarà pure assorbita dal tedesco.
A metà ottocento il termine è ancora neutro e scarico di qualunque valenza  negativa e viene usato indifferentemente da tutti in tutti i contesti in un modo che agli occhi moderni può sembrare impensabile dato il senso assunto oggi.
Lo Zingarelli degli anni settanta per la prima volta in Italia dà un segno, una valenza negativa alla parola “razzismo”, definendolo come una teoria che esalta la qualità della razza e la necessità di difenderla mantenendo pura la propria, evitando commistioni con altre, tenendole in stato di inferiorità.  Già  intorno agli anni cinquanta tuttavia la parola assumeva un segno negativo destinato col tempo ad assumere il carattere che oggi vediamo usato nel linguaggio comune.  Per conseguenza logica anche il vocabolo “razza”, se riferito all’essere umano, subisce lo stesso trattamento per cui, se un individuo lo usa in contesti antropologici finisce per far suonare dei campanellini d’allarme sollevando  un coro da massaie di disapprovazione.
Un destino  non dissimile ha subito la parola “negro” in Italia.
Da termine che, derivando dl latino niger, individuava gli individui di razza africana per via della pigmentazione della loro pelle, la parola si è negli ultimi quindici anni caricata di una valenza negativa che mai nel corso della nostra storia ha avuto. E’ stato un lavoro operato da teorici dell’informazione e giornalisti che hanno poco per volta scardinato il senso di una parola del tutto innocua.
La cosa curiosa è osservare la ragione. In poche parole ci si è lasciati insegnare dagli statunitensi il modo in cui dovremmo usare la nostra lingua.
Perché?
Perché la “g” compresa fra la “e” e la “r” della parola genera una assonanza con il vocabolo “nigger”, che negli stati uniti viene utilizzato, in senso spregiativo, in riferimento agli afroamericani. Si vuole identificare in “negro” la traduzione letterale di “nigger”. Ma, a parte il fatto che l’uso che si fa di una parola in una lingua non può influenzarne l’uso in un’altra, la cosa che, drammaticamente, nessuno ha saputo o voluto ricordare negli ultimi quindici anni è che il senso letterale della parola nigger non è affatto la traduzione di “negro” (che al contrario è proprio “negro”,plur.:”nigroes”), bensì la parola che identifica il bruco nero della rapa. Ed è in questa ottica, simile a quella con cui noi definiamo “feccia” qualcosa che disprezziamo profondamente,  che la parola negli stati uniti viene usata per offendere le persone di colore. Quindi quello che ci viene intimato di fare quando ci si dice che la parola “negro” sarebbe una parolaccia è rinunciarne all’uso di una nostra parola per la semplice assonanza fonetica con un’offesa in un’altra lingua. A ben vedere questa cosa non può non suonare grottesca come le scene farsesche del cinema comico in cui un ignorante traduce non a  senso, non letteralmente, ma per fonetica, un discorso italiano in inglese limitandosi a troncare le parole con formule del tipo “yes, un poc’”, oppure crede di poter parlare in spagnolo limitandosi ad aggiungere la desinenza “os” ad ogni parola italiana che pronuncia. L’errore è nella sostanza dello stesso tipo.
Questa confusione espressiva dà abbastanza chiaramente il polso della situazione in cui versiamo, situazione di reale “invasione” nel senso di vera e propria invasione mentale, visto che di fatto non siamo più certi nemmeno della nostra lingua. Che certe dinamiche si producano spontaneamente o rispondano a dei precisi intenti teorizzati, è un discorso che merita delle considerazioni a parte, è tuttavia opportuno ricordare che anche in quest’ultimo caso, la dinamica posta in essere continua poi spontaneamente ad evolvere, come una coltura batterica inizialmente realizzata da un biologo, ma poi autosufficiente nel proprio sviluppo o, esempio forse più calzante, come quella coppia di conigli che fu importata in Australia da una famiglia inglese e finì per proliferare autonomamente mettendo in crisi l’agricoltura locale a inizio secolo non avendo i conigli un nemico naturale in quella terra. Ovviamente ritenere le scelte semantiche come un insieme separato e non collegato agli altri non rende giustizia all’allarmante quadro d’insieme.

E’ opportuno infatti ricordare che il linguaggio non è mero segno linguistico, non è solo “codice di comunicazione”, ma è uno strumento che permette all’individuo di rapportarsi con la realtà, indagarla, osservarla, darle un nome e così facendo contribuisce alla costituzione della forma mentis dell’individuo stesso. Se si priva un soggetto di tale strumento, o gliene si forniscono di menomati, incompleti, eufemistici, il risultato è una totale o parziale incapacità di espressione che pregiudica le stesse facoltà cognitive dell’individuo, una sorta di lobotomia operata attraverso la privazione di un linguaggio proprio.
Poco per volta sta venendo alla luce una neolingua eufemistica, tecnica, debole e sostanzialmente inespressiva che non permette un reale rapporto con la realtà e priva gli individui degli strumenti con cui potrebbero, per esempio, speculare, discutere, comprendere, e soprattutto protestare.
Interessante a tal proposito è il sempre più incomprensibile linguaggio dell’economia, diventato ormai linguaggio di prassi per il giornalismo, giacché l’argomento principe da qualche anno a questa parte è proprio l’economia, croce per molti, delizia per pochi.
Chi sia digiuno di determinate nozioni si troverà a fare i conti con una serie di sigle, definizioni, parole straniere confuse insieme in un fritto misto che lo porterà a non comprendere quali siano i termini del problema. Un po’ come se l’inconoscibilità del divino fosse stata sostituita dall’inconoscibilità della macchina economica. Rispetto a certi termini ci si deve abbandonare a una accettazione fideistica, a meno di non essere degli esperti o degli studiosi in materia. Questo è un potente mezzo, un reale giogo con cui la stragrande maggioranza della popolazione viene tenuta nell’ignoranza.
Si tratta di una ben precisa strategia di controllo tesa a “sdentare” potenziali tigri che potrebbero rivoltarsi contro i detentori dello status quo. Perché con che mezzi si può contro informare se ogni individuo è sottoposto a un lavaggio del cervello che lo porta a 1)non conoscere fino in fondo ciò di cui si sta parlando dato l’asettico tecnicismo di certi vocaboli  2)diffidare di chi fa uso di certe parole ritenute segno di personalità di tipo negativo?

La risposta è che, pur essendoci gli strumenti tecnici per contro informare, la maggioranza delle persone è ormai troppo addestrata a diffidare dei “ribelli” intesi con il senso che Junger dava alla parola. E, a screditare ulteriormente coloro che si impegnano a pronunciare il loro sacro “NO” e cercano di portarlo a conoscenza d’altri, c’è la criminalizzazione di certi concetti e la confusione linguistica, grazie al rumore prodotto intorno a certe figure accusate spesso di “paranoia complottista”.
Da tempo, in seno al dibattito politico meno terra terra (ma non per questo necessariamente di rango elevato visto che ormai l’argomento lo toccano tutti) è in corso il conflitto tra complottisti ed anticomplottisti. Fra chi cioè ritiene esista un disegno preciso dietro alle dinamiche politico-economiche e chi ritiene questo tipo di discorso o inutile perché riferito a cose per definizione inconoscibili, o frutto di semplice fantasia, dietrologia, paranoia.
A screditare le tesi complottiste, oltre alla quantità di persone che, più o meno in buona fede,  credono a quello che vedono, ritengono che oggetto del conflitto politico sia effettivamente quello che ci viene mostrato dai canali ufficiali d’informazione, e hanno una effettiva fiducia nelle istituzioni, esiste uno sterminato arcipelago di “complottisti all’amatriciana” che intorbidiscono spaventosamente le acque finendo per  screditare chiunque provi a scervellarsi su cosa davvero accada nella stanza dei bottoni.

Interrogarsi ad alta voce su quali siano le reali dinamiche che si producono “dietro le quinte” nella politica o nell’economia (parole ormai sostanzialmente intercambiabili visto che la politica consiste non più nella realizzazione del buon governo, ma nel semplice “far quadrare i conti nei limiti del possibile riuscendo anche a trarne dei vantaggi personali”), sebbene sia forse il modo più naturale di porsi rispetto ai canali ufficiali di informazione , è ormai il primo passo per farsi consegnare, agli occhi dei più, il certificato di “paranoico” o, peggio, credulone (il che la dice lunga su dove sia finito il buonsenso comune visto che  dubitare di una notizia di seconda mano, nei rapporti umani prima ancora che nell’apprendimento di qualsivoglia informazione cronachistica, è buona norma per qualsiasi persona assennata). Del resto ormai gli scaffali di tutte le librerie sono invasi da testi che attribuiscono a razze aliene o satanisti da operetta il controllo del mondo, per cui parlare di “complotto” fa subito scattare l’allarme che porterà a liquidare il tutto come baggianate fumettistiche. In alternativa a questi testi tutto sommato politically correct, vi è poi una certa produzione proveniente da ambienti di una destra che, inverosimilmente radicata su posizioni semplicistiche e ottuse, è lo speculare opposto del politically correct (e come questo è assolutamente fasulla e per molti versi di scuola americana, più vicina a una mentalità da Klu Klux Klan, figlia di un egoismo tipicamente borghese e del tutto avulsa da idee di riforma dell’uomo e dello Stato). Tra i flutti di una abnorme produzione di questo tipo, tra fanatismo estremista, comicità alla Beppe Grillo, testi ai limiti della fantascienza, e satira da regime,   soffocano quasi in silenzio (o peggio, stracapiti e male interpretati) i più garbati e sensati interventi televisivi, giornalistici, o saggistici su argomenti oggettivamente verificabili come il signoraggio bancario, la Trilaterale, il Bilderberg Group, e via discorrendo. Il risultato è che parlare di sionismo o dinamiche mirate in seno all’economia equivale a parlare di alieni. Questo innaturale scetticismo indotto è quantomeno  curioso, visto che, in riferimento alla realtà italiana, gli stessi detrattori del complottismo ritengono assolutamente naturale ed appurato il ruolo che le logge massoniche hanno avuto nella storia italiana non solo recente. Si accetta una prospettiva complottista in merito alla morte di Pasolini, di Enrico Mattei, Ustica (nei limiti ovviamente di ciò che ci è stato lasciato intravedere), delle “stragi di stato”, ma non si riconosce la possibilità di un “complottismo” oltre i confini italici, come se mafia, logge massoniche o semplici secondi fini fossero una prerogativa del nostro paese al pari della pizza e del mandolino, non la prassi che da sempre ha contraddistinto la politica e i suoi intrighi. Persino davanti ai recenti scandali sessuali che hanno interessato l’Italia (da Marrazzo a Berlusconi) e non solo (vedasi Strauss-Kahnn) non si è voluto vedere qualcosa che andasse oltre l’immediatezza dello scoop e lo screditamento politico conseguente, anche quando, come nel caso dello scandalo Marrazzo, ci sono scappati almeno due morti.
A ben vedere, certa poco credibile spazzatura fantascientifica, serve proprio a screditare chi cerca di fare un discorso serio e credibile sulla possibilità che ci sia qualcosa di più di quello che quotidianamente ci dicono i mezzi d’informazione. Interessante (e molto probabilmente non casuale) che buona parte di quel tipo di cospirazionismo da operetta in odor di fantascienza che intorbidisce le acque provenga per la massima parte proprio dai più avanzati paesi dell’Occidente americanizzato se non dall’America stessa, ovvero quell’area che ha tutto l’interesse a screditare il cosiddetto complottismo.
Il punto è che, alla luce della velocità con cui oggi è possibile raccogliere informazioni, pare davvero ridicolo parlare di “complotto” non perché ciò sia frutto di oscuri e fantasiosi impianti paranoidi, ma per l’esatto contrario: la parola sta diventando obsoleta ai limiti del ridicolo essendo ormai tutto sotto la luce del sole, e le dinamiche sono molto più semplici, visibili e per nulla misteriose di quanto non si voglia pensare. Il non vedere i fili del burattinaio è solo frutto di un addestramento mediatico che sarebbe facilmente aggirabile se si mantenesse il “distacco dello studioso” nel rapportarsi coi comuni canali di informazione.
Il predominio statunitense, ora messo in discussione dalle nuove potenze economiche ma ancora carico delle pretese egemonico-messianiche che hanno caratterizzato la politica estera a stelle e strisce e la sua “esportazione di democrazia”, l’appoggio incondizionato a Israele e l’impossibilità fattuale di poter lanciare un messaggio a lungo raggio contro questa realtà  da parte di chiunque, sia esso uno storico, un giornalista od un politico, senza essere bollato  con gli epiteti infamanti di “antisemita”, “antidemocratico”, “nazista” e via discorrendo, sono una realtà esperibile da chiunque si sforzi di aprire un giornale.
Ha davvero senso parlare di “complotto?”. Non sarebbe forse più corretto, alla luce dei fatti, parlare casomai di “indirizzo” o strategia, visto che di fatto nulla è più taciuto e i vantaggi concreti che certi signori conseguono non sono affatto nascosti, anche se gli interessi dichiarati sono altri? Il fatto che solo dal Bilderberg, dalla commissione Trilaterale e dal CFR vengano fuori da decenni le personalità che reggono la politica e l’economia mondiale, il fatto che le agenzie di rating decidano di fatto la sorte di interi paesi, che le banche siano istituzioni private che decidono della cosa pubblica,  e che dietro queste ci sia sempre una presenza ebraica con un indirizzo preciso non è una fantasia, si tratta di informazioni raggiungibili da chiunque si armi, se non di un libro, di un qualunque motore di ricerca, senza andare a spulciare oscuri testi, ma solo leggendo tra le righe di innumerevoli articoli di giornale. Oggi è tutto sotto la luce del sole, è tutto nei monumenti di Washington, sulla banconota da un dollaro, tutto reperibile senza nessun passaporto, autorizzazione e parola d’ordine, e viene presentato come una conquista.
Parlare di Nuovo Ordine Mondiale (“novus ordo secolorum” campeggia sulla banconota da un dollaro sotto un simbolo massonico) fa sorridere gli interlocutori. E richiama, grazie a una ridicolizzante campagna di disinformazione (come abbiamo ricordato poco sopra),  un immaginario fantastico fatto di progetti di egemonia da parte di razze aliene, rettiliane, demoniache o chi più ne ha più ne metta. Ma la globalizzazione cos’è?  La deregulamentation, l’abbattimento dei confini, la libera circolazione delle merci, la delocalizzazione della manodopera, il mondialismo non sono forse funzionali ad un “nuovo ordine mondiale” (scritto senza le maiuscole e con un articolo indeterminativo davanti fa meno sorridere e forse induce qualche riflessione in più) in cui una anonima (ed indistinta perché priva di identità) massa è guidata da una regia che non possiamo più definire realmente occulta? Non hanno forse come obiettivo la “conquista del mondo”,l’esportazione della democrazia a suon di bombe, la delocalizzazione della manodopera in luoghi dove costa meno e la gente viene tenuta in uno stato simile alla schiavitù? Cosa progettavano, in fondo, i malvagi personaggi di certi romanzi per ragazzi?
La globalizzazione, presentata come naturale sbocco della storia dell’umanità, non è che un mezzo con cui ben precisi gruppi di persone perseguono fini sfruttando ogni mezzo possibile: dal diritto ai mezzi di comunicazione di massa, passando persino per molte delle cosiddette controculture spesso tutt’altro che spontanee e tese o a offrire dei contentini non dissimili dal panem et circenses, o a creare un humus culturale che può confluire poi in una mentalità allineata (senza andare a scavare tanto lontano, si pensi alla carriera di molti “estremisti” che oggi militano nelle schiere dei partiti di massa perorando cause sostanzialmente borghesi).
In questo quadro il denaro non è più ricchezza, ma uno strumento di controllo che, posto in cima alla scala dei valori di ogni individuo, finirà (o per meglio dire ha già finito) per diventare contemporaneamente carota e bastone per la forza lavoro, ossessione e pensiero fisso come una sorta di chiave che permette al bestiame carcerato un’ora d’aria. Solo coi soldi, oggi, si può comprare una momentanea dose di libertà.
Solo un cieco può negare che è in corso da oltre un secolo una vera e propria guerra a tutto campo tesa all’abbattimento di ogni identità culturale, di ogni sovranità monetaria e territoriale.  Osservando i singoli eventi storici, concentrandosi con un troppo appassionato intento analitico, concentrandosi sui “capitoli” come se si stesse osservando un film  o un sussidiario scolastico, è facile non accorgersi di questa condizione, ma una visione d’insieme alle dinamiche prodottesi, diciamo, dal diciannovesimo secolo in poi, non può non lasciare intravedere una ben precisa dinamica, un disegno il cui fine è evidente fino all’imbarazzo e perfettamente dichiarato da pensatori e politici ebrei che se ne stanno tutt’altro che in sordina.
Curioso osservare come, in un tempo in cui la secolarizzazione è la parola d’ordine, la Chiesa e l’Islam (come pure qualsiasi forma di trascendenza) sono messe all’angolo con sorprendente veemenza da ogni uomo “di cultura” (virgolette d’obbligo, dato quello che oggi viene comunemente identificato come cultura) che abbia una qualche minima visibilità, pochissime parole  vengano spese contro l’ebraismo e la sua profetica visione del mondo e soprattutto della Storia intesa come processo di realizzazione del “regno di Dio” sulla terra. A ciò si aggiunga il fatto che la democrazia (esportata dagli americani a suon di bombe) è la parola d’ordine di Israele, il faro della comunità ebraica sparsa per il mondo impegnata alla realizzazione di tale fine.
In questo scenario l’ONU e l’UNESCO hanno un ruolo determinante non perché emettano provvedimenti vincolanti, ma perché hanno ruolo di propagare una forma mentis, una scala di valori, un’influenza politica che informa di sé i leader dei vari paesi che ne fanno parte. Non è tanto nell’attività diretta che l’ONU agisce, ma nella creazione di una mentalità comune ispirata da valori demo liberali attualmente al servizio dell’entità che ha vinto la seconda guerra mondiale.
Scriveva Maurice Bardèche: “A questo punto della nostra analisi vediamo dispiegarsi davanti ai nostri occhi il panorama del nuovo sistema. È infine una specie di trasposizione. L’irrevocabilità dei trattati e l’indivisibilità della pace non ci portano necessariamente alla schiavitù e a tutte le sue conseguenze: malthusianesimo, controllo, occupazione. Ci abituano invece, e con dolcezza, a un grado temperato degli stessi fenomeni, a una traduzione sopportabile di quel vocabolario da schiavi. Non si tratta più di servaggio, ma d’ingerenza, non di controllo ma di pianificazione, non di malthusianesimo ma di esportazioni organizzate; ancora meno di occupazione, soltanto invece di conferenze internazionali le quali sono una specie di consulti medici sulla nostra temperatura democratica. Intorno al tavolo ci sono tutti; ognuno ha la sua scheda per votare. Non ci sono vinti e vincitori. La libertà regna e ciascuno respira non come si respira con un polmone artificiale, ma come si respira nella cabina d’un batiscafo o di un aerostato dove la quantità di ossigeno è regolata da un sapiente meccanismo d’immissione. Tutti hanno deposto all’entrata un certo numero di idee false e di pretese superflue, come i maomettani depongono le babbucce prima di entrare nella moschea. Tutti sono liberi, perché ognuno prima di entrare ha giurato dì rispettare in eterno i principi democratici, ha firmato cioè, prima di ogni altra cosa, un abbonamento perpetuo alla costituzione degli Stati Uniti.” (Norimberga, ossia la Terra Promessa- 1949)
Gli stessi decantati “diritti dell’uomo” di cui alla famosa dichiarazione, presentata su ogni libro di storia come la più sublime conquista dell’umanità, sono un potentissimo strumento di omologazione e abbattimento del diverso in quanto non riconoscono la possibilità di un valore non conforme. Si tratta di diritti congeniali soprattutto all’homo oeconomicus, all’imprenditore, al borghese, all’occidentale animalizzato nel suo mondo positivista, e tesi al mantenimento dell’ordine temporaneo e assolutamente contingente che questo soggetto ha posto in essere nel mondo. La definizione di “universale” riferita ad un prodotto della contingenza attuale finisce in questo modo per rinnegare qualsiasi diverso sistema di valori e agire come una pialla su qualsiasi realtà non omologa che verrà, forte di questo riconoscimento di universalità, “messa in riga” con ogni mezzo, cosa che di fatto avviene di continuo “grazie” ai Caschi Blu dell’Onu, perennemente in arrogante “missione di pace” a suon di bombe in giro per il globo terraqueo.
Non serve la parola “cospirazione”, ormai, dato che gli organi internazionali agiscono alla la luce del sole col silenzio di tutti, indipendentemente dai conflitti politici interni a ciascun paese, dibattiti che ovviamente ci sono, seppure all’interno di un orizzonte borghese e democratico. Un orizzonte che oggi, certo,davanti alle nuove economie in crescita mostra la corda ma non ammette altro da sé e con questa scusa sta letteralmente cancellando ogni possibile “concorrenza” con l’uso sia della forza militare, sia con quello dell’invasione culturale che nell’ultimo decennio ha dato la sua più energica spallata ai cervelli  grazie alla nascita di Internet.  Considerazioni, queste, fatte senza contare l’aspetto ecologico-ambientale, spesso tirato in ballo per comodità da alcune sinistre, ma mai realmente prospettato nella sua apocalittica concretezza.
Quello che forse un tempo era più legittimo definire “complotto” ma che oggi è lo stato delle cose contro il quale ben pochi protestano è un dispiegamento di forze su ogni piano del vivere civile: politica, polizia, istruzione, spettacolo, produzione accademica, informazione, economia. Dal secondo dopoguerra ad oggi queste entità impersonali hanno lavorato e tutt’ora lavorano per portare a compimento una guerra contro lo spirito identitario (oggi europeo, ma presto mondiale, vista la luce in cui i giornali mettono da qualche anno Chavez), una lotta che ha luogo da duemila anni al servizio della profetica allucinazione sionista. E’ vero che non è facile districarsi da questa ragnatela informativo-istituzionale ed è altrettanto vero che chi lo fa si vede puntato contro l’indice dalle pecore che Orwell descriveva ne “la fattoria degli animali”, ma è altrettanto vero che, nonostante tutto ciò, esistono coscienze che per indole o per esperienze personali riescono a maturare una coscienza autonoma rispetto al Pensiero Unico. E quindi, di tanto in tanto, compaiono figure non allineate che sicuramente portano del nutrimento alle menti non del tutto addormentate. Le menti che, colte dal pessimismo, ritengono irreversibile il processo in corso sbagliano non nel considerare effettivamente drammatica la velocità della precipitazione attualmente in corso, ma nel ritenere che non sia possibile, se non invertire il processo in atto, perlomeno traghettare in mezzo a questo caos dei valori antitetici a quelli dell’establishment, con l’auspicio che possano germogliare esseri migliori nei prossimi tempi. Specie alla luce dell’attuale crisi economica, una vera e propria resa dei conti che potrebbe dare un drammatico scossone allo stato attuale delle cose. E’ in questa ottica che va organizzata l’unica possibile risposta alla marea atlantista: resistenza e trasmissione dello spirito europeo a coloro che verranno.