PARTE TERZA
Parte terza – Il Novecento
Capitolo I – Gli Indiani
Agli inizi del Novecento il genocidio degli indiani degli Stati Uniti si era finalmente concluso.
Gli indiani americani erano giunti dall’Asia, e forse anche dall’Oceania, in due ondate nel 35.000 e nel 15.000 a.C. e si erano diffusi in tutto il continente. All’epoca di Colombo il loro numero è calcolato grosso modo sui 100 milioni, dei quali 50 concentrati sull’altopiano messicano e 25 nel nord-ovest dell’America del Sud, dove era situato l’impero Inca. Stime molto diverse riguardano gli indiani che all’epoca vivevano negli attuali Stati Uniti e Canada: dovevano essere un numero compreso tra 5 e 10 milioni.
Nel loro ambito c’erano grandi differenze. Gli Aztechi e i peruviani degli Incas formavano grandi imperi, che erigevano monumentali edifici di pietra. Nell’America settentrionale c’erano migliaia di tribù indipendenti, dai sistemi di vita più diversi: alcune erano stanziali e praticavano l’agricoltura, altre erano nomadi e vivevano di caccia e raccolta; sulle coste, particolarmente quella occidentale, si dedicavano anche alla pesca, e con grandi piroghe di trenta e più rematori cacciavano persino le balene.
Alcuni vivevano in tende di pelli di bisonte; altri in case di legno, di legno e corteccia d’albero, di legno e terra; i Pueblos costruivano case di adobe [mattone di argilla – N.d.E.] ben squadrate e alte sino a cinque piani.
Anche le usanze erano diversissime e non ne mancavano di sconcertanti. Gli Aztechi praticavano sacrifici umani, e così facevano sporadicamente alcune tribù più a nord, come del resto anche i peruviani a sud. Le tribù dell’America settentrionale erano costantemente in guerra tra loro e alcune torturavano regolarmente a morte i prigionieri, particolarmente gli Irochesi. Nei periodi di difficoltà le donne di quasi tutte le tribù praticavano l’infanticidio. I costumi sessuali erano in genere molto liberi ma senza eccessi. Una caratteristica comune alle tribù del nord-America era la tolleranza verso la diversità: gli indiani non imponevano niente a nessuno.
Mancavano gerarchie e autorità; il capo della tribù poteva consigliare ma non imporre. Anche alle guerre partecipava chi voleva.
Il contatto con i bianchi fu disastroso innanzitutto sul piano biologico: non avevano anticorpi per le malattie allora endemiche in Europa e furono falcidiati da ricorrenti epidemie di vaiolo, tifo, varicella, morbillo, tubercolosi, pertosse, colera, meningite; anche una semplice influenza poteva essere mortale. Nel 1576, in Messico, una grande epidemia fece scomparire dal 40 al 50% della popolazione indiana degli altipiani. Tali epidemie continuarono sino agli ultimi decenni dell’Ottocento, quando gli indiani cominciarono ad adattarsi biologicamente ai nuovi virus. Anche l’alcol era mal sopportato e fece vittime.
Quindi gli indiani non seppero far fronte militarmente all’intrusione dei bianchi, soprattutto per motivi culturali. Nei grandi imperi meridionali — degli Aztechi e degli Incas — dopo la sconfitta degli eserciti imperiali non si seppe organizzare una resistenza popolare, poiché ne mancava il concetto. Nell’America settentrionale gli indiani erano frazionati in una miriade di tribù, dove si parlavano 550 lingue diverse; stentarono molto a capire le intenzioni dei bianchi e quando alla fine le compresero non si resero conto che dovevano allearsi contro il comune nemico. E del resto, lo avessero anche capito subito, non disponevano di una struttura sociale ed economica adatta a mantenere eserciti abbastanza numerosi per un periodo di tempo sufficiente.
Così sia al Sud sia al Nord le millenarie culture indiane scomparvero. Al Sud, i sopravvissuti alle epidemie e a qualche sporadico massacro furono assorbiti in qualche modo dalla civilizzazione dei bianchi. Al Nord, gli indiani scomparvero quasi del tutto, fisicamente: dopo le epidemie spontanee furono decimati da epidemie provocate ad arte, da politiche volte ad affamare in massa i superstiti e da numerosissimi massacri (anche di intere tribù) compiuti da gruppi di coloni, da mercenari da loro assoldati e da eserciti regolari.
Nel 1630 gli indiani che vivevano negli attuali Stati Uniti erano, secondo stime abbastanza concordi, intorno ai 4-5 milioni. Citando le maggiori tribù, sulla costa occidentale c’erano Athapasca, Cayuse, Chinook, Clallam, Kwakiutl, Makah, Miwok, Modoc, Nisqually, Nooksak, Palouse, Puyallup, Quinault, Shasta, Tako, Tlingit, Wakash, Yakima, Yokuts, Yuma, Yurok; nel Territorio dell’Oregon, Colville, Creek, Illinois, “Nasi Bucati”, Okanogan, Ottawa, Spokan, Walla Walla; nelle zone centro-settentrionali Abnachi, Arapaho, Arikara, Assiniboin, Cheyenne, Crow, Dakota, Delaware, Fox, “Grossi Ventri”, Hidatsa, Huroni, Idaho, Illinois, Iowa, Kalispel, Kansa, Kaskaskia, Kickapoo, Kootenai, Mandan, Menominee, Miami, Micmac, Minga, Missouri, Oglala, Ojibwa, Omaha, Osage, Oto, Ottawa, Pawnee, Peoria, Piankashaw, “Piedi Neri”, Piegan, Ponca, Potawatomi, Sauk, Shawnee, Shoshone, Tamaroa, “Teste Piatte”, Teton, Waco, Wea, Winnebago, Wyandot, Yankton, Yanktonai; nel sud-ovest Apache, Bannok, Comanche, Gosiute, Hopi, Kiowa, Navaho, Nevada, Paiute, Papago, Pima, Pueblos, Shoshone, Utah, Ute, Washoe, Yaqui; nel sud-est e nel sud Alabama, Apache, Caddo, Chawash, Chickasaw, Chitimacha, Choctaw, Coahuiltecan, Creek, Jumano, Karankawa, Natchez, Navaho, Pawnee, Quapaw, Seminole, Tunica, Waco, Wichita, Yuchi.
I Crow, Dakota, Iowa, Kansa, Missouri, Ojibwa, Omaha, Osage, “Piedi Neri”, Teton e Yanktonai erano della famiglia Sioux.
Nella zona della costa orientale gli indiani erano non meno di un milione, principalmente delle famiglie degli Algonchini (che erano anche in Canada) e degli Huroni-Irochesi.
In Massachusetts c’erano le tribù Massachuset, Nauset, Nipmuc, Pennacook, Pocumtuc, Wampanoag; in Connecticut Mohicani e Pequot; in Rhode Island Narragansett, Niantic, Nipmuc, Wampanoag; in Delaware i Lenni Lenape, detti poi Delaware; in Maryland i Nanticoke, Psicataway e Susquehannock; in New Hampshire i Pennacook; nel New York i Cayuga, Lenni Lenape, Mohawk, Mohicani, Onondaga, Oneida, Seneca, Wappinger; in New Jersey i Lenni Lenape; in Pennsylvania gli Erie, Lenni Lenape, Seneca, Shawnee, Susquehannock; in Virginia i Cherokee, Susquehanna e molte tribù della famiglia Algonchina; nella Carolina del Nord tribù Algonchine, Sioux e Irochesi; nella Carolina del Sud i Catawba, Cherokee e Muskogee; in Georgia Cherokee e Creek.
La strage degli indiani statunitensi iniziò nel New England, dove fu pressoché completa. Qui gli indiani cominciarono a essere decimati da epidemie sin dai primi del Seicento, quando i primi francesi, olandesi e inglesi si sistemarono attorno ai Grandi Laghi e sulla costa. Nel 1616 si verificò una grande epidemia di tifo e vaiolo; quindi nel 1634 una di morbillo e nel 1636 e nel 1648, a due riprese, una di vaiolo. I contagi si trasmettevano spesso anche all’interno, nelle grandi pianure percorse dalle tribù nomadi che seguivano i bisonti.
Quando nel 1620 i Pylgrims arrivarono a Cape Cod gli indiani, appena li videro in difficoltà, fornirono loro cibarie e abbigliamento, e insegnarono loro la coltivazione del mais. Ma così Sir Ferdinand Gorges descrive, già nel 1621, il comportamento dei Padri Pellegrini:
«Innanzitutto, nei loro modi e nella loro condotta sono peggiori degli stessi selvaggi: s’accoppiano pubblicamente con le donne senza né pudori né vergogna, spingono gli uomini a ubriacarsi, a bestemmiare Dio e a battersi in stato di ubriachezza… e inoltre imbrogliano e derubano gli indiani nel commercio e negli scambi» (56).
Poi, nel 1630, arrivarono i Puritani. Il loro piano fu subito di liberare le terre appetibili dalla presenza degli indiani; non pensarono mai a una qualche forma di accordo o di coabitazione. Gli indiani però erano parecchi e oltretutto assai valorosi: i Puritani invece non avevano la tempra dei combattenti e li temevano molto. Anche i soldati inglesi temevano gli indiani, e non erano certo onnipresenti. Così i Puritani si liberarono degli indiani nel tempo, un po’ con l’astuzia e, quando possibile, con la violenza, sfruttando le loro rivalità interne ed il fascino che avevano su di loro i begli uomini bianchi e le loro bionde donne.
Il primo attacco indiscriminato a un accampamento indiano avvenne nel 1634. Scoppiò una lite fra degli indiani Pequot che vivevano nel vicino Connecticut e dei mercanti puritani che li avevano ingannati. John Winthrop (primo governatore della colonia di Massachusetts Bay) decise che occorreva dargli una lezione e guidò una spedizione contro l’accampamento principale dei Pequot. Nottetempo lo circondarono e lo incendiarono, quindi fecero fuoco su quelli che cercavano di fuggire; nel giro di mezz’ora uccisero in tal modo da 600 a 700 indiani fra uomini, donne e bambini. Quindi vendettero i sopravvissuti come schiavi alle tribù avversarie dei Pequot, e si spartirono i territori resi disponibili. Il reverendo Cotton Mather approvò personalmente l’azione con calorose parole (57).
L’accaduto innescò una spirale di ritorsioni e vendette continue che durò decenni e falcidiò gli indiani. Fra l’altro i Puritani avevano intuito la debolezza biologica degli indiani e avevano cominciato a distribuire loro, negli scambi, le coperte infette di vaiolo raccolte negli ospedali durante le ricorrenti epidemie; il vaiolo era infatti endemico nelle colonie, portato dall’Europa. Negli scambi distribuivano anche whisky adulterato al preciso scopo di danneggiare gli indiani e possibilmente ucciderli, come abbastanza spesso capitava. Ciò non impediva, nel nord, di usare nello stesso tempo gli indiani nei conflitti contro i francesi per il controllo dei Grandi Laghi delle pellicce, come del resto facevano i francesi stessi: per anni gli Huroni, alleati dei francesi, combatterono contro gli Irochesi schierati con gli inglesi, quasi sterminandosi a vicenda. Sotto la pressione dei bianchi e delle guerre intestine, diverse tribù della costa orientale si ritirarono verso l’interno. Il che provocò a sua volta la migrazione delle retrostanti tribù Sioux-Dakota, che si avventurarono nella prateria diventando da allora cacciatrici di bisonti. Queste tribù diffusero le epidemie in tutto l’Ovest.
Quando gli indiani superstiti capirono che dovevano allearsi era troppo tardi: erano ridotti in pochi, e i bianchi erano aumentati di molto. La King Philip’s War del 1675-1676 rappresentò così l’ultimo episodio importante di resistenza indiana nelle colonie inglesi. Fu una rivolta generalizzata, guidata da un capo Wampanoag chiamato Re Filippo dagli inglesi, e da Canonchet, un capo Narragansett. Gli indiani attaccarono e bruciarono Springfield, Providence, Deerfìeld e Sudbury e sostennero contro gli inglesi molti scontri che provocarono centinaia di morti da entrambe le parti, ma furono battuti nella battaglia decisiva detta del Great Swamp Fight [Battaglia della Grande Palude – N.d.E.] in Rhode Island. I prigionieri furono venduti come schiavi nelle Antille e la testa del Re Filippo fu esposta nella piazza di Plymouth. Dopo di allora si accelerò l’esodo verso l’Ovest e le tribù rimaste furono confinate in piccole riserve, poi col tempo quasi tutte chiuse per l’estinzione degli indiani a causa di stenti e malattie. I guerrieri furono utilizzati come mercenari per combattere gli indiani dell’Ovest, via via che ci si addentrava. Nel 1703 il Massachusetts pagava 12 sterline per ogni scalpo indiano, indipendentemente dal sesso e dall’età; nel 1722 il compenso fu portato a 100 sterline, cifra altissima. Gli ultimi indiani ribelli saranno piegati nel 1759 in New Hampshire, dai Rangers di Robert Rogers. Dopo di che non ci furono quasi più indiani in tutto il New England. Tecumseh, un capo Shawnee, così diceva nel 1812:
«Dove sono i Pequot oggi? Dove sono i Narragansett, i Mohawk, i Pokanoket e tutte le tribù un tempo potenti? Sono sparite davanti alla rapacità e all’oppressione dell’uomo bianco, come la neve sotto il sole d’estate» (58).
Dinamiche analoghe si svilupparono nelle colonie del Sud, mano a mano che si formavano.
Nella Louisiana gli indiani non erano tormentati dai francesi, che erano pochi e si occupavano solo di caccia e di raccolta delle pellicce. Erano però costantemente in guerra tra di loro, perché le tribù locali contrastavano quelle che si stavano ritirando dall’est, come i Sioux-Dakota e i Delaware. A partire dal 1743 furono coinvolti nella lotta tra francesi e inglesi per il controllo dell’Ohio Territory, gli Abnachi e i Micmac erano alleati dei francesi mentre le tribù Irochesi stavano dalla parte degli inglesi.
Dopo la sconfitta francese sancita dal Trattato di Parigi del 1763, il capo Pontiac guidò una ribellione contro gli inglesi, ma fu battuto. Nell’occasione il comandante inglese, Lord Jeffrey Amherst, fece distribuire agli indiani fazzoletti e coperte infettate con il vaiolo provenienti dall’ospedale di Fort Pitt (diventato poi la città di Pittsburgh), dove c’era stata una epidemia. Il successivo proclama inglese che riservava l’Ohio Territory agli indiani non fu rispettato dai coloni, che lo invasero in massa scacciando gli indiani Delaware, Minga e Shawnee. Una delle guide dei coloni diretti in Kentucky era Daniel Boone, un grande sterminatore di indiani come sarà David Crockett. Il governo inglese cercò di contrastare i coloni e utilizzò contro di loro i soliti Irochesi; sono questi gli «spietati Indiani Selvaggi» della Dichiarazione di Indipendenza.
Durante la Guerra di Indipendenza alcune tribù indiane combatterono con i regolari inglesi; nessuna tribù con gli americani. Nel 1779 la spedizione americana Sullivan-linton rase al suolo 50 villaggi Irochesi e distrusse i raccolti. Poco dopo la vittoria americana nella Guerra di Indipendenza le tribù Miami e Shawnee dell’Ohio Territory si ribellarono. Nel 1791 batterono due contingenti militari guidati dai generali Harmor e Saint-Clair, ma nel 1794 furono sconfitti dal generale Anthony “Mad” Wayne a Fallen Timbers.
Ottenuta l’indipendenza, le 13 ex colonie americane avevano subito affrontato il problema indiano. Era chiaro che gli indiani dovevano scomparire. Ma i termini della questione rimanevano quelli iniziali: gli indiani erano ancora numerosi, presi singolarmente si rivelavano grandi combattenti, e nei conflitti provocavano molti danni. Una guerra generalizzata e dichiarata contro di loro era impensabile per i costi finanziari; essa avrebbe inoltre sicuramente comportato il ricorso alla leva obbligatoria. In poche parole, si sarebbe trattato di fare un’altra guerra di indipendenza. Così il Congresso scelse una tattica strisciante e attendista: non bisognava lasciare capire agli indiani le intenzioni finali; le tribù andavano messe le une contro le altre sfruttando le loro ataviche rivalità; i loro mezzi di sussistenza andavano erosi lentamente ma costantemente; le tribù dovevano essere illuse di poter contrattare la loro sorte con trattati che in realtà non si aveva alcuna intenzione di rispettare. Quest’ultimo punto fu messo in pratica in modo massiccio: alla data del 1880 fra le varie tribù e il Congresso erano stati stipulati più di 400 trattati solenni, nessuno dei quali rispettato dagli americani (59). Spesso gli indiani venivano indotti a firmare i trattati dai missionari, preti protestanti che loro chiamavano Mantelli neri. Così si espresse il capo Sioux Toro Seduto in merito ai trattati del Congresso americano:
«Quale patto il bianco ha rispettato e l’uomo rosso ha infranto? Nessuno. Quale patto l’uomo bianco ha mai fatto con noi e rispettato dopo? Nessuno. Quand’ero ragazzo ì Sioux erano padroni del mondo; il sole si levava e tramontava sui loro territori. Lanciavamo diecimila uomini in combattimento. Dove sono i guerrieri oggi? Chi lì ha sterminati? Dove sono le nostre terre? Chi le saccheggia? Quale uomo bianco può dire che gli ho rubato la terra o un solo suo soldo? Tuttavia, dicono che sono un ladro. Quale donna bianca, anche isolata, ho mai catturato o insidiato? Tuttavia dicono di me che sono un cattivo indiano. Quale uomo bianco mi ha mai visto ubriaco? Chi è mai venuto da me affamato ed è ripartito con lo stomaco vuoto? É forse un male che io abbia la pelle rossa?» (60).
Così fino al Novecento fu sempre la stessa storia; le tribù venivano sospinte verso Ovest, dove combattevano contro le tribù che vi erano state portate prima; ogni tanto una tribù si ribellava, c’era una guerra che gli indiani erano indotti a interrompere da un trattato che garantiva una bella riserva; la riserva si dimostrava desolata e se era buona veniva invasa dai coloni, e si ricominciava, fra un massacro e l’altro. La politica di destinare agli indiani queste riserve aveva una giustificazione economica, come ammise un funzionario federale americano nel 1952: «Molte riserve erano simili a grandi campi di prigionia, quando gli Stati Uniti trovarono più economico dare razioni agli indiani invece che combatterli» (61).
Il capo Tecumseh non credeva nella volontà degli americani di trattare. Aveva partecipato alla battaglia di Fallen Timbers. Nel 1810 cercò di costituire uno “Stato indiano” fra gli attuali Ohio e Tennessee, ma si scontrò con la mentalità indiana, che non concepiva gerarchie, disciplina, “Stati”. Nel 1811, in sua assenza, il suo focoso fratello lanciò un attacco sconsiderato contro gli americani e fu sconfitto al fiume Tippecanoe. Tecumseh si rifugiò in Canada e nella Guerra delle Pellicce del 1812 comandò gli ausiliari indiani canadesi contro gli americani; morì nella battaglia di Thamesville, nell’ottobre del 1813. In questa guerra alcune tribù Seneca si erano alleate agli americani.
Anche il capo Falco Nero aveva partecipato alla Guerra delle Pellicce contro gli americani. Nel 1825, con una decina di guerrieri Sauk e Fox, attaccò 270 soldati comandati dal maggiore Stillman e li mise in fuga. Nel 1832 riprese la guerriglia alleandosi con i Winnebago, ma questi lo tradirono e fu catturato dai soldati del generale Scott. Nel corso della campagna contro Falco Nero gli uomini di Scott compirono molti eccidi di civili indiani di ogni condizione.
Nel 1828 gli unici indiani rimasti ad est del Mississippi erano alcune decine di migliaia di membri delle cosiddette Cinque Tribù Civilizzate, alcune tribù di Cherokee, Chikasaw, Choctaw, Creek e Seminole sparse fra Alabama, Georgia e Florida. Questi indiani erano “civilizzati”, cioè erano diventati contadini e allevatori; possedevano terre. Fu trovato l’oro nella zona e il Congresso mandò un esercito per costringerli a spostarsi a Ovest, in Oklahoma. Nel 1834 alcune centinaia di Seminole del capo Osceola iniziarono una guerriglia che costò la vita a 1.500 soldati americani e che terminò solo nel 1842 quando Osceola, accettato un invito a parlamentare, fu invece catturato. I discendenti di quei Seminole vivono nelle paludi delle Everglades e si considerano ancora in guerra con gli Stati Uniti. Nelle Smoky Mountains vivono i discendenti di alcuni Cherokee sfuggiti ai rastrellamenti.
La deportazione avvenne dal 1828 al 1846. Nel 1838 circa 30.000 persone, il grosso delle Cinque Tribù Civilizzate, furono radunate e costrette a marciare a piedi sino alla riserva di destinazione in Oklahoma, distante 1.700 chilometri. Nel solco della miglior tradizione puritana, dovettero sostenere le spese della propria deportazione. Durante il percorso, chiamato dagli indiani Sentiero delle Lacrime, morirono diverse migliaia di persone. Alexis de Tocqueville vide un convoglio attraversare il Mississippi:
«Gli indiani avevano con sé le famiglie; trasportavano anche malati, feriti, bambini appena nati e vecchi in punto di morte. Non avevano né tende né carri, ma solo poche provviste e armi. Li ho visti imbarcarsi per attraversare il grande fiume e il solenne spettacolo non svanirà mai dalla mia memoria. Da quella folla ammassata non venivano né lamenti né pianto; tacevano… Vanno ad abitare nuovi deserti e i bianchi non li lasceranno tranquilli per più di dieci anni. É così che gli americani sono entrati in possesso a vile prezzo di intere province, che i più ricchi sovrani d’Europa non sarebbero in grado di pagare» (62).
Nei primi decenni dell’Ottocento l’Ovest indiano era spazzato dalle epidemie portate dalle tribù che arretravano dall’Est. Dal 1830 al 1832 una grande epidemia di vaiolo sterminò Hidatsa, Mandan e Osage e moltissimi Arapaho, “Piedi Neri” e Piegan. Quindi, dal 1840 al 1850, decine di migliaia di pionieri attraversarono le grandi pianure. Nel 1849 la Corsa all’oro della California giunse all’apice; in quell’anno arrivarono 100mila pionieri-cercatori e nel 1850 la California entrò nell’Unione. Vi erano allora in California da 80 mila a 100 mila indiani, appartenenti a più di 100 tribù; nel 1867 ne rimanevano 20 mila, e nel 1900 ne furono censiti 4 mila.
L’epopea del Far West cominciò nel 1858, quando fu scoperto l’oro in Colorado, e terminò nel 1886, quando tutti i superstiti degli indiani dell’Ovest risultarono chiusi in riserve. Fu come nei western di Hollywood. I prairie wagons dei pionieri attraversavano l’Ovest; cercavano l’oro o andavano a recintare poderi. Piccoli villaggi di legno sorgevano e diventavano grandi città, o venivano abbandonati.
Bande di mercenari bianchi venivano assoldate per protezione dai coloni e poi si davano al banditismo. Da una parte si costruiva una ferrovia, da un’altra una linea del telegrafo. Anche gli indiani si comportavano come nei western, in cui però sono sempre state ignorate le loro motivazioni. Erano costantemente provocati. Dove arrivavano, i coloni cercavano di liberarsi di loro: sterminavano la selvaggina, avvelenavano le sorgenti nascondendo sul fondo carogne di animali, assoldavano individui senza scrupoli perché uccidessero gli indiani. C’erano già molte riserve, ma erano povere e gli indiani erano alla fame; gli agenti delle riserve, dipendenti del Bureau of Indian Affairs creato nel 1824, erano in realtà scelti in base alla loro disonestà e distribuivano poco cibo e spesso avariato, quando non coperte infette. Gli indiani erano quindi costretti a uscire dalle riserve per cacciare e si scontravano con i coloni. Ci furono così moltissimi casi di attacchi indiani a convogli di pionieri, fattorie isolate, linee telegrafiche; nel 1867, in Nebraska, fu attaccato anche un treno e i passeggeri vennero massacrati. Le spedizioni dell’esercito regolare americano erano continue, nell’ordine di 100-200 all’anno, circa un terzo delle quali si risolveva in scontri armati. Gli indiani combattevano ancora con arco e frecce; alcuni avevano fucili mod. Kentucky; dopo il 1860 rimediarono anche qualche Winchester.
In Colorado i cercatori d’oro trovarono i Cheyenne, i quali aspettarono che scavassero tutto l’oro possibile e poi se ne andassero, ma non fu così. Si arrivò a provocazioni e scontri. Nel 1864, dopo l’attacco indiano a un treno merci il governatore del Colorado, Evans, chiese all’esercito una punizione esemplare, che venne affidata al colonnello Chivington. Questi, con 900 Giacche Blu a cavallo, attaccò di sorpresa un villaggio indifeso di Cheyenne e Arapaho, uccidendo tutti gli abitanti, circa 500. Erano quasi tutti vecchi, donne e bambini, perché gli uomini erano stati attirati altrove per parlamentare. Gli americani persero nove uomini, caduti da cavallo durante la carica. Fu il Sand Creek Massacre, che vide episodi efferati: mutilazioni, uccisioni di madri con neonati, di bambini che si erano nascosti sotto la sabbia.
Nel 1862 si erano ribellate alcune tribù Sioux del Minnesota; il capo Piccolo Corvo, con 800 guerrieri, compì attacchi indiscriminati provocando la morte di circa 500 bianchi; battuto dall’esercito del Nord (era iniziata la Guerra Civile), che fece 300 prigionieri, tutti condannati a morte, si rifugiò in Canada dove però per ragioni politiche fu respinto; tornato negli Stati Uniti fu ucciso insieme con alcuni guerrieri.
Nel sud i Navaho della fertile vallata del Rio Grande si rifiutavano di trasferirsi nella riserva desertica di Bosque Redondo. Per convincerli il generale Carleton attuò nei loro confronti la tattica della terra bruciata, allo scopo di affamarli. Le operazioni furono dirette dall’esploratore Kit Carson. Guidati dal capo Manuelito i Navaho si rifugiarono in montagna, iniziando una guerriglia che terminò nel 1865, quando Manuelito si arrese e andò a Bosque Redondo.
Neanche gli Apache dei capi Mangas Colorado e Kociss volevano andare a Bosque Redondo e si rifugiarono sulle montagne del Nuovo Messico e dell’Arizona. Quando nel 1863 Mangas Colorado, recatosi a parlamentare, fu invece ucciso, Kociss diede inizio a una sanguinosa guerriglia. Nel 1871 gli abitanti di Tucson, per ritorsione, distrussero un accampamento Apache che non aveva niente a che fare con Kociss, uccidendo tutti gli occupanti, 110 fra donne e bambini. Poco dopo Kociss depose le armi e nel 1874 morì. Nel 1883 la guerriglia fu ripresa dal capo Geronimo, che resistette all’armata del generale Crook sino al 1886; i superstiti furono mandati nella riserva dell’Oklahoma. Geronimo morì nel 1909.
Finita la Guerra Civile il generale Sherman fu nominato capo delle operazioni militari all’Ovest. Con la sua March to the Sea era diventato un esperto di guerra economica, e la sua prima decisione fu di affamare gli indiani delle pianure sterminando i bisonti. Egli invitò «tutti i cacciatori dell’America del Nord e di Gran Bretagna» a cacciare il bisonte. I bisonti furono in effetti sterminati: ancora nel 1850 erano calcolati sugli 80 milioni e ne rimasero 541 nel 1889, ridotti a due soli esemplari dello zoo di Chicago nel 1911 (gli attuali bisonti del parco di Yellowstone sono i discendenti di quei due, un maschio e una femmina). Il grosso dei bisonti fu eliminato dal 1865 al 1875. In questo periodo si distinse per particolare zelo il cacciatore William F. Cody (1846-1917), detto Buffalo Bill, che da solo in quindici mesi uccise 4.280 bisonti.
Nel Montana la Pista di Bozeman che approvvigionava i minatori causava incidenti con gli indiani Sioux e Arapaho. Nella zona delle Black Hills il generale Sherman fece costruire nove fortini a difesa della pista ma i Sioux, guidati da Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo e Toro Seduto, ottennero una serie di successi: nel 1866 Cavallo Pazzo riuscì ad attirare fuori dal forte Kearny 80 cavalieri della guarnigione, comandati dal tenente Fetterman, e li sterminò. Così nel 1868 il generale Sherman firmò un trattato a Fort Laramie con il capo Nuvola Rossa, in base al quale i fortini venivano distrutti e le Black Hills lasciate “per sempre” ai Sioux.
Nel 1874, però, nelle Black Hills venne scoperto l’oro e il generale Sheridan fu incaricato di liberare la zona dagli indiani. La regione fu setacciata, interi accampamenti vennero distrutti. I Sioux ripresero la guerra e ottennero ancora qualche successo. Nel 1876 Cavallo Pazzo vinse una battaglia sulle rive del fiume Rosebud contro la colonna del generale Crook e poco dopo, con Toro Seduto, nella valle del Little Big Horn annientò il VII reggimento di cavalleria comandato dal colonnello George A. Custer e composto da 285 uomini. Nel 1868, nel corso di una campagna contro i Cheyenne nel Kansas, Custer aveva sterminato l’accampamento di Pentola Nera formato da 108 persone, delle quali solo 11 erano uomini adulti. I Sioux non avevano però viveri e in breve tempo Cavallo Pazzo e Coda Macchiata si arresero coi loro civili ridotti alla fame; nel 1877 Cavallo Pazzo fu ucciso da un soldato. Toro Seduto si rifugiò invece in Canada; tornato negli Stati Uniti si esibì nello spettacolo circense del Wild West Show assieme a Buffalo Bill e Anne Oakley. Nel 1890 venne ucciso nel corso di un arresto eseguito a scopo precauzionale.
Situazioni analoghe si ebbero nell’Oregon Territory, dove dal 1843 al 1877 sparì qualche centinaio di tribù, non senza le solite ribellioni e deportazioni. Nel 1872 veniva repressa la rivolta dei Modoc superstiti di Captain Jack, terminata con la sua impiccagione. Nel 1877 i Nasi Bucati del giovane capo Tuono Sulle Montagne, chiamato Chief Joseph (Capo Giuseppe) rifiutarono la deportazione in una riserva del Kansas e cercarono di rifugiarsi in Canada. Messo alla prova Tuono Sulle Montagne si dimostrò all’altezza di Cavallo Pazzo. Portandosi dietro tutta la tribù di 700 persone, delle quali solo 200 uomini validi, sconfisse i soldati americani a White Bird Canyon, Clearwater e nel Big Hole Basin; intrappolato a Eagle Creek, a soli 40 chilometri dal confine dopo averne percorsi più di 3 mila, con una manovra si fece catturare insieme ad alcuni uomini permettendo così agli scampati della disperata marcia — circa 300 persone in tutto — di riparare in Canada.
L’ultimo massacro di indiani avvenne il 29 dicembre 1890 a Wounded Knee nel Dakota del Sud: il VII reggimento di cavalleria, lo stesso di Custer, doveva raggruppare degli indiani per deportarli in altre riserve; attaccò invece un accampamento formato da 200 persone fra donne, vecchi e bambini, uccidendo tutti.
Questa volta le perdite americane, e cioè i caduti da cavallo durante la carica, furono di 29 uomini — il terreno era accidentato.
Così si estinsero gli indiani americani. Nel 1630 erano almeno 5 milioni e al censimento generale dell’anno 1900 se ne calcolarono 250 mila. Nel 1924 il Congresso, con una legge, concesse loro la cittadinanza americana. Non sapevano, tuttavia, cosa farsene: vivono ancora quasi tutti nelle riserve, che ne accolgono oggi 700 mila. Non vogliono accettare la civilizzazione americana. Per questo dal 1924 sono la minoranza etnica più povera in assoluto. Oggi nelle riserve indiane la disoccupazione è dell’80%; la vita media è di 25 anni più bassa di quella statunitense; la mortalità infantile è dieci volte più alta; l’alcolismo, le malattie mentali e il suicidio sono endemici. I bianchi li disprezzano ancora. Per esempio, sperimentano spesso sugli abitanti delle riserve nuovi medicinali, come è capitato con l’anticoncezionale Depo Provera, rivelatosi poi pericoloso.
Sono ancora in soggezione per una sconfitta che non riescono ad accettare, avvenuta a causa di un popolo, quello americano, nei cui confronti continuano a provare un genuino disprezzo. É il modo in cui furono sconfitti che ancora li offende; rimpiangono di non averli attaccati quando erano pochi, di avere creduto nei trattati, di avere continuato a combattere tra di loro quando l’estinzione incombeva su tutti.
Che dire della vicenda degli indiani statunitensi? Analizzata la Storia, non potevano certo pretendere il diritto esclusivo di proprietà sui territori nei quali vivevano, che erano gli attuali Stati Uniti. Ma non andavano neppure sterminati, e in quel modo, con epidemie provocate, distruzione delle fonti di sostentamento, trattati mai rispettati, deportazioni, riserve molto simili a campi di concentramento, massacri indiscriminati di accampamenti perpetrati quando gli uomini validi erano assenti per cacciare o per intrattenere rapporti diplomatici. Occorreva trovare con loro un modus vivendi, obiettivo non difficile: considerata la loro difficoltà di assimilazione, sarebbe bastato assegnare loro riserve più grandi, in grado di sostentarli. Ma gli americani, semplicemente, non vollero.
Note al Capitolo I
56 — Emile Zola, Le Chamanisme indien dans la littérature américaine, Gallimard, Paris, 1974, p. 64.
57 – Massachusetts, op. cit., p. 37.
58 – Philippe Jacquin, Histoire des indiens d’Amérique du Nord, Payot, Paris, 1976.
59 – A Century of Dishonor, op. cit.
60 – Histoire des Indiens d’Amerique du Nord, op. cit.
61 – Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mondadori, 1972.
62 – Democracy in America, op. cit.
Capitolo II – I Neri
Nel periodo della tratta degli schiavi, compreso fra il 1600 circa e il 1860, scomparvero dall’Africa fino a 50 milioni di persone (63). Gli schiavi giunti a destinazione in quel periodo sono stati un numero compreso tra 2 e 3 milioni. Ciò significa che per ogni schiavo che arrivava vivo morivano probabilmente dalle 15 alle 25 persone. Molti venivano uccisi in Africa, nel corso dei rastrellamenti ai quali partecipavano anche tribù locali “collaborazioniste”, che coglievano l’occasione per continuare le loro faide ancestrali. Le tribù private di troppi uomini validi erano decimate dagli stenti. Quindi c’era la “resa” del trasporto via mare; durante il viaggio, mediamente un quarto degli schiavi o moriva di sfinimento o veniva ucciso o si suicidava. Non occorre soffermarsi sugli aspetti tecnici di questo commercio: le battute di caccia, gli smembramenti familiari, le uccisioni, i ceppi, le punizioni, le maschere di ferro e gli altri strumenti di repressione utilizzati sui ribelli.
La destinazione della maggioranza degli schiavi era l’America settentrionale, dove dal 1619 al 1860 ne giunse un numero variabile fra 1,5 e 2,5 milioni. Fossero stati lasciati liberi di generare, ora sarebbero molte decine di milioni: ma il tasso di mortalità era altissimo e la possibilità di procreazione riservata a pochi individui selezionati, scelti in genere fra i Mandingo della Costa d’Avorio. Sono loro i progenitori dei neri che attualmente vivono come cittadini negli Stati Uniti, in numero di 34 milioni su un totale di 240 milioni di abitanti.
Per loro la strada della libertà, e della possibilità di continuare poi a vivere nella stessa condizione, fu lunga e penosa. Il periodo di schiavitù dichiarata, durato nel Sud fino al 1865, fu tremendo: lavori forzati, punizioni con la frusta, morìe, selezioni della razza, smembramenti dei gruppi familiari, padroni che in caso di bisogno faceva strappar loro i denti, assai ricercati per le dentiere (nel 1787 a Richmond, in Virginia, un incisivo superiore veniva pagato due ghinee). Molti schiavi riuscivano a fuggire e trovavano riparo presso gli indiani, inseguiti da bande di proprietari terrieri che si associavano per l’occasione. In genere interveniva anche la milizia dello Stato. Nella prima metà dell’Ottocento alcuni schiavi fuggirono anche nel Nord. Qui, a un certo momento, alcuni privati animati dalle migliori intenzioni organizzarono una rete segreta di nascondigli, la Underground Railroad, ma incalzato dalle proteste del Sud il Congresso la mise rapidamente fuori legge con la Fugitive Slave Law, in accordo con quanto prescritto dalla Costituzione. Secondo il medico del Sud dottor Samuel Cartwright gli schiavi erano colpiti da una malattia particolare, la drapetomania [dal greco drapetèuo = “fuggire via”, derivato da drapétes = “fuggitivo”, che indicava specialmente gli schiavi fuggiaschi – N.d.E.], il cui sintomo più evidente era appunto il desiderio di fuggire; nel 1851 egli pubblicò anche un articolo sull’argomento nel New Orleans Medical Surgical Journal (64).
Le rivolte furono numerose e tutte soffocate con la brutalità che si può immaginare. Nel 1712 alcuni schiavi si ribellarono a New York; tra i sopravvissuti alla repressione, 21 furono impiccati mentre 6 si uccisero. Nel 1741 ci fu un’altra grossa rivolta, sempre a New York, finita con 13 schiavi impiccati e 13 bruciati vivi.
Nel 1831 una famosa rivolta in Virginia fu guidata dallo schiavo Nat Turner (agli schiavi veniva dato generalmente il cognome del proprietario; molti neri americani ora si chiamano Washington, o Jefferson), nel corso della quale prima dell’intervento della milizia furono uccisi 57 bianchi; Nat Turner fu impiccato e 100 schiavi uccisi dalle truppe. Di episodi del genere, benché meno cruenti, ce ne furono centinaia.
Negli anni precedenti il 1861 la propaganda antischiavista promossa dai media del Nord guadagnò alla causa anche alcuni attivisti bianchi: John Brown era uno di questi. Nel 1856 egli partecipò a scontri fra schiavisti e antischiavisti nel Kansas, che si svilupparono nelle località di Lawrence, Pottawatomie, Franklin e Osawatomie, e che provocarono circa 20 morti in tutto. Quindi nel 1859, con 18 uomini, occupò un’armeria federale ad Harpers Ferry in Virginia, sperando vanamente di provocare un’insurrezione di schiavi. L’armeria fu presa d’assalto da marines comandati dall’allora colonnello Robert Edward Lee, che uccisero diversi occupanti. Brown, e con lui sei degli scampati, fu impiccato poco dopo con l’accusa di tradimento.
Con l’Emendamento XIII del 1865 i neri ottennero la libertà, ma non il diritto a vivere in quella che comunque era ormai la loro nazione. Quello fu solo un inizio. Il cammino legislativo per veder riconosciuti i più elementari diritti sarebbe durato oltre un secolo.
L’Emendamento XIII diceva che non esistevano più schiavi; non diceva però che gli ex schiavi erano dei cittadini. Poche legislature statali riconobbero tale status ai loro ex schiavi. Cogliendo l’occasione, come si è visto, tre anni dopo fu approvato l’Emendamento XIV, in virtù del quale gli ex schiavi erano cittadini degli Stati in cui vivevano, cioè cittadini americani. L’Emendamento, però, non diceva che quei cittadini avevano anche il diritto di voto; anzi, alla Sezione 2 ne legittimava costituzionalmente l’esclusione al voto, prevedendo solo la riduzione della rappresentanza parlamentare al Congresso federale di quegli Stati che avessero optato per l’esclusione. Tutti gli Stati del Sud e la grande maggioranza di quelli del Nord preferirono avere una rappresentanza ridotta al Congresso. Allora, due anni dopo, venne approvato l’Emendamento XV, secondo cui il diritto di voto non poteva essere negato in base alla razza o a un «precedente stato di schiavitù». Alcuni Stati infatti non dicevano: “chi è negro non può votare”; dicevano: “chi è stato uno schiavo non può votare”. Ma l’Emendamento XV non diceva niente circa altre condizioni che potessero essere poste al diritto di voto. In tutti gli Stati vigeva già il requisito, per poter votare, di pagare le tasse statali. Strano a dirsi, c’erano neri in condizione di pagare tasse; erano pochi, ma sgraditi ugualmente. Allora a quello gli Stati aggiunsero altri requisiti, diversi in genere da Stato a Stato, ma tutti appositamente studiati per non far votare i neri. La fantasia americana si espresse al meglio. La maggioranza degli Stati che non lo contemplava introdusse il requisito di saper leggere e scrivere, una misura che si apprezza nel modo giusto se si pensa che nel Sud al tempo della schiavitù era proibito per legge insegnare l’alfabeto agli schiavi.
Molti neri però sapevano leggere e scrivere, specie quelli del Nord ma anche alcuni del Sud. Allora certi Stati introdussero il requisito di dover conoscere la Costituzione: chi si presentava ai seggi elettorali subiva un esame sul posto. Possiamo immaginare come potesse andare. Tuttavia ai seggi elettorali erano spesso presenti dei funzionari federali, mandati al Sud dal Congresso per controllare la Reconstruction post-bellica (i sudisti li chiamavano carpetbaggers e scalawags — straccioni, morti di fame —: sarebbero rimasti sino al 1885), e così l’esame di alfabetismo e di conoscenza della Costituzione spesso escludeva anche molti bianchi. Furono allora inventate le Grandfather clauses (Clausole del nonno), vale a dire una serie di norme, postille e aggiunte alle leggi elettorali esistenti che coinvolgevano gli antenati degli aspiranti al voto. Per fare qualche esempio: nelle Costituzioni del Maryland e dell’Oklahoma fu inserita la disposizione che chi non superava l’esame di alfabetismo poteva ancora votare a patto che suo padre o suo nonno alla data del primo gennaio 1867 avesse avuto il diritto di voto. A quella data in Maryland e Oklahoma nessun nero aveva avuto il diritto di voto: non era riconosciuto un cittadino. In Alabama, come requisito aggiunto si pose quello di aver servito nella Guerra Civile o di avere un padre o un nonno che lo avessero fatto. Nessun nero aveva combattuto per il generale Lee.
L’Emendamento XIV del 1868 decretò anche l’inizio della Segregazione razziale americana. Esso garantiva l’“equa protezione della legge” a tutte le persons, sia fisiche sia giuridiche, come abbiamo visto, e quindi anche ai neri che erano appena stati dichiarati tali, ma non diceva che questi dovessero stare per forza in mezzo agli altri; dunque a norma di legge essi potevano essere tenuti da parte, separati. La parola d’ordine di tutte le legislature statali — sia del Sud sia del Nord senza eccezioni — divenne allora: “Uguali di fronte alla legge, ma separati”, la base legale dell’apartheid americana. I neri vennero tenuti dunque così: in tutti gli Stati ci furono quartieri per i bianchi e slums per i neri; alberghi e motel per i bianchi e stalle per i neri; servizi igienici per i bianchi e buchi in terra per i neri; carrozze ferroviarie per i bianchi e vagoni merci per i neri; e così via per asili infantili, scuole, università, battaglioni militari, corsie d’ospedale, posti allo stadio. Sugli autobus i neri dovevano stare sulla pedana posteriore, in piedi, per legge. Nel 1896 la Corte Suprema, discutendo il caso Plessy vs. Ferguson, confermò la legittimità dell’apartheid secondo l’enunciato “separati ma uguali”. Nel 1883 la Corte Suprema aveva anche invalidato un Civil Rights Act del Congresso federale che assegnava pari diritti ai neri almeno negli edifici federali.
Arrivò il Novecento. Nel 1909 i neri tennero la loro prima assemblea generale, la National Conference on the Negro, che avrebbe portato alla fondazione della oggi notissima National Association for the Advancement of Colored People, NAACP. Per i neri americani non sarebbe cambiato niente, se non in peggio, almeno per il fatto che nel nuovo secolo gli Stati Uniti si impegnarono in grandi guerre che richiedevano il ricorso alla leva obbligatoria. Si è detto che gli Stati Uniti soffrono dell’handicap della leva obbligatoria. É un paese in cui l’ingiustizia sociale è grave ed endemica; come se non bastasse, in un modo o nell’altro si riesce sempre a fare in modo che partano coscritti solo i più poveri. Ciò ha provocato sempre disordini sociali, quando non moti rivoluzionari veri e propri — eventi temutissimi dall’establishment americano (cosa generalmente sottovalutata all’estero), perfettamente conscio di godere di privilegi impensabili nel resto del mondo. Il problema si aggravò quando i neri furono soggetti alla leva obbligatoria: erano i più poveri, erano segregati e maltrattati, ma li si mandava alla guerra dei bianchi, anzi al loro posto. Del resto non li si sarebbe certo potuti esentare: su quale base, visto che erano “cittadini” a tutti gli effetti? Inoltre in quel caso si sarebbero centuplicati i problemi con i bianchi. Così tutte le guerre con coscrizione obbligatoria portarono qualcosa al movimento per i diritti civili dei neri americani, con l’eccezione della Seconda Guerra Mondiale (nel 1943 ci furono comunque vaste sommosse nere a Detroit, Newark, Los Angeles, e in altre città). E questo sia in conseguenza di disordini veramente gravi sia in via, diciamo così, preventiva.
Nel 1915, quando gli Stati Uniti non erano ancora intervenuti nella Prima Guerra Mondiale ma si stavano preparando al conflitto, la Corte Suprema, discutendo il caso Guinn vs. United States dichiarò incostituzionali le “Clausole del nonno” di Maryland e Oklahoma perché violavano l’Emendamento XV. Tale Emendamento risaliva al 1870, quarantacinque anni prima. In seguito alla sentenza tutti gli Stati che avevano delle “Clausole del nonno” le tolsero ad uno ad uno di loro iniziativa, perché ormai avrebbero perso eventuali cause intentate contro di loro, con conseguenti danni finanziari. Nel 1917 poi, discutendo il caso Buchanan vs. Warley, la Corte Suprema dichiarò illegittima un’ordinanza della città di Louisville nel Kentucky, che obbligava i neri a vivere solo in certi distretti: era la prima sentenza che metteva in dubbio la segregazione razziale dopo 50 anni. È bene ricordare che i primi due decenni del Novecento furono i periodi di massima virulenza dell’odio razziale degli americani per i neri: i linciaggi di neri, singoli o in gruppi, a opera del Ku Klux Klan e di azioni estemporanee di privati erano all’ordine del giorno nel grande entroterra americano.
Nel solo 1914 furono linciati 1.100 neri. In tali condizioni coscrivere i neri senza fare qualche concessione sarebbe stato rischioso.
Ci fu poi la Guerra di Corea (1950-1953). Nel 1954, a conclusione del caso Brown vs. Board of Education of Topeka iniziato durante la guerra, la Corte Suprema dichiarò incostituzionale la segregazione nelle scuole pubbliche perché in violazione dell’Emendamento XIV del 1868, ottantasei anni prima. L’avvocato della signora Brown era Thurgood Marshall, che nel 1967 fu il primo nero eletto alla Corte Suprema, dove restò sino al 1991. Non si era alla fine della segregazione razziale, ma era un passo in quella direzione. La sentenza aboliva la segregazione solo nelle scuole pubbliche, recitando: «… Noi concludiamo che nel campo dell’educazione pubblica la dottrina di “separati ma uguali” non trova posto. Impianti per l’educazione separati sono inevitabilmente ineguali». Nelle scuole private la segregazione poteva continuare: nel 1983 la Corte Suprema avrebbe stabilito solo che il governo federale poteva negare esenzioni fiscali alle scuole private che praticavano la discriminazione razziale, disposizione che il Congresso attivò nel 1988. Così oggi quasi tutte le scuole private americane, specie quelle gestite dalle Chiese protestanti, praticano la discriminazione razziale, cioè accettano solo studenti bianchi. In effetti nel 1955, un anno dopo il caso Brown vs. Topeka, si verificò l’incidente di Montgomery in Alabama, allorché la nera Rosa Parks si rifiutò di cedere il posto a un uomo bianco e in buona salute. Seguì un boicottaggio dei neri contro gli autobus e proteste della NAACP sino a che una corte federale disse che la segregazione sugli autobus era incostituzionale.
Le maggiori concessioni ai neri furono portate in conseguenza della Guerra del Vietnam (1950-1975), un conflitto che stava causando enormi problemi di reclutamento e di morale, e che per gli stessi motivi l’America stava perdendo: nel 1988 il presidente Carter avrebbe concesso l’amnistia a più di 10.000 renitenti alla leva del periodo, mentre nello stesso tempo circa 60.000 giovani americani erano emigrati all’estero, specialmente in Svezia. Nel 1964 fu approvato l’Emendamento XXIV che vietava il requisito del pagamento di tasse speciali — le poll taxes — o di qualunque altro tipo di imposta per poter votare alle elezioni federali (quelle per il presidente e vicepresidente degli Stati Uniti e per i rinnovi del Congresso federale).
In base a questo Emendamento i neri poterono in pratica partecipare a queste elezioni: prima ben pochi raggiungevano i requisiti. Dell’Emendamento beneficiarono anche tutte le altre minoranze etniche americane, generalmente non così povere come quella nera ma neanche così disinvolte da pagare la poll tax, ne beneficiarono anche i bianchi anglosassoni poveri, che nel 1964 costituivano il 25% della popolazione. Il requisito del pagamento della poll tax o di altre tasse rimaneva legittimo per le elezioni statali. Col tempo, a partire dal 1964 gli Stati lo hanno mano a mano abolito, anche se potrebbe essere reintrodotto, a norma di Costituzione federale. L’effetto dell’Emendamento XXIV fu sin da subito più teorico che pratico: la maggioranza dei neri e delle altre minoranze continua a non andare a votare, soprattutto per le elezioni federali.
Sempre nel 1964 il Congresso approvò il cosiddetto Civil Rights Act, un insieme di leggi e provvedimenti vari che proibivano la discriminazione razziale nei posti di lavoro, nei locali pubblici, e così via. É un documento fondamentale per la fine della segregazione razziale ma fu approvato alla seguente condizione: di essere riconsiderato ogni tre rinnovi del Congresso, in pratica ogni 5-7 anni. È sempre stato rinnovato, ed anche qualche volta arricchito, ma non è detto che debba esserlo per sempre: l’Emendamento XIV non è mai stato eliminato né modificato.
Tutti gli anni Sessanta furono dominati dall’imponente movimento dei neri per i diritti civili, il cui leader carismatico era Martin Luther King. A questo movimento, cui si aggregò senza troppe commistioni il movimento libertario giovanile bianco degli hippies (i figli dei fiori), è certamente dovuta la fine dell’apartheid negli Stati Uniti. Ma il movimento trovò certamente la sua segreta scintilla nella coscrizione obbligatoria, sempre condotta per sorteggio ma con i consueti esiti, e con destinazione Saigon. Per l’anno 1968, dopo una progressione continua iniziata nel 1960, ci sarebbero stati in Indocina circa 700 mila coscritti; per l’anno 1964 i morti americani in Vietnam erano già arrivati a 30.000. I coscritti erano quasi tutti appartenenti alla classe più povera. In effetti negli Stati Uniti la Guerra del Vietnam è tuttora soprannominata War of the Poor (“la guerra dei poveri”). Il sistema tipico per evitarla era di arruolarsi nella Guardia Nazionale del proprio Stato, come appunto fecero Dan Quayle e Bill Clinton. Quegli anni furono ricchi di imponenti manifestazioni e di rivolte di neri. Nel 1963 King guidò una marcia di 200 mila neri sino a Washington per chiedere parità di diritti. Nell’occasione egli pronunciò il famoso discorso che comincia con le parole «I have a dream…». Nel 1964 tre attivisti del movimento furono uccisi da un gruppo di 21 bianchi in Mississippi, tutti successivamente assolti da una giuria interamente bianca. Nel 1965 King guidò un’altra grande marcia, da Selina a Montgomery in Alabama, per chiedere l’effettiva protezione federale dei diritti concessi l’anno prima. Nell’agosto dello stesso anno i neri di Watts, un sobborgo di Los Angeles, si rivoltarono; negli incidenti si contarono 34 morti e ingenti danni materiali. Nel 1967 scoppiarono furiose rivolte di neri a Newark nel New Jersey e a Detroit nel Michigan. A Newark la rivolta si concluse con 26 morti, 1.500 feriti e mille arresti; a Detroit intervennero 8 mila uomini della Guardia Nazionale e 4.700 paracadutisti — il risultato finale fu di 40 morti e più di 2.000 feriti. Nel 1968, dopo l’uccisione di Martin Luther King ordinata dall’FBI, scoppiarono sommosse in 125 città, per domare le quali furono impiegati 34 mila uomini di varie Guardie Nazionali e 20 mila fra paracadutisti e truppe speciali dell’esercito. Già nel 1965 l’FBI aveva fatto assassinare l’altro leader nero, Malcolm X (Malcolm Little), il fondatore del movimento collaterale delle Pantere Nere.
L’opera di “pulizia” sarebbe poi proseguita sino alla prima metà degli anni Settanta con l’assassinio di decine di esponenti delle Pantere Nere e l’arresto pretestuoso, di molti altri. Degli eredi di Malcolm X — Huey Newton e Bobby Seale — il primo fu fatto assassinare nel 1983 a Los Angeles, dopo una serie di arresti, mentre Seale è uscito dal carcere nel 1997. Il bianco Abbie Hofmann, fondatore del movimento degli hippies, fuggì all’estero dove rimase sette anni; rientrato negli Stati Uniti, fu ucciso nel 1989: vennero addotte cause naturali, perché aveva mancato alla promessa di non occuparsi più di politica. Da diversi anni a questa parte il leader del movimento per i diritti civili dei neri è il reverendo Jesse Jackson (anche M.L. King era un pastore protestante, mentre Malcolm X si convertì all’Islam in gioventù). Vista la situazione oggi è su posizioni moderate, ma nel 1984, quando si presentò alle primarie presidenziali, ricevette 314 minacce di morte.
Tutto questo per quanto riguarda l’aspetto legislativo dell’emancipazione dei neri fra il 1865 e il 1964, nella perenne speranza che il Civil Rights Act fosse sempre rinnovato e possibilmente reso definitivo. La vita di tutti i giorni in quel periodo fu terribile. Appena approvato l’Emendamento XIII del 1865, in tutti gli Stati ex schiavisti del Sud e dell’Ovest si scatenò una specie di caccia al negro: li cercavano, bruciavano la loro casa, spesso li uccidevano per terrorizzarli e costringerli a cambiare Stato. Nel Sud i neri furono difesi dal loro numero, ma negli Stati dell’Ovest ne rimasero ben pochi, come si constata ancora oggi. Ci furono gravi episodi di intolleranza anche nel Nord.
All’atto pratico la dottrina della segregazione razziale era infernale. I neri dovevano stare rinchiusi nei loro ghetti alle periferie di città non troppo piccole, diventati gli odierni slums; il resto del grande paese, le campagne, i paesi, le piccole città era interamente a maggioranza bianca e concretamente ostile. Mettersi in viaggio era rischioso, specie singolarmente. C’erano anche notevoli disagi da affrontare: non un motel né un ristoro. I servizi igienici costituivano un problema: ancora oggi negli Stati Uniti espletare una necessità pur piccola all’aperto è rischioso perché considerato un atto osceno in luogo pubblico, secondo le consuetudini puritane, ed è previsto l’arresto.
Ad ogni decisione anti-segregazionista della Corte Suprema seguivano reazioni popolari dei bianchi, spesso furiose. Nel 1957, quando in ottemperanza alla sentenza Brown vs. Topeka del 1954 il consiglio scolastico della Central High School di Little Rock in Arkansas ammise per la prima volta alcuni studenti neri, l’opinione pubblica bianca si rivoltò. L’allora governatore dello Stato, Orville Faubus, inviò la Guardia Nazionale alla scuola per impedire l’attuazione della decisione. La Guardia Nazionale dell’Arkansas aspettò dunque quei ragazzini neri — nove in tutto, di 10, 11 e 12 anni — sui gradini della scuola, coi fucili Garand carichi e spianati. Il presidente Eisenhower non poteva fare altro che dare seguito alla sentenza della Corte del 1954 e inviò 2 mila soldati su autoblindo. Ci fu così un confronto davanti alla scuola, ripreso dalla televisione e visto in tutto il mondo, nel corso del quale una folla inferocita di bianchi adulti, uomini e donne, investì con urla belluine i ragazzini neri, li coprì d’insulti e di sputi, e in alcuni casi riuscì a percuoterli. Nei filmati disponibili all’estero le scene più crude non si vedono, a causa dei tagli imposti dall’USIA. Per inciso, nell’occasione non fu eseguito nessun arresto. Di casi simili a quello di Little Rock ce ne furono a centinaia, privi però della coreografia creata dalle Guardie Nazionali e dalla televisione.
Nel 1866 si era poi attivato il Ku Klux Klan. Il movimento era nato in Tennessee e si era rapidamente diffuso in tutto il Sud e in molte parti del Nord; l’Ovest era già stato rapidamente liberato dai neri. Si trattava di bande di privati cittadini che, con la connivenza di polizia e politici locali, compivano raid terroristici contro i neri con incendi di case, percosse, uccisioni che avvenivano secondo il preciso rituale dell’impiccagione di fronte a casa, il sistema usato per punire gli schiavi ribelli. Il KKK fu perseguito con decisione dal presidente Grant e verso la fine del decennio 1870-1880 poteva dirsi pressoché scomparso. Venne rifondato nel 1915 in Georgia, con il preciso intento di impedire ai neri di andare a votare (il 1915 era l’anno in cui furono vietate le “Clausole del nonno”). Dal 1912 a tutt’oggi nella Forsyth County della Georgia, a due passi dalla “nera” Atlanta, non esistono neri. Si trattò di un ritorno in grande stile: negli anni Venti il Klan contava più di due milioni di attivisti e dominava la vita pubblica di vari Stati. In quegli anni, per esempio, quasi tutti gli uomini politici repubblicani dell’Indiana erano membri del KKK. Con la Grande Depressione e gli anni del presidente Roosevelt il peso del Klan diminuì, ma la sua influenza rimase notevole per molti anni ancora — nel 1959 la Civil Rights Commission del Congresso concluse che il motivo principale per cui i neri aventi diritto non andavano a votare era il timore del Ku Klux Klan.
Il Ku Klux Klan è ancora parzialmente attivo negli Stati Uniti, e miete ancora vittime. Per quanto se ne sa, l’ultima fu il nero di 19 anni Michael Donald, impiccato a un albero di fronte alla casa in cui viveva con la madre a Mobile, in Alabama. Il delitto avvenne nel 1981; i colpevoli, tali Knowles e Hayes del locale capitolo del KKK, furono rintracciati faticosamente nel 1983 e condannati a una pena detentiva, laddove in Alabama per l’omicidio è prevista la pena di morte, che sarebbe certamente stata applicata nel caso la vittima fosse stato un bianco. Molti altri casi del genere capitano ancora negli Stati Uniti, ma se manca la “firma” del Ku Klux Klan — l’impiccagione, possibilmente davanti a casa — non vengono presi in considerazione.
Per esempio, il 6 giugno 1998 a Jasper (Texas), il nero di 49 anni James Byrd è stato ucciso da tre uomini probabilmente per motivi razziali: i tre erano membri del Klan locale. Comunque la parte più rilevante dell’attività del Ku Klux Klan ai giorni nostri consiste in intimidazioni e incendi, particolarmente di chiese frequentate da neri. Nel 1987 il Congresso ha trasformato in reato federale l’attraversamento dei confini statali allo scopo di compiere «crimini motivati da odio religioso». É una legge contro il Klan: i suoi membri compiono di preferenza raid oltre il confine di Stato contando così sull’alibi fornito agli sceriffi di contea dalla macchinosità delle procedure di estradizione. Le espressioni “odio religioso” e “odio razziale” sono sinonimi negli Stati Uniti, così come i termini racism e bigotry. Infatti il custode riconosciuto del concetto di popolo eletto, la base del razzismo americano, è il clero protestante. La legge non ha avuto effetti e i raid del Klan continuano, in particolare contro chiese frequentate da neri, incendiate molto spesso in questi anni. Nel 1996 il presidente Clinton ha partecipato all’inaugurazione della nuova chiesa della Mount Zion African Methodist Episcopal Church a Greeleyville nella Carolina del Sud, in sostituzione della precedente incendiata nel 1995. Il pubblico bianco non è scandalizzato dal Ku Klux Klan. Nel 1989 l’ex Grand Wizard del locale capitolo, David Duke, è stato eletto deputato alla legislatura della Louisiana, dove è stato nominato membro fisso della House Judiciary Commission (Commissione Giustizia della Camera).
Com’è attualmente la situazione dei neri in America? C’è ancora effettivamente discriminazione razziale, alimentata non dalle leggi ma dall’atteggiamento dei bianchi. Se una famiglia nera si trasferisce in un quartiere bianco ci sono malumori, cold backs, anche dispetti e qualche volta peggio; spesso il trasferimento è l’unica via di scampo. Nelle assunzioni sono preferiti i bianchi. Quasi tutte le scuole private sono per soli bianchi. Le scuole pubbliche sono miste ma riflettono la composizione dei quartieri, i quali sono o bianchi o neri. Le chiese protestanti americane sono curiose da osservare: per bianchi o per neri. Pochissime sono frequentate da entrambi. Se un nero vive in una parrocchia bianca va in un’altra chiesa; lo stesso per i bianchi. Non molto diversamente avviene per le chiese cattoliche. La discriminazione più grave è però in campo giudiziario: a parità di reato un nero è punito assai più duramente di un bianco. Parimenti la polizia è molto più brutale con i neri che con i bianchi — cosa che irrita oltremodo i neri quando anche i tribunali lo giustificano. Nell’aprile del 1992 a Los Angeles si verificò una sommossa di neri che provocò 52 morti; era stata originata dall’assoluzione — in pratica — di due poliziotti che avevano gratuitamente percosso un automobilista nero, Rodney King. La miserevole condizione economica è ancora la più fidata compagna di viaggio dei neri americani. Il loro reddito medio è poco più della metà di quello dei bianchi; un nero su tre è al di sotto della soglia di povertà. La loro percentuale di disoccupazione è il doppio di quella bianca. La loro vita media è di sette anni più breve. Solo il 30% dei ragazzi neri finisce la scuola dell’obbligo, contro il 50-55% dei ragazzi bianchi. Le malattie mentali, endemiche in tutta la popolazione a causa delle ripercussioni di natura psicologica dell’American Way, colpiscono con maggiore frequenza fra i neri. Droga e criminalità sono di casa fra i neri: pur rappresentando soltanto il 12% della popolazione, essi sono responsabili del 50% dei crimini.
È fuorviarnte voler vedere per forza dei progressi nella condizione dei neri americani; possono esservi al contrario dei regressi. Nel 1996, per esempio, il Congresso ha approvato una grossa riforma del sistema del Welfare che penalizza i neri: ha eliminato gli aiuti federali diretti lasciando ai singoli Stati la gestione di certi fondi federali. In particolare è stato eliminato il programma AFDC (Aid to Families with Dependent Children) che offriva modesti aiuti a donne sole con figli minorenni, una condizione assai comune fra le donne nere.
Per quanto riguarda l’aspetto politico, va detto che il sistema elettorale americano riesce ancora, con accorgimenti vari, a escludere gli strati sociali meno abbienti specie a livello statale e di contea, cioè i più numerosi; così i neri, gli americani più poveri in assoluto dopo gli indiani, in grande maggioranza non vanno a votare.
Infine, una considerazione. Osservando l’intolleranza degli americani verso i neri di casa loro, atavica e costellata di tanti episodi odiosi, viene da chiedersi se sotto sotto non ci debba essere una motivazione profonda. I neri, per esempio, potrebbero avere un carattere particolarmente indisponente, o altri gravi difetti. Niente di tutto ciò. Io li conosco bene. Sono certamente diversi dai bianchi, però non hanno nulla di fastidioso o minaccioso. Con loro si può convivere più che bene, ma gli americani non lo accettano. Gli Stati Uniti sono la Terra Promessa del popolo eletto. I neri —ecco il punto — certamente non fanno parte del popolo eletto, sono degli intrusi che si potevano utilizzare, finché possibile, solo come schiavi.
Note al Capitolo II
63 – Henry F. Dobyins, Native American Historical Demography, Indiana University Press, Bloomington and London, 1976, p. 6.
64 – Circumcision. An American health fallacy, op. cit., p. 35.
Capitolo III – Il fondamentalismo americano
1. Il panorama protestante
Le Chiese protestanti americane si possono raggruppare in una cinquantina di correnti: Avventisti, Battisti, Luterani, Metodisti, Pentecostali, Presbiteriani, Riformati, e così via. A loro volta le maggiori di tali confessioni si suddividono in tanti sottogruppi, in pratica in tante altre congregazioni indipendenti a tutti gli effetti che però si riconoscono sotto il denominatore comune della corrente. Per esempio la Chiesa pentecostale americana comprende le seguenti denominazioni indipendenti: Apostolic Faith; Assemblies of God; Bible Church of Christ, Bible Way Church of Our Lord Jesus Christ World Wide; Church of God; Church of God Profecy, Congregational Holiness Church; General Council Christian Churches of North America; International Church of the Fourasquare Gospel; Open Bible Standard Churches; Pentecostal Assemblies of the World; Pentecostal Church of God; United Pentecostal Church International; Pentecostal Free-Will Baptist Church. Analoghe suddivisioni esistono per tante altre Chiese protestanti americane, portando così il numero delle congregazioni indipendenti a circa 140. E questo per le denominazioni maggiori: ma ci sono poi i ministeri indipendenti, spesso formati da una sola parrocchia.
A queste bisogna aggiungere alcune sette religiose che non sono protestanti nel senso tradizionale o storico della parola, e che come tali non sono riconosciute dalle altre, ma che di fatto lo sono, visto che si basano sulla Bibbia, e in particolare sul Vecchio Testamento. Le maggiori sono i Mormoni, i Testimoni di Geova, la Worldwide Church of God, e l’Esercito della Salvezza.
I membri attivi delle confessioni protestanti sono 80 milioni, dei quali 70 bianchi. I Mormoni sono 4 milioni, concentrati nello Utah, in Nevada, Colorado e Wyoming; i Testimoni di Geova sono 700 mila; i membri dell’Esercito della Salvezza 430 mila; gli aderenti a Worldwide Church of God alcune migliaia (si tratta di una organizzazione non troppo numerosa ma particolare).
Il maggior raggruppamento protestante è rappresentato dai Battisti, 26 milioni di membri divisi fra 14 denominazioni e 90 mila chiese; seguono i Metodisti, 13 milioni di membri divisi in 9 denominazioni e 52 mila chiese; i Luterani, 9,5 milioni di membri in 11 denominazioni e 19 mila chiese; i Pentecostali, 3,5 milioni di membri in 14 denominazioni e 25.500 chiese; i Presbiteriani, 3,4 milioni di membri in 7 denominazioni con 14 mila chiese; i Riformati, 600 mila membri in 5 denominazioni con 1660 chiese.
Il numero totale delle chiese protestanti è di 275 mila, cui vanno aggiunte le 1.088 dell’Esercito della Salvezza, le 9.550 dei Mormoni e le 8.220 Sale del Regno dei Testimoni di Geova. La media dei membri è di 290 per parrocchia; alcune parrocchie hanno 30-40 membri, altre diverse migliaia. Sono calcolati come membri gli adulti che partecipano regolarmente alle funzioni domenicali e che contribuiscono al mantenimento della parrocchia. Per il resto il 95% degli americani si dichiara credente.
Negli Stati Uniti è evidentissima la natura funzionale e utilitaristica della religione protestante. I pastori titolari delle parrocchie espongono nei loro sermoni la teoretica che i fedeli vogliono sentire, e cioè i soliti concetti impliciti nel Vecchio Testamento che formano la visione della vita degli americani. Ci sono ampie sfumature a seconda della comunità di riferimento. I pastori di parrocchie situate in quartieri bianchi e ricchi espongono la pura teoria calvinista del 1536; parlano apertamente di santità della ricchezza e di popolo eletto e difendono anche la segregazione razziale; quelli delle parrocchie povere sono meno radicali. Il tutto, oltre alla chiara logica implicita del movimento protestante, è garantito dal fatto che i pastori sono mantenuti direttamente dalle contribuzioni dei fedeli, e che se non garantiscono un servizio soddisfacente sono licenziati. Mediamente, negli Stati Uniti ogni anno circa 2 mila pastori sono licenziati dai parrocchiani e sostituiti con altri.
Può anche capitare che per un gruppo di “fedeli” con esigenze speciali non sia più sufficiente cambiare pastore e che si debba creare una congregazione protestante nuova, ad hoc. É la causa prima della genesi delle tante sette protestanti più o meno esoteriche nate negli USA. L’esempio più clamoroso è quello dei Mormoni. Nel primo Ottocento era già iniziata la corsa verso l’Ovest; dal New England le famiglie di mezzadri partivano per accaparrarsi grandi appezzamenti di terreno per modiche cifre. Ma c’era il problema della manodopera: gli schiavi costavano e in alcuni territori non erano ammessi. Occorreva pertanto una famiglia numerosa. Un certo Joseph Smith di Fayette nello Stato di New York risolse il problema. Nel 1830 cominciò a raccontare di avere ricevuto delle tavolette d’oro da un angelo di nome Moroni contenenti chiarimenti sulla Bibbia. La dottrina di Smith non era altro che un’ennesima interpretazione del Vecchio Testamento, ma conteneva un’importante differenziazione: ammetteva la poligamia, come è certamente ammessa nel Vecchio Testamento e della quale, per ragioni di opportunità, tutti prima avevano fatto finta di non accorgersi, a cominciare da Calvino. É storicamente accertato che aderirono a tale setta solo dei contadini e mezzadri puritani del New England che programmavano di trasferirsi all’Ovest. Lo fecero concretamente nel 1846, tutti insieme e ognuno con le aspiranti mogli, allorché dopo qualche vicissitudine a causa del loro “credo” si stabilirono nello Utah. Qui crearono uno Stato nello Stato, fondando nel 1847 la città di Salt Lake City. Poi si sparsero anche nei territori confinanti. Per farsi largo incitavano gli indiani locali contro gli altri coloni, sino a che, nel 1857, il governo federale inviò un esercito di mille uomini al comando del generale di brigata Albert S. Johnston per ristabilire l’ordine fra i bianchi. Nel 1890 i Mormoni rinunciarono ufficialmente alla poligamia, condizione per l’ammissione nell’Unione; ma rimasero Mormoni. Attualmente in Utah, Nevada e Arkansas ci sono ancora contee in cui la poligamia è praticata; è contro la legge, però le autorità non intervengono.
È stato sempre così nella storia americana: il clero protestante ha sempre offerto giustificazioni “divine” all’individualismo materialistico americano, appoggiando per questo motivo ciò che nei vari tempi e nelle varie occasioni il popolo americano ha ritenuto suo tornaconto materiale, come espresso dall’establishment. La sua azione è stata particolarmente utile nel giustificare il comportamento verso gli altri popoli, quindi in politica estera. Il concetto chiave è quello degli americani come popolo eletto col diritto di appropriarsi delle più promettenti fonti di ricchezza via via disponibili. Sino al 1800 il clero protestante ha giustificato lo schiavismo, sia al Nord sia al Sud; dal 1800 al 1865 lo ha giustificato al Sud e non lo ha preso in considerazione al Nord. Dal 1868 al 1964 ha giustificato la segregazione, e dopo l’ha adottata nella pratica. Con gli indiani, dal 1630 al 1900 ha sempre sostenuto che non avevano diritto alla terra, non essendovi chiaramente destinati da Dio; ha benedetto o giustificato o passato sotto silenzio la strategia di genocidio applicata nei loro confronti. Nella politica estera in senso stretto non ha mai fatto mancare il suo “Effetto Sforza”, trovando sempre finalità “morali” alle strategie del governo. Ha fatto finta di credere alla sincerità degli slogan dell’Autodeterminazione dei Popoli, della Libertà di Navigazione, del Destino Manifesto, della Dottrina Monroe, dei 14 Punti di Wilson, dell’America Arsenale della Democrazia di Roosevelt, della Nuova Frontiera di Kennedy, dei Diritti Umani di Carter, dell’URSS Impero del Male di Reagan. Ha appoggiato e appoggia la spinta alla conquista del Mercato dell’Oriente iniziata nel 1630, che dura tuttora e che dal 1860 al 1989 ha portato alla Guerra Fredda con la Russia; ha appoggiato la breve pratica di colonialismo all’europea a cavallo dell’anno 1900; ha appoggiato e appoggia l’originale politica di neocolonialismo a quella seguita e che dura tuttora. Ha giustificato tutte le guerre e gli interventi armati all’estero compiuti dagli Stati Uniti, che dalla fondazione a oggi ammontano a più di 200. Fra queste, ha sostenuto anche le repressioni tremende degli indipendentisti filippini, le micidiali operazioni di counterinsurgency nell’America Latina, la Guerra del Vietnam, la Guerra del Golfo del 1990-1991, detta anche Guerra del Petrolio.
La collaborazione delle organizzazioni protestanti in politica estera avviene anche a livello operativo. Le missioni protestanti americane all’estero hanno sempre avuto una funzione propedeutica allo sfruttamento che si intendeva compiere. I missionari che andavano fra gli indiani cercavano in pratica di convincerli ad accettare la dominazione bianca, e intanto prendevano informazioni su luoghi e abitudini.
Moltissimi degli oltre 400 trattati di pace stipulati dal governo americano con le tribù indiane — e mai in nessun caso rispettati — furono conclusi con le mediazioni del vescovo Henry Whipple e del reverendo Samuel D. Hinman (65). All’epoca delle colonie all’europea i missionari venivano inviati in massa nelle terre appena conquistate per convincere gli indigeni a rassegnarsi alla situazione e ad accettare il nuovo sistema economico che li impoveriva. Così avvenne in modo massiccio con Cuba e le Filippine nel 1898, e con le Hawaii a partire dal 1894. Quando si definì la nuova pratica del neocolonialismo furono mandati, e sono mandati ancora insieme ai Peace Corps, nei paesi designati per gli stessi scopi. Sono da considerare degli agenti governativi americani, impegnati in propaganda e spionaggio. Perciò le missioni protestanti all’estero sono finanziate o da gruppi economici privati con interessi nel dato paese neo-colonia — potrebbero essere i petrolieri nel Brunei, le aziende del rame in Cile o quelle della frutta nell’America Centrale — o dal governo americano direttamente, o da una combinazione dei due. Finanziamenti governativi alle missioni protestanti americane in America Centrale sono stati ammessi da Bill Moyers nel corso della sua inchiesta televisiva God and Politics. The Kingdom divided (66) Moyers, ora commentatore politico e culturale, era stato consigliere speciale del presidente Johnson.
Le parrocchie protestanti sono anche la base del sistema politico americano. Dominano la vita politica della contea e da lì controllano il sistema elettorale nazionale, volutamente molto complicato: per questo, in genere, chi ha intenzione di votare segue le indicazioni del pastore, che è sempre uno specialista in politica pratica. Questo risulta decisivo per le elezioni di contea, per quelle statali e per le primarie per il presidente federale. Le elezioni finali per il presidente sono semplici, ma si deve pur sempre scegliere fra due nomi già selezionati. In cambio il governo rende deducibili dalle tasse le donazioni fatte da privati alle Chiese, che, considerato il meccanismo fiscale americano, raggiungono cifre astronomiche. Delle donazioni beneficia anche la Chiesa Cattolica americana, che è in qualche modo anch’essa legata all’establishment.
2. I Fondamentalisti
Sono detti Fundamentalists gli americani protestanti che credono nell’interpretazione letterale della Bibbia, cioè del Vecchio Testamento. Sono attualmente circa 20 milioni e sono trasversali a tutte le congregazioni. Come s’è detto, il Protestantesimo è nato come interpretazione letterale del Vecchio Testamento (V.T.), ma col tempo ha dovuto sfumare tale impostazione, messa in discussione dall’evoluzionismo di Darwin, dalla psicanalisi di Freud e dalla critica al sistema capitalista di Marx (e con lui Weber, Sombart, Heidegger e tanti altri).
Questo processo si è verificato anche per il Protestantesimo americano in generale, benché assai meno che altrove. Negli Stati Uniti, però, vista la basilare importanza dell’esistenza dell’Antico Testamento in quanto tale, nel suo ambito è sopravvissuta una corrente che ancora sostiene la validità di una ferrea interpretazione letterale. Ci riferiamo appunto al Fondamentalismo americano. In altri termini, si può dire che esso rappresenta la parte originaria del Puritanesimo storico.
I grandi nemici dei Fondamentalisti sono Darwin, Freud e ogni critico del capitalismo, che individuano esemplarmente in Marx. All’evoluzionismo contrappongono il Creationism (creazionismo), negano ogni validità alla psicanalisi e ritengono il capitalismo il sistema sociale voluto da Dio. Nel 1925 i Fondamentalisti dell’epoca portarono in tribunale il professor John Scopes perché stava insegnando l’evoluzionismo in una scuola media di Dayton, in Tennessee; Scopes fu condannato a una multa e al pagamento delle spese processuali, e perse il posto. Dopo un periodo di latenza si sta assistendo, proprio in questi ultimi anni, a un ritorno della polemica anti-evoluzionista dei Fondamentalisti, che chiedono la reintroduzione dell’insegnamento del creazionismo nelle scuole, se non al posto almeno insieme all’evoluzionismo. Per il resto i Fondamentalisti sono contrari a ogni pratica sessuale al di fuori del matrimonio e, al suo interno, a ogni pratica eterodossa; sono contrari all’aborto, alla pornografìa, alla prostituzione, all’omosessualità, alla musica e al ballo rock, nonché alle bevande alcoliche, per le quali chiedono il ritorno al Proibizionismo. Sono invece favorevoli alle surrogate motherhoods, ai trapianti di organi con le relative compravendite, alle adozioni facili e cioè alla compravendita di bambini, alle manipolazioni genetiche; tutte cose utili all’establishment ricco. Per quanto riguarda la droga sono contrari, ma evitano l’argomento perché si rendono conto dell’importanza del traffico relativo per il governo americano, come si accennerà più avanti.
I leader dei Fondamentalisti sono i cosiddetti Televangelists. I Televangelisti sono dei pastori protestanti che a partire dagli anni Sessanta iniziarono ad usare il mezzo televisivo e radiofonico per ampliare il numero dei fedeli della loro comunità, ottenendo un grande successo a livello nazionale e trasformando così in molti casi le loro iniziali parrocchie in imperi finanziario-politico-religiosi. Erano tutti Fondamentalisti. Il primo a cominciare, rimasto il più noto e potente, è il reverendo Jerry Falwell, fondatore di quella Moral Majority che sostenne le elezioni di Reagan nel 1980 e 1984. Seguirono poi tanti altri, alcuni con fortune alterne dovute agli scandali finanziari o sessuali che li videro coinvolti. Possiamo citare i reverendi Robert H. Schuller, Pat Robertson, Billy Graham, Jimmy Swaggart, Oral e Richard Roberts, e Jimmy Bakker con la moglie-aiutante Tammy. Essi rastrellano contribuzioni dai telespettatori dicendo che le medesime saranno rese da Dio moltiplicate. Il motto è «The more you give the more He will give to you» (quanto più date, tanto più Egli vi darà). È sorprendente quante persone inviino danaro — 20, 50, 100 dollari alla volta, anche più — sperando che Dio faccia poi ottenere loro magari la vincita del jackpot di una lotteria. Le contribuzioni a Falwell vanno alla sua parrocchia, la Thomas Road Baptist Church di Lynchburg in Virginia (città fondata nel 1786 da John Lynch l’impiccatore, dove Falwell è nato nel 1933), e sono dichiarate da 40 a 80 milioni di dollari all’anno. La parrocchia è costituita da decine di fabbricati sparsi su decine di ettari con un laghetto al cui centro sorge un’isoletta chiamata da Falwell Treasure Island (Isola del tesoro); conta più di 20 mila membri ed ha più di mille impiegati a tempo pieno stipendiati da Falwell.
Alcuni slogan sintetizzano bene la filosofia dei Televangelisti. Jimmy Bakker: “Dio vuole che il suo popolo vada in prima classe”. Richard Roberts : “Il popolo di Dio ha il diritto di essere ricco”. Pat Robertson: “Le nostre proprietà provengono da Dio Onnipotente” (67). Il Televangelista Robert Tilton ha intitolato il suo ministero Success in Life. Ci si chiede come i Televangelisti possano conciliare tali concetti con il Vangelo del Nazareno. Eppure nei loro sermoni parlano sempre di “Christ”, come del resto fanno tutti i Protestanti. Fanno appunto come i correligionari americani: la vita va trascorsa cercando di arricchire come dice il V.T., e “Christ” è la figura che consola quando si è in un momento di crisi o si fallisce del tutto nello scopo.
Freudianamente poi essi, come gli altri Protestanti americani, si riservano l’esclusiva della definizione di “Christians” per differenziarsi dai Cattolici, chiamati “Catholics”.
Tutti i Televangelisti sono impegnati a finanziare o ad organizzare missioni all’estero. Jerry Falwell:
«L’anno scorso i raccolti sono venuti su bene ad Haiti. É la· prima volta in sei anni che c’è stata abbastanza pioggia. I missionari continuano a lavorare duro predicando il Vangelo ed insegnando alla gente come fare per mantenere le loro famiglie… I nostri giovani missionari in Corea [del Sud] dicono che quello è il paese più filo-americano e più filo-cristiano del mondo… I sud-coreani sono spaventati… I loro ufficiali sono concordi nel dire che se le truppe americane si ritirano senza dubbio i nord-coreani invaderanno, appoggiati dalla Russia o dalla Cina… I Cristiani saranno i primi a morire. Molti stimano che potrebbero essere uccisi sino a sei milioni di Cristiani…» (68).
3. La repressione sessuale
Il Protestantesimo si pone lo scopo di focalizzare la vita sul tentativo di arricchirsi.
Divertimenti eccessivi e dissipazioni varie distraggono e sono nocivi al successo materiale. Il Protestantesimo quindi reprime l’emotività, i sentimenti, la tendenza a godersi la vita. Gli Stati Uniti sono un paese assai morigerato, che non si diverte e non ha “debolezze”. Perciò è un grave errore giudicare questo paese da ciò che avviene nelle sue grandi città, specie New York e San Francisco. Sono solo poche grandi città che hanno logiche e necessità proprie. Gli Stati Uniti sono nel profondo un grande paese represso e bigotto (solo il 12% degli americani vive in città con più di 500 mila abitanti). Per esempio il ballo è assai poco diffuso negli USA; film che danno l’impressione contraria come Grease e Saturday Night Fever sono appunto ambientati in grandi città, dove oltretutto locali del genere non sono affatto numerosi.
Il consumo di alcol in genere, dalla birra al whisky, è sempre stato oggetto di dibattito. Nel 1833 si riuniva a Philadelphia l’associazione proibizionista dell’American Temperance Union, presente in 21 dei 23 Stati allora membri dell’Unione, che approvava la seguente risoluzione: «Il traffico di alcol, come bevanda, è moralmente sbagliato; e agli abitanti di città, villaggi ed altre comunità locali dovrebbe essere consentito dalla legge di regolare il predetto traffico nelle loro rispettive giurisdizioni» (69).
Nel 1919 fu poi approvato l’Emendamento XVIII, che dava inizio al Proibizionismo, annullato dall’Emendamento XXI del 1933. Oggi la vendita di alcolici, compresi birra, vino e cioccolatini al liquore, è vietata ai minori di 21 anni in tutti gli Stati; per legge i minori non possono consumarne, neanche durante un pasto in casa (è un reato penale che potrebbe venire alla luce malgrado la sua dimensione domestica, magari in una causa di divorzio). In parecchi Stati è vietato il consumo di ogni alcolico in pubblico; è per questo che gli esercizi che ne vendono sono “oscurati”, affinché dal di fuori non si possa vedere gente intenta a bere birra o altro.
Analogamente, chi beve un alcolico fuori di casa o da un bar come minimo prende la precauzione di tenere la lattina o la bottiglia in un sacchetto di carta anonimo; l’infrazione alla legge è evidente ma è improbabile che un poliziotto chieda di verificare il contenuto. Negli Stati del Sud la vendita di alcolici è vietata la domenica mattina. Infine in parecchie contee, sparse un po’ in tutti gli States, la vendita di alcolici è proibita del tutto.
Ma la repressione più clamorosa è quella effettuata nella sfera sessuale. La prostituzione è fuori legge negli Stati Uniti tranne che, con molte cautele, in Nevada, dove è il business statale, insieme al gioco d’azzardo. Nel resto degli States le poche prostitute in strada corrono rischi e in effetti vengono regolarmente arrestate. Anche appartarsi con una prostituta è reato penale; addirittura alcune donne poliziotto si travestono da prostitute e poi arrestano i “clienti”. L’esibizione di nudità — minuziosamente definite da sentenze della Corte Suprema (in pratica non si deve to show pink, “mostrare le mucose”) — porta all’arresto. La pornografia è fuori legge in quasi tutti gli Stati; nel Sud e in altri Stati riviste quasi castigate come Playboy e Hustler sono vendute sottobanco in alcune stazioni di servizio per automobilisti. Ciò non toglie che Los Angeles sia diventata la capitale mondiale della pornografìa: è un grande business e la politica dello Stato è di lasciarlo prosperare tranquillamente, all’unica condizione di smerciare il grosso della produzione all’estero, come in effetti accade. La diffusione del divorzio negli Stati Uniti dipende anche dal fatto che qui l’adulterio è sempre stato un reato molto serio. L’adulterio porta in carcere nei seguenti Stati: Alaska, Arizona, Colorado, Connecticut, Distretto di Columbia, Florida, Georgia, Idaho, Illinois, Kansas, Maryland, Massachusetts, Michigan, Minnesota, Mississippi, Nebraska, New Hampshire, New York, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Dakota del Nord, Oklahoma, Rhode Island, Utah, Virginia, West Virginia e Wisconsin.
La vecchia idea dei Puritani storici di spiare la gente nell’intimità è ancora valida.
Diversi tipi di pratiche sessuali sono proibite per legge in vari Stati, anche se compiute fra coniugi nella completa intimità domestica. La tabella che segue espone la situazione attuale, dove è anche opportuno notare l’intercambiabilità della pena detentiva con una multa. Dalla tabella si capisce anche come mai in certe città, per esempio San Francisco in California, ci siano tanti omosessuali: vi migrano da tutti gli altri Stati. La costituzionalità di tali leggi è stata confermata dalla Corte Suprema nel 1986: discutendo il caso Bowers vs. Hardwick la Corte ha trovato legittima la legge della Georgia che prevede un massimo di 20 anni di carcere per chi pratica sesso anale o orale. Nel 1988 tale James D. Moseley fu condannato in Georgia a 5 anni di carcere per aver praticato sesso orale con la propria moglie Bette — come aveva imprudentemente rivelato nel corso di un processo relativo ad altre circostanze; scontò 18 mesi di carcere effettivo alla Metro Correctional Institution, un carcere privato convenzionato (70).
Note al Capitolo III
65 – Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, op. cit.
66 – Programma trasmesso sulla rete PBS il 3/8/1988.
67 – “Newsweek” dell’8/2/1988.
68 – Gerald Strober e Ruth Tomczak, Aflame for God, Thomas Nelson Publishers, Nashville/New York, 1979, p. 160. É una biografia di Falwell scritta da due suoi impiegati.
69 – Ver Steeg e Hofstadter, A People and a Nation, Harper & Row Publishers, New York, 1976 p 235·
70 – Associated Press del 30/8/1989.
Capitolo IV – Il sistema oligarchico
1. Il meccanismo elettorale
Gli Stati Uniti non sono uno Stato: sono una federazione di Stati. Tutti gli Stati membri sono oligarchie basate sulla ricchezza, in modo più o meno accentuato. Questo sistema politico, inaugurato in epoca coloniale, è garantito in ogni Stato dalla relativa Costituzione, che prevede la possibilità di mantenere leggi elettorali adatte allo scopo. Tale possibilità è sempre stata sfruttata con successo da tutte le legislature statali. La Costituzione federale, come s’è visto, da un lato non interferisce con questo aspetto, anzi lo garantisce, e dall’altro prevede a sua volta un sistema elettorale oligarchico per la scelta del Congresso e delle cariche federali (in effetti, come recita la Costituzione del 1787, i requisiti per partecipare alle elezioni federali sono gli stessi richiesti per le elezioni statali). Dovrebbe essere superfluo osservare che, visti i poteri lasciati dalla Costituzione federale agli Stati, la vita di ogni cittadino americano è molto più influenzata dal suo governo statale che dal governo federale.
Le leggi elettorali degli Stati garantiscono la perpetuazione del sistema oligarchico in due modi: escludendo di fatto dal processo elettorale la parte meno abbiente della popolazione, e ammettendo di fatto il finanziamento privato delle campagne elettorali.
Occorrerebbe analizzare le leggi elettorali di 50 Stati. Non abbiamo né lo spazio né la ragione di farlo. Basta osservare in sintesi le percentuali di votanti alle elezioni statali: facendo una media fra i vari Stati siamo intorno al 25-30% per le elezioni municipali e di contea; al 35-40% per le elezioni di rinnovo dei Congressi di Stato quando non coincidono con le elezioni per il presidente federale (le elezioni di “Mid Term”); e al 50-55% per le medesime elezioni quando — una volta su due — vi coincidono. La più alta partecipazione al voto in assoluto si ha nelle elezioni finali per la scelta del presidente federale, cui sono anche abbinate, una volta su due, le elezioni per i rinnovi parziali dei Congressi statali e del Congresso federale: intorno al 50-55%. Queste percentuali sono notevolmente costanti nel tempo e sono circa le stesse che si verificavano nel 1787, l’anno dell’approvazione della Costituzione federale. Il nocciolo duro dell’elettorato, quello che dirige le sorti del paese, è il 25-30% che vota alle elezioni locali: esso vota anche a tutte le altre elezioni e ne determina l’esito. É costituito in grande maggioranza dai cosiddetti WASP. Non ci sono dubbi che le classi povere partecipino molto poco al voto. Basti il seguente dato marginale: nelle elezioni presidenziali, quelle che vedono la maggior partecipazione in considerazione anche del battage pubblicitario e della relativa semplicità, vota mediamente il 40% delle persone che vivono in affitto e il 70% di quelle che vivono in alloggi di proprietà.
Queste prestazioni espresse dalle elezioni americane, chiaramente volute, sono dovute a norme scritte degli Stati e ad accorgimenti pratici. Sino al 1964, quando fu approvato il Voting Rights Act, tali norme consistevano essenzialmente nel requisito di pagare o certi livelli di tasse o una poll tax per poter votare. Dopo il 1964 è rimasta, per poter votare, la necessità della registrazione, e cioè la necessità di iscriversi appositamente come elettore presso uffici municipali o di contea. Si è visto che tale requisito è sufficiente allo scopo, e quindi il Voting Rights Act è sempre stato confermato. Esso è richiesto da tutti gli Stati a eccezione del Dakota del Nord. Per potersi iscrivere bisogna essere residente nello Stato. Bisogna registrarsi entro un certo numero di giorni prima delle elezioni, mediamente 30. Occorre portare con sé alcuni documenti, fra i quali è obbligatorio il certificato di nascita, che costa dai 10 ai 20 dollari a seconda dello Stato. Quasi tutti gli Stati, poi, prevedono l’annullamento della registration card nel caso in cui il titolare abbia mancato di votare per un certo numero di anni, in numero variabile da 2 a 4 (sempre a seconda dello Stato); poi occorre rifare la trafila. Qualche Stato prevede l’annullamento della registrazione appena si manchi una elezione generale, cioè un abbinamento rinnovo Congresso statale/Congresso federale. In genere la registrazione copre tutti i tipi di elezione; Georgia, Idaho e Maryland prevedono una registrazione diversa per le elezioni municipali; il Minnesota per le elezioni di rinnovo dei Board of Education che amministrano le scuole (71). Il leader nero Tesse Jackson così scrisse sulla rivista Ebony dell’ottobre 1988: «In ogni Stato noi dobbiamo far approvare la possibilità di registrarsi presso il seggio elettorale e nello stesso giorno dell’elezione; questa è la chiave del potere». Poco dopo il deputato John Conyers presentò una proposta di legge in tal senso al Congresso federale, che la respinse. Nel 1993 il Congresso approvò invece una legge che permette il rilascio della registration card contestualmente al rilascio della patente di circolazione; ciò non ha avuto influenza alcuna sulla partecipazione al voto, naturalmente.
Per quanto riguarda gli accorgimenti pratici, essi variano molto da Stato a Stato. Comuni a tutti sono i seguenti: non tenere mai le elezioni in giorni festivi o di domenica; tenere aperti i seggi solo un giorno e nelle ore diurne; non obbligare i datori di lavoro a pagare le assenze per andare a votare; far cadere in giorni diversi le molte elezioni che si tengono nel paese (per le cariche conteali; per le cariche municipali; per lo sceriffo; per i giudici di contea; per i consigli scolastici; per i rinnovi delle legislature statali). Infine è abbastanza diffuso il fenomeno del gerrymandering [propriamente, “gerrymander” significa “broglio elettorale, manipolazione” – N.d.E.], e cioè la definizione dei distretti elettorali in modo da offrire meno peso ai quartieri poveri.
Così il professor Graham Allison della Harvard University ha spiegato la bassa partecipazione alle elezioni negli Stati Uniti:
«… I problemi… provengono da barriere nel nostro processo elettorale: procedure di registrazione complicate; una moltitudine di giorni d’elezione per elezioni statali, locali e federali, e orari di voto scomodi … Oggi in alcuni Stati [in realtà quasi tutti – N.d.A.] per registrarsi uno deve presentarsi sino a più di trenta giorni prima di un’elezione in luoghi assai poco invitanti come gli scantinati di una prigione municipale…» (72).
Gli effetti di simili leggi e accorgimenti apparentemente quasi innocui vanno valutati tenendo conto della realtà sociale americana. Qui mediamente il 16-18% delle famiglie ogni anno trasloca, in genere cambiando contea. Ci sono circa 8 milioni di adulti che all’atto pratico sono nomadi (sono i migrant workers, in generelavoranti agricoli stagionali). Il 15% della popolazione adulta, pari a 27 milioni di persone, è virtualmente analfabeta (acquistano le scatolette di cibo in base alle figure). Molti lavorano normalmente di notte (supermercati, stazioni di servizio ecc.). Molto spesso non esistono trasporti pubblici al di fuori delle grandi città; per molti andare a votare significa chiamare il taxi. Ci sono 15 milioni di americani che lavorano per la minimum wage.
Per quanto riguarda il finanziamento delle campagne elettorali, valgono discorsi analoghi. Per le elezioni statali 15 Stati su 50 prevedono dei finanziamenti pubblici integrativi, oltretutto complicati da ottenere perché soggetti a innumerevoli restrizioni ed eccezioni; i rimanenti 35 Stati non prevedono fondi pubblici. Per le elezioni federali sono previsti dei fondi integrativi pubblici, ma sono troppo scarsi rispetto alle esigenze di campagne elettorali in un paese così vasto, e il ricorso ai medesimi esclude così tante altre fonti di finanziamento privato che quasi nessun candidato vi fa ricorso. Per contro i partiti, che non pongono limiti al reperimento di fondi, possono finanziare a volontà i candidati scelti. Ciò è stato ribadito dalla Corte Suprema nel 1996 nel caso Colorado Republican Federal Campaign Committee vs. Federal Election Commission, con la limitazione che il finanziamento non influisca sull’“indipendenza” dei candidati. L’effetto è sotto gli occhi di tutti: sono eletti solo i portatori di interessi economici rilevanti, mentre nel corso degli anni mai meno dell’80% dei membri del Senato federale è stato costituito da autentici miliardari, L’establishment americano definisce quella del paese una democrazia One Man One Vote; il popolino la chiama One Dollar One Vote. É rimasto tutto come ai tempi della Massachusetts Bay Colony.
2. I due Partiti
Esistono sulla carta una ventina di partiti negli Stati Uniti. Esiste addirittura un Communist Party USA, con sede legale al 235 West XXIII Street, 10011 New York. All’atto pratico, come tutti sanno, ci sono solo due partiti, il Repubblicano e il Democratico, che si spartiscono indistintamente tutti i seggi in tutte le legislature sia statali sia federali, e ai quali appartengono tutti gli eletti a una qualche carica pubblica, sia statale sia federale. Gli altri partiti sono dovuti a iniziative isolate, che il sistema elettorale tollera ma non fa progredire neanche a livello di contea. Il Communist Party USA è in realtà un ufficio dell’FBI. Nel 1995 il miliardario texano Ross Perot fondò un suo proprio partito, il Reform Party, con la speranza di partecipare al gioco delle primarie presidenziali. In occasione delle primarie presidenziali, infatti, spunta sempre un “partito nuovo”, con l’obiettivo, non si sa fino a che punto in buona fede, di rompere il duopolio Democratici-Repubblicani; è il Third Independent Party di cui ogni volta si favoleggia. I tentativi non hanno mai avuto seguito.
Il duopolio non si può rompere. Infatti i partiti repubblicano e democratico esprimono l’establishment oligarchico americano in modo necessario e sufficiente.
Questo accade dal 1787, benché nei primi decenni i due schieramenti avessero nomi diversi dagli attuali. Essi rappresentano le due facce onnipresenti del capitalismo: il capitalismo statico e il capitalismo dinamico. Nella realtà americana, essi sono sinteticamente descrivibili come segue.
Il partito repubblicano è il partito del capitale statico, o soddisfatto. Si potrebbe anche dire, visto il livello economico in generale dei suoi elettori, che è il partito della classe media, comunque espressione interna alla classe oligarchica, ma per quanto riguarda le preferenze elettorali prevale un fatto qualitativo più che quantitativo. Più che l’entità del reddito prevale l’atteggiamento psicologico del titolare nei confronti del medesimo. Il partito repubblicano è dunque votato da persone abbastanza soddisfatte e sicure della propria situazione materiale. Si tratta in genere di piccoli e medi imprenditori di tutti i settori, di artigiani costruttori e riparatori, di professionisti, negozianti, agricoltori e allevatori, dipendenti fidati di vecchie e solide aziende manifatturiere di dimensioni piccole e medie, con mercato locale o al massimo nazionale. Esso raccoglie inoltre la maggioranza dei pensionati. Tutte queste persone non vedono troppo di buon occhio lo sviluppo economico, principalmente per i continui stravolgimenti sociali e psicologici che esso comporta.
Sono ferocemente contrari a tasse e inflazione, perché più che a incrementare il guadagno la loro psicologia li porta a privilegiare la conservazione dell’acquisito. Esse danno una certa importanza alla qualità della vita e quindi sono per la repressione della criminalità, per il controllo dell’immigrazione, per la lotta alla droga e alla pornografìa, per il potenziamento della scuola privata nei confronti di una scuola pubblica caotica e indisciplinata. Per quanto riguarda la politica estera non vedono di buon occhio né la liberalizzazione del commercio mondiale, né l’ingerenza in tante organizzazioni internazionali, come per esempio l’ONU. Sono certamente favorevoli alla sempiterna politica estera dei loro governi federali, da sempre mirata alla conquista del Mercato dell’Oriente e quindi, da un certo momento in poi, dedita anche al neocolonialismo, a patto che ciò non comporti troppi attriti con paesi militarmente forti.
Il partito democratico è invece il partito del capitale dinamico, insoddisfatto, fluttuante. Anche in questo caso il livello del reddito conta poco: si può andare dagli svariati milioni di dollari all’anno alla minimum wage, passando per tutti i valori intermedi, ma l’insoddisfazione prevale nelle fasce estreme. Sono favorevoli al partito democratico generalmente i titolari di redditi altissimi e quelli dei più bassi, sempre, beninteso, nell’ambito della classe dominante. Da una parte abbiamo essenzialmente le grandi società per azioni americane (le cosiddette multinazionali, quali in effetti sono) e dall’altra la moltitudine degli operai e dei salariati vari, fra i quali certamente la maggioranza dei dipendenti pubblici. Sono entrambi insoddisfatti, e quindi dinamici, in movimento, realmente o potenzialmente. Le società per azioni si prefiggono per finalità istituzionale guadagni sempre maggiori mentre gli altri hanno un reddito basso e incerto in funzione dell’andamento e degli umori dell’azienda (negli USA c’è libertà di licenziamento anche per i dipendenti pubblici, anzi per loro in primis).
Il partito democratico è dunque per lo sviluppo dell’economia a tutti i costi. Ad esso sacrifica sia la stabilità sociale sia la qualità della vita. Criminalità, droga e pornografìa sono combattute, ma non poi così tanto, in particolare — come vedremo — la droga: in fin dei conti sono settori che danno “opportunità di lavoro”, fanno girare il danaro. L’immigrazione è più accettata, perché fornisce manodopera sottopagata alle aziende agricole e ittiche, lavori che alla categoria operaia americana non interessano. I Democratici non sono così contrari alle tasse come i Repubblicani. Le società per azioni, in ultima analisi, ne pagano poche o punto, mentre operai e salariati vari necessitano di un governo equilibrato che con leggi e controlli li protegga dalle loro stesse aziende. Anche l’inflazione non è così temuta, essendo fonte di opportunità e cambiamenti.
Per quanto riguarda la politica estera va detto che il vero motore della politica neocolonialista americana nel mondo, e della spinta verso il Mercato dell’Oriente, è il partito democratico. Questo ha origine, ovviamente, da quanto si è detto: sono le multinazionali a trarne i massimi benefici e i salariati americani, in buona parte dipendenti delle medesime, si garantiscono il lavoro e magari aumenti di stipendio.
Per tali politiche il partito democratico è disposto a sfidare il mondo ben al di là di quanto non farebbe mai il partito repubblicano. In effetti tutti i conflitti più gravi nei quali gli Stati Uniti si sono impegnati hanno avuto inizio con presidenti democratici. Il Lincoln della Guerra Civile, il Wilson della Prima Guerra Mondiale, il Roosevelt della Seconda, il Truman della Guerra di Corea e i Kennedy e Johnson della Guerra del Vietnam erano democratici. Il partito federalista di Lincoln era quello che poi sarebbe diventato il partito democratico. I presidenti repubblicani, invece, hanno scatenato solo guerricciole, interventi armati contro avversari poco impegnativi, come le repubbliche delle banane latino-americane (per esempio la Grenada di Ronald Reagan), o interventi timidi nonostante le apparenze, e sotto lo scudo dell’ONU, come l’attacco al più consistente Iraq, poi addirittura fallito (come già sottolineato, Saddam Hussein è ancora al suo posto, benché il popolo iracheno sia in gravissime difficoltà per via delle sanzioni economiche di USA-ONU).
In effetti è solo nella conduzione della politica estera che si rilevano apprezzabili differenze fra i due partiti americani. Per il mondo sarebbe meglio se gli Stati Uniti fossero governati sempre dai Repubblicani. Ma, per l’impostazione spiegata prima, è il partito democratico a sembrare il più popolare e quindi il meno pericoloso. Per la politica interna non ci sono differenze di rilievo.
Da notare il gioco delle parti condotto dai due partiti allo scopo di non modificare niente: i presidenti democratici accusano i Congressi a maggioranza repubblicana per la mancata attuazione di riforme, come fa attualmente il presidente Clinton, e così fanno i presidenti repubblicani con Congressi a maggioranza democratica. Quando sia Presidente che Congresso appartengono allo stesso partito si trovano altri espedienti (tenete conto che il libro risale al 1998). Ciò capitò in maniera clamorosa con il presidente Roosevelt: era democratico, e così era la grande maggioranza del Congresso, e così fu per i suoi dodici anni di presidenza, ma riforme non si fecero perché in quel caso era la Corte Suprema ad essere a maggioranza repubblicana.
3· La repressione politica
Un regime oligarchico fondato sulla ricchezza, sia pure a base molto larga come quello americano, presuppone la presenza di ampi strati della popolazione in condizioni economiche precarie e disagevoli. Negli Stati Uniti i ceti più disagiati hanno sempre rappresentato circa il 25% della popolazione, con l’eccezione del periodo della Grande Depressione, durata dal 1929 al 1941, quando raggiunsero il 30%. Attualmente sono intorno ai 60 milioni, pari appunto al 25% dell’intera popolazione. Le loro istanze in merito a una più equa distribuzione della ricchezza vanno di necessità represse, sia direttamente (ostacolando per esempio la formazione di sindacati) sia indirettamente (soffocando il dissenso politico verso il “sistema”).
La storia degli Stati Uniti è costellata di scioperi, manifestazioni e rivolte, e delle relative repressioni, spesso sanguinose. Le agitazioni tendevano ad acuirsi nei periodi di crisi economica, che ciclicamente colpiscono gli Stati Uniti; “grandi depressioni” economiche ci furono nel 1782, 1854, 1857, 1873, 1884, 1893, 1907, 1921, 1927, 1929/41, 1973/75 e 1980/82. Si è parlato della Shays’ Rebellion del 1787. Seguirono tanti altri episodi: se ne possono ricordare alcuni fra i più rilevanti ed esemplificativi.
Nel 1794, in Pennsylvania, ci fu una rivolta di piccoli agricoltori repressa con l’invio di 15.000 uomini della Guardia Nazionale; viene chiamata riduttivamente la Whiskey Rebellion perché il casus belli fu una tassa sulla fabbricazione di liquori. Nel 1824 ci fu uno sciopero delle lavoranti femminili del settore tessile, il primo che vedeva coinvolte massicciamente le operaie. Nel 1860 ci furono scioperi nel settore calzaturiero di tutto il New England. Gli ultimi due decenni dell’Ottocento videro lotte sociali violentissime in tutto il New England, diffuse in ogni settore; miriadi di scioperi, serrate, confronti armati fra operai da una parte e guardie private assoldate dagli industriali e polizie statali e federali dall’altra. In Pennsylvania, nell’ambiente dei minatori, si formarono anche dei gruppi semisegreti per proteggere gli scioperanti dagli abusi di polizia e dai sicari padronali; uno di questi, formato da minatori irlandesi, era chiamato Molly Maguires e fu neutralizzato nel 1877 con l’impiccagione di undici suoi esponenti. Nel 1866, a Chicago, scoppiò una rivolta di lavoratori accompagnata da attentati dinamitardi e conseguente intervento della polizia; il bilancio delle vittime fu di 7 poliziotti e 4 operai. Nello stesso anno veniva formata la American Federation of Labour (AFL), che riuniva 25 piccoli sindacati di categoria. Nel 1892 si verificarono scioperi alle acciaierie Carnegie a Homestead in Pennsylvania, nel corso dei quali rimasero uccisi 11 scioperanti e 7 guardie padronali.
Nel 1894 tale Jacob Coxey guidò una marcia di disoccupati dall’Ohio a Washington, la Coxey’s Army, Coxey fu arrestato per aver oltrepassato il confine di proprietà della Capitol Hill. Nel 1916 due attivisti sindacali, Mooney e Billings, fecero esplodere una bomba durante una manifestazione pubblica a San Francisco provocando 10 morti. Nel 1920 un’altra bomba faceva saltare Wall Street, la Borsa statunitense, provocando 30 morti e più di 100 feriti. Nel 1922 furiosi combattimenti in occasione di scioperi dei minatori ad Herrin, in Illinois, provocarono 36 morti, quasi tutti minatori. Dal 1920 al 1922 si colloca il periodo del cosiddetto Red Scare (terrore rosso), in cui repressione sindacale e repressione politica si intersecarono. Nel 1946 ci furono scioperi generalizzati nel settore industriale, iniziati da 400 mila minatori.
Così, nel 1947, il Congresso finì per approvare il Taft-Hartley Labour Act che rendeva gli scioperi praticamente illegali. Il provvedimento fu efficace: scioperi e manifestazioni continuarono e continuano tutt’oggi, ma non certo con l’imponenza di un tempo a causa degli attuali meccanismi di controllo, assolutamente legali. Nel 1981, per esempio, il presidente Reagan risolse lo sciopero generale dei 50 mila controllori di volo federali licenziandone 15 mila. La legge del 1947 riuscì anche a demolire progressivamente la quota sindacalizzata dei lavoratori dipendenti americani. Questa, giunta faticosamente al livello del 13,5% negli anni Trenta, aveva subito un balzo al 35% negli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando serviva la collaborazione delle maestranze; a partire appunto dal 1947 iniziò una discesa lenta ma costante, che l’avrebbe portata al 14,8% del 1995, un valore analogo a quello del 1935.
Anche la repressione politica vera e propria è sempre stata una costante della storia americana. Già nel 1798 il Congresso approvava l’Alien and Sedition Act, una legge mirante ad imbavagliare l’opposizione politica, da allora mai revocata. Ma quella fu anche l’ultima volta che l’establishment oligarchico sarebbe ricorso a leggi manifestamente repressive. Il sistema repressivo americano interno fa il paio con il sistema neocolonialista in politica estera: tutto si giustifica nelle scelte pratiche, mentre si salvaguarda l’altisonante teoria di facciata. Gli oppositori ritenuti pericolosi sono messi in difficoltà in vari modi. Prima si minano le loro fonti di sostentamento economico: non c’è datore di lavoro negli Stati Uniti che non si faccia scrupoli a licenziare un dipendente in base a un semplice “consiglio” dell’FBI. In genere è già sufficiente; altrimenti ci sono gli arresti con motivi pretestuosi o con prove false.
Anche quando sono leciti, però, gli arresti procurano condanne esagerate, mai seguite da riduzioni di pena come in tutti gli altri casi. Silvia Baraldini è stata condannata a 40 anni di carcere perché in buoni rapporti con un individuo ritenuto colpevole di un attentato politico. Dello stesso entourage faceva parte anche Susan Rosemberg, condannata a 58 anni di carcere perché trovata pure in possesso di esplosivi, una merce del resto presente in quasi tutte le case americane. La Rosemberg, come la Baraldini, sconterà per intero la condanna: sono state praticamente condannate all’ergastolo effettivo. Nel 1974 era stato condannato all’ergastolo l’attivista per i diritti civili Gary Tyler, in base ad un’accusa d’omicidio completamente falsa. Ma casi simili sono letteralmente migliaia. All’epoca della Guerra Fredda i russi dicevano che nelle carceri statunitensi c’erano circa 10 mila detenuti politici, cioè persone come Tyler, la Rosemberg e affini. Dovrebbe essere una cifra attendibile. Nei casi estremi c’è l’omicidio senza firma dell’oppositore politicamente pericoloso, eseguito direttamente od organizzato dall’FBI, e qualche volta dalla CIA.
Non bisogna sorprendersi dell’alto numero di prigionieri politici negli USA: esiste un’opposizione politica ristretta ma attiva, che non trovando varchi nel sistema elettorale sconfina inevitabilmente nella clandestinità, per affiorare con le sue punte estremiste come tanti iceberg. Una spia di tale situazione sono i numerosi attentati terroristici “antisistema” che si verificano negli Stati Uniti, in ragione di circa 150 ogni anno, solo i più clamorosi dei quali vengono portati — per forza di cose — all’attenzione dell’opinione pubblica interna e internazionale. Fra i più recenti si possono citare l’attentato del 16 aprile 1995 a un edificio federale di Oklahoma City, che ha causato 169 morti e per il quale è stato incriminato tale Timothy McVeigh, e l’attentato del 27 luglio 1996 ad Atlanta in occasione delle Olimpiadi, che ha provocato un morto e 100 feriti; il 3 aprile 1996 veniva arrestato l’oppositore solitario prof. Theodore Kaczinski (Unabomber72bìs), accusato di 16 attentati dinamitardi dal 1978 al 1995, causa in totale di 3 morti e 29 feriti. Sotto la superficie allegra e spensierata dipinta da Hollywood c’è dunque una realtà di opposizione al “sistema” non trascurabile e spesso violenta.
Tutto questo è sempre stato di normale amministrazione negli Stati Uniti. Ci sono poi periodi di particolare virulenza repressiva, nei quali l’establishment, per motivi contingenti, è preso dalla psicosi di una cospirazione nei propri confronti, dal terrore di perdere i propri privilegi. Esempi significativi sono il Red Scare del 1920-1923, l’Era McCarthy del 1950-1954 e il periodo delle Pantere Nere del 1967-1973.
Il Red Scare fu scatenato dalla Rivoluzione Russa del 1917, quando i comunisti presero il potere in quella vastissima area geopolitica che rappresentava il maggiore ostacolo alla conquista del Mercato dell’Oriente. L’establishment americano temette che i comunisti potessero impadronirsi del potere anche negli Stati Uniti. Cominciarono così le persecuzioni nei confronti di individui e associazioni sospettati di comunismo, socialismo, anarchismo e, in generale, di qualunque cosa non contemplata dall’American Way of Life. Dal 1920 al 1923 decine di migliaia di persone furono arrestate dall’FBI e soggette alle angherie più disparate, mentre folle di immigrati più o meno recenti venivano passati al setaccio e molti venivano rispediti nei paesi d’origine. Il tutto in base solo a sospetti, dicerie, opinioni. Il Primo Emendamento era sempre in vigore, naturalmente. É su questo sfondo che si collocò il processo ai due immigrati italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, colpevoli di interessarsi di politica e di professare idee anarchiche. Nel 1921, con un processo farsa, furono giudicati colpevoli di una rapina avvenuta l’anno prima in Massachusetts e nel corso della quale erano stati uccisi due uomini; condannati a morte, furono impiccati sei anni dopo. Nel 1977 il governatore dello Stato del Massachusetts, Dukakis, ne ha riabilitato la memoria.
L’Era McCarthy cominciò nel 1950. In quel periodo gli Stati Uniti avevano le bombe atomiche, la Russia no. La gente si chiedeva cosa aspettasse il governo a usarle contro la Russia. Il motivo era che le bombe atomiche a disposizione erano relativamente poche e non avrebbero avuto quasi nessuna influenza in una eventuale guerra contro la Russia — anche in virtù del fatto che Stalin aveva eretto la Cortina di Ferro, una misura sempre ritenuta di carattere politico e che invece aveva essenzialmente un carattere militare difensivo appunto nei confronti di attacchi nucleari americani (73). Il Senatore del Wisconsin al Congresso federale, Joseph Raymond McCarthy (1909-1957), non credeva a quella voce che circolava nell’ambiente; credeva invece che l’attacco nucleare alla Russia non venisse sferrato perché i comunisti o loro simpatizzanti si erano infiltrati sino ai più alti vertici politici e militari del paese. Iniziò così un’opera di bonifica con facili accuse portate a tutti i livelli. Il primo a dover essere risanato era naturalmente il settore della politica estera: la prima lista di proscrizione di McCarthy riguardava infatti 205 «noti comunisti rintanati al Dipartimento di Stato come tanti ragni». Quindi passò all’ambiente della ricerca nucleare, accusato di aver trasmesso notizie ai russi. Galvanizzato dal consenso popolare — entusiastico — McCarthy portò analoghe accuse in ogni settore, sia pubblico sia privato. In breve egli divenne il leader dello House Committee on Un-American Activities, un comitato parlamentare (lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo) che divenne noto come Commissione McCarthy. In due anni vennero controllati dalla Commissione, tramite l’FBI, circa tre milioni di dipendenti governativi di ogni livello; 2 mila si dimisero per evitare pretestuose incriminazioni, mentre più di 200 furono licenziati e costretti a impieghi umilianti. Ogni settore sociale fu interessato dalla caccia alle streghe di McCarthy. Migliaia di persone persero il posto di lavoro in base ad accuse campate per aria, spesso frutto di rivalità personali; i suicidi si contarono a decine. La Commissione si occupò anche dell’industria cinematografica, di Hollywood, e anzi soprattutto per questo è ricordata ancora oggi, ma in quel caso si trattò di una rifinitura perché — come vedremo nel prossimo paragrafo — Hollywood era già stata “ripulita” qualche anno prima. Le persecuzioni iniziarono ad allentarsi nel 1954, in seguito al discredito in cui era caduto il senatore McCarthy per essere stato scoperto a chiedere favori personali all’Esercito in cambio del suo sdoganamento ideologico. In realtà le persecuzioni si allentarono perché lo scopo era stato raggiunto. L’ostilità sociale per i colpiti continuò ancora per molto tempo, praticamente fino ai primi anni Settanta. Lo House Committee on Un-American Activities sopravvisse, ma nello stesso 1954 fu ribattezzato House Internal Security Committee (HISC).
Lo HISC si occupò del successivo e per ora ultimo grande periodo repressivo americano, quello del 1967-1973. Si è già accennato al modo in cui il movimento per i diritti civili dei neri fu reso inoffensivo, sia nella sua ala politica guidata da Martin Luther King sia nella sua ala “armata” delle Pantere Nere, decapitandolo dei suoi leader. È un dato di fatto che King fu fatto assassinare dall’FBI; lo stesso sistema fu usato per alcuni altri esponenti del movimento. Le Pantere Nere erano formate da poche decine di militanti: nell’arco di pochi anni furono assassinati uno dopo l’altro, per strada, da agenti dell’FBI che tendevano loro imboscate fatali. Maniere meno spicce furono riservate a qualche leader troppo visibile sulla stampa e in televisione, come per esempio Bobby Seale. Seale è uscito dal carcere nel 1997, e in un’intervista televisiva trasmessa anche in Italia ha raccontato come fece l’FBI a distruggere le Pantere Nere: proprio come si è appena detto. L’FBI, come la CIA del resto, non compie delitti di sua iniziativa; necessita di ordini o dell’assenso sia del Congresso sia del Presidente. E questo fu appunto ciò che accadde nell’ambito istituzionale dell’HISC.
Anche i simpatizzanti bianchi delle Pantere Nere furono colpiti, qualche volta con esiti micidiali. Triste, per esempio, fu il caso della bella attrice Jean Seberg. Nel 1968-69 la Seberg era attivamente simpatizzante delle Pantere Nere e perciò inserita nell’operazione COINTELPRO, come era chiamato in codice dall’FBI il programma di distruzione delle Pantere Nere. Nel 1970 la Seberg restò incinta e l’FBI colse l’occasione per diffondere sui media la falsa notizia che il padre era un leader delle Pantere Nere. Letta la notizia la Seberg fu colta da malore e, in preda alle doglie, diede alla luce un bambino prematuro che morì tre giorni dopo. La donna tentò il suicidio a ogni anniversario della morte del piccolo, sino a che vi riuscì dopo nove tentativi, nel 1979. L’allora direttore dell’FBI William Webster (poi promosso capo della CIA) riconobbe le responsabilità dell’Agenzia, e così si affrettò a rassicurare l’opinione pubblica:
«I giorni in cui l’FBI usava la diffamazione per combattere i sostenitori di cause impopolari sono passati da molto tempo. Noi abbiamo chiuso per sempre con quelle attività».
Da notare come Webster abbia usato l’espressione “cause impopolari”. Le cause del movimento per i diritti civili, comprese quelle delle Pantere Nere, non erano in effetti illegali; erano solo “impopolari”, Un-American. Che l’FBI abbia cessato tali attività non è certamente vero: ci sono centinaia di casi documentati di intimidazioni, arresti pretestuosi, diffamazioni gratuite, persino omicidi, operati dall’FBI a partire dal 1973 fino ad oggi.
Con le Pantere Nere, però, l’HISC si fece una cattiva fama, soprattutto all’estero. L’USIA consigliò allora di annunciare il suo scioglimento, cosa che fu formalmente fatta. Le sue mansioni di controllo e repressione del dissenso però rimangono, celate dietro commissioni congressuali dal nome innocuo. Tali mimetizzazioni non sono state ritenute necessarie a livello di Stati. In questo modo tutti gli Stati della federazione hanno delle commissioni parlamentari il cui scopo statutario è il controllo e la eventuale repressione del dissenso politico. Queste commissioni sono al livello delle Camere dei Deputati e sono ancora chiamate House Committee on Un-American Activities, ognuna preceduta dal nome del relativo Stato. Fa eccezione la California, che ne ha due, una per la Camera e una per il Senato; sono rispettivamente chiamate California House Committee on Un-American Activities e California Senate Committee on Un-American Activities.
Ecco, dunque, per sommi capi come si conviene allo spirito del presente scritto, una sintesi panoramica sulla repressione del dissenso. Naturalmente prima c’è la prevenzione del medesimo, costituita essenzialmente dal controllo dei sistemi scolastico, culturale, informativo, mediale. Non possiamo dilungarci sull’argomento, ma è necessario almeno citare la questione della droga.
In un paese totalitario e con molti poveri la diffusione della droga concorre in maniera abbastanza apprezzabile alla prevenzione del dissenso politico: in grande maggioranza i suoi utilizzatori fanno parte dello strato più disagiato della popolazione, risultando così politicamente inoffensivi perché completamente assorbiti dalla loro dipendenza. Va anche detto che tali elementi diventano poi un’ottima fonte di obbediente e sottopagata manodopera per i più vari settori. A ciò bisogna aggiungere la possibilità di diventare spacciatori di droga, una risorsa della quale approfittano i più violenti e anche i più coraggiosi, gli elementi più adatti a suscitare rivolte. Marx diceva: «la religione è l’oppio dei popoli»; in realtà l’oppio dei popoli è proprio l’oppio. Così il governo statunitense, perseguendo queste finalità, non contrasta affatto il traffico di droga nel suo stesso paese, anzi addirittura lo incoraggia, limitandosi a controllarlo perché rimanga negli ambiti previsti (74).
Tale politica ebbe inizio a partire dai primi anni Cinquanta, quando contemporaneamente c’era la necessità di favorire il traffico di eroina dell’alleato Kuomintang (Partito nazionalista del popolo) della Birmania, che come accenneremo si era impadronito in quegli anni della produzione di oppio del Triangolo d’Oro. La CIA e il Pentagono si occuparono direttamente di far arrivare l’eroina negli Stati Uniti e di riciclare il danaro. I trasporti venivano effettuati con i C-47 dell’Air Force e con aerei civili della Civil Air Transport, più tardi ribattezzata Air America, una compagnia gestita dalla CLA75. Un trattamento analogo fu riservato alla cocaina dell’America Latina a partire dai primi anni Sessanta. E così via sino ai giorni nostri.
Queste importazioni di droga non danneggiano affatto l’economia statunitense: è il governo, in ultima istanza, a controllare il grosso del riciclaggio internazionale del danaro della droga, e i dollari usciti per l’acquisto delle partite di droga rientrano quasi tutti negli USA, dove ricompaiono sotto forma di depositi bancari. L’economia americana anzi ne beneficia perché il risultato netto dell’operazione è che i pochi dollari che escono dalle tasche dei tantissimi consumatori di droga pesante americani (circa 5 milioni) vengono a ritrovarsi sempre negli States sotto forma di grossi capitali concentrati, adatti per investimenti produttivi.
Tale politica interna della droga posta in essere dai vari Congressi e Amministrazioni statunitensi è stata denunciata fra le righe, nel 1989, dal Deputato al Congresso federale Charles Rangel, un nero allora presidente dello House Select Committee on Narcotic Abuse and Control. Così si espresse Rangel (e non un solo media americano fece intendere di aver capito):
«Ignorando il problema, credendo che si trattasse di qualcosa che riguardava solo la comunità nera e pochi ricchi sofisticati e non prendendo nessun serio provvedimento contro questa cosa maledetta [la droga], non solo ne abbiamo perso il controllo ma abbiamo anche fatto sapere ai trafficanti che hanno mano libera per sviluppare qui [negli Stati Uniti] un mercato ideale per questo tipo di prodotto» (76).
Purtroppo anche i governi dell’Europa Occidentale sembrano seguire tale logica, specialmente quello della Gran Bretagna, non per nulla il primo paese ad aver usato il traffico di droga per fini politici (nell’Ottocento, in Cina).
Non esiste, dunque, negli Stati Uniti nessuna libertà politica, né mai vi è esistita. In teoria il Primo Emendamento concede ogni libertà di espressione e di riunione, ma all’atto pratico non è così. Eppure nel mondo l’opinione comune è — naturalmente — che gli Stati Uniti siano la patria di ogni libertà. Questo dipende da vari motivi.
Innanzitutto da quanto detto nell’introduzione, in particolare sull’imponente propaganda culturale e politica eseguita dal governo americano e dai media del paese. In secondo luogo dal fatto che la dittatura dell’establishment oligarchico avviene solo, appunto, all’atto pratico, facendo salve le dichiarazioni di principio come per esempio il Primo Emendamento, che in effetti può essere considerato uno slogan propagandistico. Infine non bisogna trascurare un importante benché banale equivoco nel quale si cade facilmente quando si parla di libertà con gli americani: essi infatti vi attribuiscono unicamente, a ben vedere, il significato di libertà economica, e cioè di libertà di cercare di arricchirsi. Ronald Reagan era sì un ex attore, ma aveva delle qualità: sapeva cogliere il nòcciolo dei problemi senza lasciarsi distrarre dalle apparenze, ed era sincero. Di lui i media americani dicevano: He thinks what he says and says what he thinks — “pensa quello che dice e dice quello che pensa”. Era vero.
Ebbene, così disse Reagan, a proposito della libertà negli Stati Uniti, in un discorso tenuto alla fine del 1986: «America it’s a free country cause in America there’s the freedom to become rich» — “l’America è un paese libero perché in America c’è la libertà di diventare ricchi”.
4. Hollywood
Sarebbe necessario un intero e lungo capitolo da dedicare alla propaganda di Stato americana, data la sua colossale entità e il raggio d’azione che risponde a varie esigenze governative, dalla prevenzione del dissenso interno alla politica estera.
Vincoli di spazio non lo permettono. Vista la sua notorietà va però almeno trattato, sia pure brevemente, l’argomento di Hollywood, intendendo per antonomasia con questa parola la filmografìa americana, anzi tutto il mondo dello spettacolo made in USA.
Come si è accennato nell’introduzione il governo americano, tramite le sue Agenzie, controlla i mass-media nazionali in modo che nell’immaginario collettivo sia consolidata una ben precisa — ancorché falsa — visione degli Stati Uniti, quella della Retorica di Stato sempre proposta: Stati Uniti opulenti, patria della Libertà, paladini della Pace, difensori dei Diritti Umani, garanti di ogni Religione e così via.
Ciò è fondamentale per proseguire la tradizionale politica interna e soprattutto per mettere in atto una politica estera così nociva nei confronti di tutti gli altri paesi, ai cui occhi quindi occorre farsi passare per qualcosa che non si è, qualcosa di innocuo, anzi di benefico. In questo clima Hollywood, vista la sua influenza sull’immaginario del pubblico interno ed estero, non poteva essere lasciata a se stessa, indipendente, col solo obiettivo di realizzare profitti economici. Infatti non lo fu. La storia dell’asservimento di Hollywood alle esigenze di Stato è ben nota, ma va approfondita.
Agli inizi Hollywood crebbe in pace e autonomia. Non si aveva ancora idea della sua formidabile importanza politica. Iniziò ad attrarre l’attenzione dell’establishment negli anni Trenta, quando produsse alcune pellicole di contenuto “sociale”, in linea con la politica apparente del New Deal del presidente Roosevelt (“apparente” perché in realtà Roosevelt non aveva alcuna intenzione riformistica; voleva solo salvare il regime oligarchico da una rivoluzione popolare innescata dall’eccesso di miseria portato dalla Grande Depressione iniziata nel 1929, ma non fu scoperto dagli intellettuali né fu capito da buona parte dell’establishment stesso: era troppo scaltro per entrambi). La tendenza fu acuita dall’arrivo negli Stati Uniti, a partire dal 1936, di molti intellettuali tedeschi “progressisti” in fuga dalla Germania nazionalsocialista, come Bertolt Brecht, Thomas Mann, Erich Fromm, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Hanns Eisler, Fritz Lang, Billy Wilder (il cui vero nome era Samuel Wilder) e molti altri. Alcuni avevano già lavorato nel cinema o nel teatro (come Lang e Wilder, per esempio, entrambi registi) e si stabilirono a Hollywood, California. In questo periodo la Frontier Film, per la quale lavorava anche il regista Elia Kazan, produsse dei documentari fortemente caratterizzati sul piano sociale, come The Plow That Broke the Plains e The River di Pare Lorentz, incentrati sull’attività della Tennessee Valley Authority voluta da Roosevelt, che insospettirono l’establishment, mentre i film Blockade di William Dieterle del 1938 (Marco il ribelle), Grapes of Wrath (Furore) di John Ford del 1939 e Man Hunt (Duello mortale) di Fritz Lang del 1941 suscitarono aperte proteste in ambienti anche politici.
Ma poi ci fu la guerra. Durante la guerra Hollywood partecipò massicciamente allo sforzo propagandistico del governo. Vi si impegnarono — in genere con documentari — registi come Frank Capra, John Ford, John Huston, William Wyler, e furono prodotti film come Pride of the Marines (C’è sempre un domani, 1945, di Delmer Daves), Mission to Moscow, Sahara (1943, di Zoltan Korda), Action in the North Atlantic (Convoglio verso l’ignoto, 1943, di Lloyd Bacon), Song of Russia, Tender Comrade, Hitler’s Children, Thirty Seconds Over Tokyo (Missione segreta, 1944, di Mervyn LeRoy). Ciò rese importanti benemerenze a Hollywood, anche se J. Edgar Hoover immediatamente protestò per Mission to Moscow, Tender Comrade e Song of Russia perché mettevano troppo in buona luce i russi. Oltretutto dimostrò la sua tremenda potenzialità politica, la sua capacità assolutamente unica di influenzare il pubblico mondiale. In più nell’immediato dopoguerra, unendo l’esperienza fatta nei documentari di guerra sull’esempio del cinema-verità italiano (in particolare Roma città aperta del 1945 e Paisà del 1946, entrambi di Roberto Rossellini), Hollywood produsse molti film di tipo neorealista, di impegno e denuncia sociale, che riscossero un grande successo di pubblico sia negli Stati Uniti sia all’estero. Alcuni esempi sono The Best Years of our Lives (I migliori anni della nostra vita, 1946) di William Wyler, Crossfire (Odio implacabile, 1947) di Edward Dmytryk, Lost Weekend (Giorni perduti, 1945) di Billy Wilder, Snake Pit (La fossa dei serpenti, 1948) di Anatole Litvak, Kiss of Death (Il bacio della morte, 1947) di Henry Hathaway, Brute Force (Forza bruta, 1947) di Jules Dassin, Smash-up di Stuart Heisler, Gentleman’s Agreement (Barriera invisibile, 1947) di Elia Kazan, tutti usciti tra il 1945 ed il 1947.
Non erano film politici e tantomeno di propaganda ; trattavano temi veri di gente reale: problematiche di reinserimento per reduci, odio razziale, situazioni carcerarie, malattie mentali. Erano realisti, appunto, perché raccontavano la società — americana — così com’era. Ma era proprio questo il problema. Hollywood non doveva più produrre film del genere, andava assolutamente messa sotto controllo.
Si era anche ormai chiarito come bisognava procedere. La legislazione americana scritta garantiva — come ancora certamente fa — la libertà di parola e di espressione. Non si poteva istituire un ufficio centralizzato governativo di censura cinematografica, una sorta di Minculpop. Bisognava fare capire a Hollywood come si desiderava che si comportasse, trovare una scusa significativa per tormentarla sino a ottenere la sua completa e spontanea, democratica, sudditanza. Dai numerosi e sempre meno timidi tentativi che si erano fatti sin dal 1930 si era capito che tale scusa poteva essere l’esigenza di scoprire i comunisti che lavoravano a Hollywood. In realtà non si dovevano colpire loro, o almeno non erano l’obiettivo principale. Come tutti sapevano, i comunisti erano pochissimi, solo qualche sceneggiatore come Dalton Trumbo e Paul Jarrico, qualche scrittore di testi come John Lawson e Albert Maltz, qualche regista come Robert Rossen e Herbert Biberman, e qualche attore come Howard Da Silva e Anne Revere, e non avevano né volevano avere influenza alcuna sui film prodotti. E poi erano dei comunisti all’acqua di rose, che entravano e uscivano dal partito a seconda se piaceva o no l’ultima mossa di politica internazionale dell’URSS; tranne Lawson, non erano affatto degli attivisti ma solo dei simpatizzanti, a parole e magari per posa, e solo per certi periodi. Si dovevano colpire i molto più numerosi e determinanti progressisti, o liberali, elementi che, senza essere comunisti, erano però sensibili a istanze sociali, oppure erano semplicemente intelligenti e avevano sia la tendenza sia la capacità di influenzare i lavori cui partecipavano. E soprattutto — e naturalmente — si dovevano convincere i produttori a eliminare pellicole di un certo tipo, anche se economicamente remunerative.
A occuparsi della cosa non poteva essere altro che la commissione parlamentare chiamata House Committee on Un-American Activities (HUAC). Questo era il nome infine dato nel 1938 a varie commissioni parlamentari istituite a partire dal 1930 allo scopo di vigilare sul dissenso politico interno (definito “attività non tipicamente americana”), anche se il suo compito ufficiale era di raccogliere dati per aiutare la formulazione di nuove leggi. Già nel 1936 (in pieno New Deal rooseveltiano…) queste commissioni avevano innescato il fenomeno del blacklisting a Hollywood, cioè l’esclusione pratica dal lavoro di elementi ritenuti nocivi agli interessi dell’establishment. Nel 1940 l’HUAC aveva già convocato a Washington, per interrogarli sulle loro idee politiche, 22 esponenti di Hollywood fra i quali figuravano personaggi come Fredric March, Humphrey Bogart, James Cagney, Jean Muir e Louise Rainer. La guerra aveva imposto la sospensione delle indagini, anche se Hollywood non fu affatto dimenticata: in pieno 1943 il Congresso, tramite il meccanismo dei fondi, bloccò il settore documentari di guerra dell’Office of War Information perché vi erano confluiti elementi della Frontier Film.
Nel 1947 l’HUAC, presieduta da J. Parnell Thomas e fra i cui membri figurava il giovane parlamentare Richard Nixon, diede vita a una serie di udienze pubbliche e pubblicizzate, ufficialmente allo scopo di appurare il grado di infiltrazione comunista a Hollywood. In realtà l’obiettivo era di indurre i soggetti chiave di Hollywood — i produttori — a creare solo film adatti alla politica governativa americana, sia interna sia soprattutto estera (già Nixon si era chiesto che effetto avrebbe avuto Grapes of Wrath sugli jugoslavi). Era questo che si doveva ottenere nelle intenzioni dell’HUAC e, secondo le esperienze del 1936, anche tramite la creazione da parte dei produttori di liste nere, che sarebbero servite per escludere da Hollywood tutti i soggetti, a ogni livello, non disposti a seguire fedelmente nel loro lavoro la Retorica di Stato ufficiale.
Come ulteriore avvertimento trasversale le banche di New York che finanziavano i produttori di Hollywood strinsero il credito, mentre la Corte Suprema ne minava l’indipendenza economica stabilendo che non potevano possedere anche le sale di proiezione, cioè vendere direttamente al pubblico il loro prodotto chiudendo il cerchio.
Una parte del personale di Hollywood reagì all’apertura delle udienze creando il Committee for the First Amendment (ricordiamo che il Primo Emendamento sancisce la libertà di espressione), del quale fecero parte anche i registi John Huston, William Wyler, John Ford, Billy Wilder, Elia Kazan e George Stevens; gli attori Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Gregory Peck, Danny Kaye, Gene Kelly, Kirk Douglas, Henry Fonda, Burt Lancaster, Edward G. Robinson, Katharine Hepburn, Myrna Loy, Rita Hayworth e Marsha Hunt; i musicisti Benny Goodman e Leonard Bernstein. Ma la maggioranza degli operatori di Hollywood — produttori come Jack Warner, David Selznick, Samuel Goldwyn e Louis Mayer in testa — aveva compreso che avrebbe dovuto accettare la prassi dell’autocensura politica e culturale. La scrittrice di testi cinematografici Ayn Rand, per dimostrare fino a che punto avesse capito, compilò e pubblicò anche un manuale di autocensura per Hollywood, intitolato Screen Guide for Americans (Guida allo schermo per americani), che conteneva fra gli altri i seguenti princìpi:
“Non insultare il Sistema della Libera Impresa”
“Non deificare l’Uomo Comune”
“Non glorificare il Collettivo”
“Non glorificare il Fallimento”
“Non insultare il Successo”
“Non insultare gli Industriali”
La guida sarà poi effettivamente incorporata dall’USIA nei suoi manuali interni e usata per l’istruzione del personale ed i corsi di aggiornamento.
Il risultato delle audizioni fu esattamente quello previsto. Dopo pochi interrogatori — durante i quali chi si rifiutava di rispondere in virtù della protezione del Primo Emendamento veniva deferito per oltraggio al Congresso, e chi rispondeva citando il medesimo veniva tacitato o trascinato fuori dall’aula a forza, mentre ogni tempo e riguardo era concesso a chi accusava altri — i produttori accettarono i diktat dell’HUAC, cioè di “ripulire” l’ambiente tramite proprie liste nere e di badare a che i loro film fossero sempre conformi alle esigenze della Retorica di Stato, esattamente come espressa da Ayn Rand. Il tutto venne formalizzato dai produttori con la cosiddetta Dichiarazione del Waldorf del 26 novembre 1947. Contestualmente si accordarono affinché le case distributrici immettessero nel mercato statunitense un numero minimo di film stranieri, rigorosamente non doppiato in inglese ma solo sottotitolato, e da inserire nel circuito del cinéma d’essai (non ci si era certo dati tanta pena di allineare Hollywood per poi lasciare il pubblico americano in balia di film stranieri). Ottenuto lo scopo, le sedute dell’HUAC furono immediatamente interrotte, senza neanche terminare l’audizione di tutti i convocati. Dieci degli interrogati — Bessie, Biberman, Cole, Dmytryk, Lardner, Lawson, Maltz, Ornitz, Scott e Trumbo, tutti sceneggiatori o registi — furono condannati a un anno di carcere per “oltraggio al Congresso”, condanna confermata dalla Corte Suprema e poi scontata.
Nessun’altra accusa si era potuta trovare nei loro confronti, come del resto nei confronti di nessun altro, né di essere dei sovversivi e neppure di avere mai inserito sequenze di propaganda comunista nei loro lavori. Fra i primi interrogati va menzionato Bertolt Brecht (L’opera da tre soldi), che per Hollywood aveva collaborato alla sceneggiatura di Hangmen Also Die (Anche i boia muoiono di Fritz Lang, uscito nel 1943). Fuggendo dalla Germania nazionalsocialista aveva cercato la libertà negli… Stati Uniti. Subito dopo l’interrogatorio, nel corso del quale aveva detto di non essere mai stato iscritto al partito comunista e di inserire nei suoi lavori solo le sue opinioni, tornò in Germania.
Le liste nere funzionarono. L’HUAC non commise l’errore di compilarle: disse solo che erano necessarie, aumentando il terrore con l’incertezza. Comparvero così materialmente, ancora non si sa per opera esattamente di chi, delle liste gonfie a dismisura di nomi di sceneggiatori, registi, scrittori, attori, musicisti, tecnici ecc., ricavate da articoli di giornale, dai resoconti dell’HUAC, dai titoli di testa di certi film e da dicerie, che — continuamente aggiornate — servivano ai produttori e ai datori di lavoro in generale di Hollywood per sapere chi tenere alla larga. Alcuni elementi continuarono a lavorare in nero, a paga dimezzata; altri utilizzarono prestanome o pseudonimi; la maggioranza non poté più lavorare nell’industria cinematografica per molti anni o per sempre. Il danno maggiore agli elementi inseriti nella lista nera e alle loro famiglie, quando le avevano, era arrecato dalla gente comune, dai vicini e dai conoscenti; ormai additati come sovversivi, traditori, nemici della società, tutti giravano loro le spalle, quando non li infastidivano attivamente o non se la prendevano coi loro figli a scuola. Ad alimentare in modo quasi ufficiale queste hate campaigns c’era un complesso di associazioni, dalle denominazioni più disparate, tutte però di “ultra-americani”. Fra queste ne spiccava una a livello nazionale, la American Legion, forte di quasi tre milioni di iscritti e di un milione di simpatizzanti, con più di 17 mila sedi diffuse in tutto il paese; si occupava di tenere vivo il risentimento nei confronti dei “deviami” di Hollywood e arrivava persino a picchettare gli ingressi dei cinema in cui si proiettava un film all’indice, o nei cui titoli di coda compariva un personaggio della lista nera.
Per Hollywood fu sufficiente. L’unico film prodotto negli Stati Uniti dopo il 1947 con un contenuto sociale, sul tipo di Grapes of Wrath, fu The Salt of the Earth (Il sale della terra, noto anche come Sfida a Silver City, di Herbert J. Biberman) girato nel 1951 fuori da Hollywood. Trattava dello sciopero di una piccola comunità di minatori del Nuovo Messico. Per produrlo Biberman, Scott e Jarrico avevano creato una compagnia di produzione indipendente ed il film era stato realizzato in un clima di terrore (addirittura colpi di arma da fuoco contro la troupe) e terminato fra mille difficoltà: i laboratori non volevano sviluppare la pellicola, le ditte non consegnavano l’attrezzatura per il sonoro, la musica fu registrata con un sotterfugio, il montaggio fu eseguito di nascosto. Alla fine le poche sale che accettarono di proiettarlo furono picchettate dall’American Legion e negli States il film non fu neanche visto. A partire dal 1947 non solo scomparvero da Hollywood i film a contenuto sociale: in tutte le pellicole fu tolto ogni riferimento alla classe operaia ed ai suoi luoghi di lavoro, le fabbriche. Si può esaminare l’intera produzione di Hollywood post-1947 sino all’ultimo fotogramma dell’ultimo film, ma una catena di montaggio o anche solo l’interno di una fabbrica non si vedono. Eppure ci sono, negli USA.
Arrivò poi l’Era McCarthy e Hollywood non fu risparmiata: benché avesse “già dato”, per tutto il periodo in oggetto dovette sottoporsi a una sorta di revisione. Nel 1951 furono convocati a testimoniare un centinaio di operatori di Hollywood, e in base alle dichiarazioni di alcuni di loro, “pentiti” come Elia Kazan e Edward Dmytryk, fra il 1952 e il 1953 l’HUAC segnalò espressamente 324 nominativi da aggiungere sulla lista nera, fra cui lo scrittore Dashiell Hammett (La chiave di vetro, 1942, di Stuart Heisler), il regista Joseph Losey, gli attori Howard Da Silva, Zero Mostel, Lionel Stander, Anne Revere, John Garfield. Hammett fece poi un anno di carcere per non aver voluto rispondere alle domande della Commissione (rispose solo quando gli chiesero se riconosceva la sigla “D.H.” in calce a un documento: «I can answer that» disse Hammett, «Two letters of the alphabet» — “Questo ve lo posso anche rivelare: due lettere dell’alfabeto”). Garfield morì per lo stress, come del resto accadde anche agli attori Edward Bromberg, Gordon Kahn, Canada Lee e Mady Christians, mentre Philip Loeb e Madeleyne Dmytryk (la moglie di Edward Dmytryk) si uccisero al pari di altri personaggi considerati minori.
A partire dal 1953 il compito di forgiare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo venne affidato per legge all’USIA. Questa Agenzia funzionò da consulente all’HUAC, le cui incursioni a Hollywood divennero più selettive e quindi più mirate, più chirurgiche, e anche più rare. A partire da quella data le convocazioni dell’HUAC per Hollywood riguardarono episodicamente singoli personaggi, in genere eccellenti, o gruppetti di persone collegate in qualche maniera. In questo contesto di repressione più professionale incapparono per esempio il commediografo Arthur Miller (che sposò Marilyn Monroe), condannato poi a un anno di carcere per essersi rifiutato di rispondere, e l’attore Charles Chaplin, che riparò immediatamente in Europa (già nel 1947 il senatore Rankin aveva chiesto l’espulsione di Charlot, che era inglese, e il bando di tutti i suoi film — fra tutti Luci della ribalta e Tempi moderni — dal territorio statunitense). Chaplin fu seguito in Europa da altri, come i registi Orson Welles, John Huston, Joseph Losey e Jules Dassin, e gli sceneggiatori Carl Foreman, Ben Barzman, Paul Jarrico e Michael Wilson. Preoccupato che troppi perseguitati andassero all’estero a raccontare scomode verità sulla realtà statunitense, nel 1956 il governo ritirò preventivamente il passaporto a chi era indagato dall’HUAC.
In ogni caso le persecuzioni dell’Era McCarthy non avevano aggiunto niente al lavoro fatto dall’HUAC nel 1947. Fin da allora Hollywood era stata ridotta al rango di fabbrica di propaganda di Stato, esattamente come la filmografia sovietica, e come quella di qualunque altro paese totalitario. La differenza era che Hollywood non veniva pagata dallo Stato: doveva fare propaganda, mantenersi con la medesima, e contribuire con le esportazioni alla bilancia commerciale della nazione. L’efficienza del sistema americano sta in queste cose.
Benché nessuno ne parli, niente è cambiato a Hollywood dopo il 1947. Come ognuno può verificare anche i film stranieri continuano a non essere distribuiti negli Stati Uniti, tranne rarissime eccezioni. Per esempio l’unico film italiano a essere stato distribuito nel normale circuito statunitense, doppiato, è stato Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, con Clint Eastwood, introdotto col titolo A Fistful of Dollars; gli americani lo credono un film hollywoodiano di un regista sconosciuto.
Attualmente l’attività di Hollywood è controllata centralmente dall’USIA. Tale controllo consiste nell’assicurarsi che il contenuto dei suoi prodotti sia in linea con la Retorica di Stato americana. La fuga sempre più marcata di Hollywood dal reale, la sua sempre maggiore insistenza verso film di fantasia dominati dagli effetti speciali e dall’inverosimiglianza in generale, dipende dal suo disagio nei riguardi della censura dell’USIA. La tendenza oltretutto fu da subito incoraggiata, perché poteva prestarsi facilmente a un insidioso tipo di propaganda subliminale. Per esempio furono benvenuti i film di “marziani” degli anni Cinquanta: i marziani venivano sulla terra, ma guarda caso atterravano sempre negli Stati Uniti: evidentemente il paese più significativo, il più all’avanguardia. Un analogo tipo di propaganda indiretta è presente in tutti i film americani di fantascienza o “spaziali”, come 2001 Odissea nello spazio (1968, di Stanley Kubrick, il regista inglese morto nel marzo 1999), Guerre stellari (1977, di George Lucas) e Alien (1979, di Ridley Scott), per esempio.
L’USIA svolge le sue mansioni come qualunque organismo di censura e propaganda statale. Esamina in anticipo il copione di tutti i film dei quali è stata stabilita la produzione e può decidere variazioni. Si occupa anche, tramite agevolazioni fiscali e usando le sue entrature all’estero, di promuovere l’esportazione di quei film ritenuti particolarmente utili a fini propagandistici. Nei paesi in cui i film americani sono presentati nella lingua locale l’USIA riesce in genere a controllare il doppiaggio, in virtù di clausole contrattuali, che in effetti in molti squarci di dialogo è diverso dall’originale (per esempio in un film americano un personaggio sosteneva di essere “in cassa integrazione da un anno”, mentre non c’è cassa integrazione negli Stati Uniti). Ci sono anche differenze di montaggio nei film americani tra la versione originale proiettata negli USA e quella di esportazione, con tagli e aggiunte (previsti già nella fase di realizzazione del film). Una variazione abbastanza frequente riguarda le immagini di nudi femminili, completamente assenti nelle versioni diffuse negli USA, dove sono vietate, e invece presenti nelle versioni straniere, in quei paesi dove tali immagini siano ammesse. In effetti l’USIA non ama propagandare troppo il carattere bigotto della morale pubblica statunitense, specie in Europa. Un’altra interessante realtà americana che l’USIA ritiene meglio non propagandare è il fatto che quasi tutti gli uomini americani sono circoncisi: il pubblico internazionale potrebbe associarlo all’idea di “popolo eletto” del Vecchio Testamento, la religione americana. I riferimenti alla circoncisione che ogni tanto compaiono nei film americani, specie sotto forma di gags, vengono tolti dalle versioni per l’esportazione.
Una grande differenza rispetto a quanto accade nei tradizionali regimi autoritari sta invece nell’uso dei sistemi coercitivi usati per ottenere la conformità ideologica, che sono pochi. Hollywood rispetta il Patto del Waldorf fatto con il governo nel 1947. Essa riconosce di essere importante per la politica del governo, sia interna sia estera, e cerca di autoregolamentarsi il più possibile ben sapendo che in caso di inadempienza subirebbe durissime punizioni, esattamente come nel passato anche se probabilmente non con gli stessi pretesti. Una inadempienza sarebbe, per esempio, la realizzazione di un film come Grapes of Wrath o Man Hunt, o come un qualsiasi film del filone neorealista americano tipico dell’immediato dopoguerra (per inciso, quei film sono scomparsi dal circuito statunitense sin dal 1950, al pari di molti degli anni Trenta; oggi negli USA i film di Charlie Chaplin sono sconosciuti ai più).
Nonostante ciò l’USIA necessita ogni tanto di mezzi coattivi di pressione. Per questo si avvale della collaborazione di altre Agenzie federali, ora questa ora quella a seconda dei casi. Abbastanza stretti e continuativi sono i collegamenti con l’FBI, la DEA e l’IRS. Il Federal Bureau of Investigations, la polizia federale statunitense, è il massimo ente di repressione politica interna (essa è a tutti gli effetti la polizia politica americana) e può essere utile anche a Hollywood. La presenza della Drug Enforcement Agency si spiega col fatto che molti personaggi in vista di Hollywood sono consumatori più o meno abituali di droga e quindi vulnerabili all’accusa, che la DEA può portare a conoscenza. Considerazioni analoghe valgono per l’Internal Revenue Service, il fisco americano.
Altro efficace strumento di pressione è il Pentagono. Tutto il materiale bellico importante usato nei film americani — navi, aerei, carri armati — proviene dai magazzini del Pentagono e in cambio l’USIA esercita ingerenze a volontà nel processo di realizzazione del film. Anche il Pentagono può intervenire con esigenze sue particolari. Gli esempi della collaborazione fra Pentagono e Hollywood sono moltissimi (77). Per Tora! Tora! Tora! (1970, di R. Fleischer, T. Mafuda e K. Fukusaku) il Pentagono prestò sei navi da guerra in servizio attivo, fra cui la portaerei Yorktown, e rimise in funzione due cacciatorpediniere residuate. Per Top Gun (1986, di Tony Scott) con Tom Cruise mise a disposizione una squadriglia di cacciabombardieri da Marina F14 Tomcat (questo film fu addirittura commissionato dal Pentagono, in cerca di pubblicità per l’arruolamento di piloti). Per Operazione sottoveste (1959, di Blake Edwards; noto anche come Una nave tutta rosa) con Cary Grant e Tony Curtis, prestò un sommergibile diesel e per Caccia a “Ottobre Rosso “(1990, di John McTiernan) con Sean Connery addirittura un sommergibile nucleare in servizio attivo (un boomer vero). Analoghe osservazioni valgono per tutti i film ambientati in Vietnam, compresi gli apparentemente critici (appunto apparentemente) Apocalypse Now (1979, di Francis Ford Coppola), Platoon (1986, di Oliver Stone) e Born on the Fourth of July (Nato il quattro di luglio, 1989, di Oliver Stone) per diversi film della serie nota in Italia come Rambo (il titolo originale americano è infatti First Blood; 1982, di Ted Kotcheff) di Sylvester Stallone, per altri film di Arnold Schwarzenegger, Chuck Norris e Clint Eastwood.
Il pubblico conosce, più che Hollywood, i divi di Hollywood, i grandi attori e attrici. Sono loro ad attirare l’attenzione, sono loro i protagonisti della scena. L’USIA lo sa. Tramite la sua enorme influenza cerca di impedire che giungano troppo in alto elementi dei quali non sia appurato l’orientamento politico; al contrario, aiuta a ottenere copioni tutti coloro che, con i loro film precedenti e la loro condotta hanno reso pubblico omaggio alla Retorica di Stato, il tutto (com’è ovvio) compatibilmente con le esigenze di cassetta dei produttori. Il che contribuisce, non troppo raramente, al formarsi di vere e proprie complicità/compromissioni fra gli attori e qualche Agenzia federale, in particolare l’FBI, che necessita sempre di delatori nell’ambiente top. Un classico è il caso di John Wayne, che era un confidente abituale dell’FBI, così come del resto Elvis Presley, che aveva addirittura un nome in codice (“Colonel Burrows”).
Quindi, una volta che il divo c’è, che sia stato aiutato o meno, viene seguito passo passo; va da sé nei suoi film, ma anche fuori dal set non deve uscire dai binari impostigli da Hollywood, e cioè dal governo, perché può fare molti danni in virtù della sua popolarità e della istintiva tendenza del pubblico a credergli, in quanto figura familiare. Si veda, per esempio, il caso di Marlon Brando e del vespaio che suscitò quando mise il dito nella piaga sul trattamento subito dagli indiani, o di Jane Fonda quando nel 1972 si fece fotografare accanto a una postazione antiaerea nordvietnamita. Entrambi furono poi naturalmente puniti con l’inserimento nella lista nera, che dura mediamente una decina d’anni. Per farsi perdonare, Brando dovette accettare poi la parte del colonnello Curtz in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Robert Redford, dopo un viaggio a Cuba pure preventivamente autorizzato dal Dipartimento di Stato come prevede la legge sull’embargo, subì un accertamentodell’IRS. Jack Nicholson, che nel 1997 aveva manifestato l’intenzione di chiedere analogo nulla osta per partecipare a un raduno mondiale di amanti del sigaro Avana, fu convinto a rinunciare.
Ma al divo di Hollywood, per diventare e restare tale, si chiede di regola qualcosa di più che la mancanza di manifestazioni ostili o Un-American: la partecipazione attiva alla propaganda di Stato, nella professione e anche a livello personale. Shirley Temple, forte del suo passato di graziosissima bambina attrice (la ricordiamo come Riccioli d’oro (1935, di Irvin Cummings), ha compiuto molte missioni all’estero per conto dell’USIA (specie in Africa) allo scopo di migliorare l’immagine degli Stati Uniti, scaduta magari per qualche strage appena commessa. Per le benemerenze e l’esperienza acquisita la Temple ritenne di poter chiedere al presidente Reagan il posto di direttrice dell’USIA, che però le fu negato. Analoghe missioni compirono all’epoca delle guerre di Corea e del Vietnam Bob Hope, Marilyn Monroe e molti altri. Di John Wayne non occorre parlare, mentre altri esempi si sono moltiplicati negli ultimi anni. Clint Eastwood, fra i tanti apologeti, ha realizzato un film per nobilitare l’invasione della minuscola isola di Grenada del 1983 (Gunny, in originale Heartbreak Ridge, 1986, con lo stesso Eastwood). Tom Cruise ha girato Top Gun, un film del Pentagono, e Born on the Fourth of July, in cui le vicende della guerra del Vietnam e dei suoi reduci vengono ampiamente travisate. Robin Williams ha interpretato Good Morning Vietnam (1987, di Barry Levinson), altro film propagandistico sul Vietnam in modo subdolo. Sylvester Stallone con la serie Rambo non ha fatto che attaccare nemici del Dipartimento di Stato come i vietnamiti e gli arabi di Gheddafì e Saddam Hussein, e lo stesso, parodiando il genere, hanno fatto Charlie Sheen e Leslie Nielsen. Anche Arnold Schwarzenegger e Chuck Norris hanno impersonato volentieri il Super Americano che combatte contro il Super Male, l’obiettivo additato di volta in volta dal Dipartimento. Brad Pitt con Sette anni in Tibet (1997, di Jean-Jacques Annaud) ha fatto propaganda politica in funzione anticinese, così come ha fatto Richard Gere con Red Corner. Woody Allen non solo ha interpretato ma anche scritto e diretto Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971), forse il film più abietto mai prodotto nella storia del cinema, perché il più irrispettoso nei riguardi di un così grande numero di persone in stato di sofferenza (nel farne la parodia suggerisce che le sanguinarie dittature che affliggono l’America Latina siano dovute alla stupidità dei locali; come si vedrà più avanti, e come Allen sa benissimo, spesso queste dittature sono imposte dagli USA). Nel film, tra l’altro, ebbe una particina anche Sylvester Stallone. Madonna ha interpretato Evita (1996, di Alan Parker), dove non c’è alcuna menzione sulle responsabilità statunitensi nelle difficoltà incontrate da Juan Domingo Peron. Mel Gibson in Air America (1990, di Roger Spottiswoode) ha cercato di far dimenticare che quei voli-CIA servivano per portare droga di Stato nel mercato statunitense. Danny De Vito (Mezzoprofessore tra i marines, 1994, di Penny Marshall), Demi Moore (Soldato Jane, 1997, di Ridley Scott) e Goldie Hawn (Soldato Giulia agli ordini, 1980, di Howard Zieff) si sono prestati a suscitare simpatia nei confronti dei Marines, che sono mercenari disposti a sparare su qualunque cosa si muova per un buon mensile ed un pensionamento a 40 anni.
Si potrebbe continuare per molte pagine. In sintesi, i divi di Hollywood non sono dei bravi attori che col loro onesto lavoro hanno raggiunto una meritata fama, o non sono solo quello. Sono piuttosto da considerare dei funzionari, dei funzionari semigovernativi, perché intrecciano in modo indissolubile il loro lavoro “civile” con precisi compiti di propaganda governativa. Sono, in ultima analisi, Divi di Stato.
Perché la cinematografia di Hollywood è da considerare cinematografia di Stato? Perché travisa o addirittura falsifica la realtà attuale e la storia americana per veicolare nello spettatore degli stereotipi stabiliti dalla Retorica di Stato più volte menzionata. Per quanto concerne la realtà sociale, Hollywood si guarda bene dall’evidenziarne i mali, per quanto clamorosi. I poveri negli USA sono circa 60 milioni, un quarto della popolazione, ma nessun film di Hollywood offre questa sensazione. Ogni tanto vengono rappresentati degli homeless, che sono 4 milioni, ma sempre proposti come alcolizzati cronici o malati mentali, gente cioè che non ha saputo partecipare al facile benessere complessivo per difetti propri o scelte personali.
Le tent cities o le car cities formate da famiglie intere di homeless, la più grande delle quali è a ridosso di Van Nuys, un sobborgo di Los Angeles, non sono mai rappresentate. Lo stesso vale per i trailers, cassoni di alluminio e polistirolo montati su ruote dove vivono tre milioni di famiglie americane: è rarissimo vederne uno e quando c’è è isolato, non inserito in un trailer camp di decine di unità, è nuovo e abitato da un single un po’ svitato (per esempio Mel Gibson in Arma letale 2, 1989, di Richard Donner) o di indole sportiva, o da un criminale. Nessun film di Hollywood ha mai mostrato gli street kids, né una delle tante madri desolate che cedono il neonato in adozione in cambio del pagamento della retta ospedaliera per il parto. I migrant workers, i lavoranti agricoli stagionali che passano la vita tra un campo di pomodori e uno di meloni spostandosi con la famiglia su uno scassato pick-up, la loro casa, sono spesso bianchi ma sono sempre rappresentati come chícanos, gente che proviene da miserie peggiori. La realtà del lavoro subordinato, impiegatizio o operaio che sia, è terribile negli USA: con lo spettro della libertà di licenziamento l’obbedienza al datore di lavoro o al superiore dev’essere totale e ciò spesso porta ad abusi che sarebbero impensabili in Europa, ma ancora una volta tutto questo non emerge dai film americani.
Hollywood poi dispone di un’arma segreta, che risolve qualunque situazione: l’immancabile lieto fine della storia. Qualunque traversia americana sia stata rappresentata — con le eccezioni appena considerata, che sono dei veri tabù — il lieto fine lascia nello spettatore l’impressione che la realtà americana contenga sì delle durezze, che però vengono immancabilmente superate. Il lieto fine fu in effetti imposto dall’USIA nel 1953, come una specie di regola con poche eccezioni ammesse. Senza contare il tono di inverosimiglianza generale di molti film di Hollywood, che impediscono allo spettatore di valutare la fondatezza di alcune topiche mostrate.
Per quanto riguarda l’assetto politico americano esso, come detto, è una palese oligarchia ma Hollywood non ha mai messo in dubbio trattarsi di una genuina democrazia, nella quale la partecipazione popolare è addirittura capillare e dove le eventuali disfunzioni sono dovute a mancanze personali di singoli politici troppo ambiziosi. O allo strapotere della stampa, il Quarto Potere.
Il lettore può confrontare la storia americana come è stata presentata qui e come invece viene proposta da Hollywood: il significato dei fatti non coincide mai. La guerra di indipendenza è stata presentata come una insurrezione popolare per la “libertà”, interpretazione che neanche gli storici americani sostengono, e ricca di episodi di eroismo popolare, laddove non ve ne fu uno. Lo schiavismo fu terribile per i neri ma Via col vento (1939, di Victor Fleming) suggerisce rapporti idilliaci, mentre Indovina chi viene a cena? (1967, di Stanley Kramer) non offre certo un quadro realistico dell’apartheid americana. Hollywood produce film che mostrano lo schiavismo praticato da portoghesi e spagnoli nei confronti degli indios dell’Amazzonia, ma non ha certo mai suggerito che in virtù dello schiavismo americano la popolazione dell’Africa calò di 40 milioni di unità.
Il caso della conquista del West è un classico, con i western che propongono gli indiani cattivi che attaccano — apparentemente senza motivo — pacifici coloni e dolcissime colone dagli occhi celesti (La conquista del West, 1962, di H. Hathaway, J. Ford e G. Marshall). Negli ultimi anni Hollywood è sembrata colta da una crisi di resipiscenza in merito, producendo alcuni film “dalla parte degli indiani” come sono definiti Soldato blu (1970, di Ralph Nelson), Un uomo chiamato cavallo (1970, di Elliot Silverstein), Piccolo grande uomo (1970, di Arthur Penn), Balla coi lupi (1990, di e con Kevin Costner) eccetera. Ma si tratta di un affinamento della mistificazione, insostenibile oramai nei termini passati. La logica implicita di tali film è che i problemi degli indiani nacquero da equivoci, da incomprensioni tra due popoli così diversi; qualche volta ebbero inizio da singoli americani cattivi, troppo avidi, o anche da singoli indiani o tribù ingiustificatamente bellicosi. Consideriamo Balla coi lupi. Nella parte centrale dedicata alla vita della tribù Sioux è obiettivo, mentre già all’inizio si vedono dei guerrieri Pawnee che uccidono un civile bianco; ciò lascia pensare che quei Pawnee avessero riservato la stessa sorte ad altri bianchi, magari delle famiglie di coloni, giustificando così l’intervento massiccio e indiscriminato dei soldati nel finale. In pratica questa mistificazione di Hollywood, che potremmo definire dell’ultima generazione, è analoga a quella da sempre eseguita in Italia nei fumetti di Tex Willer, dove la colpa dei misfatti è sempre dell’agente della riserva corrotto, del generale ottuso o del “pezzo grosso” di Washington. Ed è analoga a quella utilizzata per la guerra del Vietnam dopo il flop di film troppo scopertamente apologetici e partigiani come Green Berets (I berretti verdi, 1968, di e con John Wayne). Mi riferisco a film come Apocalypse Now (1979, di Francis Ford Coppola), The Deer Hunter (Il Cacciatore, 1978, di Michael Cimino) con Robert De Niro, Platoon (1986, di Oliver Stone e con Charlie Sheen), Born on the Fourth of July eccetera. Queste pellicole trasmettono l’idea che si trattò solo di una guerra davvero molto dura e molto sporca, e si suggerisce che le atrocità furono da ripartire equamente fra le parti. Platoon addebita le atrocità americane a gesti di singoli irresponsabili, nella fattispecie il sergente Barnes. Apocalypse Now, addirittura, senza mostrarlo apertamente elogia il governo statunitense: come suggerito dal personaggio del colonnello Curtz i soldati sul campo, esasperati da un avversario difficile, volevano “la bomba”, ma il governo seppe resistere (per somma saggezza? per rispetto dell’umanità? per bontà pura? Lo decida lo spettatore). Il tema centrale della guerra del Vietnam, una guerra neo-coloniale condotta con metodi di genocidio, è stato sempre accuratamente omesso come il famoso episodio del massacro di My Lai del 1968, che Hollywood si è sempre guardata bene dal trattare. C’è quindi il vasto settore della politica estera americana, i cui temi sono stati quasi tutti trattati da Hollywood: i rapporti con la Cina, col Giappone, con l’URSS, con l’America Latina; le guerre; le azioni della CIA. Il significato specifico delle azioni della politica estera americana viene descritto nel prossimo capitolo, e ad esso si rimanda per un confronto con quanto di volta in volta proposto da Hollywood. Non resta che evidenziare come quanto finora esposto non faccia parte solo della “storia” di Hollywood, ma si riferisca anche alla sua attualità. Anzi, si ha a disposizione un grande esempio in essere della funzione propagandistica di Hollywood. Come si vedrà nel prossimo capitolo la strategia russa della perestrojka, iniziata nel 1989, ha reso per gli Stati Uniti ancora più impellente la necessità di aprire la Cina ai propri commerci. Per questo la Cina si deve democratizzare, anzi parlamentizzare nel senso occidentale del termine, possibilmente nel senso latino-americano, e il Dipartimento di Stato ha iniziato ad usare tutti i mezzi di pressione a sua disposizione. Uno di questi è la propaganda, in cui trova un posto rilevante Hollywood. Così sin dal 1989 Hollywood è stata convinta a trattare il soggetto “Cina”, condito in tutte le salse, ma in ogni caso sempre per mettere in cattiva luce l’attuale dirigenza cinese, o meglio la filosofia politica che sta guidando il paese. Si spiega in tal modo il profluvio di film sulla Cina che a partire da quell’anno Hollywood ha iniziato a riversare sui mercati internazionali. Un Divo di Stato particolarmente attivo è risultato Richard Gere, scelto probabilmente perché di fede buddista: oltre che interpretare film sul Tibet come Red Corner ha anche iniziato a condurre una personale campagna anticinese, con ottimi risultati vista la notorietà del personaggio. Brad Pitt ha girato Sette anni in Tibet, nel quale viene stravolta la storia della regione. Il Regista di Stato Martin Scorsese ha diretto Kundun, ancora propaganda anticinese a mezzo Tibet, uscito nel 1998. Sin dal 1993 Bernardo Bertolucci aveva ideato e diretto per Hollywood il film Piccolo Buddha (1993, di Bertolucci), che era stato preceduto dall’analoga pellicola L’ultimo imperatore (1987, sempre di Bertolucci). Anche la Disney, una Casa cinematografica di Stato come poche altre, è scesa in campo con un cartone animato ambientato in Cina, in cui il ruolo di protagonista è affidato a Mulan, graziosissima cinesina che combatte contro invasori ed oppressori vari. Nel numero del 22 dicembre 1997 il quotidiano China Daily, stampato in inglese ma in pratica organo ufficiale del governo cinese, ha accusato Hollywood di produrre film che falsificano i fatti storici sul Tibet allo scopo di fare propaganda politica anticinese. Ha scritto che «il governo cinese non perdonerà Hollywood» per questo, ed ha citato in merito cinque titoli, fra cui certamente Sette anni in Tibet e i film di Gere. In effetti il fine propagandistico di tutti questi lavori di Hollywood è evidente. A ignorarlo sembrano solo i media europei e i critici cinematografici relativi, che continuano a incensarli, a gratificarli di citazioni e premi dissertando elegantemente su meriti e demeriti artistici.
Recentemente il governo cinese ha dichiarato “persone non grate” alcuni personaggi di Hollywood, fra i quali oltre ai soliti Scorsese, Pitt e Gere figurano anche il divo Harrison Ford e sua moglie, una sceneggiatrice. Sono misure diplomatiche che si applicano a spie, agenti segreti, funzionari governativi vari impegnati in azioni illecite all’estero. Niente di strano che si applichino anche nei confronti dei Divi di Stato e dei Registi di Stato di Hollywood.
Note al Capitolo IV
71 – The Book of States 1982/1983 a cura del The Council of State Governments, Lexington, Kentucky.
72 – “New York Times” del 11/3/1988.
72bis – In Italia il Manifesto di Unabomber contro la società tecnologica (con un saggio introduttivo di Claudio Risé) è stato pubblicato dalla Società Editrice Barbarossa.
73 – Vedi Vecchi Trucchi, op. cit., pp. 48-55.
74 – Ivi, pp. 206-210.
75 – Alfred W. McCoy, The Politics of Heroin in Southeast Asia, Harper & Row Publishers, New York, 1972.
76 – “Ebony”, marzo 1989.
77 – J.W. Fulbright, The Pentagon Propaganda Machine, Liveright Publishing Corporation, New York, 1970, pp. 122 e segg.
Capitolo V – La politica estera
1. Caratteri generali
Occorre innanzitutto sgombrare il campo da un luogo comune dannoso. Si tratta dell’opinione, condivisa da molti, che la politica estera americana abbia sempre fluttuato fra isolazionismo e interventismo. In particolare la politica estera americana sarebbe stata principalmente isolazionista sino alla Prima Guerra Mondiale, diventando solo dopo marcatamente interventista. Magari obtorto collo, per rimediare alle follie dei paesi europei. Niente affatto: la politica estera americana non è mai stata isolazionista. Semplicemente, sino alla Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti erano militarmente più deboli delle principali potenze europee. Essi giustificavano la latitanza dalla scena politica mondiale con una proclamata superiorità morale, che impediva loro di associarsi alle prevaricazioni internazionali degli europei; dicevano anche di preferire alla guerra il ricorso alle “leggi internazionali”. Ciò non valeva però nei confronti dell’America Centrale, i cui deboli paesi furono attaccati militarmente decine di volte prima del mitico spartiacque sancito con la Prima Guerra Mondiale. In effetti nei decenni successivi gli Stati Uniti ridussero il divario militare dagli europei e del loro “isolazionismo” e della loro preferenza per il ricorso alle leggi internazionali non parlarono più, per nessun teatro mondiale. Il concetto è stato sintetizzato dallo storico statunitense David Larson:
«Di fatto, questo ricorso alla legge internazionale divenne una delle caratteristiche dominanti della politica estera americana sino alla Prima Guerra Mondiale, quando si aveva a che fare con potenze più forti, ma non era tanto questo il caso quando si aveva a che fare con potenze più deboli» (78).
Gli Stati Uniti in effetti sono sempre stati il paese più “interventista” dello scenario internazionale. Lo dimostra il numero di guerre e interventi armati importanti all’estero che ha compiuto dal momento dell’indipendenza a oggi. Lo storico inglese William Blum (79) ha contato 168 casi del genere sino al 1945. Fra i paesi esteri interessati più importanti ci furono i seguenti:
• Libia: 1801-1805; 1815
• Messico: 1806; 1806-1810; 1836; 1842; 1844; 1846-1848; 1859; 1866; 1870; 1873; 1876; 1913; 1914-1917; 1918-1919
• Spagna: 1810; 1812; 1813; 1814; 1816; 1816-1818; 1817; 1824; 1898
• Gran Bretagna: 1812-1815
• Isole Marchesi: 1813-1814
• Algeria: 1815
• Cuba: 1822; 1823; 1824; 1825; 1906-1909; 1912; 1917-1922; 1933
• Grecia: 1827
• Isole Falkland-Malvinas: 1831-1832
• Sumatra: 1832; 1838-1839
• Argentina: 1833; 1852-1853; 1890
• Perù: 1835-1836
• Isole Figi: 1840; 1855; 1858
• Cina: 1843; 1854; 1855; 1856; 1859; 1866; 1894-1895; 1898-1899; 1900; 1911; 1912; 1912-1941; 1916; 1917; 1920; 1922-1923; 1924; 1925; 1926; 1927; 1932; 1934
• Turchia: 1851; 1858-1859; 1912; 1919; 1922
• Samoa: 1888-1889
• Nicaragua: 1853; 1854; 1857; 1867; 1894; 1896; 1898; 1899; 1910; 1912-1925; 1926-1933
• Giappone: 1853-1854; 1863; 1864; 1868; 1941-1945
• Uruguay: 1855; 1858; 1868
• Panama: 1856; 1865; 1885; 1903-1914; 1904; 1912; 1918-1920; 1921; 1925
• Paraguay: 1925
• Angola portoghese: 1860
• Colombia: 1860; 1868; 1873; 1895; 1901 1902
• Formosa: 1867
• Isole Hawaii: 1870; 1874; 1889; 1893
• Corea: 1871; 1888; 1894-1896; 1904-1905
• Egitto: 1882
• Haiti: 1888; 1891; 1914; 1915-1934
• Cile: 1891
• Brasile: 1894
• Filippine: 1899-1901
• Honduras: 1903; 1907; 1911; 1912; 1919; 1924; 1925
• Repubblica Dominicana: 1903; 1904; 1914; 1916-1924
• Siria: 1903
• Abissinia: 1903-1904
• Marocco: 1904
• Russia: 1918-1920; 1920-1922
• Guatemala: 1920
• Germania: 1917-1918; 1941; 1941-1945
• Austria-Ungheria: 1917-1918
• Italia: 1941-1945
In tutti i casi gli Stati Uniti furono gli aggressori: nessuno ha mai aggredito o provocato gli Stati Uniti. Un analogo conteggio non è stato fatto per il periodo successivo al 1945, ma il coefficiente “numero di aggressioni per anno” dovrebbe essere addirittura aumentato. Dopo il 1945 ci sono stati infatti:
• la Guerra di Corea;
• la Guerra del Vietnam-Laos-Cambogia;
• l’invasione della Repubblica Dominicana;
• la repressione della rivolta degli Huk nelle Filippine;
• l’invio della flotta per intercettare i mercantili russi diretti a Cuba;
• l’invio della flotta sulle coste brasiliane per appoggiare il colpo di Stato del generale Castelo Branco;
• l’invio dei Berretti Verdi in Guatemala per mitragliare i peones in sciopero contro la United Fruits;
• il bombardamento dei profughi palestinesi in Libano;
• l’invasione di Grenada;
• il bombardamento di Tripoli di Libia;
• l’abbattimento di aerei libici;
• il bombardamento di installazioni petrolifere iraniane;
• l’abbattimento di un aereo di linea iraniano con 290 persone a bordo da parte dell’incrociatore Vincennes (a cui seguì la qualche mese dopo con l’abbattimento dell’aereo 747 della Pan-Am con 259 persone a bordo, a Lockerbee);
• l’invasione di Panama;
• la guerra contro l’Iraq; e altro ancora.
E questo sia prima sia dopo il 1945, contando solo gli interventi armati ufficiali, eseguiti mostrando la bandiera, e non quelli effettuati con i bombardieri privi di insegne degli Air Commandos stanziati alla Eglin Air Force Base in West Florida; con i sabotaggi al plastico eseguiti o fatti eseguire dalla CIA e dal Pentagono; con gli avvelenamenti anonimi di derrate alimentari e di falde acquifere; con gli spargimenti misteriosi di microbi e bacilli (fatti sorprendenti ma documentati, verificatisi prima con gli indiani americani e poi in Cina, in Corea, in Vietnam, a Cuba, in Nicaragua, in Giamaica, in Angola, in Mozambico…); con gli eserciti mercenari pagati in dollari o in droga (sul tipo di quelli dei Contras, dell’Unita, del Renamo, del Kuomintang del Triangolo d’Oro ecc.)· E senza contare neanche le decine di interminabili embarghi economici imposti e fatti imporre dagli USA a questo o a quel paese che non vuole fare ciò che vogliono loro, atti che spesso hanno effetti micidiali sulle popolazioni colpite, specie sui loro bambini, e che solo la sudditanza dell’ONU verso gli USA e l’insipienza e malafede dei politici e media del mondo occidentale impediscono di dichiarare ufficialmente come veri e propri atti di guerra, di aggressione premeditata e senza alcuna legale giustificazione.
Perché la politica estera americana è stata fin da subito, e costantemente, così aggressiva? La risposta, come al solito, la forniscono direttamente gli interessati, a saperli ascoltare. Ha scritto Walter Lippmann (1889-1974), da sempre uno dei massimi esponenti dell’ establishment politico-intellettuale americano:
«… il comportamento delle nazioni su un lungo periodo di tempo è il più affidabile, benché non l’unico, indice del loro interesse nazionale. Perché se i loro interessi non sono eterni essi sono però rimarchevolmente persistenti. Noi quasi possiamo predire cosa una certa nazione vuole osservando ciò che per un periodo abbastanza lungo di tempo essa ha voluto; noi possiamo quasi predire cosa farà dalla conoscenza di quello che ha usualmente fatto·… Anche quando esse si adattano ad una nuova situazione, il loro comportamento è probabile sia una modificazione piuttosto che una trasformazione del loro vecchio comportamento» (80).
Il comportamento internazionale degli Stati Uniti è dunque un indice del loro interesse nazionale. Ogni nazione ha un interesse nazionale: in genere è di stare tranquilli a casa propria, di vivere al meglio con le condizioni e le risorse che si hanno a disposizione. Analizziamo la storia dei paesi del mondo e vedremo che quella è in genere la formulazione esatta del loro interesse nazionale. Ci sono poi dei popoli che, in dipendenza della loro mentalità, hanno degli interessi nazionali diversi, che li portano ad interferire sistematicamente con gli altri. Gli antichi Romani, per esempio, avevano come interesse nazionale implicito la pacificazione mondiale, un obiettivo grandioso e unico nella storia ma alla fine raggiunto e mantenuto per moltissimo tempo (l’Europa occidentale godrà di tale pace sino al 1450 circa; l’Impero Romano d’Oriente cadde solo nel 1453. Nonostante i tanti libri scritti sull’argomento il fenomeno costituito da Roma è ancora ampiamente sottovalutato se non addirittura misconosciuto).
Anche gli americani hanno sempre avuto un interesse nazionale peculiare. Ben diverso da quello degli antichi Romani il loro interesse nazionale è quello di arricchirsi, a qualunque costo e volentieri alle spese di altri popoli. È questo che li porta ad aggressioni continue. I motivi psicologici di ciò sono già stati analizzati: gli americani sono in effetti i Puritani. Gli stessi motivi psicologici hanno parallelamente formato una società la cui organizzazione ha come unico scopo quello di permettere, a chi vi riesca, di arricchirsi il più possibile. Considerato tutto ciò, una sola politica estera è allora logica, consequenziale e anche possibile per gli Stati Uniti: assecondare e favorire le attività economiche all’estero di quelle sue entità — società o anche singoli cittadini — che vi operano. Questo è anche l’unico scopo della politica estera americana; non ve ne sono altri. La politica estera americana si capisce solo se si pensa che, a tutti gli effetti pratici, nei loro rapporti con gli altri paesi gli Stati Uniti non sono a loro volta da considerare come un paese qualunque, ma come una enorme AZIENDA COMMERCIALE PRIVATA — privata ma con straordinari mezzi umani e materiali a disposizione; privata ma potentemente armata e senza la necessità di dover rispondere delle proprie azioni ad alcun tribunale. L’affermazione trova una conferma, oltre che nei risultati, anche nella scelta pratica degli uomini preposti alla politica estera: i più importanti funzionari del Dipartimento di Stato sono sempre stati esponenti in prima persona del grande business americano, in particolare di quello con interessi all’estero, delle multinazionali. Da ciò discende, per inciso, che quando si tratta con una azienda americana, magari per l’importazione dei suoi prodotti, in ultima analisi si sta trattando con il governo americano, e bisogna fare attenzione.
Anche i governi devono fare attenzione quando trattano questioni riguardanti aziende americane che operano nel loro territorio. Dovrebbero averlo imparato anche il ministro italiano delle Finanze Visco e l’allora presidente del Consiglio italiano Prodi. Nel novembre del 1997 introdussero una nuova tassa — l’ΙRAP — che come risultato collaterale obbligava le multinazionali statunitensi operanti in Italia praticamente a una doppia tassazione dei profitti. Era una faccenda interna italiana, ma queste si rivolsero al loro governo, che intervenne. Non è impensabile che ci siano state anche minacce personali oblique. Così, forse memori di Enrico Mattei, i due ricongegnarono l’IRAP per accontentare le multinazionali statunitensi. In tale guisa gli Stati Uniti dunque debuttarono sulla scena internazionale, e in tale guisa rimasero sempre. La loro politica estera era segnata; come avrebbe potuto dire Lippmann, nel 1787 si sarebbe già potuto prevedere tutto, sino a oggi. Analogamente oggi si può certo prevedere il futuro degli Stati Uniti; ma questo è un altro discorso.
2. Il mercato dell’Oriente e i suoi corollari
Il fine ultimo della politica estera americana è sempre stato uno solo: il tentativo di conquistare il Mercato dell’Oriente.
Tale obiettivo ha fondato gli Stati Uniti, ne ha dominato la politica estera, ne ha anche plasmato la geografia. Come abbiamo visto, in ultima analisi è a questo scopo che i Puritani emigrarono in America settentrionale. Il Mercato dell’Oriente negato dalla Gran Bretagna fu il motivo segreto ma decisivo della Guerra di Indipendenza. Fu la vera causa di un’altra guerra contro la Gran Bretagna, quella del 1812: la possibilità di procurarsi le pellicce da scambiare in Cina. E fu il motore della Conquista del West, il cui movente principale era il raggiungimento dei porti sul Pacifico. Fu anche il miraggio che, di fronte alla secessione del Sud, fece decidere il Nord per la Guerra Civile. Da ultimo, fu il motivo che spinse gli Stati Uniti a occupare le Filippine, le Hawaii e tutte le altre isole del Pacifico. Per la stessa ragione fu comprata l’Alaska, la “Ghiacciaia di Seward”. Fu per il Mercato dell’Oriente, in sostanza, che gli Stati Uniti intervennero in modo tanto pesante e con tanta insistenza in America Centrale e nei Caraibi: oltre alla frutta e allo zucchero era in gioco anche il controllo sul canale che dai primi dell’Ottocento si voleva tagliare nella zona, fondamentale per il traffico diretto in Cina dalla costa orientale americana e dall’Europa. Alla fine il canale fu tagliato a Panama, ma per lungo tempo si pensò di tagliarlo in Nicaragua, fatto che spiega anche i numerosi interventi armati statunitensi in tale paese. Un altro canale può ancora essere tagliato in Nicaragua, facendo concorrenza a quello di Panama: il che spiega il grande interesse ancora attuale degli Stati Uniti per il paese.
Ma questo è niente. La volontà di conquistare il Mercato dell’Oriente ha determinato per gli Stati Uniti la strategia da tenere con l’Europa Occidentale e con la Russia, oltreché naturalmente con il Giappone e con la Cina, che da ultima in sostanza costituisce tale Mercato. Infatti assorbire il Mercato dell’Oriente non è facile; occorre fare i conti con tutte le grandi potenze dello scacchiere. In pratica il grande teorema della conquista del Mercato dell’Oriente ha portato con sé dei corollari, delle condizioni da soddisfare necessariamente per la sua risoluzione.
Appena ottenuta l’indipendenza dalla Gran Bretagna fu subito chiaro agli americani quale fosse il primo corollario, la prima condizione necessaria per nutrire speranze sul Mercato dell’Oriente: la Balance of Power in Europa. Era in pratica la politica seguita in Europa dalla stessa Gran Bretagna, per lo stesso scopo: impedire che in Europa continentale sorgesse una potenza dominante che unificasse la terraferma. Tale potenza avrebbe potuto essere prima la Spagna, poi la Francia, poi la Germania — sempre la Russia. Fosse sorta tale potenza, si sarebbe formato un blocco europeo che avrebbe dominato la scena mondiale dal punto di vista militare, e quindi anche dal punto di vista commerciale: anche nel caso in cui la Gran Bretagna fosse riuscita, per qualche miracolo, a rimanere indipendente avrebbe dovuto però sicuramente rinunciare al grosso dei suoi traffici commerciali internazionali. Questo era il motivo dei “giri di valzer” della Gran Bretagna in Europa, il suo partecipare a tutte le relative guerre alleandosi ora con questo ora con quello, combattendo oggi contro il suo alleato di ieri (da qui l’appellativo rivolto alla Gran Bretagna di “Perfida Albione”). Essa si alleava sempre con la parte più debole, al solo scopo di impedire all’altra di vincere in modo schiacciante, irrimediabile. Orbene, gli americani capirono che dovevano seguire la stessa politica di Balance of Power in Europa. La differenza era che loro nell’equazione inserivano anche la Gran Bretagna. Il concetto fu già espresso da George Washington nel 1789: «I guai dell’Europa sono i vantaggi degli Stati Uniti», disse, e intendeva esattamente questo.
Verso la metà dell’Ottocento, dopo l’esperienza accumulata, gli americani scoprirono il secondo corollario. Non bastava la Balance of Power in Europa: bisognava anche demolire la Russia. Anzi questo era il corollario principale se si voleva prendere il Mercato dell’Oriente. Come si è visto, questa dottrina fu messa a punto verso il 1860 da William Henry Seward, Segretario di Stato di Abraham Lincoln. Il ragionamento di Seward era ineccepibile. La Russia era il vero nemico degli Stati Uniti. Essa stava in Europa e partecipava all’equilibrio delle forze in quell’area, ma stava diventando sempre più grande e potente: avrebbe potuto rompere quell’equilibrio e diventare la potenza dominante in Europa, formando quel Super-Blocco europeo continentale tanto temuto. Essa stava anche in Asia, sopra la Cina: offrendo la sua alleanza a questa la poteva proteggere dai tentativi degli occidentali di penetrarvi, chiudendo così per tutti la porta del Mercato dell’Oriente. Iniziava così — nel 1860 — l’ostilità degli Stati Uniti verso la Russia. Avendo in mente questi concetti fondamentali — il Mercato dell’Oriente; la Balance of Power in Europa continentale; la demolizione della Russia — gli atti della politica estera americana sono di immediata interpretazione. Vediamo rapidamente i più importanti.
3. La politica in Cina prima della seconda guerra mondiale
Gli Stati Uniti furono subito attratti dalla Cina come la proverbiale gatta dal lardo. Era la chiave del Mercato dell’Oriente, ed essa stessa ne costituiva la parte più sostanziosa: già all’epoca della Guerra di Indipendenza contava circa 300 milioni di abitanti. Testimoni dell’interesse americano per la Cina sono gli interventi armati là compiuti, tutti allo scopo di procurarsi e mantenere posizioni commerciali: questi interventi furono effettuati nel 1843, 1854, 1855, 1856, 1859, 1866, 1894-1895, 1898-1899, 1900, 1911, 1912, dal 1912 al 1941, nel 1916, 1917, 1920, 1922-1923, 1924, 1925, 1926, 1927, 1932, 1934. Per tutto questo tempo e fino alla Seconda Guerra Mondiale, però, gli Stati Uniti dovettero fare i conti con Gran Bretagna, Francia e Germania, anch’esse interessate alla Cina. Da un certo momento in poi anche il Giappone era entrato nella competizione. L’obiettivo, così, era di cercare che nessuna di quelle grandi potenze ottenesse lo sfruttamento esclusivo del paese. Allora gli Stati Uniti difesero l’integrità territoriale del Celeste Impero nei confronti degli stranieri. Lo fecero in particolare con la Open Door Policy del 1899, il cui senso era di lasciare la porta del mercato cinese aperta a tutti, visto che non se ne poteva avere l’esclusiva. La giustificazione morale di tale politica era quella dell’Autodeterminazione dei popoli. Naturalmente, quando l’anno dopo ci fu la Rivolta dei Boxer —, una sollevazione da parte di elementi nazionalisti cinesi che volevano liberare la Cina da ogni influenza straniera, e quindi proprio “autodeterminarsi” —, gli Stati Uniti intervennero in armi in Cina insieme con gli europei per soffocarla nel sangue.
Il Giappone doveva servire come trampolino di lancio verso il mercato cinese — le Filippine e altri paesi. Tormentato sin dalla seconda metà del Cinquecento dalle missioni commerciali di portoghesi, spagnoli, olandesi e inglesi, tutte accompagnate da tanti preti che le giustificavano, questo paese si era deciso ben presto a proibire ogni contatto con gli Occidentali. Vennero però alla carica gli americani: nel luglio 1853 l’ammiraglio Matthew Calbraith Perry si presentò con una flotta nella baia di Tokyo ed obbligò i giapponesi al Trattato di Kanagawa, firmato il 31 marzo 1854, in base al quale questi ultimi accettavano le missioni commerciali americane. I giapponesi capirono subito qual era l’unica strada: le prime merci che acquistarono dagli americani furono materiale ferroviario, telegrafi e… cannoni, quindi iniziarono un processo di industrializzazione e militarizzazione forzata che in breve tempo li avrebbe addirittura portati a competere con gli Occidentali per il Mercato dell’Oriente.
4. La Prima Guerra Mondiale
Nelle fasi iniziali della Prima Guerra Mondiale (1914- 1918) l’establishment politico americano rimase in posizione di attesa; si voleva che anche questa guerra europea lasciasse lo status quo continentale pressoché inalterato. Inoltre gli americani non si erano mai confrontati militarmente con gli europei sul loro terreno e non erano sicuri della propria buona riuscita. All’epoca era presidente Woodrow Wilson, un Presbiteriano, l’“uomo di Wall Street” e cioè del grande capitale. Finché sembrava non ci fosse alcun bisogno di intervenire, a Wilson faceva comodo pronunciarsi a favore della neutralità; così fece e fu rieletto nel 1916 con lo slogan “He kept us out of war” (“ci ha tenuto fuori dalla guerra”). Le cose cambiarono nel 1917 in conseguenza dell’improvvisa debolezza mostrata dalla Russia, che stava entrando nelle doglie della rivoluzione. Nel marzo di quell’anno una serie di imponenti scioperi squassò la Russia (il preludio della Rivoluzione d’Ottobre, avvenuta secondo il calendario occidentale in novembre) e fece temere per il suo crollo e la conseguente vittoria a tutto campo degli Imperi Centrali: immediatamente, nell’aprile seguente, Wilson annunciava l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro gli Imperi Centrali.
Furono mobilitati quasi 5 milioni di soldati, con 116.516 morti. La loro influenza nel conflitto non fu comunque rilevante. Gli americani amano dire che entrarono in guerra contro gli Imperi Centrali perché un sommergibile tedesco aveva affondato il piroscafo inglese Lusitania, provocando la morte di 1.198 persone fra le quali 128 americani bianchi. É una versione per le scuole medie e per i documentari televisivi italiani. C’era una guerra e ogni nazione affondava le navi dirette verso l’avversario. Prima della partenza del Lusitania il consolato tedesco a New York aveva fatto pubblicare annunci sui giornali avvisando del rischio. Nelle stive della nave veniva trasportato materiale bellico per la Gran Bretagna: infatti il Lusitania era in realtà una nave da guerra ausiliaria della Royal Navy. L’affondamento avvenne nel maggio del 1915, due anni prima dell’entrata in guerra americana. C’è invece la quasi certezza che il governo americano fosse alla ricerca di episodi del genere per giustificare un’ipotetica necessità dell’entrata in guerra nei confronti di una opinione pubblica molto intimorita dall’idea di una guerra in Europa contro gli europei. Il motivo della partecipazione americana alla Prima Guerra Mondiale fu soltanto la preoccupazione che venisse pregiudicata la Balance of Power in Europa continentale, con la conseguente fine del sogno americano (ed anche inglese, certamente) per il Mercato dell’Oriente.
L’8 gennaio del 1918 il presidente Wilson tenne al Congresso un discorso nel quale enunciò, in 14 punti, i desiderata degli Stati Uniti per il dopoguerra che si sperava imminente (81). I Quattordici punti di Wilson erano un misto di propaganda, bugie e reali desideri economici americani — questi ultimi condensati nel II e nel III punto. Il II Punto recita come auspicabile la «Libertà assoluta di navigazione sui mari, al di fuori di acque territoriali, sia in pace come in guerra, eccetto il caso in cui i mari possano essere chiusi del tutto o in parte da un’azione internazionale allo scopo di far rispettare accordi internazionali». Per la parola “accordi” Wilson usò il termine “Covenant”. Il III Punto auspica «La rimozione, per quanto possibile, di tutte le barriere economiche e l’istituzione di una eguaglianza di condizioni di commercio fra tutte le nazioni che consentano alla pace e che si associno fra di loro per il suo mantenimento». Era ancora il periodo in cui gli Stati Uniti, che trafficavano in tutti i mari, si vedevano sbarrati certi mercati dalle cannoniere di questo o quel paese europeo. Wilson non credeva che gli Stati Uniti sarebbero mai arrivati a superare i paesi europei dal punto di vista militare e sperava in un accordo con loro per uno sfruttamento mondiale congiunto: il XIV Punto auspicava la creazione di una Lega delle Nazioni che avrebbe dovuto svolgere tale scopo. Il medesimo scopo in effetti è tuttora svolto dall’ONU, il successore della Lega.
Le bugie, condensate nel VI Punto, riguardavano la Russia. Si auspicava: «L’evacuazione di tutto il territorio russo e una sistemazione di tutte le questioni che riguardano la Russia tale da assicurare la migliore e più libera cooperazione delle altre nazioni del mondo nell’ottenere per lei un’opportunità senza ostacoli e senza imbarazzo per la determinazione indipendente del suo proprio sviluppo politico e di politica nazionale, ed assicurarle un sincero benvenuto nella società delle nazioni libere sotto istituzioni di sua propria scelta; e, più che un benvenuto, anche assistenza di ogni genere che lei possa abbisognare e possa lei stessa desiderare. Il trattamento accordato alla Russia dalle sue sorelle nazioni nei mesi a venire sarà la prova della loro buona volontà, della loro comprensione dei suoi bisogni come distinti dai suoi propri interessi, e della loro intelligente e disinteressata simpatia».
Wilson scrisse questo Punto perché sperava di evitare il ritiro della Russia dal conflitto ventilandole la possibilità di grandi aiuti materiali in cambio. Ma i russi non sono gli indiani. La Russia si ritirò dal conflitto, perché così doveva fare per il proprio interesse. Del resto Wilson, mentre stendeva il suo VI Punto, trattava con Gran Bretagna e Francia per un assetto nel dopoguerra molto sfavorevole alla Russia, come Lenin aveva saputo e reso anche pubblico. Pochi mesi dopo aver pronunciato i suoi Punti, nell’estate del 1918, il presidente Wilson inviava infatti soldati in Russia insieme a Gran Bretagna, Francia, Giappone e altri allo scopo di aiutare l’Armata Bianca a rovesciare il regime comunista che si era nel frattempo instaurato.
In conclusione la Prima Guerra Mondiale fu favorevole per gli Stati Uniti. Non vi contribuirono molto sul campo ma la sua conclusione fu meglio di quanto sperato: rimase lo status quo sul continente, con una Russia molto ridimensionata. Inoltre il presidente Wilson era riuscito, con i suoi “idealistici” Quattordici punti a far credere all’opinione pubblica europea che gli Stati Uniti erano un paese pacifico, che malvolentieri si distoglieva dai suoi scambi e baratti per fare la guerra.
5· La Seconda Guerra Mondiale
Un disastro per gli Stati Uniti, invece, si rivelò la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945)·
Per gli americani le cose cominciarono a mettersi male a partire dalla fine degli anni Venti. In Estremo Oriente il Giappone si era industrializzato con una velocità e un successo sorprendenti e già dalla fine dell’Ottocento aveva cominciato a reclamare per sé lo status di potenza dominante nella regione sia dal punto di vista militare sia, naturalmente, commerciale. Nel 1931 il Giappone occupò la Manciuria, regione chiave della Cina dal punto di vista politico, mettendo in piedi lo Stato-fantoccio del Manchukuo, e nel 1937 iniziò l’invasione del resto della Cina. Questa era una minaccia mortale alle secolari mire americane sul Mercato dell’Oriente.
Contemporaneamente all’attacco giapponese alla Cina, in Europa cominciava a ripresentarsi con la Germania di Hitler il solito pericolo: la formazione di un Super-Blocco europeo continentale fortissimo dal punto di vista sia commerciale sia militare. In un primo momento, visto il profondo anticomunismo dei nazionalsocialisti, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia cercarono di dirigere la Germania solo verso la Russia, uno scontro che secondo loro si sarebbe risolto con un nulla di fatto. Era questo, come tutti sanno, il senso degli Accordi di Monaco del 1938. Ma il piano non riuscì e poco dopo in Europa scoppiò la guerra.
Il Mercato dell’Oriente e la Balance of Power in Europa erano a quel punto minacciati. Che fare? Era chiaro: intervenire subito su tutti e due i fronti, contro Germania e Italia da una parte e contro il Giappone dall’altra. Franklin Delano Roosevelt lo capì subito, e si adoperò per far entrare il paese in guerra. Non era così facile perché il presidente americano aveva due ostacoli, l’opinione pubblica e una parte del Congresso.
Per quanto riguarda l’opinione pubblica si profilava una grande guerra con coscrizione obbligatoria, e si è detto quanto poco attraente sia questa eventualità per il popolo americano. Occorreva fornire un buon motivo, e far sentire il grande pubblico minacciato direttamente. Al Congresso le idee non erano chiare. La situazione era stata complicata dall’attacco tedesco alla Russia, che aumentava le simpatie già rilevanti per Hitler e Mussolini, tutto sommato due buoni anticomunisti. Qualcuno al Congresso pensava di limitarsi ad applicare pedissequamente il solito consiglio di Washington. Dopo l’attacco tedesco alla Russia del 22 giugno 1941, l’allora senatore Harry Truman espresse al Congresso questo concetto:
«Se vediamo che la Germania sta vincendo la guerra, allora dovremmo aiutare la Russia; e se la Russia sta vincendo, dovremmo aiutare la Germania, e così fare in modo che si ammazzino fra loro il più possibile» (82).
Poco dopo Roosevelt scelse Truman come vicepresidente. L’invasione tedesca sarebbe costata alla Russia 20 milioni di morti, il 10% della popolazione. A parte le considerazioni morali, non si trattava di un ragionamento valido dal punto di vista dell’interesse nazionale americano. Se avesse vinto la Germania, la Russia sarebbe finalmente scomparsa almeno sul piano politico, ma insieme a lei, con ogni probabilità, anche Francia e Gran Bretagna si sarebbero defilate: l’Europa avrebbe avuto quel famoso padrone che non si voleva a nessun costo. E se avessero vinto gli Alleati, che in quel momento erano Francia, Gran Bretagna e Russia, chi ci avrebbe guadagnato di più sarebbe stata proprio la Russia, che avrebbe presumibilmente conquistato l’area centrale del continente europeo.
É bene ricordare una teoria geostrategica che era molto nota negli Stati Uniti, enunciata dal geografo inglese Sir Halford J. Mackinder (considerato a buon diritto uno dei padri della geopolitica nonché il più eminente rappresentante della scuola geopolitica anglosassone): «Chi domina l’Europa Orientale domina la Terra Interna; chi domina la Terra Interna domina l’Isola Mondo; chi domina l’Isola Mondo domina il Mondo» (83). L’Europa Orientale era l’area tra l’Elba e il Volga; la Terra Interna era all’incirca l’attuale Russia oltre il Volga; l’Isola Mondo era l’EuropaAsia-Africa. Mackinder, cioè, al contrario dei sostenitori della teoria marittima capeggiati dall’ammiraglio americano Alfred Maham (84), riteneva che alla fine il mondo sarebbe stato dominato non da chi controllava i mari ma da chi occupava sia la Russia sia l’Europa Orientale.
Gli Stati Uniti, dunque, dovevano intervenire per cercare di evitare entrambe le ipotesi. Dovevano intervenire in Europa come in Asia, sperare che vincesse la parte cui si erano legati e cercare di controllare le condizioni di pace affinché in Europa permanesse la situazione precedente, e in Asia il Mercato dell’Oriente venisse lasciato loro. L’unica soluzione era l’entrata in guerra al fianco di Gran Bretagna e Francia, e purtroppo anche della Russia.
Così, mentre si dichiarava neutrale, contemporaneamente Roosevelt si adoperava per provocare i belligeranti della parte scelta come avversa. L’11 marzo del 1941, diciotto mesi dopo l’inizio della guerra in Europa, riuscì a far approvare il Lend-Lease Act, che destinava agli avversari di Germania e Italia aiuti per 7 miliardi di dollari (per il Piano Marshall di dieci anni dopo saranno stanziati 12 miliardi di dollari, neanche il doppio e in moneta già inflazionata dalla guerra). Roosevelt giustificò la misura dicendo che gli Stati Uniti erano l’arsenale della democrazia”. I mercantili diretti in Inghilterra con gli aiuti dovevano essere scortati da navi da guerra americane, che avrebbero dovuto segnalare i sommergibili tedeschi alle navi inglesi. Nel settembre 1941 un U-boot attaccò una nave da guerra americana che lo seguiva per additarlo alle navi inglesi: Roosevelt dichiarò che da quel momento in poi le navi americane avrebbero affondato a vista i “pirati” tedeschi. Ma la Germania non voleva l’entrata in guerra degli Stati Uniti e abbozzò.
Il grande successo di Roosevelt arrivò invece con il Giappone. Ha scritto lo storico americano Dexter Perkins:
«In effetti sarebbe stato impossibile per gli Stati Uniti entrare in pieno nella guerra non fosse stato per gli eventi che capitarono in Estremo Oriente» (85).
Perkins si riferiva naturalmente all’attacco giapponese a Pearl Harbor, che fu il frutto delle provocazioni americane. Nel 1940 gli Stati Uniti avevano vietato l’esportazione in Giappone di kerosene per aviazione, petrolio e rottami di ferro; fu proprio questo, fra l’altro, ad indurre il Giappone alla firma del trattato di mutua difesa con Germania e Italia. Nel 1941, inoltre, in seguito all’occupazione giapponese dell’Indocina, gli Stati Uniti congelarono i beni giapponesi nel loro territorio e bloccarono tutto l’interscambio commerciale. I giapponesi non volevano una guerra con gli Stati Uniti perché abbisognavano delle loro merci, così il 20 novembre 1941 si dichiararono disposti a lasciare l’Indocina e altre posizioni nel Pacifico, e ad abrogare il trattato con Germania e Italia. Roosevelt fece rispondere dal Segretario di Stato Cordell Hull che la condizione per ripristinare normali rapporti commerciali con gli Stati Uniti era che i giapponesi lasciassero anche la… Cina. Ovvio. Per i giapponesi era la certezza che gli Stati Uniti li avrebbero prima o poi attaccati.
Decisero di precederli e alle ore 13 di domenica 7 dicembre 1941 attaccarono a Pearl Harbor.
L’attacco di Pearl Harbor non fu affatto una sorpresa per Roosevelt. Alle ore 8 di quella domenica l’ufficio OP/20/G di Washington (86) era già a conoscenza dell’attacco programmato a Pearl Harbor per le ore 13 (87). Esso avvertì subito tutti gli interessati: il Capo delle Operazioni Navali ammiraglio Harold Stark, il Capo di Stato Maggiore generale George Marshall, il segretario della Marina, il Segretario di Stato, la Casa Bianca. Inutilmente: il generale Marshall autorizzò l’invio di un messaggio di avvertimento alla base di Pearl Harbor solo alle ore 13 esatte, quando cominciavano a cadere le prime bombe. Marshall era un ottimo politico: in seguito sarà nominato Segretario di Stato e sarà poi lui l’ideatore del “Piano Marshall” per evitare che anche l’Europa Occidentale nel dopoguerra cadesse nell’orbita russa. Roosevelt voleva infatti che l’attacco di Pearl Harbor non solo ci fosse, ma provocasse i massimi danni possibili, sia in termini materiali che di vite umane — americane. Ciò che puntualmente avvenne: in quel giorno, che gli americani definiscono come «la data che sarà sempre sinonimo di infamia», furono affondate almeno una ventina di navi (fra cui sicuramente otto corazzate) e morirono 2.300 uomini, mentre altri settecento circa rimasero feriti. Sia le navi che gli uomini non erano difficili da rimpiazzare, e gli Stati Uniti entravano finalmente in guerra.
Ciò che Roosevelt si proponeva di ottenere dalla guerra l’aveva detto in tutta sincerità anche nell’agosto del 1941, quando in occasione di un teatrale incontro con Churchill in mezzo all’Atlantico aveva proclamato la Atlantic Charter. Era una dichiarazione solenne sugli scopi che gli Stati Uniti erano intenzionati a raggiungere nel caso fossero stati costretti ad entrare in guerra. Era insomma una riedizione dei Quattordici punti di Wilson: non ci sarebbero dovuti essere guadagni territoriali da parte di nessuno; tutti i popoli avevano il diritto di autogovernarsi; tutti avrebbero dovuto avere libero accesso ai traffici e alle materie prime internazionali; la guerra doveva essere abbandonata come strumento di soluzione di controversie internazionali. Particolarmente interessante il primo punto: un’ammissione della necessità della Balance of Power in Europa e dell’abbandono della Cina da parte del Giappone. Poi fece seguire un po’ di propaganda spicciola ed enunciò le Quattro Libertà che avrebbero contraddistinto il mondo dopo la guerra in essere: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal timore, libertà dal bisogno.
Brillantissimo, Roosevelt. A quel punto si trattava soltanto di vincere la guerra. Ma gli Stati Uniti non ci riuscirono. Lo stesso individualismo materialistico che rende gli americani così abili nel commercio li rende irrimediabilmente imbelli nella guerra di terra, dove purtroppo occorre la disponibilità al sacrificio propiziata da una mentalità collettivista. Grazie alla dovizia dei mezzi e alla ininfluenza della qualità degli equipaggi gli americani primeggiarono sul mare, ma la guerra contro la Germania, un paese continentale, poteva essere risolta solo dalle armate di terra. Il fattore decisivo della guerra in Europa fu il timore dei generali americani nei confronti dell’esercito tedesco, e la loro conseguente strategia di affrontarlo solo quando già messo in ginocchio da qualcun altro: dai russi, per esempio. Perciò gli americani, nonostante gli appelli di Stalin e a un certo momento anche di Churchill, tardarono tanto ad aprire il famoso secondo fronte in Europa. Quando giudicarono di poterlo fare era troppo tardi per salvare l’equilibrio di forze in Europa: i russi avevano già occupato tutta l’Europa Orientale e mezza Germania. Uno dei due obiettivi per cui gli Stati Uniti erano entrati in guerra era stato miseramente mancato.
Col Giappone non andò meglio. Gli americani riuscirono a piegarlo con la flotta e ne accelerarono un po’ la resa con le bombe atomiche, ma non riuscirono a farlo in tempo per prendere la Cina. Al momento della resa, infatti, il governo giapponese aveva ancora la possibilità di lasciar occupare la Manciuria — e cioè la Cina — dai russi, e così fece. In breve, le cose andarono così (88). Alla Conferenza di Yalta del 3-11 febbraio 1945, nel protocollo segreto intitolato Agreement Regarding Japan, si era convenuto che la Russia avrebbe attaccato il Giappone tre mesi dopo la resa della Germania. La Germania si arrese il 7 maggio e la data dell’attacco russo fu fissata per l’8 agosto 1945. Gli americani fecero esplodere la prima bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto (non prima perché non era pronta!), sperando che il Giappone si arrendesse immediatamente evitando così l’ingresso della Russia sulla scena orientale. Ma così non fu: il Giappone non si arrese e il giorno 8 un’armata russa di 700 mila uomini, che premeva al confine, iniziò l’invasione della Manciuria; qui si trovavano truppe giapponesi ben armate, rifornite e forti di 1.200.000 uomini. Il 9 agosto gli americani, in preda a una furia distruttiva motivata anche dall’inaspettata reazione giapponese, sganciarono allora una seconda bomba atomica, questa volta su Nagasaki, e finalmente il giorno successivo, 10 agosto, il governo giapponese manifestò l’intenzione di arrendersi agli Stati Uniti, formalizzata poi il 14. Ma nel contempo lo stesso governo ordinò segretamente alla sua armata in Manciuria di lasciare che i russi prendessero la regione, facendo finta di resistere agli stessi nonostante la resa della madrepatria agli americani. In effetti, quando il governo giapponese, dopo furiose sollecitazioni americane, diede finalmente all’armata della Manciuria l’ordine di arrendersi anche ai russi, fatto che avvenne il 20 agosto, questi avevano appena occupato tutta la regione; in 11 giorni di “combattimenti” avevano fatto 594 mila prigionieri e catturato il seguente materiale: 925 aerei, 369 carri armati, 1.226 cannoni, 4.836 mitragliatrici, 300.000 fucili, 2.300 veicoli e 742 depositi di munizioni — il tutto subendo perdite irrisorie. Il governo giapponese aveva operato tale scelta, favorendo la Russia, solo per vendicarsi dei bombardamenti americani sui suoi civili, ritenuti completamente inutili per l’esito del conflitto (come in effetti fu).
Precisi accordi in questo senso erano stati presi fra Stalin e il primo ministro giapponese Kantaro Suzuki nel corso di un incontro segreto avvenuto a Mosca dopo la resa della Germania (gli americani erano a conoscenza dell’incontro ma non ne conoscevano l’argomento, pur sospettandolo con preoccupazione). Per evitare tale esito gli americani avrebbero dovuto invadere la Cina tempo prima, quando il Giappone era ancora forte, e giustamente avevano valutato di non essere in grado.
Così in Oriente gli Stati Uniti avevano preso il Giappone, ma avevano mancato il vero obiettivo.
Gli Stati Uniti, invece, ottennero notevoli successi con i loro bombardamenti aerei a tappeto su obiettivi civili. Queste azioni non avevano uno scopo militare in senso stretto: non si prefìggevano l’obiettivo di ridurre le capacità operative degli eserciti avversari, come in effetti non fecero su nessun teatro in misura apprezzabile. Tali bombardamenti, inseriti dagli studiosi nel concetto unico di Guerra Totale, erano in realtà funzionali a due strategie ben distinte, anche se parallele e in alcuni casi convergenti (cosa che ne spiega la mancata individuazione).
La prima potrebbe essere chiamata la strategia della Guerra alle Popolazioni Civili, e consiste nel sottoporre i governi delle nazioni avverse al ricatto: “o vi arrendete o io stermino la vostra popolazione civile, o almeno cerco di farlo”. In pratica essa consiste nell’annientare le persone. Tale strategia è complementare alla guerra tradizionale, nel senso che deve servire anch’essa allo scopo di costringere gli avversari alla resa. Fu attuata col bombardamento a tappeto delle più alte concentrazioni di civili (le città, come per esempio Dresda e Tokyo, nelle quali furono uccisi rispettivamente 300.000 e 100.000 civili); allo scopo, contro il Giappone furono anche adoperate le bombe nucleari appena pronte, sganciate su due delle poche città che erano state risparmiate dai bombardamenti convenzionali appunto in previsione di un utilizzo “sperimentale” della nuova arma.
La seconda potrebbe essere chiamata la strategia della Guerra per il Dopoguerra. Questa non ha alcuno scopo militare; non si prefigge di costringere l’avversario alla resa. Consiste nell’arrecare il maggior danno possibile alle strutture economiche delle nazioni avverse, allo scopo non di diminuirne le capacità di mantenere le forze armate — cosa impossibile da ottenere se quelle stesse non erano già state battute sul campo e quindi la guerra già vinta —, bensì di rendere le nazioni stesse economicamente dipendenti nel dopoguerra, e in particolare non più minacciose sul piano della concorrenza commerciale nei mercati internazionali. In pratica essa consiste nel distruggere le cose. Questa strategia fu perseguita tramite il bombardamento di industrie di insignificante utilità militare (quelle militarmente utili erano difese) e di infrastrutture civili in generale: ponti, ferrovie, dighe, centrali elettriche, acquedotti, manifatture varie, edifici ecc.
Le due strategie erano sinergiche: uccidendo i civili si gettavano le basi per un dopoguerra disastroso, perché fra loro c’erano operai, quadri, dirigenti e imprenditori; inoltre si accentuava il terrore dei civili e quindi la preoccupazione dei loro governi. La strategia della Guerra alle Popolazioni Civili riuscì solo con l’Italia. I governi di Germania e Giappone non presero mai in considerazione l’ipotesi di una resa solo perché le loro popolazioni civili erano state colpite. Il governo giapponese prese in esame la questione solo dopo le due bombe nucleari a Hiroshima e Nagasaki, decidendosi alla resa solo per evitare nuove perdite in una guerra già persa sul piano convenzionale, e mentre si era ancora in tempo per privare gli americani della Cina, l’unico obiettivo ormai davvero urgente. La strategia della Guerra per il Dopoguerra invece riuscì al di là delle previsioni: i bombardamenti avevano quasi azzerato le infrastrutture civili dei vinti. A ciò va aggiunto l’effetto economico ottenuto come sottoprodotto, diciamo, dalla strategia della Guerra alle Popolazioni Civili: fra i tre milioni di morti provocati c’erano infatti molti soggetti economicamente importanti.
Inoltre, per completare tale effetto, nell’immediato dopoguerra gli americani fecero in modo che circa un milione di soldati tedeschi prigionieri di guerra, sul totale di tre milioni, morisse di stenti nei campi di concentramento (89): ai loro occhi erano solo manodopera, operai specializzati e quadri per le industrie della Germania del dopoguerra. Così, dopo la conclusione della guerra e per molti anni a venire Germania, Giappone ed Italia non furono più concorrenti validi sui mercati mondiali e dovettero loro stessi acquistare molte merci dagli Stati Uniti. Il Piano Marshall fu poi adottato per correggere l’effetto dei bombardamenti del periodo bellico: a causa dei suoi eccessi la crisi economica stava spingendo Germania Occidentale e Italia verso l’orbita russa. Tale pericolo non si verificò in Giappone, e così là un Piano Marshall non ci fu.
6. La Guerra Fredda
La conclusione della Seconda Guerra Mondiale fu un vero trauma per i vertici americani. Dietro i festeggiamenti di facciata per la vittoria su Germania, Italia e Giappone c’era una situazione gravemente compromessa: la Russia era diventata la potenza dominante in Europa e aveva il controllo della Cina, che di lì a poco in effetti avrebbe consegnato ai comunisti locali di Mao Tse Tung. Il Mercato dell’Oriente era perso, con ogni probabilità per sempre.
Occorreva cercare di rimediare allo smacco. Seward aveva avuto ragione: era la Russia il vero nemico. L’unica soluzione rimaneva quella da lui prospettata: la distruzione di tale paese. Gli Stati Uniti si accinsero allo scopo varando la strategia della Guerra Fredda. Come vedremo nel prossimo paragrafo, questa strategia comprendeva più obiettivi. Il principale però era la neutralizzazione della Russia.
Serviva una giustificazione a tutto ciò che si aveva intenzione di compiere contro questo paese. La giustificazione fu l’anticomunismo viscerale americano, sviluppatosi appunto dopo il 1945. Non che gli americani non siano sempre stati anticomunisti; occorreva però far finta di esserlo diventati in modo insensato e incontrollabile, capace di giustificare ogni nefandezza.
Infatti la prima opzione che si cercò di mettere in pratica fu un attacco nucleare contro la Russia — negli anni dal 1945 al 1949-50, quando solo gli Stati Uniti le avevano. Ma non riuscirono a produrne in numero sufficiente: la loro disponibilità era di 2 alla fine del 1945, 9 alla fine del 1946, 13 nel luglio del 1947, 50 nel luglio del 1948 (90). E questo nonostante il massimo sforzo profuso:
« … ci sono prove sostanziali per concludere che gli Stati Uniti procedettero con la massima velocità possibile nel costruire un grande arsenale atomico nel periodo del dopoguerra. Alla fine della guerra il Segretario di Stato Byrnes dichiarò: “Noi dovremmo continuare il Progetto Manhattan a tutta forza”. Il fatto che tale programma continuò ad alta velocità dopo la guerra fu confermato nel corso dell’inchiesta Oppenheimer» (91).
Gli Stati Uniti riuscirono a disporre di un quantitativo apprezzabile di bombe atomiche (qualche centinaio) solo a partire dai primi anni Cinquanta. Non era ancora sufficiente per annientare la Russia; e soprattutto considerando che proprio a partire dagli stessi anni anche la Russia ormai ne aveva. Non certo in quantità pari agli Stati Uniti, ma comunque sufficiente per ritorsioni intollerabili:
«[nel periodo della Guerra di Corea — 1950-54] un ufficiale del servizio di informazioni dell’Air Force disse al Senato che se i russi avessero attaccato gli Stati Uniti con i loro bombardieri strategici [i Tu-4] sarebbero stati in grado di lanciare 50 bombe atomiche su città americane» (92).
L’attacco nucleare americano era stato sventato agli inizi sostanzialmente grazie alla Cortina di Ferro eretta da Stalin: la segretezza imposta in tutto il paese rendeva difficile l’individuazione di obiettivi significativi per i bombardieri strategici. Le possibilità americane di tracciare un’attendibile mappa militare ed economica della Russia erano limitate ai voli segreti dei ricognitori, che iniziarono subito nel 1945 con i bombardieri B36 adattati e privi di insegne. Questi furono sostituiti nel 1950 con gli RB47, altro bombardiere adattato. Ma anche questi aerei venivano abbattuti dai russi con troppa frequenza: dal 1945 al 1960 furono abbattuti nello spazio aereo russo dai 100 ai 200 aerei-spia americani. Così nel 1956 gli americani costruirono un aereospia appositamente per la Russia, l’U-2. Il nuovo apparecchio si dimostrò efficace, anche se ogni tanto ne veniva abbattuto qualcuno, ma era di nuovo troppo tardi: il lancio del primo satellite russo, lo Sputnik, avvenuto nel 1957 indicava che i razzi sovietici — certo equipaggiati con ogive nucleari — potevano colpire il territorio statunitense a loro piacimento.
Rimaneva l’altra opzione della Guerra Fredda: la Dottrina del Contenimento della Russia. Tale politica fu teorizzata dal diplomatico e politologo George Frost Kennan, che fu ambasciatore a Mosca durante l’amministrazione Truman. Non si trattava di dover contenere niente. La Russia non si armava perché aveva intenzione di dilagare nel mondo; si armava per difendersi dagli Stati Uniti. Ma questi, facendo credere il contrario, l’isolarono con una catena di alleanze militari ostili e la boicottarono economicamente. Lo scopo era di limitare i danni arrecati agli Stati Uniti dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Bisognava impedire che la Russia formasse attorno a sé il famoso Super-Blocco europeo, e salvare il salvabile del Mercato dell’Oriente.
In Europa l’obiettivo fu raggiunto nel 1949 con la formazione della NATO, alla quale gli europei occidentali furono convinti ad aderire dai dollari del Piano Marshall erogati dal 1948 al 1952. A questa alleanza militare ingiustificatamente ostile i russi risposero solo nel 1955 con il Patto di Varsavia.
Con la NATO gli americani raggiungevano contemporaneamente un altro obiettivo: rendere meno efficace la presenza commerciale europea sui mercati mondiali. Assorbiti dall’apparente necessità di dover contrastare un incombente attacco russo via terra gli europei occidentali dovettero rinunciare alla costituzione di forze armate adatte all’intervento in luoghi lontani, come sono quelle basate sulle portaerei e sulle truppe di Marina: è solo disponendo di questo tipo di forze che, come gli Stati Uniti insegnano, si possono aprire e mantenere nuovi mercati.
Ancora, altro scopo della NATO era di influire, tramite la massiccia presenza militare (e non solo) americana, sulle vicende politiche interne dei paesi europei occidentali allo scopo di assecondare governi più favorevoli agli affari delle multinazionali americane. Ciò fu efficace soprattutto con i paesi più deboli e politicamente più ingenui come l’Italia, il Portogallo e la Grecia. L’organizzazione Gladio, messa in piedi in Italia dal Pentagono e dalla CIA apparentemente per difenderla da un attacco russo, aveva tale preciso e unico scopo. Questa funzione di influenza e persino di sovvertimento, anche violento, è presente in tutti i paesi che fanno parte di alleanze militari con gli Stati Uniti; è per quello che gli Stati Uniti le avevano create, con la scusa del pericolo costituito dalla Russia. Va al generale De Gaulle il merito di aver compreso alla perfezione le intenzioni statunitensi e di avere protetto la Francia dalla NATO.
Gli americani riuscirono a salvare poco del Mercato dell’Oriente. Aiutati dalla Russia, che aveva girato loro la Manciuria e tutte le armi catturate ai giapponesi come abbiamo visto, nel 1949 i comunisti di Mao Tse Tung conclusero vittoriosamente la guerra civile contro i “nazionalisti” di Chiang Kai Shek, riuniti nell’Armata del Kuomintang. Gli Stati Uniti avevano fatto di tutto per aiutare quest’ultimo. Dal 1945 al 1949 gli avevano dato due miliardi di dollari in contanti e un miliardo di dollari in armamenti; avevano addestrato ed equipaggiato 39 sue divisioni; ed infine avevano inviato 100 mila soldati, che si erano impegnati in molti combattimenti, pur se con i soliti modesti risultati. Fu tutto inutile, e la Cina era persa come mercato.
Dopo la vittoria di Mao, Chiang Kai Shek si ritirò sull’isola di Formosa protetta dalla flotta americana. Inoltre gli americani riorganizzarono qualche migliaio di elementi del Kuomintang che si erano rifugiati in Birmania. Qui il Pentagono e la CIA li aiutarono a impadronirsi della produzione e del commercio della droga del cosiddetto Triangolo d’Oro, quell’area estesa tra Birmania, Laos e Thailandia che era — ed è — la principale fonte mondiale di oppio ed eroina. Da quel momento il traffico internazionale di droga divenne un importante strumento della politica estera americana, tuttora utilizzato (93).
Dopo il 1949 lo scopo americano fu di impedire che altri paesi di quell’area raggiungessero una vera indipendenza, magari diventando comunisti come la Cina. Questo portò gli Stati Uniti alla Guerra di Corea del 1950-1953 e alla Guerra del Vietnam del 1950-1975. Non è il caso di soffermarsi sulle modalità e sulla ferocia di tali guerre, specie di quella del Vietnam — estesa al Laos e alla Cambogia, paesi nei quali furono uccisi con bombardamenti mirati dai tre ai sei milioni di civili. È solo da notare come, a causa della debolezza delle loro forze armate di terra, gli Stati Uniti non riuscirono a vincere la prima e persero clamorosamente la seconda.
Dopo la sconfitta del Vietnam la situazione americana in Oriente si è stabilizzata. Senza la Cina il Mercato dell’Oriente non esiste più. La Cina è la potenza dominante della grande regione. Agli Stati Uniti rimane una frazione di ciò che era il Mercato dell’Oriente storico, costituita da isole e isolette del Pacifico più qualche lembo sulla terraferma come la Corea del Sud e la Thailandia. Sempre un grande mercato, ma certo non il Mercato dell’Oriente. Gli americani chiamavano il Mercato dell’Oriente Far East Market, ora chiamano la porzione rimasta il Pacific Market.
7. Il neocolonialismo americano
Ci fu un periodo — la seconda metà dell’Ottocento — in cui gli americani pensavano di farsi delle colonie, sull’esempio europeo. Anche William Seward pensava a questo quando progettava l’annessione del Canada e dell’America Centrale. Anche il senatore Beveridge. Furono così assorbite in quel periodo le Hawaii, le Filippine, Cuba, Portorico. Ben presto gli americani si accorsero che tale sistema non era economicamente conveniente. Per poter sfruttare qualche piantagione o miniera e per poter vendere le proprie merci agli indigeni senza l’assillo di concorrenza estera occorreva sobbarcarsi l’onere dell’intera amministrazione del posto, mantenendo funzionari e soldati; inoltre c’erano di tanto in tanto delle rivolte da reprimere, coi relativi costi extra. Si veda per esempio il caso di Portorico, che gli Stati Uniti devono ancora sovvenzionare con tre miliardi di dollari all’anno a fondo perduto per mantenerlo in stato di relativa tranquillità, ricevendone in cambio praticamente niente — senza calcolare le spese della normale amministrazione.
Cosa chiedevano gli USA, dopotutto? Che se dei privati americani vedevano una qualche opportunità economica in un paese estero, quello li lasciasse liberi di sfruttarle al meglio. Allo scopo bastava che il paese in questione avesse un governo sì locale, ma disposto ad accontentare gli americani e ad agevolarli nelle loro richieste.
Un tale governo non poteva essere il frutto spontaneo di nessun paese: agevolare gli operatori esteri significa sempre danneggiare in modo rilevante il proprio popolo. Si trattava dunque di crearlo, questo governo locale, spendendo giusto un po’ di danaro per insediarlo tramite la corruzione, la propaganda e magari un colpo di Stato, e per sostenerlo nelle repressioni interne che ogni tanto inevitabilmente avrebbe dovuto attuare. Nei primi decenni del Novecento gli americani si resero gradatamente conto di come tale sistema fosse infinitamente più conveniente del sistema tradizionale europeo delle colonie, e lo perfezionarono a livelli mai conosciuti prima nella storia.
La prassi trovò una conferma clamorosa con le Filippine: dopo che nel 1946 gli Stati Uniti concessero l’”indipendenza”, le spese di amministrazione e di repressione poliziesca e militare cessarono quasi del tutto mentre i profitti continuarono al livello precedente: il governo che gli USA avevano insediato continuava a non tassare i profitti delle società americane, a tenere quasi nullo il costo del lavoro, a importare prodotti americani senza dazi e così via. Rimanevano i costi del personale americano addetto alla propaganda occulta e all’assistenza poliziesca e militare, e restavano le somme per le corruzioni, ma il saldo era molto più favorevole di prima (94). Inoltre quel personale era in gran parte militare, di stanza nelle molte basi americane delle Filippine, dove avrebbe dovuto esserci comunque.
Infatti non costa molto, in certi paesi, mantenervi i governi che si vogliono se si hanno le capacità e la posizione degli Stati Uniti. Come tutti sanno, l’America Latina, a eccezione di Cuba, è una colonia statunitense di fatto, nel senso sopra indicato.
Calcoliamo, a titolo di esempio, quanto costa agli Stati Uniti mantenerla in tale condizione.
La corruzione di elementi locali influenti — ufficiali dell’esercito e della polizia, funzionari del governo, sindacalisti, giornalisti, scrittori e così via — in paesi tanto poveri costa pochissimo, visto il livello degli stipendi. Manuel Noriega, per esempio, quando nei primi anni Ottanta era il capo delle informazioni della Panama Defence Force, rivestendo quindi la posizione più potente del paese, aveva uno stipendio di mille dollari lordi al mese (che poi arrotondava con le tangenti, il traffico di droga e, appunto, le bustarelle statunitensi). In America Latina, con un fuoribusta di 100 dollari al mese si compra qualunque militare o poliziotto sino al grado di capitano o ispettore; con 500 dollari un generale o un questore; con 1.000 un ministro degli interni; per un presidente di Repubblica dipende, può volerci molto o niente (Napoleon Duarte, presidente del Salvador fino al 1989, veniva pagato dagli USA; il successore Alfredo “Freddy” Cristiani no, essendo già molto ricco e filo-americano).
Per quanto riguarda ministri e Presidenti di Repubblica non bisogna sorprendersi: anch’essi sono suscettibili di corruzione monetaria, specialmente in America Latina e nelle altre aree depresse del mondo. L’elenco fatto dall’ex agente della CIA Philip Agee, dal quale è stata ricavata la lista riportata nell’introduzione, conteneva anche molti nominativi di politici latino-americani, sempre fra gli anni Sessanta e Settanta. Fra i nomi più eccellenti sul libro paga degli Stati Uniti si possono adesso ricordare:
• il presidente del Messico Gustavo Diaz Ordaz;
• il presidente del Costarica José Figueras;
• il presidente dell’Uruguay Benito Nardone e — a sua insaputa — la moglie Olga Clerici De Nardone;
• i ministri degli Interni dell’Ecuador Alfredo Albornoz e Jaime Del Hierro;
• il ministro dell’Economia dell’Ecuador Enrique Amador Marquez;
• i ministri del Lavoro e del Benessere Sociale dell’Ecuador Baquero De La Calle e Juan Sevilla;
• i ministri degli Interni dell’Uruguay Nicolas Storace e Adolfo Tejera.
Per quanto riguarda i funzionari importanti, si possono ricordare:
• il capo del Servizio Informazioni dell’Esercito dell’Ecuador Pacifico De Los Reyes;
• il direttore del Servizio Immigrazione dell’Ecuador Pablo Maldonado;
• il capo del Servizio Informazioni dell’Esercito dell’Uruguay Carvajal;
• il vicedirettore della polizia di Montevideo in Uruguay Juan José Braga e il capo delle investigazioni Guillermo Copello;
• il capo della polizia a cavallo dell’Uruguay Mario Barbe;
• tutti i capi e gran parte dei quadri della Polizia Federale Argentina, il cui nome in codice era significativamente Biogenesis (“Rigenerazione biologica”: fu in questo ambito infatti che gli Stati Uniti crearono i primi Squadroni della Morte dell’America Latina, replicando poi il modello nel continente e da altre parti, ad esempio nelle Filippine).
Per controllare l’America Latina come fa ora, agli USA bastano 50 mila elementi sul libro paga, fra poliziotti, militari e politici dei vari livelli. Volendo esagerare, con un esborso medio mensile di mille dollari per ognuno di essi la spesa totale per gli USA sarebbe di 600 milioni di dollari all’anno.
Ci sono poi le spese vive extra per influenzare un’elezione politica particolarmente importante o per fare un colpo di Stato. Per influenzare un’elezione molto “difficile” in un paese abbastanza grande dell’America Latina occorrono dai 10 ai 20 milioni di dollari, non di più. Per influenzare le elezioni cilene del 1970 in modo da far perdere Allende furono spesi in totale 20 milioni di dollari. Fra l’altro circa la metà della somma fu messa a disposizione da un pool di multinazionali statunitensi che operavano in Cile: ITT Co.; Firestone Tire & Rubber Co.; W.R.Grace & Co.; Ralston Purina Co.; Charles Pfizer & Co.; Bank of America; Dow Chemical Co.; Anaconda Co.; Kennecott Copper Co.; Betlehem Steel Co.; Ford Motor Co. Supponiamo che un evento del genere capiti ogni due anni in America Latina, per una spesa massima quindi di 10 milioni di dollari all’anno.
Organizzare un colpo di Stato può costare molto poco in termini di flusso di cassa. Per il colpo di Stato che rovesciò Mossadeq in Iran nel 1954 l’organizzatore dell’intera operazione — il funzionario della CIA Kermit Roosevelt — spese qualche centinaio di dollari, che fra l’altro anticipò di tasca sua. Per un colpo di Stato in America Latina la spesa viva dovrebbe essere di circa 3 milioni di dollari. In effetti un piano preparato dalla CIA nei primi anni Settanta per rovesciare sei governi latinoamericani con altrettanti colpi di Stato prevedeva una spesa totale di 14 milioni di dollari, poco più di 2 milioni di dollari a golpe (95). Supponiamo allora che si debba organizzare un colpo di Stato all’anno. La spesa è di 3 milioni di dollari.
Vi sono poi le spese correnti per il personale statunitense della CIA, dell’USIA, dell’AID, dei Peace Corps eccetera da mantenere in loco per le attività di ordinaria amministrazione: propaganda aperta e occulta, spionaggio e raccolta dati, rapporti coi 50 mila sul libro paga e così via. Il tutto — tenendo conto del fatto che gran parte del lavoro è svolto tramite uomini e strutture del Pentagono e delle Ambasciate statunitensi, che gli Stati Uniti manterrebbero comunque sul posto a prescindere dai progetti di sovversione — può essere eseguito da una media di circa 100 funzionari in ogni paese latinoamericano, per un totale di duemila elementi. La stima è per eccesso: nei primi anni Sessanta la CIA rovesciò due governi in Ecuador mantenendo nel paese 10 agenti in tutto (96). Lo stipendio medio di questi funzionari è di circa 30 mila dollari all’anno, per un costo totale quindi di 60 milioni di dollari all’anno. Le spese vive delle varie stazioni locali di CIA, USIA ecc. possono essere valutate dello stesso importo: altri 60 milioni di dollari all’anno.
Rimangono i finanziamenti clandestini non personali, elargiti a giornali, partiti, sindacati, associazioni giovanili ecc. e alla Chiesa Cattolica dell’America Latina, buona parte della quale riceve infatti sovvenzioni statunitensi, in genere tramite la CIA. Possiamo valutarli intorno ai 100 milioni di dollari all’anno in tutto.
Il totale è di 833 milioni di dollari all’anno. A questi occorre aggiungere i finanziamenti, sia governativi sia privati, alle missioni protestanti americane in America Latina, che sono in loco al solo scopo di mantenere l’area nello stato neocoloniale. Abbiamo un’idea dell’entità dei finanziamenti privati da un’ammissione di Bill Moyers nel corso del programma televisivo citato prima: 10 milioni di dollari in Honduras nell’anno 1986, portato come esempio di valore limite.
Il totale di questi finanziamenti dovrebbe allora essere intorno ai 200 milioni di dollari all’anno; i finanziamenti governativi sono più bassi e si possono ipotizzare intorno ai 100 milioni di dollari. Alla fine otteniamo la cifra di 833 più 300 per un totale di 1.133 milioni di dollari, che arrotondiamo volentieri a 1,5 miliardi di dollari.
Questo è quanto costa agli Stati Uniti il controllo dell’America Latina, dal Rio Grande in giù. Sono pochi soldi per gli USA: il costo di tre bombardieri B2 Stealth.
In compenso il ritorno economico dell’investimento è fantastico: in America Latina, su un totale di qualche migliaio di aziende, operano più di 100 grandi multinazionali statunitensi, le quali da sole ne ricavano profitti annui valutati mediamente sui 30 miliardi di dollari. Lo stesso Dipartimento del Commercio statunitense ha ammesso a suo tempo che, negli anni a cavallo del 1980, per ogni dollaro che le multinazionali statunitensi investivano in America Latina ne tornavano negli States tre (97). Sono risultati che non si possono ottenere neppure con una colonia normale; occorre avere appunto delle neocolonie, o colonie di fatto.
A mettere a punto il sistema neocolonialista fu il presidente Franklin Delano Roosevelt il Brillante, in carica dal 1933 al 1945, allorché morì poco dopo essere stato rieletto per la quarta volta consecutiva. Nel 1933 ripudiò subito la Dottrina Monroe e la sostituì con la Good Neighborhood Policy. Cosa significava questa politica di buon vicinato? Significava che tutti gli interventi armati statunitensi all’estero contro paesi poveri — all’epoca soprattutto quelli dell’America Centrale — per farli sfruttare economicamente dalle proprie multinazionali non erano necessari.
In più erano plateali, facevano una cattiva pubblicità nel mondo agli Stati Uniti e quindi anche ai loro prodotti commerciali, e suscitavano risentimento. Bastava adoperarsi acciocché tali paesi avessero dei governi amici degli Stati Uniti, amici come appunto dei buoni vicini. Naturalmente durante la presidenza Roosevelt nulla cambiò per i paesi dell’America Centrale se non le repressioni delle istanze popolari, che prima erano spesso eseguite direttamente dai marines americani, e ora invece erano affidate a polizia ed esercito locali.
Sino al 1945 l’impero neocoloniale americano rimase piuttosto limitato: esso comprendeva tutta l’America Centrale con le isole caraibiche, anche allo scopo di proteggere il canale di Panama tagliato nel 1913 (per la cui esecuzione morirono 20 mila operai indigeni), e diverse isole e arcipelaghi del Pacifico, fra cui Filippine e Hawaii.
Un tremendo impulso a procurarsi nuove colonie di fatto venne dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Come s’è visto, questa aveva privato gli Stati Uniti del mercato della Cina, cuore del Mercato dell’Oriente, e lasciato loro solo il Pacific Market. Le multinazionali americane chiedevano al governo di Washington il più deciso appoggio per penetrare in questo o quel mercato alternativo. La strategia della Guerra Fredda adottata contro la Russia serviva perfettamente anche a tale scopo. Il contenimento della Russia era un’ottima scusa per formare alleanze militari; tramite la presenza militare americana nei paesi componenti si potevano creare all’interno dei medesimi governi amici degli Stati Uniti, nel senso rooseveltiano del termine.
L’Anticomunismo Viscerale Americano era una buona scusa per intromettersi negli affari interni di tanti altri paesi: vi si provocavano colpi di Stato per evitare che i comunisti locali prendessero il potere. In realtà ciò che gli americani combattevano non erano i comunisti, ma tutte quelle forze che — se avessero preso il potere nel loro paese — vi avrebbero formato un governo votato all’interesse nazionale autentico del paese stesso, chiudendo quindi le porte in primo luogo alle multinazionali statunitensi. I comunisti, semplicemente, rientravano in questa categoria. Ma vi rientravano anche i nazionalisti veri, gli indipendentisti veri, tanti movimenti religiosi, islamici in testa; e tutti furono combattuti dagli Stati Uniti sotto l’ombrello della Guerra Fredda.
Così gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale videro una enorme espansione dell’impero neocoloniale americano, e lo portarono alla dimensione di oggi: esso attualmente comprende tutta l’America Latina dal Rio Grande in giù a eccezione dell’isola di Cuba; mezza Africa; mezzo Medio Oriente; la maggioranza dei paesi del Pacific Market. Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Indonesia, Thailandia.
Lo slogan della New Frontier del presidente John F. Kennedy significava appunto questo: la creazione di tante neocolonie nel mondo, tante nuove terre di conquista, o frontiere. Allo scopo prevedeva anche l’intervento diretto dei marines — mercenari — e per il continente americano riadottò la Dottrina Monroe. In effetti, e in concreto, la New Frontier era in particular modo l’America del Sud, sino ad allora lasciata relativamente tranquilla e che fu sovvertita, proprio a partire dai primi anni Sessanta, dalla presidenza di John Kennedy, che i media americani amavano soprannominare “Camelot” [Camelot, la leggendaria reggia di re Artù, è anche il titolo di una fortunata commedia musicale messa in scena proprio negli anni kennedyani. Nell’immaginario americano la corte del mitico re pacificatore della Britannia e del mitico presidente portatore della pax americana si sovrapposero con una certa disinvoltura – N.d.E.].
I sistemi usati dagli Stati Uniti per espandere l’impero neocoloniale sono descritti nel nostro libro Vecchi Trucchi. In breve: colpi di Stato, propaganda politica e culturale, corruzione, traffico di droga. Per il traffico di droga, in sostanza, gli Stati Uniti ricompensano molti esponenti dei loro governi amici facendoli partecipare al traffico, che gli Stati Uniti naturalmente controllano a livello mondiale sin dal 1949.
Era il caso dell’Iran dello Scià, per esempio. Era anche il caso di Panama e del generale Noriega, che poi cambiò bandiera diventando un vero nazionalista e finendo così per essere rovesciato addirittura tramite un’invasione armata nel 1989. Ed è il caso della maggioranza dei governi dell’America Latina, come del governo thailandese.
In merito ai colpi di Stato, non basterebbe un’enciclopedia per raccontarli tutti. Furono esattamente cento nel solo periodo della presidenza Eisenhower (1953-1961). I colpi di Stato più importanti, perché in molti casi permisero di allargare la sovversione ai paesi confinanti, furono i seguenti:
• in Iran nel 1953, per allontanare il nazionalista Mossadeq;
• in Guatemala nel 1954, per rovesciare il presidente eletto Jacobo Arbenz che voleva espropriare terre che la United Fruits aveva ottenuto a costo zero da precedenti governi amici degli USA;
• in Brasile nel 1964 per rovesciare il presidente cattolicissimo Joao Goulart, che cercava di difendere gli interessi del paese (questo golpe, realizzato raccogliendo i frutti della politica di John Kennedy, permise di scardinare poi tutta l’America del Sud);
• in Indonesia nel 1965, con la deposizione nel 1967 del presidente Sukarno, leader del movimento dei paesi non allineati;
• in Grecia nel 1967, portando al potere i colonnelli amici degli Stati Uniti;
• in Cile nel 1973 per rovesciare il socialista Salvador Allende;
• in Pakistan nel 1978 per portare al potere il generale amico Zia Ul Haq.
Anche dopo il 1978 ci furono naturalmente altri colpi di Stato americani nel mondo, specialmente in Africa.
È interessante osservare cosa successe in Brasile dopo che il generale amico Humberto Castelo Branco prese il potere nel 1964: entro il 1966 il 50% delle industrie brasiliane passava nelle mani di multinazionali statunitensi (98). Appena in pensione il generale Golberry do Couto y Silva, amico di Castelo Branco, fu assunto come direttore della filiale brasiliana della Dow Chemical.
In Cile fu usato dagli americani il programma di condizionamento psicologico di massa The Quartered Man (“lo squartato”), che favorì il colpo di Stato e rese particolarmente cruenta la sua attuazione (Allende fu ucciso dai soldati di Pinochet) e la successiva repressione, che causò circa 30 mila morti. Lo stesso programma era stato usato nel 1965 in Indonesia, dove si era avuto un numero di morti oscillante, a seconda dei calcoli, fra 500 mila e un milione. Il progetto faceva (e fa) parte di un più ampio programma-quadro di sovversione in paesi del Terzo Mondo, su più livelli di intervento. Il nome in codice di questo spaventoso programma-quadro è Camelot. E infatti era stato fatto preparare dal presidente John Fitzgerald Kennedy.
La politica neocolonialista americana non è stata affatto, e non lo è, indolore. Per conseguire gli obiettivi prefissi furono fatte eseguire materialmente innumerevoli stragi, che provocarono molti morti. Si pensi ai 280.000 morti del Bogotazo in Colombia nel 1948, cui ne seguirono altri 120.000; ai 300.000 morti in El Salvador dal 1960 ad oggi; ai morti seguiti al golpe in Brasile del 1964, calcolati 100.000 e 1 milione al colpo di Stato in Indonesia; ai 100.000 morti del Guatemala dal 1980 al 1988; ai 50.000 civili uccisi dai Contras in Nicaragua nello stesso periodo; e così via… A causa del fatto che i loro paesi sono delle neo-colonies, le relative popolazioni si trascinano nella miseria e hanno una vita media corta. In America Latina, per esempio, la vita media è di 15 anni più bassa della norma (55 anni contro i 70 di Cuba). Se si equiparano questi anni perduti a un’autentica soppressione fisica, in ragione di una ogni 3,5-4 abitanti, il totale delle vittime del neocolonialismo americano dal 1945 ad oggi può essere assai realisticamente calcolato intorno ai 50 milioni di persone (99).
8. Perestrojka
La Russia ha subìto la Guerra Fredda passivamente sino al 1989, poiché si prestò al gioco degli americani armandosi e trincerandosi dietro impenetrabili confini. Nei primi anni del dopoguerra, a dire la verità, non poteva fare altro: gli USA cercavano di portare un attacco nucleare a sorpresa e non si poteva fare altro che cercare di sventarlo. Però con la Guerra Fredda la Russia non riusciva a consolidare la formidabile posizione geostrategica raggiunta nel 1945, che doveva permetterle niente meno che il dominio del continente europeo dal Portogallo agli Urali. Era un credito che non si riusciva a riscuotere. Inoltre c’erano tanti altri aspetti della Guerra Fredda che la danneggiavano. Gli armamenti di cui era dotata sottraevano risorse allo sviluppo civile. L’embargo economico attuato dagli USA e imposto agli alleati sudditi peggiorava una economia già storicamente in perenne fibrillazione. Gli aiuti forniti ai tanti paesi del Terzo Mondo che volevano liberarsi dal giogo neocoloniale americano erano semplicemente a fondo perduto, senza alcun ritorno.
Verso la metà degli anni Ottanta Michail Gorbaciov fece un’analisi della situazione finalmente lucida. Occorreva semplicemente annullare la strategia americana della Guerra Fredda. Nasceva così la perestrojka, che significa “ristrutturazione, nuovo e radicale modo di pensare”— un ri-pensiero, insomma, più che un ripensamento. La perestrojka è la strategia russa per annullare la Guerra Fredda: principalmente una grande strategia di politica estera, che di conseguenza raggiunge contemporaneamente anche obiettivi di politica interna. L’allontanamento di Gorbaciov nel 1991 non ha sospeso o rallentato questa nuova politica, anzi: Gorbaciov è stato destituito proprio perché non abbastanza deciso sulla strada da lui stesso aperta. Il successore Boris Eltsin vi sta procedendo a grande velocità.
La perestrojka consiste nel non offrire più agli americani il minimo appiglio per la Guerra Fredda. Il punto chiave è disinnescare la giustificazione ideologica della Guerra Fredda, l’Anticomunismo Viscerale Americano. C’è solo un modo, per quanto clamoroso possa sembrare: abbandonare l’ideologia comunista, liberalizzare il sistema politico, introdurre elementi di libero mercato. Quindi occorre eliminare ogni dubbio sulle intenzioni pacifiche della Russia. Infine è opportuno sospendere ogni aiuto elargito per motivi ideologici ai paesi in lotta contro gli Stati Uniti (a eccezione delle vendite di materiali, anche militari, a questi paesi, come fanno tutti). Tutto questo è stato fatto. La Russia non è più annoverata tra i paesi comunisti, benché la sua economia sia ben lungi dall’essere capitalista, e mai lo sarà. Negli ultimi anni sono stati conclusi accordi con gli Stati Uniti per una riduzione molto consistente degli armamenti nucleari: l’accordo Start I firmato nel 1991 prevede che per il 2003 il numero delle testate nucleari scenda a 6 mila per parte, dalle 30 mila e oltre del passato. Inoltre la Russia ha eliminato senza contropartita i missili SS20 a medio raggio che erano puntati sull’Europa, ha drasticamente ridotto le sue forze convenzionali e le ha quasi interamente distolte dal fronte europeo. Infine, la Russia ha concesso l’indipendenza a tutti i paesi dell’Europa Orientale e con la firma di Eltsin all’Atto Fondamentale sulle Relazioni reciproche fra Russia e NATO, apposta a Parigi il 27 maggio 1997, non si oppone neanche all’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria nella stessa NATO. Nel Terzo Mondo alcuni amici al cui fianco si erano combattute epiche battaglie sono stati abbandonati al loro destino: niente più cisterne di petrolio a Cuba e Vietnam in cambio di qualche quintale di zucchero e riso; niente più aiuti o anche solo sostegno morale ai tanti movimenti di desperados che si ribellano al neocolonialismo americano.
Sembrava, questa, una irrimediabile ritirata da parte della Russia. Invece è stato l’inizio di grandi successi a venire, così come è immancabilmente avvenuto in passato dopo le sue ritirate. É anche l’inizio, contemporaneamente, di grandi problemi per gli Stati Uniti.
All’interno l’abbandono del sistema comunista, dopo l’iniziale convulsivo periodo di adattamento, permetterà un forte aumento della produttività, con un miglioramento generalizzato del benessere materiale dei cittadini. Ci saranno sacche di povertà e ingiustizie delle quali i russi si lamenteranno, ma non abbastanza da rimpiangere il sistema collettivista, che non hanno saputo far funzionare (all’epoca l’assenteismo era del 30%).
Ma in politica estera verranno i grandi vantaggi per la Russia, particolarmente in Europa. Venuto a mancare l’alibi, la NATO dovrà per forza scomparire. Ora si parla del suo “rafforzamento” e del suo “allargamento a est”, ma ciò che gli eventi stanno preparando è la sua fine, o il suo completo svuotamento di significati militari. A ciò lavorano incessantemente la diplomazia di Eltsin e della Germania, a cui la parte orientale non fu regalata (come del resto non fu donata l’indipendenza agli altri ex membri del Patto di Varsavia; ma è un discorso che necessiterebbe di ulteriori approfondimenti). Verrà realizzata l’unificazione europea, nella forma di un’unione economica e di una stretta collaborazione militare, ma non di un’unione politica compiuta. Gli Stati Uniti d’Europa, considerate le vicende storiche, non ci saranno.
Anche se fosse questa la reale tendenza mancherebbe il tempo, ora che gli avvenimenti hanno assunto un passo veloce. Lo scenario che si prepara è dunque quello di un’Europa più o meno unita che farà ciò che da tanto tempo vuole fare: contendere i mercati mondiali agli Stati Uniti, eventualmente con il Giappone. Già si avvertono i prodromi della contesa. Fra i tanti sintomi si può citare l’improvvisa intolleranza europea per il quasi quarantennale embargo americano a Cuba, un mercato di grande interesse (come tutto quello dell’America Latina). L’Air France nel 1998 progetta addirittura di far fare scalo fisso all’Avana al suo Concorde! Dal 1945 non si era mai vista una tale sfida alla Dottrina Monroe, non per gli effetti pratici ma per i significati simbolici. Anche gli interventi armati dell’Italia in Somalia e Albania sono da considerare in quest’ottica.
In questa contesa Europa-USA la Russia troverà un ampio spazio di manovra. Con la caduta del Muro di Berlino l’Europa non è tornata affatto agli equilibri ante Seconda Guerra Mondiale: adesso ci sono le armi nucleari nell’equazione. Il fatto, ora, è che l’Europa ha bisogno dell’alleanza con la Russia: non può permetterne il riarmo al confine occidentale, magari col ridispiegamento di qualche migliaio di SS20, e le serve la sua copertura nucleare strategica nel “dialogo” con gli USA. Tale punto è molto importante. Un’efficace concorrenza commerciale agli Stati Uniti può essere condotta solo ad armi pari, nel senso letterale del termine: occorre un’analoga capacità di proiettare forze armate convenzionali in luoghi lontani, là dove si trovano i mercati (vedrete che gli europei cominceranno a costruire portaerei), e occorre un’analoga capacità nucleare strategica — quella della Francia non è sufficiente e non potrà mai esserlo. Non bisogna dimenticare che sin dalla caduta del Muro di Berlino gli USA hanno iniziato la ricerca di basi nucleari adatte da dislocare attorno all’Europa Occidentale: nei loro programmi quell’Italia del Sud che deriverebbe dalla secessione del paese cui lavora la Lega Nord — guardata perciò con favore dagli USA — sarebbe la più importante (solo in seconda posizione viene la Turchia, a causa delle complicazioni portate dagli islamici; è uno sbaglio tenere fuori la Turchia dalla UE, così come lo sarebbe accettare la divisione dell’Italia). Esiste poi il problema del petrolio del Medio Oriente, vitale per l’Europa occidentale. In caso di ostacoli di vario genere frapposti dagli attuali controllori — ovviamente gli USA —, solo con l’appoggio della Russia l’Europa occidentale se ne può garantire la fornitura.
Gli europei dunque hanno bisogno della protezione della Russia. L’otterranno, in cambio di agevolazioni economiche e del riconoscimento del suo ruolo preminente in Europa. Sarà così formato il famoso Super-Blocco europeo continentale, che sarà a leadership politica e militare russa: ecco riscosso il credito derivato dalla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Il processo sta avanzando molto velocemente: il 26 marzo 1998 si è già tenuta a Mosca la prima riunione della nuova trojka Russia-Francia-Germania, con la partecipazione diretta di Eltsin, Chirac e Kohl. Questo organismo — la premessa di una immancabile alleanza militare — nelle parole di Eltsin dovrà essere «efficace, e influire sulle forze politiche in Europa». Come si vede, dalla Trojka è esclusa la Gran Bretagna. Non è un caso. La Gran Bretagna persegue ancora la sua politica, ormai minimalista, di Balance of Power in Europa, e non riesce a decidersi a troncare del tutto con gli Stati Uniti; può anche darsi — sulle basi della perestrojka — che eviti di entrare a pieno titolo nell’Unione Europea. Gran Bretagna e Stati Uniti pensano di sventare la nuova minaccia europea continentale come hanno sempre fatto in passato. Ma questa volta si sbagliano: il tentativo di unione europea continentale ora non avviene più contro la Russia, come in passato, ma con la Russia. Riuscirà.
Nel contempo la fine della Guerra Fredda danneggerà pesantemente la politica neocolonialista degli Stati Uniti. Privati della giustificazione del loro anticomunismo viscerale essi troveranno sempre più difficile il controllo di un numero sempre maggiore di paesi del Terzo Mondo. Le alleanze militari “anticomuniste” dovranno per forza cessare, nonostante gli sforzi americani in direzione contraria. Le interferenze nei vari paesi saranno sempre più rare e sempre meno efficaci, perché prive di ogni giustificazione politica. Soprattutto gli interventi armati e di counterinsurgency saranno problematici: rimarrà l’alibi del dittatore “narcotrafficante”, come avvenne con Noriega a Panama, o della repubblica “terrorista”, ma sarà ben poca cosa rispetto ai fasti del passato. Senza contare la concorrenza europea, già avviatasi.
Cosa faranno gli USA? In Europa non molto: sono stati messi fuori gioco. Cercheranno — come già stanno facendo — dei paesi attorno all’Europa Occidentale nei quali collocare basi nucleari allo scopo di tenerla sotto pressione, ma con l’entrata in scena della Russia avranno poco effetto. L’unica compensazione la potrebbero ricevere in Estremo Oriente. É qui, infatti, che si stanno dirigendo i loro sforzi, a partire proprio dal 1989. Ciò spiega in effetti l’improvvisa recrudescenza della propaganda anticinese degli americani verificatasi proprio immediatamente dopo la caduta del Muro di Berlino. La collaborazione richiesta in merito dall’USIA a Hollywood, di cui si è parlato, testimonia l’ampiezza della manovra. La speranza è — sommati gli effetti di tutti gli strumenti a disposizione — di far cadere il regime comunista in Cina e sostituirlo con un governo amico. Non dovrebbe succedere, anche perché Eltsin, come recentemente espresso anche alla dirigenza cinese, ha ribadito l’interesse della Russia per una Cina indipendente. Ovvio, come confermano le vicende storiche. Connessi col rinnovato problema-Cina sono naturalmente i torbidi accaduti a Hong Kong agli inizi del 1998, dopo la restituzione da parte della Gran Bretagna (alla quale gli Stati Uniti aspiravano in realtà a succedere, ma non si conoscono gli accordi in merito tra i due paesi), e anche la crisi finanziaria che nello stesso periodo ha colpito tutte le neocolonies americane del Pacific Market, che ha avuto come effetto un ulteriore giro di vite nello sfruttamento americano delle medesime. Ma anche questi sono discorsi da approfondire in altra sede.
Un’ultima considerazione riguarda gli europei occidentali. Ci sono vie d’uscita per loro? No. I governi europei sono perfettamente al corrente dei ragionamenti sopra esposti; li hanno fatti a partire dal 1989. Ma si è trattato di una partita a scacchi: la Russia ha offerto un pedone avvelenato, che però non poteva essere rifiutato — come poteva la Germania opporsi alla riunificazione? — e la partita ora non può che svolgersi secondo le premesse, su un binario obbligato. E la soluzione imposta dalla perestrojka non dispiace poi tanto alle cancellerie europee. La conclusione della Seconda Guerra Mondiale ha imposto all’Europa Occidentale un protettorato, un padrone. Per mezzo secolo si è trattato degli Stati Uniti, che hanno permesso, sia pure obtorto collo, un benessere materiale notevole. Ora però gli europei occidentali vogliono di più: enormemente cresciuti sul piano industriale, aspirano a sostituire gli USA nello sfruttamento economico mondiale. Usando una certa moderazione, con il padrone Russia si può fare: non gli preme il dominio commerciale del mondo, ma quello politico.
Note al Capitolo V
78 – The Puritan ethic in United States foreign policy a cura di David Larson, D. Van Nostrand Company Inc., 1966.
79 – The CIA: A Forgotten History, op. cit.
80 – Walter Lippmann, US Foreign Policy: Shield of the Republic, Little, Brown and Co., Boston, 1943, p. 138.
81 – Col nome di “Quattordici punti di Wilson” si suole indicare la proposta del presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson per la pace “stabile e durevole” che avrebbe sicuramente fatto seguito alla vittoria degli Alleati nella prima guerra mondiale; Wilson rese nota tale proposta in un discorso tenuto al Congresso l’8 gennaio 1918. In estrema sintesi, i quattordici punti prevedevano: 1) l’abbandono della diplomazia segreta; 2) la libertà dei mari in pace e in guerra; 3) la rimozione delle barriere doganali e la promozione di un sistema commerciale internazionale integrato; 4) la riduzione degli armamenti; 5) la definizione delle dispute coloniali secondo modalità rispettose degli interessi sia delle potenze occupanti che delle popolazioni soggette; 6) l’evacuazione dei territori russi occupati, 7) di quelli belgi e 8) di quelli francesi, compresa l’Alsazia-Lorena; 9) la ridefìnizione dei confini italiani secondo “criteri di nazionalità chiaramente identificabili”; 10) l’autonomia delle diverse popolazioni all’interno dell’(ex) impero austroungarico; 11) il riassetto dell’area balcanica in un’ottica di ricostruzione dei territori di Serbia, Montenegro e Romania, assicurando alla prima adeguati sbocchi al mare; 12) l’autodeterminazione per le popolazioni non turche all’interno dell’impero ottomano e il controllo internazionale dello stretto dei Dardanelli; 13) la costituzione di una Polonia indipendente con accesso al mare; 14) la creazione di un’associazione di tutte le nazioni e la stipulazione di un patto per la reciproca garanzia dell’indipendenza politica e dell’integrità territoriale [N.d.F].
82 – Denna Frank Fleming, The Cold War and its Origins, Doubleday & Company Inc., Garden City, New York, 1961, vol. I, p. 135.
83 – George B. Huzar, Soviet Power and Policy, Crowell, New York, 1955, p. 567.
84 – Alfred T. Mahan, The influence of sea power upon history. 1660-1783, Little, Brown and Co., Boston, 1918. Prima edizione del 1890.
85 – Dexter Perkins, The evolution of American foreign policy, Oxford University Press, New York, 1966, p. 93.
86 – L’OP/20/G era la Sezione G (Communication Security) della XX Divisione (Office of Naval Communications) dell’OP (Office of Chief of Naval Operations).
87 – James Bamford, The Puzzle Palace, Penguin Books, Harmondsworth, Middlesex, England, 1988, pp. 58-61.
88 – Sacrifìci Umani, op. cit., pp. 50-53.
89 – James Bacque, Gli altri lager, Mursia Editore, 1993. Prima pubblicato in Canada e Germania Occidentale nel 1989 col titolo Other Losses.
90 – Ronald Schaeffer, Wings of Judgment, Oxford University Press, New York and Oxford, 1985, p. 191.
91 – Edgar M. Bottome, The Balance of Terror, Beacon Press, Boston, 1971, p. 3.
92 – Wings of Judgment, op. cit., p. 206.
93 – Vecchi Trucchi, op. cit., p. 191-223.
94 – William Pomeroy, American Neo-Colonialism, International Publishers, New York, 1970, pp. 219-228.
95 – Death in Washington. The Murder of Orlando Letelier, op. cit., p. 74.
96 – Morton H. Halperin, Jerry J. Berman, Robert L. Borosage e Christine M. Marwick, The Lawless State. The Crimes of the U.S. Intelligence Agencies, Penguin Books, Harmondsworth, Middlesex, England, 1976, p. 41.
97 – Penny Lernoux, Cry of the People. United States Involvement in the Rise of Fascism, Torture, and Murder and the Persecution of the Catholic Church in Latin America, Doubleday and Company Inc., Garden City, New York, 1980, p. 58. Penny Lernoux, una giornalista statunitense che viveva in Colombia, è morta nel 1989 negli Stati Uniti. Cry of the People è un testo importante per capire la politica statunitense in America Latina.
98 – Ivi, p. 248.
99 – Vecchi Trucchi, op. cit., pp. 189-190.
Conclusione – La Fine della Storia o fine della storia?
A questo punto gli Stati Uniti non dovrebbero più essere degli illustri sconosciuti. A partire dal 1945 hanno eretto attorno al proprio sistema un grande sbarramento, una cortina fumogena fatta di propaganda, di disinformazione, di travisamenti, di mezze verità e di bugie intere che toccano tutti gli aspetti della realtà, dalla storia all’attualità, alle relazioni estere, e che è di un’efficacia tremenda, perché viene attuata su tutti i piani della comunicazione umana e realizzata grazie ad una concertazione così perfetta e così corale da non avere precedenti nella Storia. In effetti, quasi tutto il popolo americano vi partecipa, sicuramente lo fa la sua parte dominante, quella che abbiamo chiamato l’establishment. Un establishment, è bene ricordarlo, che nel 1945 aveva a disposizione la metà del reddito mondiale e che ora ne ha a disposizione un quarto. Ora noi, col presente lavoro, abbiamo diradato i fumi e siamo riusciti a scorgere cosa davvero si nasconde dietro.
Alle spalle c’è, innanzi tutto, una storia scandita su alcuni passaggi nodali che, passati ad uno ad uno attraverso la nostra ricerca critica, hanno rilevato le loro vere cause originarie, mai messe a fuoco dalla storiografìa ufficiale e, appunto, dalla propaganda. Brevemente le riepiloghiamo.
Gli Stati Uniti sono nati dalle colonie create nell’America settentrionale dalla Gran Bretagna, nell’ambito della sua strategia di conquista del Mercato dell’Oriente. Queste colonie si ribellarono alla madrepatria allorché ai loro circoli mercantili apparve chiaro che la medesima voleva riservare il Mercato dell’Oriente in esclusiva all’East India Company di Londra. Immediatamente capirono che il requisito di base necessario per sperare di conquistare il Mercato dell’Oriente sarebbe stato il mantenimento della Balance of Power in Europa. Subito dopo l’ottenimento dell’indipendenza attaccarono di nuovo la Gran Bretagna per spodestarla dalla zona dei Grandi Laghi, la zona delle pellicce da scambiare in Cina, ma non vi riuscirono.
Decisero allora di espandersi via terra all’Ovest, per conquistare il Territorio dell’Oregon, anch’esso ricco di pellicce, e per creare dei porti sulla costa del Pacifico dai quali aggredire il Mercato dell’Oriente. Nacque così la Conquista del West. Nel mezzo del cammino incapparono in una guerra civile, dovuta sostanzialmente all’incompatibilità economica fra il capitalismo liquido del Nord e il latifondismo agrario del Sud, esattamente come spiegato dallo storico americano Charles Austin Beard. In quel periodo si resero conto che l’unico vero ostacolo che si frapponeva alle loro mire mondiali era la Russia, la sola potenza in grado di rompere la Balance of Power in Europa, a proprio favore, e che, tramite il suo appoggio alla Cina, poteva chiudere il Mercato dell’Oriente a chiunque. Nasceva così, all’incirca nel 1860, una incoercibile ostilità nei riguardi della Russia, teorizzata per iscritto, fra l’altro, da William Henry Seward, Segretario di Stato di Abraham Lincoln.
Nel 1898 gli Stati Uniti attaccarono la Spagna per toglierle Cuba, con le sue piantagioni di canna da zucchero, e le Filippine per procurarsi una ottima base strategica per il Mercato dell’Oriente.
Gli USA parteciparono alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale. Nel caso della Grande Guerra, il motivo dell’intervento risiedeva nella necessità di salvare la Balance of Power in Europa, e, per l’ultimo conflitto mondiale, oltre all’esigenza di salvare il Mercato dell’Oriente, la causa vera era l’immediata e consistente minaccia giapponese. La conclusione della Prima Guerra Mondiale fu favorevole ai Nostri, ma l’esito della Seconda si rivelò come un vero e proprio incubo: la Russia era ad un passo dal divenire l’effettiva potenza dominante in Europa e il Mercato dell’Oriente, come di lì a poco sarebbe divenuto palese, era sostanzialmente perso. Per porre rimedio alla sciagura, fu inscenata la gran commedia della Guerra Fredda, della quale stiamo scontando ancora oggi gli aspetti propagandistici. Si trattava di una finzione planetaria, recitata dai più grandi attori della Storia, una commedia nella quale il ruolo del Nemico veniva fatto interpretare a quello reale, ormai quasi secolare: la Russia. La sceneggiata serviva per ritardare gli effetti della conclusione della Seconda Guerra Mondiale, nell’attesa di un qualche miracolo, magari tecnologico, per compensare la perdita del Mercato dell’Oriente con la neocolonizzazione di una porzione, la più vasta possibile, del Terzo Mondo, prassi evidenziata dallo storico — sempre americano, ma non di regime — William Pomeroy. In tale contesto furono combattute le guerre di Corea e del Vietnam, allo scopo di salvare il salvabile di quanto era rimasto del Mercato dell’Oriente dopo la perdita della Cina. La Guerra di Corea terminò con un nulla di fatto, mentre quella del Vietnam fu persa rovinosamente e con essa tutta la penisola indocinese a eccezione della Tailandia.
Furono scatenate altre guerre nel pianeta. Tra le più recenti, che appartengono alla cronaca, citiamo l’invasione di Panama e la Guerra del Golfo: lo scenario non cambia, dal momento che la loro motivazione risiede sempre nella politica neocoloniale.
Da questa storia emerge con plastica chiarezza una politica estera che, dal giorno dell’indipendenza, ha mostrato una coerenza e una continuità impressionanti. All’inizio, come detto, il grande obiettivo era la conquista del Mercato dell’Oriente, che imponeva anche la ricerca della Balance of Power in Europa.
Contemporaneamente altri mercati interessavano, per un verso o per un altro, e furono certamente aggrediti, alcuni conquistati, come, per esempio, l’America Centrale. Perso con la Seconda Guerra Mondiale il Mercato dell’Oriente, era urgente una compensazione nel Terzo Mondo e la Guerra Fredda servì anche, anzi soprattutto, a questo. Si può concludere che tutti i fatti della politica estera americana sono sempre stati caratterizzati dallo stesso motivo conduttore e sono serviti immancabilmente a un unico scopo: procurare condizioni le più vantaggiose possibili alle aziende americane che operano all’estero o con l’estero, cioè alle Multinazionali. In altri termini, fin dalle origini la politica estera americana è stata calamitata da un preciso miraggio, situato in cima al suo orizzonte visivo: la conquista del mondo e delle sue risorse.
Un’altra costante emerge con evidente chiarezza nella storia americana. Ci riferiamo alla violenza sanguinaria contro il genere umano. Gli indiani furono sterminati e si è visto con quali sistemi e in quale consistenza numerica (circa cinque milioni). I neri furono non solo schiavizzati, ma trattati come animali. In conseguenza dello schiavismo americano furono sterminati in Africa circa 40 milioni di individui.
Con i bombardamenti di civili durante la Seconda Guerra Mondiale uccisero tre milioni di persone, in Europa e in Giappone. Provocarono poi la morte di un milione di prigionieri di guerra tedeschi, su un totale di tre milioni. Sempre con i bombardamenti sterminarono verosimilmente quattro milioni di persone in Corea e probabilmente sei milioni di persone in Vietnam, Laos e Cambogia. Invadendo Panama nel 1989 bombardarono il quartiere popolare di El Chorrillo a Panama City uccidendo circa due mila persone; lo fecero solo a scopo di punizione e come monito a non ribellarsi più agli Stati Uniti in futuro. Non vi era alcuna necessità, infatti, lo fecero per spargere il terrore, e questo può definirsi senz’altro “terrorismo”. Durante la breve Guerra del Golfo colpirono ancora i civili, uccidendone circa 300 mila.
Finora ci siamo riferiti alle guerre dichiarate, ufficiali, condotte alla luce del sole.
Ci furono poi gli innumerevoli massacri, grandi e piccoli, perpetrati dai regimi fantoccio degli Stati Uniti e che gli stessi manovrarono o incoraggiarono a compiere, nell’ambito della politica neocoloniale del dopoguerra; qualche volta vi parteciparono direttamente con uomini e mezzi, come per esempio in occasione dell’invasione di Timor Est da parte della neocolonia dell’Indonesia, nel corso della quale furono uccisi circa 700 mila civili. Il totale di queste vittime, come si è detto in precedenza, è da valutare intorno ai 30 milioni di unità.
La cifra di cento milioni di vittime addebitate ai regimi comunisti dal Libro nero del comunismo, scritto da autori vari francesi e recentemente fatto distribuire gratuitamente in Italia, in occasione di alcune manifestazioni politiche, dal ricco signor Berlusconi, fa ridere. La riteniamo ridicola per tre motivi. Perché la cifra è esagerata; perché quella ricerca può certamente essere letta come una risposta polemica e propagandistica, benché non dichiarata, al mio Vecchi Trucchi del 1990, nel quale per la prima volta si faceva un calcolo delle vittime di un regime totalitario e sanguinario, numero che raggiungeva valori dell’ordine delle decine di milioni; infine perché punta il dito verso questo o quel regime comunista di discutibile pericolosità, mentre il pianeta è costantemente minacciato — e non da ieri, ma da decine e decine di anni — da un’entità distruttiva come gli Stati Uniti d’America, questa sì spaventosa e micidiale.
Dietro la cortina fumogena c’è poi il “sistema” americano. Lo si è descritto, credo esaurientemente, nelle sue linee essenziali. È un sistema nato nel Seicento, blindato in una colata di cemento armato qual è la Costituzione del 1787, e giunto assolutamente inalterato ai giorni nostri, quasi quattro secoli dopo. Si tratta di un vero e proprio relitto fossile, un oggetto che, pur provenendo da tempi remoti, è ancora vivo, è ancora fra noi. Come spiegato da Charles Beard, la Costituzione del 1787 fu imposta con una specie di colpo di mano da una cerchia di ricchi mercanti del Nord e di latifondisti schiavisti del Sud, ed è un documento che raccoglie alcuni stati a struttura oligarchica ingabbiandoli in una federazione retta dai medesimi criteri elitari. Il sistema americano, dunque, è certamente oligarchico, con la discriminante della ricchezza; un sistema basato sul danaro, nel quale chi più ne ha più comanda e chi non ne ha proprio non ha letteralmente diritto a nulla, non esiste.
Nelle pagine precedenti il sistema è stato definito in questo modo. Ma questa definizione classica, “oligarchia”, utilizzata da molti altri (non è originale, lo sappiamo), non riesce a offrire compiutamente l’idea del sistema con cui il mondo ha a che fare, di quanto sia realmente e brutalmente totalitario al suo interno, pur con modalità originali, e di quanto sia realmente pericoloso all’esterno. Il sistema americano è sì, dunque, un’oligarchia basata sulla ricchezza, ma anche qualcosa di più. In verità è una dittatura, una Dittatura dell’Imprenditoria. È questa la definizione più esatta del sistema americano, che rende immediatamente manifesta la sua vera natura e ne fa giudicare subito con certezza le azioni. È questa la definizione che io propongo, perché con chiarezza e semplicità sottrae gli Stati Uniti dal novero delle democrazie, come dovrebbe essere. Come tutte le verità, questa era “evidente di per se stessa” e a disposizione di tutti. Gli americani stessi la gridano continuamente a gran voce, ogniqualvolta dichiarano la Dittatura del Proletariato come il loro mortale nemico. Bastava ascoltarli.
Ci sono poi le numerose pratiche immorali che questo sistema ammette. Infatti, abbiamo visto come questo grande paese non abbia in verità alcuna religione, benché si dichiari la patria di tutte le religioni. È logico: se avesse una religione, una qualunque, le suddette pratiche non sarebbero permesse. Anzi la tollerata presenza, in esso, di tante religioni e il proliferare continuo di sette, le più stravaganti ed esotiche, è la dimostrazione più lampante del fatto che tale paese non ha una religione. Gli americani ammettono tutte le religioni e tutte le sette perché hanno la certezza che Dio non esiste. A pensarci bene solo una dottrina non è tollerata in questo paese, quella del Nazareno (che non è quella esposta dalla religione cattolica).
Questa è, dunque, la realtà americana. Dopo averla descritta, non ci resta che spiegarla, per farci una ragione di come tale realtà sia potuto emergere e consolidarsi a livello planetario.
La spiegazione è già stata offerta nelle pagine precedenti. La forma mentis degli americani nacque nell’Europa del Cinquecento con la Riforma Protestante. Fu l’effetto di un trauma psicologico che riguardò quasi contemporaneamente un numero significativo di persone, fu quindi di portata sociale e storica. In questo modo nascono le mentalità individuali e collettive, soprattutto nelle nuove civilizzazioni allorché il fenomeno si accompagni a una migrazione, come, in effetti, avvenne nel caso in esame (un’ipotesi già prefigurata dalla “teoria dello stato nascente” del sociologo Emile Durkheim). Il sistema collettivista imposto all’Europa dai Romani era in crisi e stava sorgendo una categoria nuova, quella degli imprenditori. Costoro non trovavano posto nell’esistente e cercavano una giustificazione al loro nuovo status — nuovo, occorre ricordare, certamente dal punto di vista economico e sociale, ma soprattutto dal punto di vista esistenziale. Non sappiamo come sarebbe andata nel caso non fosse mai esistito Johannes Gensfleisch zur Laden, chiamato Johann Gutenberg, inventore dei caratteri tipografici mobili; ma Gutenberg ci fu e — fornendo alla Riforma Protestante lo strumento per la sua diffusione — offrì a questa categoria sociale in ascesa ciò che stavano cercando, la filosofia calvinista. Il fenomeno si diffuse con la massima efficacia negli uomini e nelle donne che si identificarono nella denominazione protestante inglese dei Puritani. Di questi, coloro che rimasero in Inghilterra continuarono a differenziarsi dal resto degli europei pur restandone sempre potentemente condizionati. Quelli che emigrarono in America, invece, portarono alle estreme e logiche conseguenze quella che era diventata a tutti gli effetti una nuova mentalità, un nuovo uomo, e originarono la civilizzazione americana.
È necessario riflettere ancora su questi nuovi uomini. Sostanzialmente atei nella loro dimensione esistenziale, tuttavia esternavano un attaccamento morboso al Vecchio Testamento, a tal punto da autosuggestionarsi nel crederci, secondo un processo di condizionamento così profondo da essere più simile ad un’autoipnosi che ad un’effettiva presa di coscienza, con le stesse modalità ed equivalenti risultati ottenuti grazie alla nota tecnica del “training autogeno”. In questo caso è stato applicato a una religione, ma non si tratta di un fenomeno raro, anche ai giorni nostri, tanto che presiede spesso alla diffusione di molte sette. Se s’indaga a fondo sul perché un individuo abbandoni le vecchie credenze per aderire a una setta si trova sempre una motivazione recondita e magari banale, che con la divinità non ha proprio nulla a che fare ma che riguarda più spesso l’interesse dell’individuo, la sua sfera esistenziale, magari a livello inconscio. Per esempio, studiando l’affiliazione ai Testimoni di Geova si possono individuare diverse motivazioni scatenanti, fra le quali la necessità di avere assicurazioni sulla fedeltà del coniuge; il piacere nel visitare case altrui; la soddisfazione nell’effettuare la “sorveglianza” sugli adepti; la possibilità di inserimento in un “gruppo”. Per strano che possa sembrare, l’individuo si adatta a fare molte cose ingrate — le adunanze, gli studi “biblici” quotidiani, la “predicazione” in strada, persino le cessioni del decimo dello stipendio e le donazioni di proprietà — solo per soddisfare una di quelle motivazioni inconsce, o subconsce.
Per i Puritani la motivazione risiedeva nel corpo teoretico, che offriva una giustificazione al loro nuovo modo di pensare la vita: la comunitas dei Romani non esisteva più; c’erano solo degli individui slegati, in competizione fra loro per appropriarsi della massima quantità possibile di beni materiali. Occorre tenere conto che si trattava di tempi straordinari, di passaggio da un sistema economico e sociale millenario e tradizionale a un altro radicalmente diverso, nel quale l’incertezza e la paura del futuro erano acute, angoscianti. I Puritani avevano così acquietato ogni timore. Contemporaneamente, avevano cessato ogni indagine sulla vita e le sue finalità. Basta filosofi, pensatori, speculatori, ragionatori; tutto era stato risolto, o deciso: così bisognava vivere. Tutte le energie dovevano essere indirizzate verso lo Scopo, cioè fare danaro. Basta anche con l’arte, la contemplazione, e in generale ogni cosa che non avesse attinenza col dio danaro. Sono significativi, a questo proposito, gli aforismi del puritano Benjamin Franklin sul danaro, scritti — è questo il punto — in piena coscienza:
«Ricordati che il tempo è danaro. Chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci scellini al giorno e va a passeggio mezza giornata, o fa il poltrone nella sua camera, se anche spende solo sei pence per i suoi piaceri non deve contare solo questi; oltre a questi, egli ha speso, anzi buttato via, anche cinque scellini». «Ricordati che il credito è danaro. Se uno lascia presso di me il suo danaro esigibile, mi regala gli interessi, o quanto io in questo tempo posso prenderne. Ciò ammonta ad una somma considerevole, se un uomo ha molto e buon credito, e ne fa buon uso».
«Ricordati che il danaro è di sua natura fecondo e produttivo. Il danaro può produrre danaro, e i frutti possono ancora produrne e così via. Cinque scellini impiegati diventano sei, e di nuovo impiegati sette scellini e tre pence e così via sino a che diventano cento lire sterline. Quanto più danaro è disponibile tanto più se ne produce nell’impiego, così che l’utile sale sempre più in alto. Chi uccide una scrofa uccide tutta la sua discendenza sino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo da cinque scellini uccide tutto quel che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire sterline».
«Ricordati che chi paga puntualmente è il padrone della borsa di ciascuno. Colui di cui si sa che paga puntualmente alla data promessa può in ogni tempo prendere a prestito tutto il danaro di cui i suoi amici non hanno bisogno. Ciò è di grande utilità. Insieme con la diligenza e la sobrietà niente aiuta un giovane a farsi la sua strada nel mondo quanto la puntualità e l’esattezza in tutti i suoi affari. Perciò non tenere mai il danaro preso a prestito un’ora di più di quel che hai promesso, perché il risentimento del tuo amico per il ritardo non ti chiuda per sempre la sua borsa. Le azioni più insignificanti, che hanno influenza sul credito di un uomo, debbono essere da lui tenute in considerazione. Il colpo del tuo martello, che il tuo creditore sente alle cinque del mattino o alle otto di sera, lo rende tranquillo per sei mesi; se ti vede al bigliardo o ode la tua voce all’osteria, quando dovresti essere al lavoro, la mattina seguente ti cita per il pagamento ed esige il suo danaro prima che tu l’abbia disponibile. Inoltre ciò mostra che tu hai memoria per i tuoi debiti; ti fa figurare un uomo non solo preciso, ma anche d’onore, e ciò aumenta il tuo credito. Guardati dal ritenere per tua proprietà tutto quel che possiedi e dal vivere secondo tale idea. Su tale illusione cadono molte persone che hanno credito. Per evitarlo tieni calcolo esatto delle tue spese e delle tue rendite. Se ti prendi una volta la pena di osservare i piccoli dettagli ciò darà il seguente buon risultato: scoprirai quali piccolissime spese salgano a poco a poco a grandi somme e noterai quel che si sarebbe potuto risparmiare e quel che si potrà risparmiare in avvenire. Per sei sterline all’anno puoi avere l’uso di cento sterline, dato che tu sia un uomo di nota avvedutezza e onestà. Chi spende inutilmente un grosso al giorno spende inutilmente sei sterline all’anno, e questa somma è il prezzo per l’uso di cento sterline. Chi perde ogni giorno una parte del proprio tempo per il valore di un grosso — e possono essere solo due minuti — perde da un giorno dietro l’altro il privilegio di usare cento sterline per un anno. Chi spreca tempo per il valore di cinque scellini, perde cinque scellini, e potrebbe del pari gettare cinque scellini in mare. Chi perde cinque scellini non perde soltanto questa somma ma tutto quello che si sarebbe potuto guadagnare con essa impiegandola nell’industria, il che, se si tratta di un giovane che raggiunga poi un’età avanzata, ammonta a una somma assai considerevole» (100).
Sono tutti concetti tecnicamente ineccepibili, ma rappresentano anche una regola di vita pervasiva e totalizzante, che non lascia spazio a nient’altro.
Ora, come definire scientificamente il fenomeno psicologico che coinvolse i Puritani? La verità è che si trattò di una forma di alienazione mentale di massa. Infatti comportò, una radicale estraniazione dalla realtà: la vita — lo capisce chiunque — non può ridursi alla ricerca della ricchezza materiale e alla sua contabilità, come sosteneva Franklin; di massa perché riguardò un numero significativo di persone. Singoli individui possono perdere il contatto con la realtà per cause specifiche o patologiche; molti di loro possono farlo più o meno contemporaneamente, se le potenziali cause sono sociali; se costoro, poi, migrano e danno luogo a una discendenza, a un popolo, il medesimo avrà la stessa impronta psicologica, soprattutto se si trova a disposizione un corpus dottrinale adatto a perpetuare nello spazio e nel tempo le forme di alienazione dei fondatori. Ne deriva un intero popolo che, a ragione, può definirsi alienato, portatore di un grave distacco dalla realtà fattuale. Così si formò il popolo americano.
Non ci sono dubbi che ci troviamo in presenza di una degenerazione, di una patologia. I popoli si possono presentare secondo una varietà probabilmente infinita di modi di essere, la cui ammissibilità, o “normalità”, dipende da due ordini di considerazioni, riguardanti la loro attualità e la loro potenzialità. Per quanto riguarda la prima, è da valutare se questo popolo attui pratiche palesemente estranee alla specie: per esempio, se pratica i sacrifici umani o il cannibalismo. Quanto alla potenzialità, si tratta di immaginare una risposta alla domanda: «cosa farebbe il tale popolo se fosse libero di fare ciò che vuole?». Riportando la mente ai popoli più originali dei quali abbiamo cognizione, sia nel passato sia nel tempo presente, concluderemo che nella stragrande maggioranza dei casi rientrano tutti nella “norma”, non attuano cioè pratiche degeneri e, qualora potessero, non farebbero niente di nocivo, rimanendo al contrario tranquilli nelle loro sedi con i loro usi, costumi ed idee, per quanto stravaganti. Sono esseri “umani”: li potremmo descrivere — così come loro descriverebbero o descrivono noi — ma non pronunciare sentenze sul loro modo di vivere.
Non è così per il popolo americano. La valutazione sulla sua attualità non è cristallina, e occorre sempre tenere presente che fu schiavista sino a ieri, sino al 1865, e con quali modalità! La risposta alla domanda «cosa farebbe il popolo americano se fosse completamente libero di fare ciò che vuole», invece, mette i brividi. Abbiamo visto i massacri e i genocidi di cui si è reso protagonista nel passato e che continua a compiere, e ne abbiamo considerato anche le motivazioni: sempre e solo i soldi. È facile immaginare cosa farebbe, se potesse: si impadronirebbe dei beni del mondo e piegherebbe ogni cosa ai suoi desideri di arricchimento. Vorrebbe per sé tutte le miniere, i pozzi petroliferi, le piantagioni, gli allevamenti e così via. Ridurrebbe tutti, probabilmente anche in forme ufficiali, in schiavitù, avvierebbe selezioni della specie e richiederebbe contributi annui in carne umana per le proprie esigenze, per i trapianti, per i feti, per il sangue. Dopotutto lo sta facendo anche adesso con l’America Latina, benché non ufficialmente. Non si può dire: «sono illazioni, previsioni sul futuro». Viste le premesse, si tratta di conseguenze certe.
Questo è il colossale problema che il mondo si trova a dover affrontare, la questione di un popolo affetto da una psicopatia piuttosto grave, che ha perso ogni interesse per la vita in tutta la sua estrema varietà e si dedica con esclusiva, maniacale energia a un unico scopo: arricchirsi, e farlo sempre in misura maggiore degli altri.
Intendiamoci, gli americani non sono dei pazzi scatenati che si aggirano col sangue agli occhi in cerca di danaro, di oro, di beni. Vivono più o meno normalmente, cercando di attuare criteri di quieto vivere civile. Ogni tanto leggono un libro, giocano con i figli, vanno al cinema, alla partita, a pescare. Studiano molto, fanno ricerche, fanno scoperte, ragionano sugli argomenti più vari. Resta inespressa, dietro ogni loro azione — a fornirgliene la ragione ultima — una scelta esistenziale precisa, già stabilita e sulla quale mai si soffermano a pensare, sulla quale, cioè, non hanno alcun controllo.
Gli Stati Uniti sono un paese pericoloso. Pericoloso perché potente e male intenzionato nei confronti del resto del pianeta, e straordinariamente abile nel nascondere la sua natura. Infatti il mondo, in generale, non si è reso conto della situazione. Eppure i fatti sono lì, a disposizione di chiunque li voglia rilevare. Si tratta di un paese che, in poco più di duecento anni di storia ufficiale, ha compiuto un uguale numero di guerre e interventi armati all’estero, un fenomeno mai documentato prima nella Storia. Che ha sterminato uomini a milioni, nelle più varie occasioni e con le più diverse modalità, e che non ha mai mostrato di avere coscienza delle enormità compiute, un altro fenomeno mai visto prima. Ha usato le bombe nucleari in Giappone e ha seriamente cercato di portare un attacco nucleare alla Russia, rimasto incompiuto solo perché ritenuto insufficiente — troppo pochi i milioni di vittime — per garantire la vittoria. Studia incessantemente sistemi sempre più aggiornati per stragi di massa: armi chimiche, biologiche, batteriologiche. Quasi nessuno ne parla, ma da molti anni gli americani stanno studiando come poter manipolare il clima a livello planetario, come riuscire a suscitare uragani, siccità, piogge ininterrotte, in luoghi prescelti e senza farsene accorgere. Male intenzionato, dunque, nei confronti del resto del mondo e nei confronti del pianeta come ecosistema.
Ha portato nella sua storia, a partire dal 1945, uno spirito di contrapposizione, di discordia, di conflittualità, che davvero non gli era mai appartenuto se non nei periodi di guerra e solo rispetto ai paesi coinvolti: liti internazionali a catena, mancati riconoscimenti diplomatici di governi di nazioni pur grandi e storiche, contenziosi con un alto numero di paesi, sanzioni in ogni direzione, tutte implacabili e irreversibili. Con la sua gigantesca propaganda avviata nel periodo della Guerra Fredda sta mistificando la percezione della realtà di un incalcolabile numero di persone. Basti pensare all’Europa Occidentale. Nei mass-media solo film, telefilm, cartoni animati e documentari americani. Esistono reti televisive che fanno apparire tutti i titoli in inglese, anzi in americano. La pseudomusica diffusa nelle discoteche è di produzione americana. Le biblioteche sono sature di libri di autori americani. Sui quotidiani europei articoli di columnists americani a iosa, l’immancabile cronaca dagli Stati Uniti e — per carità! — quella dalla Casa Bianca con annesse corna. Ad ogni angolo sono sorti persino i MacDonald’s, realtà che non riflette per niente e non corrisponde ai valori in campo; ma la realtà deve essere conformata alla propaganda governativa statunitense in simbiosi con quella del suo proprietario diretto, le Multinazionali. La nostra epoca sembra, dunque, iniziare e finire con gli americani, mentre invece nel mondo esistono, per fortuna, popoli umanamente molto più ricchi, più interessanti, più civili.
Al mondo ci sono anche popoli più potenti. Questo è il punto. Gli Stati Uniti si agitano, fanno propaganda, litigano con tutti, minacciano, impongono sanzioni, bombardano e lanciano missili a destra e sinistra. Tuttavia, mancano loro le caratteristiche fondamentali del dominatore universale: la forza militare e il prestigio morale. La prima è solo apparente — possono bombardare e lanciare missili a lunga distanza ma sono impotenti come forze terrestri di invasione (vedi i casi della Seconda Guerra Mondiale, della Corea, del Vietnam e della Guerra del Golfo); per ciò che concerne il prestigio morale, prima o poi le coscienze mondiali si risveglieranno e guarderanno la loro storia e la loro attualità. Per loro la svolta fatidica è stata la Seconda Guerra Mondiale, che hanno perso. Allora, vinse la Russia. Questa ha impiegato tempo ma ora, dopo la perestrojka, sta iniziando a raccoglierne i frutti, che fin da subito si potevano prevedere. Si tratta di frutti decisivi per il futuro prossimo, probabilmente stabili in tempi lunghi; oltre a godere di una posizione geografica centrale dal punto di vista strategico, la Russia dispone sia di una grande forza militare sia di un indubbio prestigio morale. La Fine della Storia non appartiene agli Stati Uniti d’America. Forse gli americani non la vedranno neppure.
Note alla Conclusione
100 – Tratti dalle opere di Franklin Necessary hints to those that would be rich (Suggerimenti necessari per chi vuole diventare ricco) del 1736 e Advice to a young tradesman (Consigli a un giovane affarista) del 1748.