HITLER PER MILLE ANNI
di LEON DEGRELLE
Versione italiana di ANTONIO GUERIN
SENTINELLA D’ITALIA Via Buonarroti, 4 MONFALCONE
Titolo originale dell’opera: NOUS, LES FASCISTES
Titolo dell’edizione francese: HITLER POUR 1000 ANS
Titolo dell’edizione spagnola: MEMORIAS DE UN FASCISTA
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Proprietaria della traduzione italiana: SENTINELLA D’ITALIA – Monfalcone, 1970
PREFAZIONE
Sono molto grato al camerata Degrelle per avere egli affidato a me la pubblicazione in Italia delle sue memorie. E’ un alto onore che il generale della Waffen S.S. ha concesso all’ultimo soldatino della Repubblica Sociale Italiana.
La presente edizione italiana di questo formidabile libro doveva essere corredata di ben 72 fotografie. L’autore stava per fornirmene i cliché ma non fece in tempo a rimettermeli prima di dover lasciare precipitosamente Madrid, colpito da un mandato di cattura delle autorità franchiste, che, nel contempo, gli avevano revocato l’asilo politico, proprio in seguito alla pubblicazione in Spagna di queste memorie. Dice bene, Degrelle, proprio all’inizio del suo libro, che per poter dire e scrivere quello che si vuole bisogna essere di sinistra.
Ma se noi, i sopravvissuti fascisti, spingiamo l’impertinenza fino a disserrare i denti un solo istante, subito mille «democratici» si mettono a urlare freneticamente con voce stridula, spaventando i nostri stessi amici.
Pronunciare una parola in pubblico, o scrivere dieci righe… quando si è stato un capo detto «fascista», è considerato sul campo, da parte «democratica», come una specie di provocazione.
Il più vergognoso è che abbia ceduto all’infame ricatto democratico, e dia dei punti alle livide democrazie occidentali nell’imbavagliamento dei rifugiati politici che non siano di sinistra, proprio la Spagna franchista, che sembra dimenticare il sangue versato dalle legioni di fascisti durante le cruenti battaglie della sua rivoluzione nazionale ed i massicci aiuti avuti in quei frangenti dai Fascismi europei. Durante la guerra del sangue contro l’oro la riconoscenza della Spagna mancò quasi del tutto all’appello della solidarietà nazifascista.
Ora, il governo di Madrid arriva perfino ad imporre la museruola ai sopravvissuti della tremenda strage che accompagnò il crollo dell’Europa, venticinque anni fa.
Questa edizione deve necessariamente uscire senza le previste fotografie, che mi riservo tuttavia di pubblicare in una successiva edizione definitiva.
L’autore stava per inviarmi, anche, una copia riveduta e ampliata del libro. Doveva correggervi alcuni errori comparsi nell’edizione francese e penso volesse pure mitigare un poco taluni giudizi pesanti emessi nei confronti degli Italiani e dei nostri soldati. Mi limito a correggere qualche errore evidente, ma lascio il testo del tutto invariato. Penso essere onesto e giusto che gli Italiani sappiano quale opinione si ha di loro all’estero. E vi sarà pur sempre la possibilità di ribattere ed apportare tutte le precisazioni necessarie a ridurre le cose alle loro giuste proporzioni nel caso l’autore abbia trasceso.
Lascia in fondo all’animo un po’ d’amarezza il fatto che il generale Degrelle ignori, nel suo libro, la R.S.I., ma si deve anche tenere in considerazione il fatto che in quel periodo egli era a migliaia di chilometri, tutto preso nella titanica lotta sul fronte dell’Est, e non bisogna dimenticare che egli dichiara di parlare solo di ciò che ha visto e conosciuto personalmente.
Pertanto, da questo punto di vista, non poteva essere abilitato a trattare della nostra gloriosa ma sfortunata epopea.
Mentre consegno alla tipografia il testo del libro per la sua realizzazione, formulo al caro camerata Degrelle, tuttora braccato lungo la dura via dell’esilio dall’odio inestinguibile ed insaziabile dei giudeo-democratici, ogni più fervido augurio confidando che, un giorno, per quanto lontano esso possa essere, la giustizia finirà pur per trionfare. Quel giorno, per i dannati, vi sarà pianto e stridor di denti…
Heil Hitler!
Antonio Guerin
Monfalcone, 28 ottobre 1970.
Presentazione dell‘edizione francese
«Hitler, ce riè por mil ans».
Così disse il Presidente Spaak, nel luglio 1940. La Francia disfatta, l’U.R.S.S. alleata della Germania, l’opinione pubblica americana pacifista, l’Inghilterra sola ancora in lotta: il pronostico poteva essere fatto. L’avventura prodigiosa volge alla catastrofe. Essa segna il secolo con la sua folgorante nefandezza. Questo libro di Leon Degrelle è una riflessione sul destino di Adolf Hitler e nello stesso tempo una autobiografia.
Fondatore del rexismo, Léon Degrelle entra nella vita politica belga all’inizio degli anni trenta. Le democrazie liberali, vetuste, in balìa delle potenze del denaro, sopravvivono. Il movimento rexista conosce un successo fulmineo, ma non ha il tempo di conquistare il potere.
La guerra giunge, e la disfatta. Del vecchio mondo non rimane nulla. Quando Hitler invade la Russia, Degrelle, nemico da lunga data del comunismo, pensa che un’Europa sta per nascere, e che il solo mezzo per il Belgio di trovarvi posto è di partecipare alla lotta. Si batterà eroicamente con gli uomini della divisione Vallonia. La disfatta della Germania lo costringe all’esilio, sempre minacciato.
Un’Europa dei fascismi poteva nascere? Hitler aveva superato il nazionalismo germanico? L’autore lo pensa. Pensa anche che con questa guerra, gli Europei riconciliati, temperati dalla lotta, rigenerate le loro virtù, potevano trovare un nuovo slancio e restare il centro vivente del mondo. Ma l’Europa non è più che una zona vaga che si disputano delle influenze americane e russe. Il destino le sfugge.
Queste meditazioni sulla nostra storia si mescolano a ricordi familiari o epici (un racconto mirabile della campagna di Russia) o a ritratti pieni di crudezza e di una forza buffa.
Questo libro è esplosivo; per il suo soggetto senza dubbio (ma l’autore si ricorda che vi fu un tempo in cui si pretendeva che Napoleone non avesse mai vinto una battaglia e che d’altronde si chiamasse Nicola) e per la libertà di espressione di un temperamento focoso.
Una voce così chiara strazierà qualche orecchio. Tuttavia deve essere ascoltata.
CAPITOLO I
La museruola per i vinti.
A noi, reduci nel 1945 dal fronte dell’Est, dilaniati dalle ferite, accasciati dai lutti, straziati dalle pene, quali diritti rimangono ancora? Noi siamo dei morti. Dei morti con gambe, braccia, respiro, ma dei morti.
Pronunciare una parola in pubblico, o scrivere dieci righe quando si ha combattuto, armi in pugno, contro i Sovieti, e, soprattutto, quando si è stato un capo detto «fascista», è considerato sul campo, da parte «democratica», come una specie di provocazione.
A un delinquente comune è concesso discolparsi. Ha ucciso suo padre? Sua madre? Dei banchieri? Dei vicini? E’ recidivo? Venti giornali internazionali apriranno le loro colonne alle sue Memorie, pubblicheranno sotto titoli altisonanti il racconto dei suoi crimini, reso più attraente da mille particolari coloriti, si tratti di Chessman o di idieci suoi emuli.
Le descrizioni cliniche di un volgare assassino varranno le tirature e i milioni di un best-seller al suo puntiglioso analista, l’Americano Truman Capote.
Altri noti criminali come Bonnie e Clyde conosceranno la gloria del cinema e perfino detteranno moda nei drugstores più distinti.
Quanto ai condannati politici, dipende. E’ il colore del loro partito che imporrà la loro giustificazione o la loro esecrazione.
Un Campesino, contadino zoticone diventato capobanda del Frente Popular e per il quale gli scupoli non erano molto il suo forte quando si trattava di falciare i ranghi dei Nazionali ha potuto, nella Spagna stessa, e in centinaia di migliaia di copie, nel giornale a tiratura più elevata di Madrid, spiegare, largamente e liberamente, ciò che era stata la sua cruenta avventura di Spagnolo di «sinistra».
Ma ecco, lui era di sinistra.
Allora, egli ne aveva il diritto, come tutti quelli di sinistra hanno tutti i diritti.
Quali che siano stati i crimini, perfino gli stermini in massa ai quali i regimi marxisti si siano dedicati, nessuno farà loro cattiva accoglienza: la destra conservatrice in quanto si picca di essere, alquanto stupidamente, aperta al dialogo, la sinistra perché copre sempre i suoi attivisti.
Un agitatore rivoluzionario alla Régis Debray potrà contare su tutte le udienze che vorrà; cento giornali borghesi riprenderanno con schiamazzo i suoi propositi. Il Papa e il generale de Gaulle si precipiteranno a proteggerlo, uno sotto la sua tiara, l’altro sotto il proprio chepì.
Come, a questo proposito, non stabilire un confronto con Robert Brasillach, il più grande scrittore di Francia della Seconda Guerra mondiale? Innamorato del suo paese, al quale aveva veramente votato la sua opera e la vita, fu, lui, spietatamente fucilato a Parigi, il 6 febbraio 1945, senza che un chepì qualsiasi si agitasse, se non per dare il segnale del fuoco al plotone di esecuzione …
Allo stesso modo, l’anarchico ebreo, nato in Germania, chiamato Cohn-Bendit, pigramente ricercato e, ben inteso, mai ritrovato dalla polizia di Parigi quando era stato molto vicino al mandare la Francia per aria, ha potuto, tanto che ha voluto e come lo ha voluto, pubblicare le sue elucubrazioni, tanto incendiarie quanto mediocri, presso gli editori capitalisti, intascando, sogghignando, gli assegni che costoro gli tendevano per saldare i suoi diritti d’autore!
I Sovieti hanno puntellato la loro dittatura su sedici milioni e mezzo di assassinati: evocare ancora il martirio di costoro sarebbe considerato come cosa chiaramente sconveniente.
Kruscev, volgare giocoliere da mercati di porci, cece sul naso, trasudato, vestito come un sacco di straccivendolo, ha percorso, trionfante, comare al fianco, gli Stati Uniti d’America, scortato da ministri, da miliardari, da danzatrici di french-cancan e dalla crema del clan Kennedy, pagandosi perfino, per finire, di un numero di ciabatte sul tavolo e di calzini umidi in piena sessione dell’ONU.
Kossighin ha offerto la sua lugubre testa di patata mal cotta agli omaggi infiorati di Francesi sempre sconvolti all’evocazione di Auschwitz, ma che hanno dimenticato le migliaia di ufficiali polacchi, loro alleati del 1940, che l’U.R.S.S. assassinò a Katyn.
Stalin stesso, il peggiore assassino del secolo, il tiranno implacabile, integrale, che faceva massacrare, nei suoi furori demenziali, il suo popolo, i suoi collaboratori, i suoi capi militari, la sua stessa famiglia, ricevette una mirabolante sciabola d’oro dal re più conservatore del mondo, il re d’Inghilterra, che non comprese nemmeno quanto la scelta di tale regalo per un tale criminale avesse un tono macabro e buffo!
Ma se noi, i sopravvissuti «fascisti» della Seconda Guerra mondiale, spingiamo l’impertinenza fino a disserrare i denti un solo istante, subito mille «democratici» si mettono a urlare freneticamente, con voce stridula, spaventando i nostri stessi amici che, supplichevoli, ci gridano: attenzione! attenzione!
Attenzione a che cosa ?
La causa dei Sovieti sarebbe dunque venerabile a tale punto? Per un intero quarto di secolo, gli spettatori mondiali hanno avute clamorose occasioni di rendersi conto della sua malvagità. La tragedia dell’Ungheria, schiacciata sotto i carri armati sovietici, nel 1956, in espiazione del crimine che aveva commesso di riprendere gusto alla libertà; la Cecoslovacchia abbattuta, imbavagliata da centinaia di migliaia di invasori comunisti, nel 1968, perché aveva avuto l’ingenuità di volere liberarsi un poco dalla gogna che Mosca le aveva stretto attorno al collo, come a un forzato cinese; il lungo sospiro dei popoli oppressi dall’U.R.S.S., dal golfo di Finlandia fino alle rive del Mar Nero, dimostrano chiaramente quale orrore avrebbe conosciuto l’Europa intera se Stalin avesse potuto — e senza l’eroismo dei soldati del fronte dell’Est, l’avrebbe potuto — abbattersi fin dal 1943 fino alla banchina di Cherbourg e fino alla rocca di Gibilterra.
Dall’inferno di Stalingrado (novembre 1942) all’inferno di Berlino (aprile 1945), trascorsero novecento giorni, novecento giorni di spavento, di lotta ogni volta più disperata, in mezzo a sofferenze orribili, al prezzo della vita di milioni di giovani ragazzi che si fecero deliberatamente schiacciare, stritolare, per ‘tentare di contenere, malgrado tutto, le armate rosse che calavano dal Volga verso l’ovest dell’Europa.
Nel 1940, tra l’irruzione dei Tedeschi alla frontiera francese presso Sedan e l’arrivo di costoro al Mare del Nord, trascorse esattamente una settimana. Se i combattenti europei del fronte dell’Est, fra i quali si trovava mezzo milione di volontari di ventotto paesi non tedeschi, avessero tagliato la corda con la stessa velocità, se non avessero opposto, a palmo a palmo, in tre anni di atroci combattimenti, una resistenza disumana e sovrumana all’immensa marea sovietica, l’Europa sarebbe stata perduta, sommersa implacabilmente fin dalla fine del 1943 o all’inizio del 1944, molto prima che il generale Eisenhower avesse conquistato il suo primo melo in Normandia.
Un quarto di secolo sta lì a provarlo. Tutti i paesi europei occupati dai Sovietici, l’Estonia, la Lituania, la Lettonia, la Polonia, la Germania orientale, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria sono rimaste, da allora, implacabilmente, sotto il loro dominio.
Al minimo scarto, a Budapest o a Praga, è lo staffile moderno, cioè i carri armati russi che falciano a bruciapelo i recalcitranti.
Fin dal luglio 1945, gli Occidentali che avevano puntato così imprudentemente su Stalin, cominciarono a cambiare tono.
— Abbiamo ucciso il maiale sbagliato — mormorò Churchill al presidente Truman, a Potsdam, mentre uscivano insieme da un colloquio con Stalin, il vero vincitore della Seconda Guerra mondiale.
Rimpianti tardivi e penosi…
Quello che era loro sembrato precedentemente il «buon maiale», installato per loro su due continenti, grugniva di soddisfazione, la coda a Vladivostok, il grugno fumante a duecento chilometri dal territorio francese.
Il grugno è sempre là, dopo un quarto di secolo, più minaccioso che mai, a un punto tale che nessuno si arrischia, all’ora presente, ad affrontarlo, se non a colpi di inchini profondi.
All’indomani dell’annientamento di Praga, nell’estate 1968, i Johnson, i de Gaulle, i Kiesinger si limitarono a proteste platoniche, a rincrescimenti timorosi e riservati.
Frattanto, sotto la pancia del suddetto maiale, mezza Europa soffoca.
Non basta dunque ?
E’ giusto, è decente che coloro che videro chiaro in tempo, coloro che gettarono, dal 1941 al 1945, la loro giovinezza, i dolci legami del focolare, le loro forze e i loro interessi di traverso al cammino insanguinato delle armate sovietiche, continuino ad essere trattati come dei paria, fino alla morte e anche al di là della morte?…
Dei paria cui si inchiodano le labbra non appena tentano di dire: «però».
Però … Avevamo vite felici, case in cui era bello vivere, dei figli che amavamo teneramente, dei beni che davano agiatezza alla nostra esistenza…
Però. .. Eravamo giovani, avevamo corpi vibranti, corpi amati, respiravamo l’aria nuova, la primavera, i fiori, la vita, con una avidità trionfante…
Però … Eravamo posseduti da una vocazione, tesi verso un ideale …
Però … Fu necessario gettare i nostri venti anni, i nostri trent’anni e tutti i nostri sogni verso orrende sofferenze, incessanti angoscie, sentire i nostri corpi divorati dai freddi, le nostre carni straziate dalle ferite, le nostre ossa spezzate in corpo a corpo allucinanti.
Abbiamo visto singhiozzare i nostri camerati agonizzanti nel fango viscoso o nella neve viola del loro sangue.
Noi siamo usciti vivi, bene o male, da questi massacri stravolti dallo spavento, dagli stenti e dai tormenti.
Un quarto di secolo dopo, mentre i nostri parenti più cari sono morti nelle segrete o sono stati assassinati, e noi stessi siamo arrivati, nei nostri esili lontani, fino in fondo alle risorse del coraggio, le « Democrazie », astiose, biliose, continuano a perseguitarci con un odio inestinguibile.
Un tempo, a Breda, come si può ancora vedere nell’indimenticabile quadro di Velasquez al museo del Prado a Madrid, il vincitore offriva le braccia, la sua commiserazione e il suo affetto al vinto! Gesto umano! Essere vinto, già quale sofferenza, in sé! Avere visto crollare i propri piani e i propri (sforzi, rimanere là, con le braccia ciondoloni davanti ad un avvenire scomparso per sempre, di cui si dovrà pure guardare la cornice vuota, di fronte a sé, fino all’ultimo respiro!
Quale castigo, se si fosse stati colpevoli!
Quale dolore ingiusto, se non si fossero sognati che trionfi puri!
Allora, si comprende come in tempi meno feroci il vincitore avanzasse, fraterno, verso il vinto, accogliendo l’immensa pena segreta di colui che, se aveva salvato la vita, aveva appena perso tutto ciò che dava ad essa un senso e un valore…
Che cosa significa ancora la vita per un pittore al quale si siano forati gli occhi? Per uno scultore al quale sono state strappate le braccia?
Che cosa significa essa per l’uomo politico spezzato dal destino, e che aveva portato in sé, con fede, un ideale bruciante, che aveva posseduto la volontà e la forza di trasporlo nei fatti e nella vita stessa del suo popolo?…
Mai più si realizzerà, mai più creerà…
Per lui, l’essenziale si è fermato.
Questo « essenziale », nella grande tragedia della Seconda Guerra mondiale, cosa fu per noi ?
I « fascismi » — che sono stati l’essenziale della nostra vita — come sono nati? Come si sono diffusi? Come sono tramontati?
E, soprattutto, dopo un quarto di secolo, di tutta questa enorme faccenda, quale bilancio possiamo stendere?
CAPITOLO II
Quando l’Europa era Fascista.
A un ragazzetto dei nostri giorni, l’Europa detta « fascista » appare un mondo lontano, già confuso.
Questo mondo è sprofondato.
Dunque, non ha potuto difendersi.
Quelli che l’hanno steso al suolo rimanevano soli sul terreno, nel 1945. Essi hanno, da allora, interpretato i fatti e le intenzioni, come conveniva loro.
Un quarto di secolo dopo il tracollo dell’Europa «fascista» in Russia, se esiste qualche opera semicorretta su Mussolini, non esiste ancora un solo libro obiettivo su Hitler.
Centinaia di lavori gli sono stati consacrati, tutti abborracciati, o ispirati da una avversione viscerale.
Ma il mondo attende sempre l’opera equilibrata che stabilirà il bilancio della vita della principale personalità politica della prima metà del secolo XX.
Quello di Hitler non è un caso isolato. La Storia — se si può dire! — si scrive dopo il 1945 a senso unico.
Nella metà dell’universo, dominata dall’U.R.S.S. e dalla Cina rossa, non è nemmeno pensabile che la parola venga data a uno scrittore che non sia conformista o adulatore.
Nell’Europa occidentale, se il fanatismo è più sfumato, esso non è che più ipocrita. Mai un grande giornaie francese, o inglese, o americano pubblicherebbe un lavoro che mettesse in rilievo ciò che potè essere d’interessante, perfino di sanamente creatore, nel Fascismo o nel Nazional-Socialismo.
La sola idea di una tale pubblicazione sembrerebbe aberrante. Si griderebbe subito al sacrilegio.
Un settore è stato ben particolarmente oggetto di cure appassionate; sono stati pubblicati, in un gigantesco tapage, cento servizi, spesso esagerati, talvolta grossolanamente menzogneri, sui campi di concentramento e sui forni crematori, soli elementi che si voglia ben considerare nell’immensa creazione che fu, per dieci anni, il regime hitleriano.
Fino alla fine del mondo si continuerà a rievocare la morte degli Ebrei nei campi di Hitler sotto il naso spaventato di milioni di lettori, poco appassionati alle addizioni esatte e al rigore storico.
Anche qui, si attende un lavoro serio su quello che è realmente avvenuto, con cifre verificate metodicamente e appurate; un’opera imparziale, non di propaganda; non cose sedicenti viste e che non sono state viste; soprattutto non «confessioni» costellate di errori e di non sensi, dettate da seviziatori ufficiali — come una commissione del Senato americano ha dovuto riconoscere — ad imputati tedeschi di cui era in gioco la testa e che erano pronti a firmare qualsiasi cosa per sfuggire al patibolo.Questo guazzabuglio incoerente, storicamente inammissibile, ha fatto effetto, senza alcun dubbio, sull’immensa plebaglia sentimentale. Ma esso è la caricatura di un problema angoscioso, e disgraziatamente vecchio quanto l’uomo.
Resta ancora da scrivere lo studio — e d’altronde, nessun editore lo pubblicherebbe ! — che esponesse i fatti precisi secondo i metodi scientifici, li ricollocasse nel loro contesto politico, li inserisse onestamente, in un insieme di raffronti storici, ahimè tutti indiscutibili: la tratta nei Negri, condotta nel corso dei secoli XVII e XVIII dalla Francia e dall’Inghilterra, al prezzo di tre milioni di vittime africane soccombenti nel corso delle razzie e dei trasferimenti atroci; lo sterminio, per cupidigia, dei Pellerossa braccati a morte sui territori degli odierni Stati Uniti; i campi di concentramento dell’Africa del Sud nei quali i Boeri invasi furono rinchiusi come bestiame da parte degli inglesi, sotto gli occhi compiacenti di Churchill; le spaventose esecuzioni dei Cipayes in India, da parte degli stessi servitori di Sua Graziosa Maestà; il massacro da parte dei Turchi di più di un milione di Armeni; la carbonizzazione da parte degli Alleati, nel 1945, di centinaia di migliaia di donne e bambini nei due più giganteschi forni crematori della Storia: Dresda e Hiroshima; la serie di massacri di popolazioni civili che non ha fatto che accrescersi dal 1945: in Congo, nel Vietnam, in Indonesia, nel Biafra.
Aspetteremo ancora a lungo, credetemi, prima che un tale studio, obiettivo e di portata universale, faccia il punto su questi problemi e li soppesi senza partito preso.
Anche su argomenti molto meno scottanti ogni spiegazione storica resta ancora, in questo momento, pressoché impossibile, se si ha avuto la sventura di cadere, politicamente, dalla parte sbagliata.
E’ spiacevole parlare di se stessi. Ma infine, di tutti i capi detti «fascisti» che hanno preso parte alla Seconda Guerra mondiale, sono il solo superstite. Mussolini è stato assassinato, e poi appeso. Hitler si è sparato un colpo in testa poi è stato bruciato. Mussert, il leader olandese e Quisling, quello norvegese, sono stati fucilati.
Pierre Lavai, dopo aver subito una (breve parodia di giustizia, si è avvelenato nel suo carcere francese. Salvato a stento dalla morte, fu abbattuto dieci minuti più tardi, semiparalizzato. Il generale Vlassov, il capo dei Russi antisovietici, consegnato a Stalin dal generale Eisenhower, è stato appeso ad un gancio su un patibolo in una piazza di Mosca.
Perfino in esilio, gli ultimi superstiti sono stati selvaggiamente perseguitati: il capo dello Stato croato Anton Pavelic è stato infarcito di pallottole in Argentina; io stesso, braccato ovunque, non sono scampato che per un pelo a diversi tentativi di liquidazione per assassinio o per ratto.
Nondimeno, non sono stato ancora eliminato al momento presente. Vivo. Esisto. Potrei cioè ancora portare una testimonianza suscettibile di presentare storicamente un certo interesse. Ho conosciuto Hitler da molto vicino, so quale essere umano, veramente, egli era, ciò che egli pensava, ciò che voleva, ciò che preparava, quali erano le sue passioni, i suoi movimenti di umore, le sue preferenze, le sue fantasie. Ho conosciuto, nello stesso modo, Mussolini, così differente nella sua impetuosità latina, i suoi sarcasmi, le sue effusioni, le sue debolezze, i suoi slanci, ma, anche lui, straordinariamente interessante.
Se degli storici obiettivi esistessero ancora, potrei dunque essere, davanti ai loro Schedari, un testimonio sufficientemente valido. Chi, fra i sopravvissuti politici del 1945, ha conosciuto Hitler o Mussolini più direttamente di me? Chi potrebbe, con più precisione di me, spiegare quali tipi di uomini essi erano, uomini semplicemente, uomini nudi e crudi?
Ciò non toglie che io non abbia, precisamente, che il diritto di tacere.
Anche nel mio stesso paese.
Che io pubblichi — venticinque anni dopo i fatti! — in Belgio, un’opera su quella che fu la mia azione politica, è semplicemente impensabile.
Ora, sono stato prima della guerra il capo dell’Opposizione in questo paese, il capo del Movimento rexista, movimento legale, che si atteneva alle norme del suffragio universale, trascinando masse politiche considerevoli e centinaia di migliaia di elettori.
Ho comandato, durante i quattro anni della Seconda Guerra mondiale, i volontari belgi del fronte dell’Est, quindici volte più numerosi di quanto non lo fossero i loro compatrioti combattenti dalla parte degli Inglesi. L’eroismo dei miei soldati è indiscusso. Migliaia tra di loro hanno dato la vita, per l’Europa, certo, ma dapprima e innanzi tutto, per conseguire la salvezza del proprio paese e preparare la sua resurrezione.
Tuttavia, non esiste per noi nessuna possibilità di spiegare alla gente del nostro popolo ciò che furono l’azione politica di REX prima del 1941 e la nostra azione militare dopo il 1941. Una legge mi vieta formalmente di pubblicare una riga lassù in Belgio. Proibisce la vendita, la diffusione, il trasporto di ogni testo che potrei scrivere su questi argomenti! Democrazia? Dialogo? Da un quarto di secolo i Belgi non sentono che il suono di una sola campana. In quanto all’altra campana — la mia ! — lo Stato belga punta su di essa tutti i suoi cannoni.
Altrove, non è meglio. In Francia, il mio libro La Campagna di Russia, appena uscito, è stato interdetto.
Fu lo stesso, recentemente ancora, del mio lavoro Le Anime che bruciano. Questo libro è puramente spirituale. Nondimeno è stato ufficialmente messo fuori circuito in Francia, e ciò venti anni dopo che la mia vita politica era stata frantumata!
Non sono dunque neanche le idee degli scomunicati che sono messe all’indice, ma è il loro nome, sul quale si abbatte, instancabilmente, l’inquisizione democratica.
In Germania, gli stessi procedimenti.
L’editore del mio libro Die verlorene Legion fu, dal momento dell’uscita del volume, oggetto di tali minacce, che fece distruggere egli stesso, qualche giorno dopo il lancio, le migliaia di copie che stavano per essere distribuite alle librerie.
Il primato fu battuto dalla Svizzera dove, la polizia non solo confiscò migliaia di copie del mio libro La baraonda del 1940 due giorni dopo la sua uscita, ma si precipitò in tipografia, vi fece fondere sotto i propri occhi i piombi della composizione, affinché ogni ristampa dell’opera divenisse materialmente impossibile.
Ora, l’editore era svizzero! La tipografia era svizzera! E se qualche personalità si fosse reputata maltrattata nel testo, le sarebbe stato facile esigere riparazione ricorrendo alla giustizia contro il mio editore e contro me stesso. Ciò che nessuno, beninteso, si arrischiò di fare!
Le stesse difficoltà dello scritto all’orale. Ho sfidato le Autorità belghe responsabili a lasciarmi spiegare davanti al popolo del mio paese al Palazzo dello Sport di Bruxelles o di accettare — nulla di più! — che mi presentassi come candidato alle elezioni del Parlamento.
Il popolo sovrano avrebbe deciso. Si sarebbe potuti essere più democratici ? Il ministro della Giustizia rispose personalmente che sarei immediatamente ricondotto alla frontiera se fossi sbarcato a Bruxelles! Per essere assolutamente sicuri che non sarei ricomparso, si improvvisò una legge speciale, battezzata Lex Degreliana, che prorogava di dieci anni i termini della mia prescrizione, giunta al suo termine ! Allora, come avrebbero potuto le folle soppesare i fatti, le intenzioni, farsi una opinione? … E come, di fronte a un tale pasticcio, un giovane potrebbe distinguere il vero dal falso, tanto più che l’Europa di prima del 1940 non era un monoblocco?
Ogni paese, anzi, presentava caratteristiche molto particolari. E ogni «fascismo» aveva i suoi propri orientamenti.
Il fascismo italiano, per esempio, era ben distinto dal nazional-socialismo tedesco. Socialmente, le posizioni tedesche erano più audaci. Per contro, il fascismo italiano non era antiebraico nella sua essenza. Era di tendenza piuttosto cristiana. E anche più conservatore. Hitler aveva liquidato le ultime vestigia dell’Impero degli Hohenzollern mentre Mussolini, anche se torceva il naso, continuava a seguire il piumino, alto mezzo metro, che agitava la sua ampia ramatura al di sopra della piccola faccia sdentata del re Vittorio Emanuele.
Il fascismo avrebbe potuto, altrettanto bene, essere contro Hitler che con Hitler. Mussolini era, prima di tutto, nazionalista. Dopo l’assassinio del cancelliere austriaco Dolfuss, nel 1934, aveva allineato parecchie divisioni alla frontiera dell’Austria. In fondo a se stesso, non gli piaceva Hitler, Ne diffidava. — Fate attenzione! Attenzione soprattutto a Ribbentrop! — mi ripetè venti volte.
L’asse Roma-Berlino fu forgiata, prima di tutto, dalle maldestrezze e dalle provocazioni di una grande stampa tra le più equivoche e di politicanti scaduti e ambiziosi come Paul Boncour, scompigliato buffone di Parigi, e don Juan lo snervato e corrotto dei moli di Ginevra, come Anthony Eden, lunga scopa verniciata di Londra, come, soprattutto, Churchill. Ho conosciuto costui ai Comuni in quell’epoca. Era molto discusso e screditato. Amaro quando aveva lo stomaco secco (era d’altronde assai raro), i denti storti tra le guance cascanti di bulldog troppo ingrassato, gli si prestava appena attenzione. Solo una guerra avrebbe potuto ancora offrirgli un’ultima possibilità di accedere al potere. Egli si aggrappò con accanimento a quella possibilità.
Mussolini, fino al suo assassinio nell’aprile 1945, restò, in fondo a se stesso, anti-tedesco e anti-Hitler, malgrado tutte le testimonianze di attaccamento che questi gli prodigò. L’occhio nero, brillante come una pallina di giaietto, il cranio liscio come il marmo del fonte battesimale, i reni arcuati di un capo fanfara, era nato per dare in spettacolo la sua superiorità. A dire il vero, Mussolini si rodeva dalla rabbia vedendo Hitler disporre di un migliore strumento umano (il popolo tedesco, serio, disciplinato, che non chiedeva troppe spiegazioni) di quello che era alla sua portata (il popolo italiano, incantevole, compiacente della critica, anche volubile, vibrante allodola che il [vento porta via). Da questo cattivo umore, risultava sordamente uno strano complesso di inferiorità, che aggravarono sempre più le vittorie di Hitler il quale, fino alla fine del 1943, vinse sempre, malgrado i rischi inauditi che correva. Mussolini, invece, capo di Stato eccezionale, non aveva la vocazione di uno stratega più di una guardia campestre romagnola.
In breve, in quanto uomini, Hitler e Mussolini erano diversi.
Il popolo tedesco ed il popolo italiano erano diversi.
In quanto a dottrine, il fascismo e il nazionalsocialismo erano assai diversi.
Non mancavano punti d’incontro sul terreno ideologico, come pure nell’azione, ma esistevano anche delle opposizioni, che l’Asse Roma-Berlino attenuò, ai suoi inizi, ma che la disfatta, colpendo l’Italia nel suo sangue e nel suo orgoglio, amplificò, rafforzò.
Se i due principali movimenti « fascisti » d’Europa, quegli stessi che erano saliti al potere a Roma e a Berlino e che sbarravano il continente da Stettino a Palermo, apparivano già così distinti l’uno dall’altro, che avveniva quando si considerava gli altri «fascismi» sorti in Europa, sia in Olanda o in Portogallo, in Francia, in Belgio, in Spagna, in Ungheria, in Romania, in Norvegia o altrove!
Il « fascismo » romeno era di essenza quasi mistica. Il suo capo, Codreanu, arrivava a cavallo, vestito di bianco, alle grandi assemblee delle folle romene. La sua apparizione sembrava quasi soprannaturale. E’ a questo punto che lo chiamavano l’Arcangelo. L’élite militante dei suoi membri portava il nome di Guardia di Ferro. Il termine era duro come erano dure le circostanze di lotta e i metodi dell’azione. Le penne delle ali dell’Arcangelo erano spesso impolverate di dinamite.
Invece, il « fascismo » del Portogallo era spassionalizzato, come lo era il suo mentore, il professore Salazar, un cerebrale, che non beveva, non fumava, che viveva in una cella monacale, era vestito come un clergyman, fissava i punti della sua dottrina e le tappe della sua azione con la stessa freddezza con cui avrebbe commentato le Pandette.
In Norvegia, era ancora altro. Quisling era allegro come un beccamorto. Lo rivedo ancora, la faccia tumida, l’occhio cupo, tenebroso, quando. Primo ministro, mi ricevette nel suo palazzo di Oslo, in fondo a una corte d’onore dove un re, di un bronzo diventato verde come un cavolo cotto troppo presto, portava, alto e fiero, una fronte crivellata di deiezioni d’uccello. Quisling, nonostante il suo portamento compassato di capo contabile scontento della sua cassa, era tanto militare quanto Salazar lo era poco. Si appoggiava su milizie i cui stivali erano nettamente più brillanti della dottrina.
Perfino l’Inghilterra aveva dei « fascisti », quelli di Oswald Mosley.
All’opposto dei «fascisti» proletari del Terzo Reich, i fascisti inglesi erano, nella loro maggioranza, fascisti aristocratici.
I loro comizi raccoglievano migliaia di membri della Gentry, che venivano a vedere cosa potevano mai essere quei fenomeni lontani e favolosi cui si dava il nome di operai (ce n’era comunque un certo numero nelle file di Mosley).
Gli ascoltatori erano variopinti dai colori vivaci e vistosi di giovani eleganti, modellate in molto corti e fini vestiti di seta; il contenuto e il contenente vibravano di fascino. Molto eccitante e molto appetitoso, questo fasoismo! Soprattutto in quel paese in cui le pertiche lunghe e magre del mondo femminile hanno così spesso della piantagione di luppolo!
Mosley mi aveva invitato a colazione in un teatro non più in uso, appollaiato sul Tamigi, dove riceveva i suoi ospiti dietro a un tavolo di legno bianco. Ciò era austero e molto cappuccino di primo acchito. Ma dei valletti perfetti apparivano presto, e le stoviglie nelle quali vi servivano erano d’oro!
A fianco dell’Hitler proletario, del Mussolini teatrale, del Salazar professorale, Mosley era il paladino di un fascismo abbastanza estroso che, per quanto straordinario ciò sembri, era conforme ai costumi britannici. L’Inglese più rigido tiene a fare ostentazione di peculiarità personalissime, siano esse politiche o di vestiario. Mosley ne arrecava una di più, come Byron o Brummel ne avevano apportate altre un tempo, e come i Beatles ne fornirebbero altre molto più tardi. Churchill stesso terrebbe a distinguersi a modo suo, ricevendo importanti visitatori, completamente nudo, nella maestà fasciata d’un re Bacco anglicizzato, drappeggiato nel solo fumo dei suoi avana. Il figlio di Roosevelt, inviato la Londra in missione durante la guerra credette di morire soffocato quando vide avanzare verso di sé un Churchill adamitico, il ventre gonfio, lardoso come un bettoliere obeso che finisce di lavarsi il retrotreno in una tinozza di zinco, il sabato sera.
All’estremo opposto, il Mosley di prima del 1940, il fascista impeccabile, con il capo coperto da una bombetta grigia anziché da un elmo d’acciaio, armato di un ombrello di seta invece che di un manganello, non usciva dunque particolarmente dalla linea dell’eccentricità britannica.
Ma, comunque, il fatto che gli Inglesi, solenni come portieri di ministero e conservatori come motori di Rolls Royce, si siano lasoiati inebriare, pure essi, dai fluidi dei fascismi europei di prima del 1940, dice fino a che punto il fenomeno corrispondeva in Europa a uno stato d’animo generale.
Per la prima volta dopo la Rivoluzione francese, malgrado le diversità dei nazionalismi, idee brucianti e un ideale bruciante provocavano reazioni abbastanza identiche.
Una medesima fede scaturiva, contemporaneamente, da un capo all’altro del vecchio continente, fosse a Budapest, a Bucarest, ad Amsterdam, a Oslo, ad Atene, a Lisbona, a Varsavia, a Londra, a Madrid, a Bruxelles, o a Parigi.
A Parigi, non solo i movimenti fascisti possedevano le loro proprie caratteristiche, ma, inoltre, si scomponevano in molteplici suddivisioni: di tendenza dogmatica, con Charles Maurras, un vegliardo con la barbetta, coraggioso, integro, sordo come un debitore, padre spirituale di tutti i fascismi europei ma che limitava il suo, globalmente, al Prato quadrato francese; di tendenza militare, con gli ex combattenti del 1914-1918, commoventi, scampanellanti, senza idee; di tendenza « classi medie », con le Croci di Fuoco del colonnello de La Rocque, che adorava moltiplicare con i civili le grandi manovre e le ispezioni di caserma; di tendenza proletaria con il Partito Popolare Francese di Jacques Doriot, ex « cocco » occhialuto, che ostentava volentieri, nella sua propaganda le scarpe grossolane, le bretelle, il grembiule da cucina di sua moglie, per fare popolo, un popolo che gli rimase restìo, nel suo insieme, dopo un inizio abbastanza riuscito; di tendenza attivista e che sapeva di polvere, con la Cagoule di Eugène Deloncle e di Joseph Darnand, dei duri, di quelli che si scagliavano, che facevano, estasiati, saltare in aria con la dinamite, in piena Parigi, le torbide centrali dei supercapitalisti, per farli uscire clamorosamente dal loro dorato assopimento. Deloncle, politecnico geniale, sarebbe abbattuto dai Tedeschi del 1943 e Joseph Darnand, dai Francesi del 1945 nonostante fosse stato uno degli eroi più impavidi delle due guerre mondiali.
Questa sovrabbondanza di movimenti « fascisti » parigini, teoricamente paralleli e praticamente rivali, divideva e disorganizzava le élite francesi. Essa avrebbe condotto, la sera del 6 febbraio 1934, alle cruenti sommosse di piazza della Concordia a Parigi, senza che il potere, caduto sulla scarpata del panico, fosse ripreso in mano da un solo dei suoi vincitori di « Destra ».
Il loro grande uomo di quella notte si chiamava Jean Chiappe, prefetto di polizia di Parigi, revocato tre giorni prima dal governo di Sinistra. Era un Còrso volubile, rosseggiante, che portava una rosetta della Legion d’onore del formato di un pomodoro, piccolo piccolo malgrado le suole sovrapposte che facevano credere, quando parlava, che fosse appollaiato su uno sgabello.
Sebbene si presentasse come un ciliegio primaverile, si tastava le costole, si curava; reumatico diceva, non era nemmeno uscito il 6 febbraio con i manifestanti. Aveva appena fatto un bagno caldo e si accingeva a coricarsi, già in pigiama. Nonostante i rimproveri sempre più insistenti, poi sconvolti, dei suoi fedeli, rifiutò di rivestirsi, mentre non avrebbe avuto che da attraversare la via per sedersi nella poltrona vuota dell’Eliseo!
Nel 1958, il generale de Gaulle, di fronte alla stessa poltrona, non si sarebbe fatto pregare altrettanto!
Tra quei molteplici partiti « fascisti » francesi, il denominatore comune prima del 1940 era debole.
In Spagna, il generale Primo de Rivera era stato, prima di molti altri, un «fascista» a modo suo, fascista monarchico, un poco come Mussolini. Questa concessione al trono contribuì molto alla sua perdita. Troppi cortigiani di palazzo, specialisti dello sgambetto, lisci come anguille, vuoti come tubi, gli facevano la posta. Troppo pochi proletari lo spalleggiavano, proletari dal cuore semplice, dal braccio forte, che avrebbero potuto, altrettanto bene, seguire un Primo de Rivera attaccato alla riforma sociale del suo paese, che allinearsi dietro i pistoleros e gli incendiari del Frente Popular. I cospiratori di corte impantanarono questa esperienza nella pània dei pregiudizi di una aristocrazia salottiera, vanitosa e politicamente sterilizzata da parecchi secoli.
José-Antonio, figlio del generale silurato e morto a Parigi qualche giorno dopo, era un oratore ispirato. Aveva capito, lui, malgrado la sua eredità di senhorito, che l’essenziale della lotta politica della sua epoca risiedeva nel fatto sociale. Il suo programma, la sua etica, il suo fluido personale avrebbero potuto portargli l’adesione di milioni di Spagnoli che sognavano il rinnovamento del loro paese, non soltanto nella grandezza e nell’ordine ma anche, e soprattutto, nella giustizia sociale. Disgraziatamente per lui, il Frente Popular aveva minato ovunque il terreno, fuorviato le masse, alzato tra gli Spagnoli le barriere dell’odio, del fuoco e del sangue. José-Antonio sarebbe potuto essere il giovane Mussolini della Spagna del 1936. Questo gran splendido ragazzo vide il suo sogno falciato nello stesso anno da un plotone di esecuzione ad Alicante. Le sue idee lasciarono a lungo l’impronta nel suo paese. Esse animarono centinaia di migliaia di combattenti e militanti. Sarebbero perfino rimbalzate, rivivificate dagli eroi della Division Azul, fin sulle nevi insanguinate del fronte russo, recando il loro contributo alla creazione della nuova Europa di allora.
Lo si vede, la Spagna del 1939 non era la Germania del 1939.
Non più di quanto il colonnello de La Rocque, a Parigi, rigido come un metronomo e lo spirito spento come una colata di macadam, non era il sosia del dottor Goebbels, vivo come un flash di reporter; non più di quanto Oswald Mosley, il fascista raffinato di Londra, non fosse l’alter ego del rozzo dottore Ley di Berlino, viola come un barile di vino nuovo.
Nondimeno un medesimo dinamismo fermentava dovunque le loro folle, una medesima fede le sollevava, e anche un fondamento ideologico abbastanza simile si notava in ciascuno di loro. Avevano in comune le stesse reazioni di fronte ai vecchi partiti, sclerotici, corrotti da sordidi compromessi, sprovvisti d’immaginazione che non hanno portato, in nessun luogo, soluzioni sociali ampie e veramente rivoluzionarie, mentre il popolo, oberato di ore di lavoro, pagato miseramente (sei pesetas al giorno sotto il Frente Popular!) senza protezione sufficiente contro gli infortuni di lavoro, le malattie, la vecchiaia, attendeva con impazienza e angoscia di essere finalmente trattato con umanità, non solo materialmente ma anche moralmente.
Mi ricorderò sempre del dialogo che ascoltai, all’epoca, in una miniera di carbone in cui era sceso il re dei Belgi: — Cosa desiderate? — chiese il sovrano, abbastanza sostenuto, pieno delle migliori intenzioni, a un vecchio minatore, nero di fuliggine. — Sire — rispose questi, chiaro e tondo — ciò che vogliamo è essere rispettati!
Questo rispetto del popolo e questa volontà di giustizia sooiale si alleavano, nell’ideale « fascista », alla volontà di restaurare l’ordine nello Stato e la continuità nel servizio della nazione.
Bisogno anche di elevarsi spiritualmente. Attraverso tutto il continente, la gioventù respingeva la mediocrità dei politicanti di professione, menti ristrette ridondanti, senza formazione, senza cultura, elettoralmente appoggiati alle bettole o a seminotabili, cui erano state appioppate mogli sposate troppo presto, insoddisfatte, sorpassate dagli avvenimenti e che falciavano la minima audacia del marito a grandi colpi di cesoie.
Questa gioventù voleva vivere per qualcosa di grande, di puro.
Il « fascismo » era scaturito dovunque, in Europa, spontaneamente, con forme molto diverse, da quel bisogno vitale, totale e generale, di rinnovamento: rinnovamento dello Stato, forte, autoritario, che abbia durata e possibilità di attorniarsi di competenti, sfuggendo all’alea dell’anarchia politica; rinnovamento della società, liberata dal conservatorismo asfissiante di borghesi inguantati e dal colletto duro, senza orizzonte, paonazzi di cibi troppo ricchi e di borgogna troppo duro, chiusi intellettualmente, sentimentalmente e soprattutto finanziariamente, ad ogni idea di riforma; rinnovamento sociale, o più esattamente rivoluzione sociale, che liquidi il paternalismo, così caro ai ricchi, che, a buon mercato, con tremoli calcolati, recitavano il gran cuore e preferivano, al riconoscimento dei diritti di giustizia, la distribuzione condiscendente di carità limitate e molto sostenute; rivoluzione sociale che rimetta il capitale al suo posto di strumento materiale, il popolo, sostanza viva, che ridiventi la base essenziale, l’elemento fondamentale della vita della Patria; rinnovamnto morale infine insegnando di nuovo a una nazione, alla gioventù innanzi tutto, a elevarsi e a donarsi.
Non v’è paese d’Europa che, tra il 1930 e il 1940, sia sfuggito a questo richiamo.
Questo presentava sfumature distinte, orientamenti distinti, ma possedeva, politicamente, socialmente, basi abbastanza simili, ciò che spiega come fu rapidamente intessuta una sbalorditiva solidarietà: il Francese « fascista » andava ad assistere, dapprima inquieto ma presto entusiasmato, alle sfilate delle « Camicie brune » a Norimberga; i Portoghesi cantavano la Giovinezza dei Balilla, come il Sivigliano avrebbe cantato la Lili Marleen dei Tedeschi del Nord.
Nel mio paese, il fenomeno sarebbe sorto come altrove con le sue proprie caratteristiche, che avrebbero raggiunto in capo a pochi mesi gli elementi unificatori sorti dalla Prima Guerra mondiale nei diversi paesi europei. Ero, in quei tempi, un ragazzo molto giovane. Sul retro di una foto, avevo scritto (ero già modesto):
Ecco, più o meno veri, i tratti del mio volto
La carta non dice il fuoco bruciante e fiero
Che mi brucia oggi, che mi bruciava ieri
E che domani scoppierà come un temporale.
Il temporale, lo portavo in me. Ma chi altri lo sapeva? All’estero nessuno mi conosceva. Avevo il fuoco sacro, ma non disponevo di nessun appoggio che potesse improvvisamente assicurare un grande successo. Eppure, un solo anno mi sarebbe bastato per raccogliere centinaia di migliaia di discepoli, per ridurre a mal partito la tranquillità sonnolenta dei vecchi partiti e per mandare al Parlamento belga, in una sola volta, trentuno miei giovani camerati. Il nome di REX, in qualche settimana, nella primavera del 1936, sarebbe stato rivelato al mondo intero. Sarei arrivato alla soglia stessa del potere a ventinove anni, nell’età in cui normalmente i ragazzi prendono l’aperitivo su una terrazza di bar e lisciano le dita di una bella ragazza dagli occhi commossi. Tempi prodigiosi nei quali ai nostri padri non rimaneva che seguirci dove, ovunque, dei giovani, dagli occhi di lupo, dai denti di lupo, si rizzavano, balzavano, vincevano, si preparavano a cambiare il mondo !
CAPITOLO III
Verso il potere a venticinque anni.
Ho visto, a trentotto anni, scoppiare in mille frantumi la mia vita di capo politico e spezzarsi la mia carriera militare (generale, comandante di Corpo d’Armata).
Come, venticinque anni fa, ci si poteva scagliare tanto giovani attraverso la vita di uno Stato, arrivare alla soglia del potere così in fretta e così presto?
Il successo, è evidente, dipende dalle epoche. Ve ne sono talune che trasudano il tedio e soffocano ogni vocazione. Ve ne sono altre, nelle quali ciò che è eccezionale sorge, accresce, si espande. Bonaparte, nato cinquanta anni prima, avrebbe senza dubbio terminato la sua carriera da panciuto comandante di piazza in una città di provincia. Hitler, senza la Prima Guerra mondiale, avrebbe senza dubbio vegetato, semiborghese inacidito, a Monaco o a Linz. E Mussolini avrebbe potuto fare il maestro in Romagna tutta la vita, o passare questa nella prigione Mamertina, cospiratore impenitente, nei secoli insonnoliti degli Stati ontifici.
Le correnti spirituali e passionali, così come gli esempi che animavano l’Europa verso gli anni trenta, hanno aperto orizzonti eccezionali alle vocazioni e alle ambizioni. Tutto fermentava. Tutto risplendeva: la Turchia di Ataturk — colosso impressionante di salute, che faceva bisboccia di notte come un soldataccio, che esercitava, di giorno, una autorità onnipotente, unico dittatore che abbia avuto la fortuna di morire a tempo, cioè nel suo letto — come pure l’Italia di cui si era impadronito Mussolini, Cesare motorizzato. Di un paese anarchico e stanco, il Duce aveva, in qualche anno, rifatto un paese ordinato. Se fossi italiano, sarei fascista, aveva esclamato un giorno Winston Churchill.
Mi ripetè lui stesso questa affermazione, una sera, a tavola, a Londra, al ristorante dei Comuni.
Tuttavia, l’Italia lo irritava, lei che aveva osato passare dal ruolo modesto che le avevano assegnato le Potenze, a quello di paese imperiale, riservato, fino a quel momento, in esclusiva, alla bulimia e all’orgoglio britannici.
Più di qualsiasi cosa, l’esempio di Mussolini aveva affascinato l’Europa e il mondo.
Lo si fotografava a torso nudo, mentre falciava le messi nelle paludi pontine prosciugate. I suoi aerei varcavano, in squadre impeccabili, l’Atlantico. Una Inglese era accorsa a Roma, non per gridargli un amore isterico, come molte altre, ma per scaricare su di lui, assai poco amabilmente, una (pallottola che gli aveva rasentato una pinna del naso. I suoi giovani Balilla sfilavano dovunque cantando. I suoi operai inauguravano impressionanti installazioni sociali, le più vive del continente, in quell’epoca. I treni italiani non si fermavano più in piena campagna, come nel 1920, per costringere a scendere il prete che aveva avuto l’impudenza di prendervi posto! L’ordine regnava. Tutto progrediva. Senza partiti per schiamazzare, e senza tafferugli sociali.
L’Italia industriale nasceva, dall’ENI alla Fiat, dove Agnelli creava, su ordine del Duce, una macchina popolare, assai prima di partire coi volontari italiani al fronte russo, nel 1941, dove lottò a nostro fianco nel bacino del Donez.
Quell’Italia industriale che fece la sua apertura mondiale dopo che Mussolini era morto, fu Mussolini — lo si dimentica troppo spesso — a crearla.
Il suo grande Impero africano stava per estendersi, in alcuni anni, da Tripoli a Addis-Abeba, senza che Mussolini si lasciasse intimidire dalle proteste intenazionali dei paesi ipocriti che si erano pasciuti prima e non sopportavano l’idea che i paesi poveri avessero l’insolenza di esprimersi o, almeno, di mangiare a sazietà senza dover lasciare emigrare miserabilmente, ogni anno, centomila o ducentomila stomachi vuoti verso i bassifondi di Brooklyn o verso le febbri delle pampa sudamericane.
In ogni paese, migliaia di Europei guardavano a Mussolini, studiavano il fascismo, ne ammiravano l’ordine, il lustro, lo slancio, le importanti realizzazioni politiche e sociali.
— Dovremmo fare altrettanto! — ripetevano, scuotendo la testa, innumerevoli malcontenti e, soprattutto, tutta una gioventù assetata di ideale e di azione, aspiravano a trovare qualcuno che li sollevasse, a loro volta, come Mussolini aveva fatto nella sua patria.
Anche in Germania, l’esempio italiano non mancò di contribuire alla vittoria di Hitler. Certo, Hitler sarebbe bastato a se stesso. Possedeva un senso prodigioso delle folle e dell’azione, un coraggio strepitoso. Rischiava la pelle ogni giorno. Picchiava. Lanciava idee-forza elementari. Infiammava le masse sempre più veementi. Era scaltro e, nello stesso tempo, un organizzatore straordinario. Il padre di Hitler era morto troppo presto, una mattina, colpito da apoplessia, cadendo con la testa in avanti nella segatura di un caffè. Sua madre si era spenta, tubercolosa, pochi anni dopo. A sedici anni era orfano. Nessuno l’avrebbe mai più aiutato. Avrebbe dovuto sfondare completamente solo. Non era nemmeno cittadino germanico. Nondimeno stava per diventare, in dodici anni, il capo del più importante partito del Reich, poi il suo cancelliere.
Nel 1933, era il padrone, era salito al potere, democraticamente, sottolineiamolo, approvato dalla maggioranza assoluta dei cittadini tedeschi e da un Parlamento eletto secondo le norme democratiche, nel quale democristiani e socialisti avrebbero approvato, con un voto positivo, la fiducia al suo nascente governo.
Dei plebisciti, sempre più impressionanti, avrebbero riaffermato questo sostegno popolare. E quei plebisciti erano sinceri. Si è preteso il contrario, in seguito. E’ materialmente falso. Nella Saar, provincia tedesca fin allora occupata dagli Alleati, che vi si erano installati dall’autunno del 1918, il plebiscito fu organizzato e sorvegliato da delegati stranieri, appoggiati da truppe straniere. Hitler non fu nemmeno autorizzato a fare atto di presenza in quella regione durante la campagna elettorale. Eppure ottenne nella Saar esattamente lo stesso voto trionfale (più dell’ottanta per cento dei voti) del resto della Germania. Proporzioni identiche si ritrovarono a Danzica e a Memel, città tedesche, esse pure sotto il controllo straniero.
La verità è la verità: l’immensa maggioranza dei Tedeschi, o si era schierata dietro a Hitler già prima della sua vittoria, oppure, in un entusiasmo crescente senza sosta, si era aggregato alle sue truppe, come fecero milioni di ex-socialisti ed ex-comunisti, convinti dei benefici del suo dinamismo.
Aveva rimesso al lavoro migliaia di disoccupati.
Aveva iniettato una forza nuova a tutti i settori della vita economica. Aveva ristabilito dovunque l’ordine sociale e politico, un ordine virile, ma anche un ordine felice. La fierezza di essere tedesco risplendeva in tutto il Reich. Il patriottismo aveva cessato di essere una tara, esso si spiegava come uno stendardo glorioso.
Pretendere il contrario, affermare che Hitler non era seguito dal suo popolo è deformare grossolanamente lo stato d’animo di allora e negare l’evidenza dei fatti.
All’estremo opposto, ed esattamente nella stessa epoca, la Spagna del Frente Popular stupiva l’osservatore straniero con le sue violenze assurde e con la sua sterilità. Ben prima di perdere la guerra militarmente, il Frente Popular aveva, in Spagna, perso la guerra socialmente. Il popolo non vive di fucilate sparate su borghesi più o meno ottusi o su preti grassocci, né di scheletri di carmelitane dissotterati per essere esposti in via di Alcalà.
Il Frente Popular era stato incapace — ed era ciò, tuttavia, che importava — di creare in Spagna non fosse che un abbozzo di riforma sociale. Non lo si ripeterà mai abbastanza ai giovani operai spagnoli: i loro padri, dal 1931 al 1936, non conobbero null’altro, sotto i loro capi rossi — tra le sparatorie degli assassini e gli incendi di conventi — che dei salari scandalosamente miseri, l’instabilità dell’impiego, l’insicurezza di fronte alla malattia, all’infortunio, alla vecchiaia.
Il Frente Popular avrebbe dovuto — era l’occasione o mai più di provare che i politicanti di Sinistra difendevano il popolo! — dare alla Spagna operaia dei salari che le avrebbero permesso di vivere, delle assicurazioni sociali che avessero garantito materialmente la sua esistenza, minacciata dall’egoismo capitalista, dagli scioperi e dalle crisi, che avessero assicurato alla famiglia del lavoratore la sicurezza in caso d’infortunio o di decesso di quest’ultimo.
Socialmente, il Frente Popular fu uno zero insanguinato. Nel 1936, il suo fallimento sociale e politico di fronte alle realizzazioni sociali, potenti, sempre accresciute, del fascismo e dell’hitlerismo, balzava agli occhi di tutti gli spettatori obiettivi.
Esso non poteva che mettere maggiormente in risalto i benefici delle formule di ordine, politico e sociale, la malvagità delle formule demagogiche, comuniste o socialiste, fosse in una Mosca schiacciata — e senza tregua purgata — da Stalin, o nell’anarchia di Madrid dove il Frente Popular portava a compimento, con una vigliaccheria conigliesca, il rapimento in piena notte e l’assassinio a raffiche di mitra, da parte dei suoi poliziotti, del capo dell’opposizione, il deputato Calvo Sotelo.
In questa atmosfera, la crisi non poteva che precipitare in seno ad ogni paese d’Europa. Mi aiutò, è certo, a piantare in un batter d’occhio il mio stendardo sui bastioni della vecchia roccaforte politica, decrepita nel mio paese come lo era allora in tutti i paesi del continente.
Certo, anch’io, ero nato per questa lotta.
L’occasione, le circostanze aiutano. Esse sgomberano il terreno ma non sono sufficienti. Bisogna possedere il fiuto politico, il senso deH’azione, cogliere le occasioni, inventare, rinnovare la propria tattica strada facendo, non avere mai paura di nulla e, soprattutto, essere infiammati da un ideale che nulla può fermare.
Mai, nel corso di tutta la mia azione pubblica, ho dubitato, un secondo, del mio successo finale. Chi, davanti a me, avese manifestato la minima riserva a questo proposito, mi avrebbe stupito.
Ho, almeno, potuto disporre di collaboratori straordinari, o di mezzi materiali imponenti?
In nessun modo. Assolutamente no! Non sono stato spinto da nessuna personalità, neanche di secondo ordine. Ho raggiunto il mio grande trionfo elettorale del 1936 pescando dei candidati ovunque, senza aiuti finanziari di nessun dirigente e di nessun gruppo economico.
Ero nato in fondo alle Ardenne belghe, in una piccola borgata di tremila abitanti.
Vivevamo stretti, i miei genitori, buoni borghesi provinciali, e sette tra fratelli e sorelle, nel cuore delle nostre montagne. La vita di famiglia. Il fiume. Le foreste. I campi.
A quindici anni, ero entrato, a Namur, nel collegio dei gesuiti. Fin d’allora, scrivevo. E anche, parlavo talvolta in pubblico. Ma quanti altri scrivono o parlano! A venti anni, studente di diritto e di scienze politiche all’università di Lovanio, avevo pubblicato qualche libro. Pubblicavo un settimanale. I miei articoli erano letti. Ma, infine, tutto ciò era ancora suppergiù normale.
Poi l’avviamento si accelerò.
Rilevai una casa editrice dell’Azione cattolica, che si chiamava REX (Christus-REX), da cui nacque il settimanale REX che doveva raggiungere, in due anni, tirature veramente favolose per il Belgio di allora: 240.000 copie vendute, per ogni numero.
Avevo dovuto arrangiarmi. Lanciare attraverso un paese un grande movimento politico appare a tutti un’impresa che richiede molti milioni. Non possedevo denaro, è semplicissimo.
Ho esordito pubblicando a tamburo battente degli opuscoli, legati ad ogni avvenimento un po’ sensazionale.
Ne compilavo il testo in una notte. Li lanciavo clamorosamente, come una marca di sapone o di sardine, a suon di imponenti inserzioni, a pagamento, nella grande stampa. Avevo messo su, rapidissimamente, un gruppo di quattordici propagandisti motorizzati (moto gratuite, compensate con la pubblicità nelle mie prime pubblicazioni). Correvano in tutto il paese, appioppavano i miei opuscoli ai dirigenti degli stabilimenti scolastici cui piaceva intascare provvigioni considerevoli affidando la diffusione dei miei scritti alla loro marmaglia. I conducenti dei miei bolidi ruggenti erano pagati, essi pure, unicamente secondo l’ammontare delle loro vendite. I miei opuscoli raggiunsero presto tirature molto elevate: mai meno di 100.000 copie; e perfino, una volta, 700.000 copie.
Dunque, andava bene.
Quando il mio settimanale REX uscì, disponevo già, oltre ai miei agenti motorizzati, di numerosi gruppi di propagandisti accaniti. Si battezzarono loro stessi Rexisti. Intrapresero la grande conquista diretta del pubblico, appostati dovunque alle entrate delle chiese e dei cinema. Ogni centro di propaganda di REX viveva con le sue provvigioni e sopportava, grazie ad esse, tutte le spese. Rapidamente la nostra stampa fu una fonte di entrate considerevoli, che coprivano tutte le spese della nostra azione.
Si può dire che lo sviluppo fulmineo di REX si ebbe così, grazie a una stampa scritta in maniera dinamica e venduta in maniera dinamica, pagata dai lettori che finanziavano loro stessi, completamente, la grande penetrazione del rexismo.
La nostra battaglia mi costrinse improvvisamente a creare un quotidiano, il Pays réel. Disponevo di diecimila franchi. Non un centesimo di più. Tanto da pagare un terzo dell’edizione del primo giorno. Bisognò sgobbare. Scrivevo io stesso l’essenziale del giornale, in condizioni impossibili. Il mio compito rappresentava l’equivalente di un volume di trecento pagine, ogni quindici giorni.
Ma il quotidiano sfondò, raggiunse, dopo la nostra vittoria, una tiratura sensazionale: nell’ottobre del 1936, più di 200.000 copie di media giornaliera, verificata con verbale di usciere, ogni notte.
Ma la conquista politica di un paese deve potere appoggiarsi sulla parola altrettanto che sullo scritto. Non si era mai visto un movimento politico, in Belgio, o altrove, riunire degli ascoltatori senza che ciò costasse molto caro agli organizzatori. Ora, sborsare tali somme o anche somme minori, mi era materialmente impossibile. Mi occorreva dunque raggiungere gli ascoltatori come avevo raggiunto i lettori, senza alcuna spesa. Cercavo il pubblico che non mi sarebbe costato nulla.
Nei grandi comizi marxisti, il contradditorio era offerto sui manifesti, sebbene nessuno si presentasse mai a questo scopo, tenendo ognuno alle proprie ossa e alla propria integrità. Mi ci recavo, puntuale. Ogni sera, ero là.
— E’ il Leone! — mormorava la folla. Rapidamente un pubblico considerevole mi conobbe. E le risse scatenate per mettermi a punto mi aiutarono potentemente, ripercorse dalla stampa. Le mie ossa, a parte una frattura del cranio nel 1934, erano rimaste sorprendentemente intatte. Nel frattempo, i nostri propagandisti, infiammati dal loro ideale, resi euforici da quella azione diretta e da quei rischi, erano diventati migliaia: i ragazzi più ardenti, le ragazze più belle e meglio piantate.
— Il Rex-Appeal — avrebbe detto il re Leopoldo.
Potei allora preparare i miei comizi. Comizi che, fin dal primo giorno, furono a pagamento. Non si era mai visto una cosa del genere, ma tenni duro. Fino all’ultima sera delle campagne elettorali, l’ascoltatore belga sganciò, ogni sera, cinque franchi, almeno, per ascoltarmi. La spiegazione era stata chiara: una sala costa tanto; la pubblicità, tanto; il riscaldamento, tanto; l’illuminazione, tanto; totale: tanto; ognuno paga la sua parte; è chiaro e netto.
Tenni così, in tre anni, parecchie migliaia di comizi, diversi ogni sera, di due ore o più ogni volta, sempre con contradditorio. Un giorno, parlai quattordici volte, dalle sette del mattino fino alle tre del mattino della notte seguente.
Sceglievo le sale più grandi, come lo Sport-Paleis ad Anversa (35.000 posti) e il Palais des Sports di Bruxelles (25.000 posti). Più di 100.000 franchi di entrate ogni volta ! Vi tenevo anche sei grandi raduni, per sei giorni di seguito, che chiamavo la Sei Giorni, giacché battevo questo record nel più grande recinto ciclistico del Belgio: 800.000 franchi di entrate! Prendevo in affitto delle officine in disuso. Organizzai, all’aria aperta, a Lombek, alle porte di Bruxelles, un comizio al quale accorsero più di 60.000 ascoltatori: 325.000 franchi di entrate!
Questo denaro m’importava poco. Mai, come capo del REX, ho percepito un solo centesimo di retribuzione. Ma possedevamo così, dovunque, senza aprire la borsa, un secondo e formidabile mezzo d’azione.
L’immaginazione fece il resto. I nostri propagandisti verniciavano i ponti, gli alberi, le strade. Dipinsero persino mandrie intere di mucche che sfoggiarono, sui loro fianchi, lungo le linee ferroviarie, le tre enormi lettere di REX, mettendo di buonumore i passeggeri dei treni, incantati dalTimprovviso spettacolo. In un anno, senza l’appoggio di nessuno, a forza di accanimento, di sacrifici e di fede, avevamo, in qualche migliaio di giovani ragazzi e ragazze, rivoluzionato tutto il Belgio. Nei loro pronostici elettorali, i vecchi politicanti non ci concedevano nemmeno un eletto: ne avemmo trentuno, in una sola volta! Taluni erano proprio dei ragazzi. Quello che trombò il ministro della Giustizia, a Renaix, aveva appena raggiunto la maggiore età elettorale, in quei giorni ! Era stata fatta la prova che con la volontà e soprattutto quando un ideale potente spinge in avanti, tutto può cadere in rovina e tutto si può conquistare. La vittoria è di chi vuole e di chi crede.
Dico ciò per incoraggiare i giovani, ardenti, che dubitano del loro successo. Ma, in realtà, chi dubita di farcela non può farcela. Colui che deve forzare il Destino porta in sé forze sconosciute che sapienti perspicaci e tenaci scopriranno certamente un giorno, ma che non hanno nulla a che vedere con il meccanismo, fisico e psichico, dell’essere normale.
— Se fossi un uomo come gli altri, adesso starei bevendo un boccale di birra al Caffè del Commercio — mi aveva risposto Hitler, un giorno in cui gli raccontavo, in tono beffardo, che il genio è normalmente anormale. Mussolini non era, neppure lui, un essere « normale ». Napoleone non lo era stato prima di lui. Quando le forze anormali che lo sostenevano lo abbandonarono, la sua vita pubblica rovinò al suolo, come un’aquila cui si siano falciate le ali, repentinamente.
Mussolini, durante l’ultimo anno della sua vita — era visibile ed era tragico — galleggiava come una zattera senza bussola, su un mare che l’avrebbe inghiottito in qualunque momento. Quando l’ondata mortale venne egli l’accolse senza reazione. La sua vita era finita da quando le forze sconosciute che l’avevano fatto Mussolini avevano cessato idi essere il suo sangue segreto. Il sangue segreto. E’ questo. Gli altri hanno un sangue comune, analizzato, catalogato. Diventano, quando riescono, degli onesti generali alla Gamelin, che conoscono tutte le fila dello stato maggiore e le tengono irreprensibilmente, o degli uomini politici dal colletto inamidato, alla Poincaré, meticolosi, diligenti e ordinati come esattori di tasse. Non rompono nulla. L’umanità normale sbocca, al suo stadio superiore, su degli sgobboni il cui compito sia lo Stato, o l’Esercito, o la costruzione impeccabile di un grattacielo, di una autostrada o di un ordinatore. Al di sotto di questi spiriti normali che si sono distinti, pascola l’immenso gregge degli esseri normali che non si sono distinti. L’umanità, sono loro: alcuni miliardi di esseri umani dal cervello medio, dal cuore medio, dal tran-tran medio.
Ed ecco che un giorno, improvvisamente, il oielo di un paese è attraversato dal grande lampo folgorante dell’essere che non è come gli altri, di cui non si sa ancora esattamente ciò che ha di eccezionale, ma che ha qualcosa di eccezionale. Quel lampo colpisce, nella folla immensa, forze della stessa origine della sua, ma atrofizzate e che, ricevendo l’impulso emittente, si rianimano, rispondono, corrispondono, su piccola scala, sentendo, nondimeno, la loro vita trasformata. Sono animati, sollevati da fluidi che non avevano mai raggiunto la loro vita normale e di cui non avevano mai sospettato che avrebbero passato da parte a parte la loro esistenza.
L’uomo di genio è quella formidabile stazione emittente e ricevente, si chiami Alessandro o Gengis Khan, Maometto o Lutero, Victor Hugo o Adolf Hitler. I geni, trascinatori di popoli, i geni, maghi coloriti, di capacità e di parola, sono proiettati, a gradi più o meno intensi, verso destini ineluttabili. Certi pazzi sono pure, senza dubbio, dei geni, dei geni che sono slittati, nel potenziale misterioso dei quali un ingranaggio deve essere stato alterato, o mal incastrato in partenza. Effettivamente, di questa natura dei geni, gli scienziati, i medici, gli psicologi non sanno ancora quasi nulla. Ma un genio non si crea, non è il risultato di un lavoro enorme, dipende da uno stato fisico e psichico finora ignorato, da un caso speciale che deve prodursi una volta su centomila, o su un milione, o su cento milioni. Da cui lo sbigottimento del pubblico. E il lato grottesco dei giudizi espressi dall’essere banale sull’essere straordinario che lo supera in tutto. Quando sento gente dalla mente ristretta emettere con sicurezza giudizi olimpici su Hitler o allo stesso modo su Van Gogh, o su Beethoven, o su Baudelaire, ho talvolta voglia di scoppiare a ridere.
— Che cosa ne capiscono ?
L’essenziale sfugge loro, perché non possiedono attivamente quella forza-mistero che è l’essenziale del genio, sia del genio totale, dal massimo survoltaggio, sia del genio limitato perché il suo potere di espansione è meno carico, meno denso, meno ricco, o che è orientato verso un settore limitato.
Il genio, buono o cattivo, è, lo si voglia o no, il lievito della pesante e monotona pasta umana. Questa ricadrebbe su se stessa senza tale stimolante. Questo lievito è indispensabile. E la Natura non lo dispensa che molto avaramente. Bisogna ancora che vi siano le circostanze, che permettano a queste molecole di vita superiore di fecondare la natura uniforme, mille volte più considerevole, materialmente, ma che, da sola, è vana, vegeta, non rappresenta nulla. Senza il genio che, di quando in quando, lo attraversa, il mondo sarebbe un mondo di commessi. Solo il genio fa sì che l’universo esca talvolta dalla sua mediocrità e superi se stesso. Spento il lampo, ricade nel grigiore da cui, soltanto, un nuovo lampo lo farà forse un giorno sorgere di nuovo.
E’ per questo che l’epoca dei fascismi, nella quale scaturirono geni autentici, fu avvincente. Tra circostanze eccezionali erano sorti trasformatori di popoli dall’ascendente eccezionale. Il mondo stava per conoscere, per causa loro, una delle più straordinarie svolte della sua Storia.
— E ‘ andato tutto male ?
Che ne sappiamo ?
Alla caduta di Napoleone, tutto, pure, si credeva era andato male. Eppure, Napoleone ha segnato l’umanità per sempre. Senza Hitler, saremmo noi anche semplicemente alla soglia dello sfruttamento dell’atomo? Esisterebbe un solo razzo ? Ora, il cambiamento radicale della nostra epoca parte da loro. Lo scaricarsi del genio di Hitler, se ha provocato — ed è tutto un insieme da analizzare — dei disastri, ha anche certamente apportato una trasformazione radicale nel riorientamento dell’umanità. Il nuovo universo, scaturito dal dramma hitleriano, ha, in alcuni anni, provocato un cambiamento irreversibile delle condizioni di vita, del comportamento degli individui e della società, della scienza e dell’economia, dei metodi e delle tecniche di produzione, cambiamenti più considerevoli di tutti quelli apportati degli ultimi cinque secoli.
Hitler non è forse stato che la cartuccia di dinamite che ha scatenato l’esplosione gigante del nostro tempo e provocato il rivolgimento del mondo contemporaneo. Ma il rivolgimento ha avuto luogo. Senza Hitler, saremmo rimasti, forse ancora per centinaia di anni, gli stessi piccoli borghesi calmi che eravamo nel primo quarto di secolo.
Dal 1935, la messa in orbita del satellite Hitler era inevitabile. Il genio, non si può fermare. Durante il conto alla rovescia, ogni paese stava per partecipare, a suo modo, e spesso inconsciamente, a questo sconvolgimento fantastico, certi comportandosi come poli negativi — la Francia e l’Impero britannico, per esempio — altri costituendo i poli positivi, ognuno di essi accoppiando i pezzi del meccanismo da cui sarebbe scaturito il mondo del futuro.
Ma, nel 1936, quale indovino avrebbe immaginato che il mondo vecchiotto in cui viveva stava per conoscere un così totale mutamento? Hitler, tuonando con le forze sconosciute che erano la sua autentica vita, si rendeva proprio esattamente conto del destino che lo attendeva, e che ci attendeva tutti? …
Io, come gli altri, non vedevo ancora che il mio popolo da sollevare dalle paludi politiche, da salvare, tanto moralmente che materialmente. Nel 1936, il paese, la patria erano ancora, dovunque, l’alfa e l’omega di ogni cittadino. Un Primo ministro francese come Pierre Laval non aveva mai trascorso un giorno della sua vita in Belgio, a duecento chilometri da Parigi! Mussolini non aveva mai visto il Mare del Nord. Salazar ignorava il colore del Mar Baltico.
Mi ero recato, sì, in Asia, in Africa, in America latina. Avevo vissuto in Canadà e negli Stati Uniti. Ma non ne parlavo molto, poiché ciò mi sembrava ben poco serio, manifestando quasi un non poter stare fermo.
Effettivamente, lo spirito internazionale, e anche 1o spirito europeo non esistevano. L’unico organismo mondiale, la Socieà delle Nazioni, a Ginevra, era una vecchia signora chiacchierona, inutile, di cui la gente garbata parlava con condiscendenza. Aveva radunato, in quasi venti anni, i principali uomini di Stato europei. Un Briand vi aveva vagamente intravisto l’Europa. E ancora, la sua concezione era molto evanescente. Ma 11 caso era pressappoco unico. L’Europa, senza il fenomeno Hitler, sarebbe rimasta a quel punto, senza dubbio ancora a lungo, agitandosi ogni paese nel prato del suo territorio particolare.
In meno di tre anni, il vecchio continente avrebbe subìto un mutamento totale. Avrebbe avuto appena il tempo di chiudere gli occhi che il fungo Hitler si sarebbe dispiegato, grandioso, spaventoso, al di sopra dell’Europa. Lo sparpagliamento avrebbe invaso ogni angolo del cielo, fino al raso dei più lontani oceani.
CAPITOLO IV
L’Europa scoppia.
— Se aveste preso in tempo il potere in Belgio, avreste potuto impedire la Seconda Guerra mondiale ?
A prima vista, la domanda sembra veramente strampalata poiché il Belgio é un fazzoletto gettato al nord-ovest del continente. I suoi 30000 kmq rappresentano poca cosa. E gli interessi in gioco, tanto da parte germano-italiana che da parte franco-inglese erano giganteschi. Allora?…
Ebbene, quell’« allora » non è tanto problematico quanto lo possa sembrare di primo acchito. Tra i due blocchi dell’Europa occidentale che stavano per azzuffarsi a corpo a corpo, il solo paese capace di costituire una barriera, o un luogo di incontro dei grandi rivali, era, tuttavia, il Belgio.
Insediato alla testa dello Stato, disponendo del solo mezzo di propaganda che era, in quell’epoca, la radio, sarebbe stato possibile, aggrappato al microfono ogni giorno, di contrastare, nella Francia del Front populaire, le violente campagne belliciste che cercavano di mettere definitivamente Parigi contro il Terzo Reich.
I bellicisti francesi non erano che una minoranza. Una piccolissima minoranza. Lo si vide al momento degli accordi di Monaco nel settembre 1938, in seguito ai quali il firmatario francese, il ministro Daladier, onesto ubriacone colto, che si attendeva di essere costellato di pomidoro e di uova poco fresche sbarcando all’aeroporto del Bourget, fu acclamato dal popolo parigino, con una frenesia che lo lasciò balbettante e inebetito.
Lo si vide ancora al tempo della guerra di Polonia. Il Francese, malgrado le forti tracannate di vino di rigore, partì alle armi con riluttanza. Combattè male nel 1940, non solamente perché la strategia di Hitler surclassò i suoi stati maggiori, impacciati e in ritardo di un secolo, ma perché non comprendeva nulla circa gli scopi di quella guerra, e perché il morale mancava.
Illuminato ogni giorno, fin dal 1936, il popolo francese avrebbe, forse, compreso il problema della riunificazione di un Reich poco intelligentemente spezzettato dopo il 1918. Egli è vivo di spirito. Politicamente, afferra il ragionevole. Avrebbe potuto rendersi conto che il meglio sarebbe stato di proporre lui stesso, a tempo, un regolamento totale, su basi giuste, del problema delle frontiere tedesche e particolarmente di Danzica, città separata arbitrariamente dal Reich, che votava al 99% per Hitler, e alla quale, in nome della « democrazia », si proibiva di raggiungere la patria della sua storia, della sua razza, della sua lingua, e della sua scelta.
Allora, quale senso aveva il diritto dei popoli di disporre di se stessi?
D’altra parte, Danzica era il collo di bottiglia per il quale passava la via marittima della nuova Polonia.
Era impensabile, evidentemente, che un grande paese come la Germania rimanesse per sempre tagliato in due, che i suoi abitanti continuassero a non potersi riunire che per mezzo di vagoni piombati attraverso un territorio straniero.
La Polonia, da parte sua, aveva il diritto di respirare, di spingere la sua trachea fino al Baltico.
Nondimeno, quel pasticcio del Corridoio polacco non era senza rimedio.
La soluzione di un plebiscito amichevole, polacco¬tedesco, era relativamente semplice, avrebbe garantito ad ognuno dei due paesi, che fosse risultato vincitore o che fosse stato vinto nella competizione elettorale, un libero accesso per mezzo di un’autostrada che avrebbe unito le due parti del Reich, se i Tedeschi avessero perso, che avrebbe congiunto la Polonia al Mar Baltico, se i Tedeschi avessero vinto.
La ricerca di una tale soluzione, o di una abbastanza simile, o anche differente ma che avesse soddisfatto le parti in causa, era certamente più facile da mettere in cantiere che non gli stavaganti piani di coartazione imposti nel 1919 a popoli molto differenti, talvolta rivali, spesso nemici: a milioni di Cechi, Slovacchi, Ruteni, Ungheresi, sull’antico pendio boemo; a milioni di Polacchi, Ucraini, Ebrei e Tedeschi, in seno ad una Polonia ibrida, senza maggioranza nazionale. O a una Jugoslavia di Croati, Serbi e Bulgari che si odiavano e sognavano più di farsi a pezzi che di abbracciarsi.
Ma, ecco, non bisognava, per prospettare una soluzione valida al caso del corridoio di Danzica, aspettare che si fosse arrivati al 30 agosto 1939, quando i motori di alcune migliaia di carri armati già rombavano lungo tutta la Prussia orientale, la Pomerania e la Slesia!
La Francia ha dato, della sua abilità diplomatica, delle prove luminose, prima del 1914, liquidando le inimicizie anglo-francesi, annodando l’alleanza franco¬russa; le rinnovò sotto de Gaulle disimpegnandosi dalla politica dei blocchi. La stessa abilità avrebbe potuto, altrettanto bene, nel 1936, aiutare a preparare una liquidazione pacifica del rompicapo tedesco.
Eppoi l’Hitler del 1936 non era l’Hitler ruggente del 1939. L’ho incontrato a lungo in quell’epoca, poiché l’interesse del mio paese, terra di tramezzo, era di annodare relazioni intelligenti e precise con i conduttori del gioco europeo. Fu così che vidi discretamente tutti i principali statisti d’Europa, fossero francesi, come Tardieu e Lavai, o italiani come Mussolini e Ciano, o tedeschi come Hitler, Ribbentrop e Goebbels, o spagnoli come Franco e Serrano Suñer, o inglesi come Churchill e Samuel Hoare.
Nell’agosto 1936, avevo dunque visto Hitler a lungo. L’incontro era stato eccellente.
Era calmo e forte. Io, avevo ventinove anni, ed ero pieno di audacia.
— Non ho mai visto simili doni in un ragazzo di quell’età — aveva detto e ripetuto Hitler a Ribbentrop e a Otto Abetz dopo il nostro colloquio. Cito questo giudizio, non per piantarmi nel retrotreno delle penne di pavone, ma perché ci si renda conto che gli atomi adunchi avevano funzionato, che il discorso che gli avevo tenuto, per parecchie ore, alla presenza di Ribbentrop, lo aveva interessato.
Ora che gli avevo proposto? Né più né meno che un incontro Leopoldo III-Hitler, a Eupen-Malmédy, altro territorio separato dalla Germania dal trattato di Versaglia, questa volta a favore del Belgio, dopo un plebiscito truccato: coloro che non erano d’accordo erano stati costretti a notificare la loro opposizione per iscritto, apponendo la loro firma su un registro pubblico, temibile repertorio di futuri sospetti!
In quelle condizioni, chi avrebbe firmato?
Tutte le campane del Belgio avevano avuto un bel suonare per festeggiare quel sedicente ricongiungimento!
A lunga scadenza, tali procedimenti erano insostenibili. Bisognava, a mio avviso, prevenire le rivendicazioni e sotterrare l’ascia di guerra proprio là dove esisteva una possibilità di brandirla.
Hitler era stato immediatamente d’accordo sulla mia formula: un plebiscito la cui campagna preparatoria si sarebbe limitata a una assemblea delle popolazioni locali di fronte ai due capi di Stato che sarebbero venuti insieme sui luoghi, avrebbero spiegato pubblicamente il proprio punto di vista, in tutta cortesia; una seconda assemblea, identica, si sarebbe tenuta dopo il plebiscito acciocché, quale ne fosse il risultato, i due capi di Stato vi suggellassero la riconciliazione dei loro due popoli.
Se Hitler aderiva ad una soluzione così pacifica — che piacque anche a Leopoldo III quando andai a partecipargliela — avrebbe potuto, a maggior ragione, accettare, nel 1936, un dibattito concernente l’insieme delle frontiere austriache, ceche, danesi, ecc…, e, segnatamente, un accomodamento amichevole con la Polonia, riconciliata dal 1933 col Reich, e amica, d’altra parte, di una Francia che sarebbe stata, in quella occasione, l’agente vagheggiato di un regolamento definitivo.
Poco prima, il maresciallo Pétain e il maresciallo Goering s’erano incontrati, per l’appunto in Polonia. Nulla di sensato era dunque impossibile.
Non vi è uomo di Stato che non avesse deplorato, fin dal 1920, la mancanza di intelligenza delle decisioni prese, in seguito alla Prima Guerra mondiale, a proposito di Danzica, del Corridoio e della Slesia.
Le decisioni imposte allora erano state ingiuste, basate su dei dictat e su plebisciti falsati.
Studiata pacatamente, una soluzione assennata avrebbe dovuto farsi strada ben prima che non fossero in argomento l’Anschluss ed i Sudeti, tanto più che l’ambiente, in Polonia come in Germania, era favorevole alla collaborazione, al punto che quando il presidente Hacha, ripudiato dagli Slovacchi, ebbe affidato, il 15 maggio 1936, a Hitler, le sorti della Boemia, la Polonia del colonnello Beck partecipò militarmente all’investimento, impadronendosi della città e della regione di Tesehen. Quella Polonia, ben consigliata, si sarebbe difficilmente rifiutata a un dibattito serio con il suo alleato di quella stessa primavera.
Senza l’intervento provocatorio degli Inglesi alla fine dell’aprile 1939, che promettevano la luna al colonnello Beck, uomo tarato fisicamente e finanziariamente, questo accordo sarebbe stato negoziabile.
Dei richiami allo spirito di comprensione dei Francesi sarebbero potuti essere decisivi. Hitler aveva rinunciato pubblicamente e per sempre all’Alsazia – Lorena. Non desiderava in alcun modo incrociare il ferro con una Francia non assimilabile, cioè senza interesse per un conquistatore.
La Francia, da parte sua, non aveva nulla da guadagnare da tale zuffa. Tanto le terre feconde dell’Est potevano tentare Hitler — e si sarebbe dovuto orientarlo e incoraggiarlo in tale senso, liberando l’Ovest, per cento anni, dal pericolo tedesco — altrettanto una guerra, sterile io anticipo, con la Francia, aveva cessato di destare in lui il minimo desiderio.
Un capo del governo belga, figlio, nipote, e pronipote di Francesi, che spiegasse ai Francesi l’importanza vitale del ruolo di conciliatori, come avrei fatto senza tregua, piantato davanti ai microfoni della Radiodiffusione, avrebbe potuto colpire gli spiriti in Francia.
In ogni caso, avrei tentato l’impossibile.
Me ne vorrò fino alla morte di non aver conquistato il potere in tempo, anche se non mi avesse offerto che una minima probabilità di salvare la pace. L’avrei utilizzata al massimo. La passione di pervenirvi mi avrebbe dettato le parole che occorrevano. Il popolo francese è sensibile alle orchestrazioni della parola. Ed era maturo per il linguaggio che gli avrei tenuto.
Il più sbalorditivo è che, se non ho potuto prendere in tempo in mani salde, un potere che non avrei mai più abbandonato, mi si può credere, la preda mi sfuggì, per l’appunto a causa di Hitler. Sono stati i suoi interventi improvvisi in Austria, nei Sudeti, tra i Cechi, poi l’inizio della zuffa polacca che spaventarono il pubblico belga e misero a mal partito la mia ascensione finale. Ciò non toglie che mi si è dipinto mille volte, all’epoca, come uno strumento di Hitler, il giocattolo di Hitler. Non sono mai stato il giocattolo di nessuno, non più di Hitler che di un altro, nemmeno durante la guerra quando lottavo a fianco delle armate tedesche del fronte dell’Est. Gli archivi più segreti del Terzo Reich lo provano. Né nel 1936, né più tardi, né mai, non ho ricevuto da Hitler né un pfennig, né un ordine. Mai, d’altronde, ha provato ad influenzarmi in alcunché.
Viceversa, in seguito, quando le incertezze della guerra mi angosciavano, gliene ho dette « di cotte e di crude ». Il suo principale traduttore, il dottor Schmidt, che assisteva come interprete ai nostri colloqui, ha raccontato lui stesso, nella stampa, dopo la guerra, come parlavo al Führer con un vigore e una crudezza che nessun altro osò mai impiegare con un tale interlocutore.
Incassava molto bene, con un buon umore buffo.
— Léon — mi diceva durante la guerra, quando esigevo tutto per il mio paese e rifiutavo tutto in suo nome — finalmente non siete voi che collaborate con me, sono io che collaboro con voi!
Ed era abbastanza vero.
Il nostro paese, perché troppo piccolo, rischiava, in una Europa mal definita, di perdere la sua personalità. Sempre ho preteso che il carattere proprio del nostro popolo fosse rispettato in tutto: la sua unità, i suoi costumi, la sua fede, le sue due lingue, il suo inno nazionale, le sue bandiere. Non ho mai tollerato, durante tutta la campagna di Russia, che un Tedesco, per quanto simpatico fosse, esercitasse un comando tra le mie unità, o semplicemente ci parlasse in tedesco. Dovevamo prima imporci. Poi, si sarebbe visto.
Anche da Hitler, non conducevo le mie conversazioni che in francese (che Hitler non conosceva), il che mi dava, tra di noi, il tempo di riflettere bene mentre veniva tradotta la replica, già capita. Hitler non si lasciava completamente abbindolare.
— Fuchs! (volpe) — mi disse un giorno ridendo, dopo aver scoperto nel mio occhio uno sguardo malizioso. Ma non si formalizzava per i miei sotterfugi e mi lasciava soppesare a mio agio ognuna delle mie parole.
Nel 1936, tuttavia, non eravamo a tanto. Hitler era ancora per noi un tedesco lontano. L’era delle grandi operazioni di raggruppamento germanico non era stata ancora avviata. La rioocupazione della riva sinistra del Reno, logica, e che avrebbe dovuto essere concessa ai Tedeschi molto tempo prima, non aveva prodotto particolari sventure. Era stata passata rapidamente nel conto profitti e perdite.
Nel momento della vittoria di REX (maggio 1936), il barometro dell’Europa era piuttosto al bel tempo. Nel corso della nostra campagna elettorale, il nome di Hitler non era stato evocato una sola volta da alcun contradditore. Ci si era attenuti, in tutti i partiti belgi in lotta, a problemi di politica interna. Il nostro programma di allora — i testi ingialliti dagli anni esistono sempre — parla lungamente e duramente della piazza pulita da fare dei vecchi partiti, della riforma dello Stato (autorità, responsabilità, durata), del socialismo da edificare, della alta finanza da domare. Ma non vi è accennato nemmeno un abbozzo di programma internazionale.
Ancora per lunghi mesi dopo la nostra vittoria del 1936, la nostra posizione si limitò a caldeggiare una politica di neutralità che avrebbe disimpegnato il nostro paese da ogni alleanza pericolosa — de Gaulle ha agito diversamente, più tardi, di fronte ai due «blocchi» del dopoguerra? — e avrebbe mantenuto la nostra patria al di fuori delle contese che incominciavano a serpeggiare tra le democrazie vecchio stile (Francia, Inghilterra) e le democrazie di ordine nuovo (Germania, Italia). Sotto il nostro impulso, questa politica di neutralità divenne rapidamente — e ufficialmente — quella del Belgio.
In tutto ciò, nulla dunque che rivelasse un orientamento internazionale del rexismo in un senso filohitleriano. Certe grandi riforme del nazionalsocialismo e del fascismo ci interessavano vivamente. Ma le esaminavamo da osservatori, e nulla di più.
A dire il vero, le mie affinità erano francesi. La mia famiglia era di laggiù. Mia moglie era di laggiù ed aveva conservato la sua nazionalità. I miei figli avrebbero potuto optare un giorno per il paese di loro scelta. Hanno, in seguito, tutti optato per la Francia. Dal 1936 al 1941, mi sono recato una volta a Berlino, ma cento volte a Parigi!
Pure, nessun aiuto dalla Germania, nessun denaro dalla Germania, nessuna parola d’ordine dalla Germania! Eravamo neutrali. Né con la Germania, né con la Francia; né contro la Germania, né contro la Francia: la neutralità più rigorosa, di fronte a una rissa in cui il nostro paese non aveva nulla da guadagnare e in cui, preso tra i due battenti agitati con violenza, non poteva che ricevere brutti colpi, dagli uni come dagli altri.
Tuttavia, nella primavera del 1936, un tale alterco non era ancora chiaramente iscritto all’ordine del giorno europeo. Conoscemmo alcune settimane di tregua. Poi, nel corso dell’estate, la valanga precipitò.
Dapprima in Francia. Il Fronte Popolare riportò la vittoria elettorale. Il potere passò al capo della coalizione delle sinistre, Léon Blum, nemico per le sue convinzioni marxiste e per giudaismo, di tutto ciò che era hitleriano. Il suo astio — e l’accecamento che dà l’astio — erano tali che aveva predetto il fiasco di Hitler proprio prima che questi arrivasse al potere.
Una serie di ministri del suo gruppo, uomini e donne, erano pure ebrei. Non si può dire che la loro passione per la Francia fosse esagerata: uno di loro, Mefistofele occhialuto, chiamato Jean Zay, aveva perfino, precedentemente, trattato la bandiera francese di «netta-culo». Ma la loro passione antihitleriana era forsennata, senza limiti. La tensione salì subito.
Le campagne di odio e di provocazione antihitleriane, sotto tali ispirazioni, si diffusero presto e efficacemente.
Appoggiato in fondo dalla propaganda israelita, il Front Populaire si avventò contro chiunque, aH’estero come pure in Francia, fosse di destra. Mi fece descrivere, dalla sua stampa, solo perché ero neutralista, come un seguace di Hitler. Impegnò a fondo contro di me gli agenti segreti del Deuxième Bureau francese, estremamente numerosi ed attivi in Belgio dove riversavano abbondantemente, sulla stampa e sugli ambienti mondani, spennati e avidi di denaro da spendere, i milioni della corruzione.
Un mese dopo, seconda scarica elettrica: la Spagna nazionale insorgeva contro il Frente Popular, fratello di letto del Front Populaire francese.
La Spagna e il Belgio, non essendo vicini, non avevano e non potevano avere, in nulla, interessi opposti. Il sollevamento era giusto, sano, necessario, come l’episcopato spagnolo poi il Vaticano l’avrebbero proclamato nel corso dello stesso anno. La guerra civile è l’estrema risorsa, ma i furori del Frente Popular avevano costretto la Spagna a quest’ultimo ricorso.
La Falange, di ispirazione cattolica, era molto vicina al rexismo, politicamente e spiritualmente. Io stesso ero stato nominato, nel 1934, da parte di José Antonio Primo de Rivera, il n. 1 della Falange dell’estero. L’esercito spagnolo, che si era sollevato, difendeva gli stessi ideali patriottici e morali del Rexismo.
Eppoi! Se il Front Populaire francese, se i Sovietici, se tutta l’internazionale marxista prendevano partito per degli incendiari e degli strangolatori, se li sostenevano freneticamente, se li colmavano di aerei francesi e di carri armati russi, se mandavano loro migliaia di reclute — degli illuminati alla Malraux, dei macellai sanguinosi alla Marty, degli avanzi di galera — perché noi, patrioti e cristiani, non avremmo dovuto provare simpatia per dei patrioti e cristiani, braccati e perseguitati durante cinque anni di terrore e ridotti a dover insorgere in armi per sopravvivere? …
Ciò non toglie, un primo focolaio di guerra europea si era acceso. Non compariva nessun pompiere che avesse potuto innaffiare il braciere nascente. Anzi, l’incendio si allargava. Tedeschi e Italiani, comunisti russi e Francesi rossi passavano dagli scambi di parole agli scambi di esplosivi, pretendevano di servirsi del campo di battaglia spagnolo per regolare col coltello il loro contenzioso.
Internazionalmente, il 1936 finiva male. I nervi erano a fior di pelle: il 1937 stava per segnare, in Europa, la svolta fatale.
A partire d’allora, Hitler, che non aveva molto da preoccuparsi dei piani elettorali del rexismo, stava regolarmente per darci dentro ogni volta che avremmo dovuto rinforzare la nostra azione guadagnando nuovi voti e, grazie a loro, salire pacificamente al potere.
Avevo una posizione ben definita: niente accesso al potere con la violenza. Mai, in tempo di pace, non ho portato su di me un’arma qualsiasi. Mi si poteva vedere a Bruxelles, ovunque fosse, senza protezione di alcun genere. Andavo a messa, al ristorante o al cinema con mia moglie: era la mia unica difesa, tutta grazia e gentilezza.
Facevo chilometri nei boschi con i miei figli. Ho sempre provato un ribrezzo fisico per tutto ciò che sa di giannizzero o di guardia del corpo. Ho sempre creduto alla mia stella. Non mi succederà mai nulla. E, ad ogni modo, una pistola nella tasca dei calzoni uscirebbe troppo tardi e non impedirebbe il danno.
Il popolo ha orrore di queste protezioni che hanno l’aria di sospetto. Bisogna fidarsi di lui, senza esitare. Mi recavo da solo, in tram, ai peggiori comizi rossi. Gli incidenti non mancarono. Furono spesso buffi. Il mio metodo erano le buone. Il cuore del popolo è leale. E’ ai suoi sentimenti di ospitalità e di amabilità che bisogna fare appello, e non a una intimidazione che offende.
Come volevo conquistare le masse attraverso il cuore, senza ricorrere mai a un’ostentazione delle forze, così tutto il mio essere si opponeva a un ricorso alla forza armata per salire al potere nel mio paese.
Questa forza armata, l’ho avuta a disposizione; nell’ottobre 1936, il capo più famoso e più popolare dell’esercito belga, il generale Chardonne, mise, per iscritto, tutte le sue truppe a mia disposizione, mi offrì di condurle in treni speciali a Bruxelles. Il terreno sarebbe stato ripulito in un’ora dalla divisione di élite che erano i Cacciatori delle Ardenne. Il re — il suo segretario lo spiegò allo scrittore Pierre Daye, deputato rexista — avrebbe ordinato che non si reagisse.
Ringraziai il generale, ma mi rifiutai a una tale operazione.
Senza alcun dubbio, se avessi potuto indovinare come gli avvenimenti intemazionali stavano per prendermi di sorpresa, avrei accettato, Ci sarebbe stata pochissima resistenza da parte dei provveduti. Una volta presa la decisione, avrei, in ogni modo, infranto ogni ostacolo senza esagerare in riguardi: la salvezza del mio paese e la pace dell’Europa avrebbero avuto maggior valore ai miei occhi degli schiamazzi di qualche dirigente marxista, prontamente messo al fresco. Ma ero, in fondo a me stesso, sicuro di riuscire senza ricorrere a una soluzione di forza. La soluzione di mia preferenza, era la convinzione, l’adesione e il dono dati liberamente col proprio consenso, con entusiasmo.
A ventinove anni, folle immense si erano date alla mia causa. Qualche mese più tardi, i capi nazionalisti fiamminghi avevano aderito alla mia concezione del Belgio federale. I loro deputati e i loro senatori, quasi altrettanto numerosi dei miei, avevano fatto blocco col rexismo. Perché questa progressione pacifica non sarebbe potuta essere condotta senza violenza fino alla vittoria definitiva? Ancora una elezione, due elezioni, alcune potenti campagne elettorali, e sarei arrivato al potere senza un colpo di fucile, appoggiandomi all’adesione e all’affetto della maggioranza assoluta dei miei compatrioti!
E’ mancato poco che vi arrivassi.
Se non vi sono pervenuto, è prima di tutto, e, soprattutto, lo ripeto, a causa di Hitler, passato dall’era del raddrizzamento interno del Reich, all’era delle rivendicazioni internazionali, facendo ripiegare in tutti i nostri paesi gli elettori presi dal panico verso gli ombrelli dei vecchi regimi conservatori. All’inizio deH’anno 1937, la disputa si era terribilmente aggravata in Europa, attizzata sempre più violentemente dalle incessanti spacconate del Front Populaire francese. Hitler rispondeva ai suoi nemici lanciando contro di loro le più fragorose imprecazioni, i più crudeli sarcasmi, le più esplicite minacce.
In sei mesi, l’Europa si trovò tagliata in due campi. Non che vi si fosse schierata: fummo schierati. Noi che non avevamo alcun legame, di nessun genere, né politico né finanziario, col Terzo Reich, fummo buttati, come un fagotto sulla banchina di una stazione ferroviaria, nel clan tedesco in cui, tuttavia, non volevamo atterrare a nessun costo.
Odo sempre, all’uscita di un comizio di sinistra, durante 1’inverno 1936-1937, la voce di un manifestante rosso che mi lanciò — era la prima volta — il grido: A Berlino! Era una calunnia integrale. Mi voltai, inquieto, verso i miei amici presenti. — Brutta cosa quel grido. L’indomani, tutta la stampa marxista lo ripeteva. D’ora in avanti, saremmo catalogati, nonostante le nostre incessanti proteste, come gli uomini di Berlino!
Ma la catastrofe suprema fu che Hitler, furente per le campagne condotte ovunque contro di lui, aveva incominciato a perdere la pazienza, a fare la voce grossa, a scagliarsi.
E ogni volta, il suo attacco, sia che fosse diretto verso il Danubio austriaco, sia verso ile montagne dei Sudeti, o verso i bei ponti barocchi di Praga, cadde, sempre, come automaticamente, nel bel mezzo delle campagne elettorali di REX che avrebbero potuto trascinare il pubblico belga dietro di noi.
Il Belga — ed è comprensibile — aveva conservato dell’invasione del 1914, che era stata tanto ingiusta quanto crudele, un raccapricciante ricordo. Ogni irruzione militare della Nuova Germania in un paese vicino, anche se questo ingresso era stato pacifico, anche se era stato accettato, perfino accolto con entusiasmo come in Austria, metteva l’elettorato belga in apprensione.
A Berlino! A Berlino! — ci gridavano in coro, sicuri dell’effetto dello slogan, gli attivisti dell’estrema sinistra! Il buttarci vigliaccamente quella calunnia in faccia, era sconvolgere, in piena impunità, il corpo elettorale, tanto vallone quanto fiammingo. A Berlinoì quando la suddetta Berlino, con le sue violenze internazionali, gettava invariabilmente il panico, nel momento decisivo, tra il pubblico che ci accanivamo a conquistare.
Quando sfidai il Primo ministro belga, Van Zeeland, nel 1937, a una autentica elezione-plebiscito a Bruxelles, l’urlo «A Berlino!» dilagò durante tutta la campagna. Essa si chiuse con un formidabile colpo di pastorale che mi assestò l’arcivescovo di Malines, ancora più antihitleriano di Léon Blum e di tutti i comitati giudei messi insieme.
Il cardinale Van Roey era un colosso, contadino fiammingo tagliato con l’accetta di silice, «tacito», testardo, che spandeva, sotto 1 suoi fronzoli, densi odori tenaci. Certi suoi fedeli che non l’ammiravano che a metà, lo avevano battezzato il Rinoceronte. Timida, la Società Protezione Animali non aveva protestato.
Il suo palazzo arcivescovile, di una noia opprimente, era abitato da gobbi, strabici, zoppi, servitorame lugubre e silenzioso reclutato al prezzo più basso. Di fronte allo scalone d’onore di legno incerato, schiamazzava un pollame disparato.
— Le mie galline — mormorava lugubremente l’arcivescovo, evidentemente senza pensare male (il termine poule -gallina- nel francese popolare, viene anche usato nei significati di «fidanzata», «amante», «donna di facili costumi», da cui il doppiosenso cui fa riferimento il commento dell’Autore.NdT).
Sono le uniche presentazioni alle quali si dedicava.
L’aspetto eternamente accigliato, dava prova, in ogni cosa, di un fanatismo elementare, integrale, come se avesse dominato tribunali dell ‘Inquisizione e roghi del XVI secolo. Non aveva mai letto una sola copia di un giornale non cattolico. Solo il pensarvi lo riempiva di orrore, rendeva ancora più imbronciato il suo volto confuso. Per lui, un non credente non presentava il più insignificante interesse. Porsi delle domande su ciò che un ateo potesse pensare non gli sarebbe neanche mai venuto in mente. Il non credente era, nella sua concezione dell’universo, un essere assolutamente insolito, un anormale.
Guidava la sua truppa vescovile come un sergente maggiore del Grande Federico avrebbe condotto delle reclute riluttanti alle esercitazioni. Respingeva con la sua scarpa sacra tutto ciò che non aveva l’aspetto devoto, l’occhio socchiuso, il naso cadente a banana, del fratello laico che si buttava in ginocchio, le braccia in croce, davanti al tavolo del suo superiore, alla minima infrazione della disciplina. Oggi lo si metterebbe, impagliato e preliminarmente deodorizzato, in un museo postconciliare. Ma, allora, egli regnava.
All’infuori del problema della sua impassibilità marmorea di fronte ai non credenti che, spiritualmente, mi sembrava caricaturale e mostruosa, avevamo, lui ed io, un uovo da pelare, grosso come se fosse stato deposto da uno struzzo, uno struzzo dalle uova d’oro. Per una questione di milioni di franchi rubacchiati allo Stato belga, avevo indisposto al massimo grado Sua Eminenza smascherando — fra venti altri — lo scandalo politico-finanziario nel quale aveva folleggiato a lungo e perfettamente a suo agio un ignobile piccolo pescecane di banca, chiamato Philips, gnomo cremisi, dall’enorme naso sovrastampato da una verruca violacea e granulata come una mora.
Questo Philips innaffiava con larghezza (sei milioni di franchi nel 1934) la gerarchia insottanata che costituiva l’armatura della rete di propaganda della sua banca. Era tanto più generoso in quanto, grazie alla corruzione del partito cattolico al potere, si era fatto concedere dallo Stato (i colleghi socialisti si erano fatti aggiudicare, nella stessa epoca, similari sovvenzioni a favore della loro Banca del Lavoro in dissesto) degli «interventi» finanziari astronomici. Avevo scoperto il brigantaggio. Avevo trascinato per i piedi i «banksters» in mezzo alla loro immondizia, facendoli volteggiare in quella melassa davanti al Belgio intero.
Philips non aveva potuto fare altro che citarmi in tribunale. Avevo vinto. A grandi colpi di scopa, l’avevo sbattuto fuori della vita politica belga, gettandolo letteralmente alla porta del Senato. Si era ritrovato sul selciato col suo disonore, la sua verruca violacea e l’impronta vigorosa dei miei stivali sulle sue vecchie natiche tremanti.
— Escremento vivente ! — gli avevo gridato, di fronte alla folla, notificandogli il suo P.P.C. Ora, questo vuotataschini era, ben manifestamente, il protetto e il protettore del cardinale primate del Belgio. Come si dice, con una certa libertà di linguaggio, fuori degli arcivescovadi, essi erano come culo e camicia. Il cardinale, che non sorrideva a nessuno, sorrideva a quell’orrida canaglia come a una apparizione angelica.
La loro intimità era tale che l’arcivescovo, casalingo come la ringhiera delle scale, aveva dormito fuori di casa in suo onore, passando una fine settimana nel sontuoso castello che il banchiere si era offerto in un grazioso vallone brabantino. Possedevo delle fotografie dei due compari che passeggiavano devotamente sotto la pergola, senza che si potesse sapere con precisione se recitassero insieme dei salmi biblici o se discutessero meno seraficamente di tangenti che si ripartivano tra vescovadi e decanati.
Qualche anno prima, quando quel banchiere era, politicamente, uno sconosciuto, il cardinale Van Roey aveva dato l’ordine ai parlamentari cattolici di cooptarlo come senatore, invece di un eminente intellettuale di destra, Firmin van der Bossche, già scelto.
Dopo questo, agguantare codesto Philips per il fondo dei calzoni, defenestrarlo, catapultarlo in aria finché non ricadesse al suolo, strisciante, tra i suoi milioni inutili, aveva, evidentemente, della profanazione!
Il mio crimine non aveva nome. Tutti i fulmini del cielo non sarebbero bastati a farmi espiare quella empia liquidazione.
Per colmo di tracotanza, non mi ero limitato a questo trattamento irrispettoso dei fondelli dell’eletto, dell’unto di Sua Eminenza. Avevo preso a stivalate, con il medesimo fuoco sacro, alcune decine di colleghi del suddetto senatore, tutti altrettanto bacchettoni, che avevano sempre l’aria di trasportare il SS. Sacramento quando avanzavano, predatori e licenziosi, nei luoghi malfamati dell’alta finanza.
Avevo mirato nel plotone di testa, tirando a bruciapelo in pieno volto al presidente del partito cattolico, il ministro di Stato Paul Segers, un piccolo sagrestano millantatore, sempre cianciante, dalla testa livida di spione che, tra un oremus e l’altro, aveva abbondantemente attinto alle casse dello Stato e, particolarmente, nella cassa del popolino, la Cassa di Risparmio.
Da parte del capo di questi grossi borghesi cattolici così soddisfatti della loro alta moralità, una simile ipocrisia era particolarmente ignobile. Erano i tipici rappresentanti di una élite marcia che recitava, pollice nel panciotto, l’alta virtù. Mi avventai sul Segers in questione. Feci irruzione sulla tribuna in cui presiedeva l’Assemblea annuale del suo partito. Era — gli dei, a volte, hanno deH’umorismo — un 2 novembre, giorno dei Morti.
Avevo condotto con me trecento pezzi d’uomini decisi a tutto.
Il ministro Segers, tra i quattro palmizi della tribuna ufficiale, fu da me trattato, per mezz’ora, come un sottoprodotto di concime composto.
Fu il più grande scandalo del Belgio di prima del 1940.
Come Philips, e con la stessa fortuna, Segers mi citò davanti ai tribunali, reclamando tre milioni di franchi di danni e interessi, destinati a rabberciare «il suo onore». Rabberciare cosa? Quale onore? A questi truffatori della politico-finanza, cosa restava che, da vicino o da lontano, avesse potuto avere ancora un rapporto qualsiasi con l’onore?
Il processo ebbe luogo. Non soltanto fui trionfalmente assolto (e Dio sa se ignoravo tutto, allora, degli accomodamenti della Giustizia!) ma Segers, sebbene fosse ministro di Stato, fu condannato come un volgare imbroglione.
— Siete la bandiera del partito cattolico! — gli aveva gridato, la vigilia del processo, un senatore chiamato Struye, dal busto di parrucchiere di sobborgo, sovrastato da una testa di rospo con gli occhiali. Il suddetto rospo, dopo la liberazione, colpito da una tardiva vocazione di uccisore da mattatoio, si sarebbe vendicato della condanna della sua «bandiera» mandando al palo di esecuzione più di cento nostri camerati. Il caso della democrazia belga di prima del 1940 era il caso di tutti i regimi democratici di allora, deboli, cioè offerti ad ogni tentazione.
Ognuno di essi conobbe in quel tempo i propri scandali : Barmat in Germania, Stavisky in Francia (ambedue ebrei, sia detto di sfuggita).
Ma le polizie s’incaricavano, ogni volta, di liquidare lo sporco affare con una notevole celerità. Barmat ora stato trovato, di mattina presto, morto nella sua cella, e Stavisky, in un altro primo mattino, si era fatto trucidare, a bruciapelo, dalla poliziottaglia che aveva circondato, di notte, la sua villa di Chamonix, liberando così da ogni maggiore preoccupazione l’orda di politicanti di Sinistra che avevano colmato Stavisky del denaro della Francia e, in contropartita, erano vissuti delle sue rapine.
In Belgio — e nessuno me lo perdonò mai — non avevo salvato gli Stavisky, valloni o fiamminghi, e non avevo tollerato che li si salvasse. Al contrario, avevo mantenuto le loro sporche teste marcie sott’acqua fino a che l’ultima bolla d’aria non fosse riemersa.
Ma ogni volta che liquidavo un politicante bacato che si fregiava del nome di «cattolico» — ciò che mi sembrava più scandaloso di tutto! — il mio nuovo delitto veniva registrato sul taccuino nero del cardinale.
Era tuttavia lui, buon Dio, che avrebbe dovuto farli volare attraverso le vetrate delle sue cattedrali!
Ma no, il colpevole, ero io, che, la scopa in pugno, braccavo da cattolico sincero, i truffatori della politico-finanza, inarcati dietro i confessionali e le pile dell’acqua-santa!
Il cardinale era intervenuto, nel dicembre 1936, in Vaticano, per strappare una condanna del Rexismo. Aveva fallito. Rimpiattato dietro i suoi zoppi, i suoi gobbi e i suoi guerci del palazzo dell’Arcivescovado, mi faceva la posta. Aspettava il suo momento.
L’elezione-plebiscito Van Zeeland-Degrelle dell’11 aprile 1937 stava per offrirgli la svolta d’angolo in cui, appostato in silenzio, me le avrebbe suonate al passaggio. Proprio all’ultimo minuto della campagna elettorale, quando ogni risposta era tecnicamente impossibile, fece repentinamente volteggiare nell’aria il suo pastorale medioevale.
Con una brutalità e soprattutto con una intolleranza che, certo, nessun pubblico cattolico non ammetterebbe più oggi, si scagliò, mitra in testa, in una rissa puramente elettorale, in cui il cattolicesimo non aveva strettamente nulla a vedere, lanciando urbi et orbi una dichiarazione fulminante che vietava in coscienza di votare per me!
Non era tutto. Egli vietava inoltre, e sempre in coscienza, cioè, sotto pena di peccato, di astenersi dal voto, o di votare scheda «bianca», ciò che si accingevano a fare moltissimi cattolici belgi che, non aderenti a REX, non volevano, tuttavia, dare il loro voto al candidato proposto dall’estrema sinistra e di cui, d’altronde si cominciava a sussurrare che era, lui pure, compromesso in una brutta faccenda finanziaria.
Lo scandalo sarebbe scoppiato la stessa estate della sua elezione. Saremmo allora venuti a sapere che il pupillo del cardinale non aveva esitato prima di appropriarsi clandestinamente, con alcuni complici, delle retribuzioni di alti funzionari della Banque Nationale, proprio morti sulle liste dello stato civile ma che Van Zeeland e la sua cricca mantenevano in perfetta salute sul foglio degli emolumenti della Banca ufficiale dello Stato belga!
Van Zeeland e ii suoi colleglli di brigantaggio chiamavano questa cassa nera «la cagnotta», dal nome del piatto delle poste al gioco. Essi la vuotavano sfacciatamente ogni mese, rubando allo Stato e rubando, del resto, di riflesso, al fisco al quale, lo si immagina, non dichiaravano questi redditi-storno.
I costumi politico-finanziari delle democrazie di prima del 1940 erano tali che si poteva benissimo diventare Primo ministro dopo aver utilizzato cadaveri di funzionari per riempirsi le tasche a spese dello Stato!
La mano sul cuore, la bocca a culo di gallina, il Van Zeeland in questione si offriva agli elettori bonaccioni, per rappresentare in loro nome la Patria e la Virtù, messe in pericolo dal Rexismo! Bisognava sentire il falso apostolo, più barboso dell’intero esercito di Fidel Castro, compassato, piagnucolone, recitare la parte del martire democratico «Avanzo calmo e sereno su un cammino disseminato di insidie!».
Provate un poco a ripetere dieci volte a grande velocità questo sciolilingua sassoso: «Avancio calmo e cereno su un cammino diceminato di incidie!» Poi lanciava sguardi commossi verso il cielo dei Puri e degli arcivescovi!
Non importa! Questo rapinatore di cadaveri bancari fu proprio il campione europeo numero uno della lotta contro il « fascismo » prima della Seconda Guerra mondiale!
E, per salvarlo dalla disfatta elettorale che i sondaggi del ministero dell’Interno lasciavano chiaramente prevedere tre giorni prima della scadenza, un cardinale non esitò, a poche ore dalle elezioni, a fare volteggiare il suo pastorale in tutte le direzioni, come una clava da troglodita.
Egli obbligò sotto pena di peccato centomila cattolici bruxellesi a votare per un tagliaborse che, nello stesso anno, nell’ottobre 1937, sarebbe slittato lungo disteso nello scandalo della sua « cagnotta », avrebbe dato le dimissioni — per sempre! — dalla presidenza del governo belga, nel mentre parecchi dei suoi colleghi necrofori della Banque Nationale — un ministro di Stato in testa — si sarebbero suicidati, a qualche giorno d’intervallo, autentico nastro di salsicce imbottite di dinamite, che saltarono in aria, a Bruxelles e ad Anversa!
Ma l’il aprile 1937, il « cagnottardo » Van Zeeland, grondante di benedizioni, era salito vincitore sugli altari dell’antinazismo. E’ chiaro che il fatto di essere cattolico fu, nella mia vita politica, un handicap considerevole.
Non credente, non sarei stato soggetto a quelle abominevoli pressioni, a quel ricatto alle coscienze di un alto clero che maneggiava il pastorale come un randello. 0 avrei mandato il suddetto prelato politicante a volteggiare in aria con la sua mitra, le sue pianelle e il suo manganello dorato!
Sarei stato meno infagottato, meno imbottito di complessi, meno isolato, poiché il cattolicesimo di quei tempi era ristretto, vendicativo, incomprensibile, e perfino, spesso, provocante. Esso innalzava barriere in tutte le direzioni. Ci aveva deformati. Ci toglieva milioni di persone oneste. E oi esponeva a violenze inaudite, come quelle che mi fece subire, la vigilia dell’11 aprile 1937, quell’energumeno col pastorale e con le ghiande, che picchiava nel mucchio, e si credeva, di diritto divino, signore onnipotente di tutto, compreso la libertà degli elettori.
La Croce ha vinto la Croce Uncinata — proclamò all’indomani dell’elezione di Van Zeeland, a piena prima pagina, l’Intransigeant di Parigi! Un siffatto titolo di un giornale massone era molto eloquente! Esso corrispondeva al Viva il Cardinale, perdio! dei marxisti belgi, urlato a Bruxelles la sera della loro vittoria ! Léon Blum invitò a Parigi il trionfatore. Fu ricevuto come il Baiardo belga insorto contro Hitler.
Ora — e anche ciò fu buffo, ma non lo si venne a sapere che più tardi — il principale finanziatore di questo antihitleriano arcivescovile era stato — esattamente per la stessa somma: sei milioni di franchi — e nello stesso momento, il finanziatore di organizzazioni hitleriane in Germania.
Si trattava del magnate della soda, Solvay, che, da perfetto ipercapitalista, finanziava quelli che credeva essere due clan rivali, per essere in vantaggio tanto sull’uno quanto sull’altro, e sdoganarsi in ogni caso!
Fu sotto questi milioni della doppiezza e sotto questi barili d’acqua benedetta tagliata col fiele, sotto questo dilagamento della calunnia A Berlino ! ripetuta senza fine da parte dei bellicisti di Londra e di Parigi, che conobbi, al momento di questo plebiscito Van Zeeland, e malgrado avessi ottenuto il 40% di voti di più dell’anno precedente, il mio primo insuccesso elettorale.
Avrei rovesciato il medesimo Van Zeeland sei mesi più tardi, dopo aver rivelato al pubblico belga, in tutta la sua ampiezza, lo scandalo della famosa «cagnotta». Ma il male era fatto, la calunnia A Berlino ! mi aveva tagliato i garretti, falciando la mia corsa.
Comprendendo come questo slogan colpiva il pubblico, l’orda dei marxisti belgi lanciati alle mie calcagna si affrettò a tappezzare il Belgio di manifesti in cui comparivo con il capo coperto da un elmetto col chiodo, come portavano i Tedeschi nel 1914, in un’epoca in cui non ero che un ragazzino!
Di elezione in elezione, questo elmetto col chiodo pavesava sempre più i muri del Belgio, s’insediava sul mio cranio a centinaia di migliaia di copie. La stampa marxista non esitò più davanti a nulla, nemmeno a ricorrere ai falsi più grossolani. Essa pubblicò delle foto truccate nelle quali il capo dei miei deputati appariva sul grande scalone d’onore dei raduni di Norimberga, tra due ali di bandiere con la croce uncinata!
Ritrovammo, negli archivi di agenzia, la foto originale in cui si trova Hitler, al posto del nostro deputato! Poi la foto di questi, che era stata sovrapposta alla precedente e che era stata, invece, scattata davanti al parlamento a Bruxelles ! Ma non serviva veramente più a nulla indignarsi, nemmeno protestare. I tribunali facevano orecchi da mercante o seppellivano le pratiche. Più nulla esisteva all’infuori dell’odio per i Tedeschi. Eravamo dei Tedeschi! Gli uomini di paglia dei Tedeschi! L’avanguardia dei Tedeschi, per il giorno, vicinissimo, in cui il Belgio sarebbe divorato da loro, con la nostra complicità!
La Seconda Guerra mondiale ha avuto luogo. Tutti gli archivi del Terzo Reich sono stati presi, spulciati. In nessun posto è stata scoperta la più infima traccia di un qualsiasi legame, o perfino di un qualsiasi contatto di REX o mio, prima dell’invasione tedesca del 10 maggio 1940, con chiunque appartenesse alla diplomazia o alla propaganda del Terzo Reich.
Dal 1937, stavamo in guardia, badando — ed era penoso, poiché dei contatti in tutti i paesi sarebbero stati più che mai utili — a non incontrare mai, ovunque fosse, un Italiano o un Tedesco. Non servì a nulla. Invece di avanzare elettoralmente, dovemmo indietreggiare, constatando, con una inquietudine che aumentava senza tregua, che il Belgio era, come tutta l’Europa, preso ormai dalla follia antihitleriana e che nel momento della cautela, della riservatezza, si sarebbe buttato a testa bassa verso il precipizio.
Si potè ancora credere, nel settembre 1939, quando la Polonia era stata invasa e che gli Anglo-Francesi ebbero dichiarato guerra al Reich, che il Belgio, attenendosi ufficialmente alla neutralità, avrebbe conservato certe probalità di rimanere fuori del conflitto.
Ma quelle probalità furono sciupate alcune settimane più tardi. All’inizio di novembre 1939, un accordo era stato concluso tra il capo dell’esercito francese, generale Gamelin, e l’addetto militare belga a Parigi, generale Delvoie, accordo clandestino, lo si immagina!
Un tenente-colonnello francese, tale Hautecoeur, era stato subito inviato in missione segreta in Belgio, presso le più alte autorità, come uomo ligio ai capi militari alleati. Gamelin, da sempre, era partigiano risoluto dell’entrata dell’esercito francese in Belgio « unica via », scriveva al Primo ministro Daladier, il 1° settembre 1939, in vista di una azione offensiva che, aggiungeva, allontanerebbe la guerra dalle frontiere francesi, particolarmente dalle nostre ricche frontiere dell’Est.
— «Era — ha spiegato in seguito Gamelin, per giustificarsi (Servir, t- III, p. 423) — del più alto interesse cercare di saldare al dispositivo alleato le venti divisioni belghe il cui equivalente non potrebbe essere ottenuto sul nostro proprio suolo data la nostra natalità decrescente. » « Ben inteso — proseguiva — tenevo al corrente di queste conversazioni ufficiose e segrete il presidente Daladier e le Autorità britanniche. »
« I Belgi — scriveva in conclusione — mi hanno sempre fatto conoscere il loro assenso alle mie proposte. » (Servir, t. I, p. 89.)
Da parte del generalissimo Gamelin, la manovra era lecita. Egli era il capo della coalizione alleata e cercava di vincere la guerra il più sicuramente possibile e coi minimi avvenimenti. Aveva agito in conformità a questi imperativi. « Il 20 settembre, noi avevamo deciso di entrare in relazione col governo belga.» (Servir, t. I. pp. 83 e 84). Noi, erano Daladier, il ministro inglese della Produzione, Lord Hankey, e il ministro inglese della Guerra, Hore Belisha, giudeo come per caso.
Quella decisione era stata effettiva. «All’inizio di novembre — aggiunge Gamelin, assai ingenuo nelle sue rivelazioni — eravamo arrivati a un accordo con lo stato maggiore belga.» (Servir, t. I. p. 84). Nessuno potrebbe arrischiarsi a negare queste affermazioni, così poco diplomatiche. «Il generale Gamelin negoziando segretamente con i Belgi», ha precisato Churchill (La tempesta si avvicina, p. 89)- «Fu provveduto alla designazione di ufficiali belgi di collegamento per prestare il loro concorso ai Franco-Britannici non appena fossero penetrati in territorio belga», ha riconosciuto, crudamente, ma otto anni dopo, il Primo ministro belga di allora, Bierlot, nel giornale Le Soir, del 9 luglio 1947, aggiungendo: « quando gli eserciti alleati entrarono in Belgio, ciò avenne seguendo disposizioni stabilite in anticipo e di comune accordo».
In politica, quasi tutto è valido. Ma ancora, non bisognava allora giocare ufficialmente ai campioni della neutralità, come faceva con tanto clamore e con tanta ipocrisia il governo belga! E soprattutto, questo doveva vigilare affinché manovre tortuose a tale punto non venissero scoperte! Si può ancora, in politica, permettersi il lusso di essere furfanti, a condizione, però, di non farsi pizzicare! Ora, fin dall’inizio del novembre 1939, Hitler era stato esattamente informato di tutto: «I nostri segreti — ha riconosciuto malinconicamente Gamelin — ebbero molti lati permeabili allo spionaggio dei Tedeschi .» (Servir , t.I, pp. 96 e 97.)
Fu il caso, molto particolarmente, che concerneva il suo accordo di collaborazione segreta con il governo belga. Fin dal 23 novembre 1939, Hitler ne informò i suoi generali, comandanti di Armata, nel corso di una riunione alla Cancelleria: «La neutralità belga in realtà non esiste. Ho la prova che hanno un accordo segreto con i Franco-Inglesi.» (Documento 789 P.S. degli archivi di Norimberga.) Ne aveva perfino avuto doppiamente la prova. «L’ho saputo da due parti differenti, la stessa settimana », mi disse Hitler durante la guerra, in una sera di confidenze. Aveva ricevuto due resoconti completi delle decisioni prese presso il generalissimo Gamelin, il primo fornito da un informatore del Gran Quartiere generale alleato, l’altro da un confidente che Hitler aveva in seno allo stesso governo francese!
Hitler avrebbe probabilmente invaso il Belgio, in ogni modo. Un piccolo paese non avrebbe fatto deviare la sua grande macchina di guerra nel momento decisivo della marcia avanti. Ma se degli scrupoli fossero ancora albergati in lui, poteva, fin dal novembre 1939, disfarsene senza troppi rimorsi, poiché la neutralità belga non era stata che una menzogna e una illusione.
Noi, Rexisti, ignorando tutti questi intrighi sotterranei, a dire la verità abbastanza squallidi, continuavamo a condurre, da truppa sacrificata, la battaglia nazionale per una neutralità che rimaneva, ai nostri occhi, una delle ultime possibilità di salvare la pace, possibilità non trascurabile, anche allora, come lo provarono gli scacchi del governo francese Reynaud che, in piena «strana guerra», non si salvò che per un pelo, per circa un voto («e ancora esso era falso», fece notare, in seguito, il presidente Herriot). Laval, suo sostituto quasi certo, era disposto a negoziare.
La sera, andavo talvolta a trovare il re Leopoldo III al suo palazzo di Laeken. Il generale Jacques de Dixmude mi guidava. Il sovrano mi riceveva disteso in calzoni da cavallerizzo. Gettammo insieme le basi delle campagne della stampa rexista, tendendo a mantenere l’opinione belga in una neutralità esemplare.
Non sospettavo, comunque, che nella stessa poltrona, sedeva, in altre sere, introdotto come me sulla punta dei piedi, il rappresentante segreto in Belgio dell’alto comando francese! Che cosa avrebbero detto i Belgi se, al posto di questo agente di Gamelin, fosse venuto a sedersi un colonnello della Wehrmacht, in quanto delegato segreto di Hitler presso il governo detto della neutralità? Il doppio gioco era lampante.
Doppio gioco o, più preoisamennte, triplo gioco, poiché, nel marzo 1940, rendendosi conto che l’affare puzzava di bruciaticcio, il re Leopoldo III, dandosi a un nuovo voltafaccia segreto, aveva mandato a Berlino dal ministro Goebbels il suo uomo di fiducia, il’ex-minastro socialista de Man. Mi raccontò lui stesso, nel1′ agosto 1940, come la sua missione presso il ministro nazista consistette nel far comprendere ai Tedeschi l’interesse che essi avrebbero avuto a scivolare sul lato sud del Belgio e a scagliarsi in massa su Sedan, la Somme e Abbeville. Hitler vi aveva pensato non poco prima di lui! Ma questo spiega certe cose. E particolarmente perché sarebbe stato difficile a Leopoldo III correre a Londra il 28 maggio 1940, sicuro di sentire, poche ore più tardi, Goebbels vuotare il sacco davanti ai microfoni! In breve, tutto era rovinato! Il dado era tratto.
A forza di provocazioni e di deliberata incomprensione, i bellicisti d’Occidente erano arrivati al loro scopo, a far uscire dal suo covo un Hitler con la pazienza condotta al limite. Quando si trattò dei Sovieti nel 1956 (Budapest) e nel 1968 (Praga), si ebbero altri riguardi!
La guerra «inutile e imbecille» (dixit Spaak) stava dunque per dilagare.
Il 10 maggio 1940, le potenti palette dei mezzi corazzati di Hitler sfondarono le porte dell’Occidente, schiacciando sotto di sé lungo più di mille chilometri, dei regimi democratici screditati, tarati, irrimediabilmente tarlati.
CAPITOLO V
Hitler per mille anni.
Mai popoli conobbero una sorpresa, un panico, un fuggi fuggi tanto disperati quanto i Francesi, i Belgi, gli Olandesi, i Lussemburghesi, quando li invasero le armate del Terzo Reich, il 10 maggio 1940. Nondimeno, normalmente, tutti avrebbero dovuto sapere che cosa aspettarsi. Nel settembre 1939, già, il tracollo dei Polacchi era stato significativo. Fra cinque giorni, la nostra cavalleria sarà entrata a Berlino — avevano proclamato, costoro, baffi alla Dalì, l’occhio di brace, una settimana prima del primo atto del conflitto.
I Polacchi avrebbero potuto temporeggiare, calmare un po’ i loro bollori guerrieri, prendere Hitler in parola e intavolare, non fosse altro che per tergiversare, i negoziati che aveva fatto loro proporre il penultimo giorno.
I fanghi dell’autunno polacco erano vicini: il maremoto che stava per sommergere il loro paese in tre settimane sarebbe stato, almeno, rimandato. In diplomazia il tempo è re. Il buon diplomatico è colui che ha la cartella piena di scuse per differire.
La Polonia si compiacque di sfidare fino alla catastrofe, un Hitler di cui era stata complice nel giorno ancora vicino in cui si era tagliata, a Teschen, una bella bistecca nelle spoglie della Cecoslovacchia.
Ma gl’inglesi, che vedevano le loro pedine eclissarsi dovunque nei Balcani, avevano, subito dopo, fatto perdere la testa ai Polacchi a suon di promesse pazzesche, anziché manifestare ripugnanza per la loro partecipazione allo spezzettamento dei territori cecoslovacchi. Gli interessi britannici l’avevano largamente vinta sull’amore alla moralità. Ma nel settembre 1939, quando i Polacchi, resi incandescenti da Londra, si ritrovarono invasi, il seduttore inglese non apparve né a Danzica né a Varsavia, e la Polonia saltò in uno spaventoso fallimento.
Di questo fallimento, il mondo intero era stato testimone. Ma le reazioni degli stati maggiori alleati erano state rigorosamente nulle. Il generalissimo Gamelin, non appena era stato necessario, il 1° settembre 1939, mantenere i suoi impegni, si era affrettato ad annunciare solennemente che sarebbe intervenuto, ma aggiunse che gli sarebbero occorsi ventitré giorni interi per far cuocere a fuoco lento nelle casseruole dei suoi uffici lo spezzattino di una offensiva francese di soccorso.
In quanto agli Inglesi, sarebbero trascorse delle settimane prima che non fossero state sbarcate sulle banchine di Calais le prime balle di sigarette bionde delle loro truppe d’intervento… in Francia. Andremo ad asciugare la nostra biancheria sulla linea Sigfrido — dissero mentre la suddetta biancheria inglese attendeva ancora, nei depositi londinesi, di venire tolta dalla naftalina! In ogni caso, né allora, né mai un combattente britannico sarebbe apparso sulla Vistola.
Sono i Sovietici e non gli Inglesi che, sei anni dopo, avrebbero ricacciato i Tedeschi fuori della Polonia e se la sarebbero aggiudicata!
Intanto, il caporale Hitler aveva dominato i pretenziosi capi militari dell’Occidente, compresi quelli del suo stesso paese. Tutti quei brillanti specialisti, gallonati, stellati, coperti di chincaglieria scampanellante, avevano creduto che sarebbe loro bastato, come sempre, fare uscire dai cassetti grossi incartamenti in cui tutto, da lungo tempo, era stato meticolosamente previsto. Il caporale « boemo » aveva lasciato da parte, senza curarsene, quelle mirabolanti scartoffie.
I suoi strateghi conservatori non consideravano nel 1939 che operazioni parziali nel nord del territorio polacco. Sapevano tutto, ben inteso. Ma il caporale, lui, sebbene solo caporale, aveva creato, di sana pianta, nel suo cervello, la tattica della Blitzkrieg : artiglieria delle divisioni corazzate di rottura accoppiata massiciamente all’artiglieria aerea.
I Polacchi avevano appena avuto il tempo di riempire le penne stilografiche che avrebbero loro permesso, non appena entrati a Berlino, di mandare cartoline postali vittoriose alle piccole amiche meravigliate, che gli Stukas, aprendo violentemente la via a parecchie migliaia di carri armati procedenti in gruppo, precipitavano dal cielo su tutti i punti vitali, li facevano a pezzi, li impastavano come una bistecca americana.
Fin dal primo giorno, ogni contatto all’intemo del territorio polacco era morto, o condannato a morte. Fin dalla prima settimana, sotto il tetto protettore della aviazione, le enormi tenaglie delle truppe corazzate di Hitler congiungevano le loro pinze da ogni parte all’Est, formando delle nasse in fondo alle quali si agitavano disperatamente, le squame del ventre già secche, il milione di pesci polacchi presi in trappola.
Alla fine del mese di settembre del 1939, il colonnello Beck, che avrebbe dovuto, in quel momento, stare facendo bere il suo cavallo nella Sprea o vuotando le cantine di Horcher, era fuggito in Romania, piantando il suo popolo completamente invaso e annientato.
Era una rivoluzione completa dei metodi di guerra che era appena stata realizzata, sotto il naso di centinaia di milioni di spettatori dei due mondi. Ma via, andiamo! Perché ci si lasciò impressionare ! Un generale è un generale, e sa tutto! Un caporale è un caporale, e non sa niente! Militarmente, tutti i fattori previsti da secoli dagli specialisti degli stati maggiori erano appena stati liquidati. Nondimeno, essi non avevano nulla da imparare da nessuno, soprattutto da un subalterno di bassa forza, per soprammercato boemo!
E’ così che il 10 maggio 1940 stava per trovare il generalissimo Gamelin che lisciava le penne dei suoi colombi viaggiatori di Vincennes, di fronte a telefoni antiquati e inutili, mentre, in un prodigioso accoppiamento delle forze di terra e di quelle dell’aria, tutte di una efficacia e di una rapidità terrificanti, le armate del caporale ignorante, applicando, per la seconda volta una strategia rivoluzionaria che gli assi della burocrazia militare del continente avevano respinta con un disprezzo flagellante, rieditavano il colpo dell’invasione della Polonia.
In undici giorni, stavano per tagliare in due, da Sedan a Dunkerque, un continente che quattro anni di assalti classici, dall’agosto 1914 al luglio 1918, non avevano potuto smembrare, anche sacrificandovi parecchi milioni di morti.
Centomila giovani Tedeschi — i soli che, in realtà, furono direttamente a contatto nel corso della campagna di Francia del 1940 — applicando i piani strategici del caporale-capo, avrebbero chiuso duemila generali francesi, la vigilia ancora traboccanti di sufficienza, e due milioni di loro soldati, avviliti, laceri, che una nuova scienza della guerra aveva appena schiacciato.
Non c’era stato soltanto, a prevenire gli spiriti, l’investimento polacco del settembre 1939. C’era stato, anche, l’investimento norvegese dell’agosto 1940. Anche là, tutto era stato nuovo. Si era visto, alla cancelleria di Berlino, il caporale Hitler tenere in sospeso, per la durata di otto ore, davanti ad una immensa carta murale della Sandinavia, tutti i comandanti di unità, comandanti di battaglione compresi, che stavano per avere un ruolo da sostenere nello sbarco di una audacia senza precedenti che Hitler aveva preparato nel segreto più rigorosamente assoluto.
Figuratevi ciò! Mentre prima, i soli, tre o quattro generali massicci, e preferibilmente con il monocolo, ricevevano, per l’esecuzione, degli ordini dattiloscritti in dodici copie, un comandante senza spalline d’oro spiegava lui stesso, ad ogni ufficiale interessato all’azione, il compito esatto che avrebbe dovuto assolvere, glielo indicava sulla carta, gli faceva ripetere ad alta voce gli ordini nonché la relazione sulla manovra precisa che avrebbe dovuto effettuare. Il colmo! Una solida tavola imbandita per rinfresco era disposta nella sala, e ognuno, senza cerimonie, pizzicava a suo piacere un panino imbottito quando l’appetito gli veniva e lo mangiava a quattro palmenti a due passi dal Führer!
Hitler stesso era stato, prima, ad aggirarsi segretamente in battello lungo la costa da assalire. Conosceva ogni baia dello sbarco. L’agente 007 non avrebbe fatto meglio! Il giovane ufficiale che lasciava la Cancelleria usciva abbagliato per essere stato ricevuto con una tale semplicità dal capo supremo del suo esercito.
Egli era tirato su di giri. Aveva visto che l’azione era stata preparata con cura da un intenditore, che era un asso. In alcuni giorni, l’operazione fu chiusa, nel mentre il corpo di spedizione francoinglese, che pure si era messo in movimento prima di quello di Hitler, s’impegolava nei suoi impedimenta, si faceva congelare i piedi nella neve e si faceva fare la testa come un pallone dalle bombe degli Stukas. Tutti i gloriosi piani e pronostici dei super specialisti degli stati maggiori occidentali si erano volatilizzati. I generali di Gamelin, sette mesi dopo la caduta di Varsavia, erano stati ridicolizzati una seconda volta, soffocati sotto la farragine della loro scienza, monumentale e morta come le Piramidi.
Non importa! Continuavano ad ironizzare asciuttamente nei saloni di Vincennes su quel grottesco caporale che pretendeva di saperne più dei professionisti della scienza militare, teorica e applicata! I suddetti professionisti, in capo a un mese di campagna di Francia, si sarebbero ritrovati, come il generale Giraud, stremati, colletto aperto, sull’erbetta di un campo di prigionieri, oppure, avendo corso di gran carriera per mille chilometri, bagnati fradici, ansanti, avrebbero slacciato il cinturone ed avrebbero ripreso penosamente fiato negli ultimi castelli degli ultimi contrafforti del massiccio pirenaico.
Milioni di fuggiaschi, colti dalla follia, avevano fatto, in otto giorni, quello che il Tour de France fa, con molta fatica, in un mese. Stravolti, spossati, avevano lasciato le sponde dell’esilio piene di valigie, di mantelli di astrakan e di nonnine morte di sfinimento, i cui cadaveri abbandonati marcivano al sole tra quarti anneriti di cavalli e di mucche.
Essi erano stati il ritratto vivente — o, più precisamente, agonizzante — del vecchio mondo anchilosato, che veniva sommerso da un mondo nuovo, da corpi nuovi e da spiriti nuovi. Non era una disfatta, era una tumulazione, il seppellimento dell’Europa di papà, del nonno e del bisnonno, era l’irruzione di una generazione che guardava l’universo con gli occhi del principio della Creazione.
I giovani Tedeschi avrebbero potuto essere un giorno stritolati a loro volta e lo furono. Ma avevano creato qualcosa di irreparabile, liquidato un’epoca, bella forse per i provveduti alla Boni de Castellane o per i pederasti alla Proust, sinistra per gli altri, epoca cadaverica che migliaia di mosche attorniavano già con i loro mulinelli quando il vecchio maresciallo Pétain, biascicando i mustacchi, alzò la sua bandiera bianca, nell’estrema settimana deH’avventura, alla fine di giugno 1940.
Hitler, per la prima volta nella sua vita, aveva alzato il naso verso la cupola dell’Opéra di Parigi e lo aveva abbassato verso la tomba di porfido di Napoleone, barca rosa in sosta nella sua vaschetta di marmo grigio. La croce uncinata spiegava le sue lunghe scie scarlatte dall’Oceano Artico alla Bidassoa. L’intero Occidente era tramortito, inebetito, non avendo ancora capito nulla, tranne che tutto era perduto, che il macchinario arrugginito dei vecchi paesi — i partiti, i regimi, i giornali — giaceva nei fossi come la ferraglia del materiale bellico sfondato e carbonizzato dai panzer. Pareva a tutti che nessun paese sarebbe mai più risalito da un simile abisso.
Solo, un de Gaulle sconosciuto si sporgeva, dal suo balcone londinese, verso la vecchia signora Francia ruzzolata, sottane all’aria, crocchia imbrattata di nero, in fondo alla buca scura dell’esagono. A parte le velleità salvatrici di questo pompiere senza scala di soccorso, non vi era più un Francese, un Belga, un Lussemburghese, un Olandese che credesse alla resurrezione del mondo democratico ridotto in cenere in alcune settimane.
«Si credeva la Germania padrona dell’Europa per mille anni», ripeteva il ministro belga Spaak, cremisi, il cranio lucente, la biancheria inzuppata, che portava in giro tristemente, nel giugno 1940, le sue rotondità spugnose, di locanda in locanda, nei valloni alverniati.
Ognuno, a modo suo, aveva vissuto un’avventura. Una delle meno divertenti era stata quella di noi, rexisti belgi. Poiché, tanto in Francia quanto a Bruxelles, la grande stampa aveva ripetuto a sazietà che noi eravamo hitleriani, la polizia francese ci era saltata addosso fin dalla prima ora delle ostilità. Ci aveva fatti portare via in dodicimila e ci aveva imbarcati verso le sue carceri e verso i suoi campi di concentramento. Eravamo stati trascinati di prigione in prigione, trattati con un furore barbaro in camere di tortura, picchiati cento volte, la mascella fracassata a colpi di mazzi di chiavi, la bocca mantenuta aperta, con la forza, affinché i nostri carcerieri potessero scaricarvi la loro urina. Parlo di ciò che ho subito personalmente. Ero stato condannato a morte a Lilla, già nella prima settimana. 1 miei ventuno compagni di sofferenza, nel camion cellulare, furono tutti assassinati come cani presso al chiosco della banda musicale di Abbeville, il 20 maggio 1940. Nessuno dei boia — militari francesi, ahimè! — conosceva nemmeno il loro nome. Tra di loro si trovavano delle donne: una ragazza, la madre, la nonna. Quest ultima, prima di spirare, ebbe il petto forato una trentina di volte dalle baionette! Un giovane prete che, durante i due ultimi giorni, aveva trattenuto contro lo zigomo un occhio che un guardiano sadico gli aveva fatto sprizzare fuori dell’orbita con un pugno forsennato, fu abbattuto come gli altri.
Nessuno, dell’intero nostro gruppo di prigionieri, scampò a questa orrenda strage all’infuori di me, unicamente perché i miei boia ritenevano che a forza di martirizzarmi — dieci denti fracassati in una sola notte — avrei loro svelato i piani d’offensiva di Hitler, di cui ignoravo tutto, come ben s’immagina! La mia sopravvivenza temporanea importava dunque ai Servizi di Informazione. La rapidità dell’epilogo militare la fece trasformare in una sopravvivenza prolungata di cui beneficio ancora oggi. Ma infine, uscendo dalle galere francesi, mi ritrovavo con le braccia ciondoloni, come tutti gli altri. Cosa stava per accadere? Il vecchio sistema politico, sociale, economico, dell’Occidente era stato rovesciato a terra come un mazzo di carte pestate, inutilizzabili per sempre. Allora, cosa?
Le armate del Reich erano accampate dovunque. Il sistema tedesco si installava dappertutto. La Francia di Vichy dell’estate 1940 non era più che un povero congresso di ex-politicanti castrati e di generali ignari, ridondanti, messi a tavola in mediocri sale d’albergo di una città termale veramente simbolica poiché la Francia era finita in acqua. A Nord, gli Olandesi avevano visto la loro regina, rialzando le sue numerose sottane, filare in fretta e furia verso Londra, poi verso il Canadà. La granduchessa di Lussemburgo, uscita da una collezione di figurini di istitutrici del XIX secolo, era pure andata a riposare nell’austera campagna britannica.
Tra questi due paesi, il re dei Belgi, Leopoldo III, nevrastenico i cui nervi logorati pagavano lo scotto di una sifilide ancestrale, era confinato nel suo castello della periferia bruxellese. L’unico ex-ministro che era rimasto al suo fianco, Henri de Man, presidente, ancora la vigilia, del partito socialista belga, aveva clamorosamente aderito a Hitler, d’altronde senza qualsiasi risultato. Siccome solo i fiumi erano, nel 1940, rimasti al loro posto, de Man si accontentava di andare a pescare ghiozzi, non politici. L’armatura degli Stati, il regolamento sociale, l’economia, le possibilità anche più elementari di guadagnarsi il proprio tozzo di pane erano state travolte. Si erano visti perfino i condannati per reati comuni, i capelli corti sotto le bustine, i piedi nudi dentro grossi zoccoli, lanciati sulle strade maestre, festanti, che saccheggiavano, giulivi, i negozi di commestibili. Centinaia di ambulanze degli ospedali, piene zeppe di civili in fuga, si erano incagliate con i loro materassi, nei portici dei cortili delle scuole della Linguadoca o del Rossiglione. Non c’erano più poliziotti, più pompieri, più becchini tra la Frisia e la Marna. Si asciugavano la fronte sulle panchine dei giardini pubblici di Nìmes o di Carcassone. Milioni di rifugiati che avevano perduto la testa andavano alla deriva da ogni parte.
E soprattutto, ritornava la domanda, lancinante: che cosa sarà dei nostri paesi? cosa pensa, cosa vuole Hitler? è sul punto di annetterci? sta per appiopparci dei gauleiter? In realtà, la gente avrebbe accettato qualsiasi cosa, purché le si fosse reso il mezzo di sostentamento, il pernod, il letto e le pantofole. Ma per coloro che avevano fatto della salvezza della patria la ragione della propria esistenza, la questione della sopravvivenza del proprio paese, del suo destino futuro, era piantata come un dardo nel loro cuore e lo straziava ad ogni suo fremito.
La sorte di ogni paese occupato nel 1940, fosse grande o ricco come la Francia, o minuscolo come il Granducato di Lussemburgo con i suoi tre borghi e i suoi quattro massi di scisto, era nelle mani di Hitler, e di nessun altro. Ciò che rimaneva di territorio libero in Francia poteva essere sommerso in quarantotto ore. Il maresciallo Pétain, trotterellando dalla sua camera di albergo all’ascensore, aveva meno potere garantito di un conducente di metropolitana o di un casellante che tracannava il suo calvados.
In quanto al Belgio, sarebbe riapparso un giorno? Sarebbe stato unito al Reich, più o meno apertamente? In due, o tre tronconi differenti, già rivali? Tedeschi di Eupen e di Malmédy? Fiamminghi, incoraggiati dall’occupante e che si scrollavano febbrilmente in un ristretto nazionalismo? Valloni che non sapevano nemmeno più ciò che erano, né soprattutto ciò che sarebbero stati: ex-Belgi? futuri Francesi? Germanici di seconda classe? terra di colonizzazione che i nazionalisti fiamminghi avrebbero ottenuto come spazio vitale?
Quando rientrai a Bruxelles, uscito finalmente dalle mie prigioni francesi, barbuto, dimagrito, annientato, mi sentii, malgrado fosse allora tutto politicamente pensabile, cogliere da una profonda disperazione. Per il grande pubblico, assalito durante i due ultimi anni d’anteguerra da ondate di menzogne, ero l’uomo di Hitler. Ora, ignoravo anche la prima parola di ciò che questi avrebbe potuto combinare in merito al mio paese. Non sapevo più nemmeno dove accamparmi. La mia bella proprietà della foresta di Soignes era occupata dai Tedeschi. Ero il cosiddetto loro uomo. Ora, la mia casa era stata da loro invasa senza alcuna spiegazione. Cinquanta aviatori vi bivaccavano. Salendo di sorpresa nella mia camera, avevo trovato, completamente nudo, di traverso al letto, un enorme colonnello della Luftwaffe, cremisi come un gigantesco astice creato per un film di fantascienza. Non ebbi altra risorsa, nei primi giorni, che dormire in un letto di fortuna, da una delle mie sorelle.L’ho detto cento volte: non avevamo nulla a che vedere con i Tedeschi. E quell’enorme militare installato sul mio letto, il pelo lucido di sudore, diceva a sufficienza l’nstabilità della mia sorte e l’inesistenza dei piani che il Grande Reich avrebbe potuto tessere attorno alla mia persona. Eravamo dei nazionalisti, ma nazionalisti belgi. E il Belgio era, in quel momento, colato a picco. Il suo avvenire era chiuso, oscuro come una galleria della quale non si sapeva nemmeno se l’uscita finale fosse murata, e se fosse ridiventata un giorno più o meno praticabile.
Tale fu il mio dramma di capo nazionalista rientrando nel mio paese, occupato dalle forze di un uomo di Stato straniero, ai quale mi si diceva interamente legato e di cui avrei ignorato a lungo quale tipo di edificazione politica e quale base di accordo egli avrebbe concepito per ognuna delle nostre patrie, in seno all’Europa che le sue mani di ferro avrebbero forgiato. Quale sopravvivenza riservava egli al mio popolo? Il mistero era totale.
CAPITOLO VI
A fianco dei Tedeschi.
I mesi di fine 1940 e deH’inizio del 1941 non furono allegri per nessuno in Europa, in Belgio non più che altrove. Degli Olandesi, nessuno parlava. Essi stavano probabilmente per essere inclusi nel complesso geografico del Grande Reich, Il Granducato di Lussemburgo pure, indubbiamente. In quanto ai Francesi, essi erano già arrivati, sotto l’occhio beffardo degli occupanti, ad accappigliarsi tra di loro, con un accanimento che avrebbe chiaramente fatto più effetto dietro a un cannone anticarro nel giugno 1940.
Un mese dopo aver gettato le basi della collaborazione con Hitler, il maresciallo Pétain aveva sbattuto a mare il suo Primo ministro Pierre Laval che non piaceva ai Tedeschi, e le cui unghie sporche, i denti gialli, il pelo di corvo erano sgradevoli a Hitler, ma del quale l’ambasciatore Abetz, allora molto nelle grazie a Berehtesgaden, apprezzava l’abilità, la bonomia, il senso molto alverniate del maneggio e dell’adattamento. Laval, sarcastico, masticando le sue sigarette sotto i baffi bruciacchiati, aveva avuto la battuta pronta e trattato il Maresciallo come una vecchia uniforme dimessa.
Per farla breve, era il caos completo. Esso sarebbe durato fino all’ultimo giorno, in Francia e anche fuori, nel castello di esilio di Sigmaringen, dove i «collaborazionisti» francesi si schivavano nei tetri corridoi del falso borgo feudale, popolati di armature enormi e sinistre.
Rimaneva il nostro caso, quello dei Belgi, il caso più complicato. Avevo potuto riannodare i contatti col re Leopoldo, prigioniero, incatenato da Hitler e scate nato dalla balia di famiglia, di cui avrebbe fatto la propria moglie promossa frettolosamente principessa di Réthy. Il suo segretario, barone Capelle, ci faceva da staffetta. Mi aveva vivamente consigliato, per conto del sovrano — ed avevo preso grande cura ad annotare subito i suoi propositi per iscritto — di tentare qualcosa per lanciare un ponte nella direzione del vincitore.
L’ambasciatore Abetz, pittoresco amico con cui avevo passato, nel 1936, una settimana di vacanze nella Germania del Sud e la cui moglie era stata, nello stesso tempo della mia, allieva di un convitto francese del Sacro Cuore, era uno spirito singolare. I non conformisti gli piacevano in maniera del tutto particolare. Dopo la mia odissea di prigioniero, mi aveva invitato, in diverse occasioni, a colazione o a pranzo alla sua ambasciata di Parigi, nell’incantevole palazzo della Regina Ortensia, in via Lilla.
Egli attaccava una intera fanfara della Wehrmacht nel giardino, al disotto della nostra piccola tavola, per il piacere di fare risonare di un immenso schiamazzo musicale la riva sinistra della Senna, ad uso esclusivo di due giovani ragazzi. Avevamo studiato insieme tutte le possibilità di un futuro del Belgio. Si era recato a Berchtesgaden per parlare di questo problema col Führer. Gli aveva ricordato il nostro colloquio del 1936, gli aveva ripetuto l’impressione che gli avevo fatto allora. Indusse Hitler ad invitarmi. Mi avvertì che un’auto sarebbe venuta incessantemente a cercarmi a Bruxelles, chiedendomi di tenermi pronto a partire per Berchtesgaden in qualunque momento.
Attesi.
Dovetti attendere tre anni prima di incontrare finalmente Hitler, sotto gli abeti scuri della frontiera lituana, una notte, in cui, ferito quattro volte nel corso di diciassette corpo a corpo, avendo rotto, la vigilia, l’accerchiamento di Cerkassy in Ucraina, ero stato ricondotto nell’aereo personale di Hitler, affinché mi passasse attorno al collo il collare della Ritterkreuz. Ma tre anni erano stati persi. Tutto era fallito nell’ottobre 1940, lo appresi in seguito, perché dei dirigenti fiamminghi, su istigazione degli agenti dei servizi di Sicurezza germanici che vagheggiavano di spaccare il Belgio in due, avevano fatto sapere che un accordo di Hitler con un Vallone avrebbe incontrato l’opposizione della parte fiamminga del Belgio. Ciò era stupido e assolutamente contrario alla verità. Avevo, nel 1936, ottenuto alle elezioni circa altrettanti voti in Fiandra che in Vallonia. E un accordo con i capi nazionalisti stessi aveva, nel 1937, coordinato le nostre concezioni politiche e il nostro piano d’azione. Ma, giacché dei servizi di spionaggio tedeschi affermavano che un accomodamento con me avrebbe portato a scatenare opposizioni linguistiche molto violente in una zona di combattimenti, base principale della lotta aerea della Germania contro l’Inghilterra, Hitler aveva rimandato i negoziati a più tardi. Era un vicolo cieco, la notte assoluta.
Dopo l’annullamento del nostro abboccamento, il re Leopoldo stesso tentò, a dispetto di tutti, di incontrare Hitler. Sua sorella, la principessa ereditaria di Italia, la moglie di Umberto, allora alleato privilegiato del Reich, giovane donna potentemente carrozzata, la gamba alta, l’occhio chiaro e duro, era andata a Berchtesgaden a sollecitare il Führer, con l’accanimento di cui sanno dar prova le dorme, talvolta inopportunamente. Hitler aveva ricevuto finalmente Leopoldo III, ma freddamente. Non gli aveva svelato nulla. Gli aveva offerto una tazza di tè. Il colloquio si era limitato a questa distribuzione di liquido tiepido, ancora meno rivelatore dei fondi di caffè. Lo scacco era stato completo. Tutto ciò che facemmo durante l’inverno 1940-1941 per sgelare l’iceberg tedesco incagliatosi sulle nostre rive, non ci condusse molto più lontano. I nostri tentativi di approccio — particolarmente nel corso di un grande raduno che tenni al Palazzo dello Sport dopo il Capodanno — non ebbero altro risultato che qualche riga di banale resoconto nel Volkischer Beobachter.
In fondo, Hitler stesso sapeva allora ciò che voleva? Come avrebbe detto, nel maggio 1968, il generale de Gaulle, quando la rivoluzione degli Studenti della Sorbonna poco mancò che lo sommergesse, «la situazione era inafferabile». La guerra contro gli Inglesi si sarebbe prolungata? O, come credeva e diceva il generale Weygand, il Regno Unito stava per cadere sulle ginocchia, repentinamente, schiacciato sotto il ferro e il fuoco?
Ed i Sovieti? Molotov, fainesco sotto i suoi occhiali, era venuto nell’ottobre 1940 a Berlino, a recare a Hitler, oltre allo spettacolo del suo aspetto goffo e ridicolo di viaggiatore di commercio dai calzoni ondeggianti come un pneumatico, la lista dei piatti copiosi che Stalin pretendeva vedersi offrire a breve scadenza.
Le armate del Terzo Reich avevano appena ripulito mezza Europa che i Sovieti pretendevano di farsi assegnare, senza spese e senza rischi, l’altra metà del continente ! Già, approfittando della campagna di Polonia nel 1939, Stalin aveva ingoiato i tre paesi baltici, con un morso vigoroso di mangione insaziabile. Era stato recidivo nel giugno 1940, divorando la Bessarabia. Adesso, ciò che esigeva, era, né più né meno, il controllo dei Balcani.
Hitler era stato il nemico numero uno dei Sovieti. Sebbene a malincuore, per non essere costretto a dover combattere su due fronti fin dall’inizio della guerra, aveva segnato una battuta d’arresto, nell’agosto 1939, nella sua lotta contro il comunismo. Ma era impossibile che potesse permettere l’installazione dei Sovieti proprio al margine del continente che aveva appena finito di radunare.
La minaccia era chiara. Il pericolo, non solo era grande, ma era evidente. Hitler non poteva lasciarsi mettere alle strette da una irruzione dei Russi verso il Reich se un grosso rovescio all’Ovest l’avesse un giorno colpito. Egli doveva essere pronto a prevenire un brutto colpo, sulle possibilità del quale le minacce uscite dalla piccola bocca di donnola gialla di Molotov non lasciavano molto aleggiare dubbi. Prevenendo prudentemente, Hitler aveva varato, segretamente, la preparazione dell’Operazione Barbarossa, la cui elaborazione dei piani era stata affidata al generale Paulus, il futuro vinto di Stalingrado. Intanto, tutto, in Europa, restava indeciso. Le divisioni interne dei Francesi e la rapida liquidazione di una politica di riavvicinamento con Pétain avevano consigliato a Hitler di lasciare passare il tempo e assestarsi gli affari dell’Occidente. Il morale dei diversi popoli dell’Ovest si liquefaceva. Opposizioni di razze, di lingue, di clan, di ambizioni li rodeva, senza che una grande azione o, almeno, una grande speranza li sollevasse.
Per me, era chiaro: due anni, tre anni di un simile ristagno, e il Belgio sarebbe stato maturo per la liquidazione, l’assorbimento, più o meno diretto dei Fiamminghi in una Germania unificata, la messa in un canto dei Valloni, Europei asessuati, né Francesi né Tedeschi; e l’eliminazione silenziosa di un re Leopoldo divenuto totalmente invisibile, separato dal suo popolo, che navigava tra la sua biblioteca vuota e una nursery meno solitaria ma che, comunque, politicamente, non conduceva molto lontano.
Sperare di rivedere Hitler? Non era più nemmeno questione di un incontro. Discutere con le ultime ruote del carro a Bruxelles? Non avevano alcun potere di discussione. Erano, inoltre, imbottiti della sufficienza dei militari vincitori, che trattano dall’alto i civili vinti. Ci detestavamo con pari vigore. Bisognava arrivare a potere discutere un giorno da pari a pari con Hitler e con il Reich vittorioso. Ma come? L’orizzonte politico restava disperatamente impenetrabile.
Fu allora che, improvvisamente, il 22 giugno 1941, si scatenò la guerra preventiva contro i Sovieti, accompagnata dall’appello di Hitler ai volontari di tutta Europa, per una lotta che non sarebbe stata più la lotta dei soli Tedeschi ma degli Europei solidali. Per la prima volta dal 1940, appariva un piano europeo.
Correre al fronte dell’Est?
Indubbiamente, non sarebbero stati i modesti contingenti belgi che avremmo potuto radunare per la partenza che avrebbero fatto mordere la polvere a Stalin! Tra milioni di combattenti, non saremmo stati che un pugno.
Ma il coraggio avrebbe potuto sopperire alla piccolezza del numero. Nulla ci avrebbe impedito di lottare come leoni, di comportarci con un valore eccezionale, di portare il nemico di ieri a constatare che i camerati di lotta di oggi erano forti, che il loro popolo non aveva demeritato, che avrebbero potuto, un giorno, nella nuova Europa, essere un elemento vigoroso, degno di azione.
Eppoi non vi era altra soluzione.
Certo, gli Alleati avrebbero potuto vincere, anch’essi.
Ma, a questa vittoria degli Alleati, francamente, quanti Europei invasi credevano, nell’autunno 1940 e all’inizio del 1941? il dieci per cento? il cinque per cento? Questi cinque per cento erano più lucidi di noi? Chi lo prova? Gli Americani, senza i quali un crollo del Terzo Reich non era nemmeno immaginabile nel 1941, si attenevano sempre a una politica «capra-cavolista». La loro opinione rimaneva, nella sua maggioranza, nettamente isolazionista. Tutti i sondaggi della opinione pubblica negli Stati Uniti lo stabilivano e lo ricordavano ad ogni nuovo test. Quanto ai Sovieti, chi avrebbe immaginato nel 1941 che la loro resistenza sarebbe stata coriacea come essa la fu? Churchill stesso aveva dichiarato ai suoi intimi che la liquidazione della Russia da parte della Germania sarebbe stata una faccenda di qualche settimana.
Il probabile, per un Europeo del 1941, era dunque che Hitler l’avrebbe spuntata, che sarebbe diventato veramente «il padrone dell’Europa per mille anni» che ci aveva annunciato Spaak. In questo caso, non era sguazzando nelle paludi torbide e sterili dell’attendismo a Bruxelles, a Parigi e a Vichy, che si sarebbero potuti acquisire titoli, che avessero assicurato ai vinti del 1940, nell’Europa di domani, una partecipazione corrispondente alla Storia, alle virtù e alle possibilità della loro patria.
Compreso ciò, si trattava di dare l’esempio. Non stavo tuttavia per indurre i miei fedeli a correre a tirare le cuoia tra Murmansk e Odessa senza unirmi a loro, senza dividere con loro le sofferenze e i pericoli dei combattimenti! Mi arruolai dunque, sebbene fossi padre di cinque figli. E mi arruolai come soldato semplice, perché il più sfavorito dei nostri camerati mi vedesse dividere con lui le sue pene e le sue sventure. Non avevo neanche avvisato i Tedeschi della mia decisione.
Due giorni dopo che l’ebbi resa pubblica, un telegramma di Hitler mi annunciò che mi nominava ufficiale. Rifiutai all’istante. Andavo in Russia per conquistare dei diritti che mi avrebbero permesso di discutere onorevolmente, un giorno, delle condizioni di sopravvivenza del mio paese, e non per ricevere, prima del primo sparo, dei gradi, che non sarebbero stati che gradi da operetta.
Sarei diventato in seguito (durante quattro anni di sfibranti combattimenti) caporale, poi sergente, poi ufficiale, poi ufficiale superiore, ma ogni volta sarebbe stato «per atto di valore in combattimento», dopo avere, nel corso di settantaoinque corpo a corpo, preliminarmente imbevuto le mie spalline nel sangue di sette ferite. — «Non vedrò Hitler – avevo dichiarato ai miei intimi al momento della partenza — che quando mi passerà attorno al collo il Collare della Ritterkreuz.». Così esattamente, si svolsero le cose, tre anni dopo. In quel momento, potevo parlare chiaro, ferito a più riprese, parecchie volte decorato, avendo appena portato a compimento una rottura del fronte sovietico che aveva salvato undici divisioni dall’accerchiamento. E stavo per ottenere da Hitler — ne esiste la prova scritta — uno statuto riconoscente per il mio paese, in seno alla nuova Europa, uno spazio e delle possibilità superiori a tutto ciò che aveva conosciuto, anche ai tempi più gloriosi della sua storia, sotto i duchi di Borgogna e sotto Carlo Quinto. Dall’esistenza di questi accordi, nessuno può dubitare. L’ambasciatore francese Francois-Poncet, che non mi ama molto, li ha pubblicati nel Figaro, documenti alla mano.
Hitler è stato vinto. Dunque il nostro accordo, ottenuto a prezzo di tante sofferenze, di tanto sangue e nonostante tanti sgambetti, è rimasto senza seguito. Ma il contrario sarebbe potuto avvenire. Eisenhower scrive nelle sue Memorie che, anche all’inizio del 1945, restavano ad Hitler delle possibilità di vittoria. In guerra, finché l’ultimo fucile non è caduto, tutto resta possibile.
D’altronde, non impedivamo ai Belgi che credevano alla soluzione di Londra di sacrificarsi nella stessa maniera, per assicurare, essi pure, in caso di vittoria dell’altro « blocco », la rinascita e la resurrezione del nostro paese.
Non devono avere avuto, più di noi, la vita facile, esposti, certamente, a trappole e ad intrighi di ogni genere. L’esempio di de Gaulle, le persecuzioni sornione di cui fu fatto oggetto da parte degli Inglesi e soprattutto degli Americani, le umiliazioni che dovette subire, devono essere state dello stesso ordine delle delusioni che dovemmo subire parecchie volte, da parte tedesca, prima di ottenere che la nostra causa fosse garantita dal successo.
A Londra come nel nostro campo, bisognava tenere duro, non lasciarsi intimidire, fare causa comune, sempre, con l’interesse del proprio popolo. Malgrado i rischi, era utile, stavo per dire indispensabile che, dalle due parti, dei nazionalisti tentassero le due probabilità, affinché le nostre patrie sopravvivessero, qualunque fosse il capitolo finale del conflitto.
Non era un motivo, tuttavia, perché quelli che si trovarono dalla parte dei vincitori, nel 1945, sgozzassero gli altri.
Dei moventi molto diversi animavano dunque i nostri spiriti e i nostri cuori quando partimmo, sacco in spalla, per il fronte dell’Est. Andavamo — primo obiettivo, obiettivo ufficiale — a combattervi il comunismo. Ma la lotta contro il comunismo avrebbe potuto benissimo fare a meno di noi. Partivamo anche — secondo obiettivo, e effettivamente, obiettivo essenziale ai nostri occhi — non, esattamente, per combattere i Tedeschi, ma per imporci ai Tedeschi che, inebriati dall’orgoglio d’innumerevoli vittorie avrebbero potuto prenderci sottogamba in ognuno dei nostri paesi occupati. Certuni non potevano già farne a meno e la loro doppiezza prolungata ci scandalizzò in parecchie riprese. Dopo l’epopea del fronte russo, sarebbe diventato loro difficile sabotare ancora i rappresentanti di popoli che avrebbero lottato coraggiosamente a fianco delle loro armate, in una battaglia che ci rendeva tutti solidali. Fu questo il grande motivo della nostra partenza: forzare la sorte, forzare l’attenzione e l’adesione dei Tedeschi vincitori, edificando con loro una Europa che anche il nostro sangue avrebbe cementato.
Stavamo per vivere in Russia degli anni orrendi, conoscere fisicamente, moralmente, un calvario che non ha nome. Nella Storia degli uomini, non vi sono mai state guerre atroci a quel punto, in mezzo a nevi sterminate, in mezzo a fanghi senza fine. Spesso affamati, senza mai riposo, eravamo prostrati da miserie, ferite, sofferenze di ogni specie. Per giungere infine a un disastro che inghiottì le nostre giovinezze ed annientò le nostre vite… Ma, nella vita, cos’è che conta ? Il mondo nuovo non si può fare che nella purificazione del dono. Ci siamo donati. Anche il dono apparentemente inutile non lo è mai completamente. Esso trova un giorno un significato. L’immenso martirio di milioni di soldati, il lungo rantolo di una gioventù che si sacrificò totalmente al fronte russo, hanno fornito in anticipo all’Europa la compensazione spirituale indispensabile alla sua rinascita.
Un’Europa di bottegai non sarebbe stata sufficiente. Ci voleva anche un’Europa di eroi. Questa stava per crearsi prima dell’altra, nel corso di quattro anni di lotte tremende.
CAPITOLO VII
I tram di Mosca.
La guerra di Hitler in URSS, scatenata il 22 giugno 1941, cominciò bene e cominciò male. Essa cominciò bene. L’immenso macchinario dell’esercito tedesco si mise in moto con una precisione perfetta. Ci furono, qua e là, degli imprevisti, delle colonne fuorviate, dei ponti sfondati sotto il peso dei carri armati. Ma non furono che minuzzerie. Fin dalla prima ora la Luftwaffe aveva ridotto all’impotenza, per mesi, l’aviazione sovietica e reso impossibili i concentramenti del nemico. In capo a dieci giorni, la Wehrmacht aveva trionfato dovunque, si era slanciata molto avanti dappertutto. Un crollo totale del fronte russo e del regime sovietico sarebbero potuti prodursi a breve scadenza. Winston Churchill più di ogni altro li temeva e, nei suoi dispacci segreti, li faceva presagire.
Pure, la guerra, era, anche, cominciata male. E sarebbe finita male, appunto perché era male incominciata.
Dapprima — e fu un elemento decisivo — era incominciata tardi, molto tardi, troppo tardi, cinque settimane dopo la data fissata da Hitler, perché la folle avventura di Mussolini, alla frontiera greca, nell’ottobre 1940, aveva silurato i piani hitleriani all’Est.
E’ proprio nei monti fangosi che separano la Grecia dall’Albania che il destino della Seconda Guerra mondiale si è giocato, più che a Stalingrado, più che a El Alamein, più che sulle spiagge di Normandia, più che sul ponte di Remagen, preso intatto, nel marzo 1945, dal generale americano Patton.
Mussolini era ossessionato dalle vittorie di Hitler. Lui, il padre del Fascismo, era stato relegato in un ruolo di secondo ordine dalla serie di campagne folgoranti — e sempre trionfali — che il Führer aveva condotte, a tamburo battente, da Danzica a Lemberg, da Narwik a Rotterdam, da Anversa a Biarritz. Ogni volta, le aquile tedesche erano state innalzate su paesi, talvolta immensi, conquistati in un batter d’occhio, nel mentre parecchi milioni di prigionieri avevano proceduto, come interminabili file di bruchi, verso i campi di raccolta di un Reich sempre più sicuro dei suoi successi. Mussolini, lui, militarmente, aveva fallito tutto. La sua invasione, in extremis, nelle Alpi francesi, si era chiusa con uno scacco umiliante. Il maresciallo Badoglio, pedina molto interessata che aveva portato con sé, da Addis-Abeba, dei tesori di oro massiccio rubati nel palazzo del Negus in fuga, aveva, dal giugno 1940, rivelato la sua incapacità tattica, degna di quella del suo emulo Gamelin.
Mentre la Francia era a terra, e i carri armati di Guderian e di Rommel si spiegavano quasi senza combattere fino in Provenza e una discesa a Nizza non sarebbe dovuta essere, per gli Italiani, che una breve escursione militare tra i frutteti dai frutti maturi. Badoglio, che, tuttavia, aveva avuto a sua disposizione lunghi mesi per prepararsi, aveva richiesto a Mussolini ventun giorni supplementari per lucidare gli ultimi bottoni dei suoi guerrieri. L’operazione era presto degenerata. I Francesi avevano suonato duramente gli aggressori dell’ultimo minuto, infliggendo loro delle perdite considerevoli e inchiodandoli al suolo nello spiegamento pietoso dei loro pennacchi bruno dorati con riflessi viola.
In Africa, l’esordio in Libia non era stato molto più brillante: un generale italiano era stato fatto prigioniero fin dal primo giorno. Quando l’artiglieria italiana si era concessa il lusso di abbattere un aereo che balenava in pieno sole si constatò che si trattava di quello del maresciallo Balbo. Fu abbattuto come una pernice. Così, il più famoso aviatore ucciso dagli Italiani nel 1940 era stato il loro più glorioso capo!
Il tempo non aveva accomodato nulla. L’armamento italiano, vantato chiassosamente per venti anni, era deficiente. La Marina mancava di zelo. Il soldato non si sentiva guidato. Il maresciallo Graziani, spirito confusionario, trascinatore scadente, preferiva dare gli ordini da quindici metri sotto terra piuttosto che da quindici metri davanti alle sue truppe come avrebbe fatto più tardi sul fronte italiano il maresciallo tedesco Rommel, l’intrepido lanzichenecco. Mussolini si rodeva. Era furente di tutti quegli insuccessi.
Egli pensò di rindorare il suo blasone con una facile conquista della Grecia, che sarebbe stata preparata a suon di milioni discretamente ripartiti tra il corpo politico di Atene. Così, la vittoria sarebbe stata acquisita senza grandi urti, su un nemico d’accordo in anticipo di cedere e che non avrebbe resistito che per formalità. — « Avevo comperato tutti! Quegli sporcaccioni di Greci hanno intascato i miei milioni e m’hanno fregato!». Questa sorprendente confidenza, me la fece personalmente il Conte Ciano, ministro degli Affari esteri d’Italia, vivo di spirito e abbastanza briccone, quando, passando in aereo per Roma, in una visita lampo, lo vidi per l’ultima volta e lo interrogai su quella guerra di Grecia, fallita in una maniera così straordinaria.
Secondo quelle affermazioni di Ciano (suo genero) Mussolini, nell’ottobre 1940, precipitò gli avvenimenti. Non disse una parola a Hitler di quel piano d’invasione. Quando il cancelliere tedesco che si trovava a Hendaye, ove aveva appena incontrato il generale Franco, ebbe sentore di un tale progetto, fece subito correre il suo treno speciale verso l’Italia dove si vide accogliere, due giorni dopo, sulla banchina della stazione di Firenze, da un Mussolini trionfante: — «Le mie truppe sono penetrate in Grecia questa mattina !» Hitler era arrivato troppo tardi ! Non potè che augurare buona fortuna al suo collega.
Ma tremava. E con ragione. In capo a qualche giorno, le truppe italiane che si erano ingolfate in Grecia, nella catena dei monti del Pindo, si facevano urtare, fare a pezzi, ricacciare daH’Epiro, in uno sfacelo sempre più tragico. I capi italiani, vantoni il primo giorno, in preda al panico il secondo, si erano comportati pietosamente. I soldati erano annientati. Vi fu un momento in cui il corpo di spedizione italiano stava per farsi buttare al gran completo in Adriatico e in cui l’Albania intera stava per essere sommersa dai gonnellini bianchi dei Greci. Fu necessario, colmo dell’umiliazione, fare appello a Hitler che inviò in fretta e furia verso Tirana delle forze tedesche di soccorso.
La situazione fu ristabilita, ma l’essenziale non consisteva neanche in questo. Che i Greci si fossero aggiudicati l’Albania, escrescenza abbastanza vana dell’impero italiano, non sarebbe stato particolarmente tragico. Il re Vittorio Emanuele avrebbe portato sul suo capo una corona di meno. Si sarebbe trovato accorciato di una ventina di centimetri al momento delle cerimonie di Stato, ciò che non avrebbe avuto assolutamente nulla di sconvolgente.
Lo sconvolgente, era che l’entrata dei Greci in guerra aveva provocato lo sbarco in Greoia degli Inglesi, divenuti alleati di riflesso. Ora, gli Inglesi installati nei bassi Balcani, era la possibilità, la quasi certezza di vederli tagliare le linee dell’Est quando Hiter si sarebbe incuneato molto profondamente nell’immenso spazio sovietico.
Vi si aggiungeva l’ossessione di incursioni dell’aviazione britannica, installata in massa nelle sue nuove basi greche. Essa avrebbe potuto, con bombardamenti massici, incendiare i pozzi di petrolio romeni indispensabili al rifornimento delle venti divisioni di Panzer che Hitler si preparava a lanciare attraverso i duemila chilometri di frontiere dei Sovieti. I rischi erano divenuti immensi.
Essi divennero assolutamente temibili quando, nello stesso inverno, la Jugoslavia di re Pietro, su istigazione di agenti inglesi, si rizzò contro i Tedeschi. Non c’erano più, da allora, possibilità d’irruzione, alla data prevista, in U.R.S.S., tanto più che Molotov aveva appena inviato al re jugoslavo felicitazioni particolarmente insolenti di Stalin e l’assicurazione del suo appoggio morale.
A causa di quella stolta avventura mussoliniana, Hitler, prima di riprendere all’Est il grande progetto, si era visto condannato a ripulire preliminarmente i Balcani, a scendere precipitosamente attraverso tutta la Jugoslavia, la Grecia e perfino ad impossessarsi della portaerei inglese che era diventata l’isola di Creta. Fu una volata sensazionale.
In dieci giorni, la Jugoslavia fu vinta e interamente occupata. Poi ci fu la discesa a rotta di collo fino ad Atene e fino a Sparta. La croce uncinata risplendeva al disopra dei marmi dorati dell’Acropoli. I paracadutisti di Goering scendevano con un eroismo trionfante sull’isola di Creta dove la disfatta degli Inglesi fu consacrata in quarantotto ore. Le navi alleate in fuga verso l’Egitto si fecero calare giù come anitre sugli stagni delle Lande.
Perfetto. La minaccia inglese era stata liquidata.
Ma cinque settimane erano state perdute, cinque settimane che Hitler non avrebbe mai più recuperato.
Soldato, ho conosciuto a passo a passo — poiché attraversammo la Russia intera a piedi — ogni particolare di quella tragedia. E’ perché un mese mancò a Hitler che la guerra non si concluse nel 1941, sul fronte russo, quel mese, per l’appunto, che l’amor proprio ferito di Mussolini aveva fatto perdere all’Asse per la sua pietosa scappatella del fronte greco. Il tempo era stato perduto. E un materiale della più alta importanza era pure stato perduto.
Non che i carri armati tedeschi fossero stati distrutti in gran numero durante i combattimenti scaglionati da Belgrado al canale di Corinto. Ma il materiale pesante delle Panzer Divisionen era stato seriamente logorato lungo i tremila chilometri di corse per monti e per colli, spesso molto sassosi.
Centinaia di carri armati dovevano essere revisionati. Non potevano essere messi in linea, il 22 giugno 1941, al momento del grande scatto. Dico quello che ho visto con i miei occhi: le divisioni corazzate di von Kleist, del gruppo di armate del Sud agli ordini del maresciallo von Rundstedt, che irruppero attraverso l’Ucraina, non comportavano, cifra appena credibile, che seicento carri armati ! Seicento carri armati per ridurre a mal partito milioni di soldati sovietici, migliaia di carri armati sovietici e arrivare, comunque, a Rostov, all’estremo limite del Mar Nero e del Mare d’Azov, prima che sorgesse l’invemo, non senza aver, dovuto ancora distogliere l’essenziale di questa forza corazzata per lanciarsi incontro al generale Guderian, che scendeva dal nord, e realizzare con lui il più grande accerchiamento della storia militare del mondo a duecento chilometri all’est di Kiev.
Con cinquecento carri armati in più, il gruppo di armate tedesco d’invasione del Sud dell’U.R.S.S. avrebbe raggiunto, prima dei freddi, Stalingrado e Baku. Questi carri armati che mancavano, li aveva fatti perdere Mussolini.
Per quanto catastrofico fosse stato quello spostamento di cinque settimane nella tabella, un materiale più abbondante avrebbe potuto compensare, molto probabilmente, lo squilibrio del tempo. Ma, anche in ciò, la guerra incominciò male.
Le informazioni avute sulle forze dell’U.R.S.S. si erano rapidamente rivelate false. I Sovieti non possedevano affatto tremila carri armati, come i Servizi segreti tedeschi avevano sostenuto a Hitler, ma diecimila, cioè tre volte più carri armati di quelli che la Germania allineava. E taluni tipi di quei carri russi, come i T. 34 e i KV. 2, di cinquantadue tonnellate, erano normalmente invulnerabili, di una solidità straordinaria, costruiti proprio particolarmente per dominare i fanghi e le nevi di laggiù.
Inoltre, la documentazione sulle vie di accesso attraverso lo spazio russo era erronea: grandi arterie previste per i carri nemmeno esistevano; altre, sabbiose, erano appena capaci di sopportare il passaggio delle troike leggere. La più piccola auto vi si inabissava. Nondimeno, grazie a miracoli d’energia, la corsa si realizzò. In venticinque giorni, settecento chilometri erano stati superati e conquistati. Dal 16 luglio 1941, Smolensk, l’ultima grande città sull’autostrada che conduceva a Mosca, era caduta. Dal punto estremo della avanzata tedesca, l’ansa di Elyna, non restavano più che 298 chilometri prima di raggiungere la capitale dell’U.R.S.S.!
In due settimane di offensiva con la cadenza in corso, questa sarebbe stata raggiunta. Stalin preparava già il trasferimento del corpo diplomatico fino al di là del Volga. Il panico regnava. Dei manifestanti schiamazzavano gridando contro il comunismo. Si vide perfino brandire, in una via di Mosca, una bandiera con la croce uncinata, costruita affrettatamente.
Ma precipitarsi verso Mosca, di un interesse strategico relativamente scarso, era rinunciare a distruggere l’immensa ressa di più di un milione di soldati sovietici che, al Sud, rifluivano in disordine verso il Dnieper e verso il Dniester. Non si conduce una guerra per occupare delle città ma per annientare la forza combattente dell’avversairio. Quel milione di Russi in rotta, lasciato in pace, si sarebbe ricostituito dietro. Hitler aveva dunque ragione. Bisognava prenderli senza indugio, con tutto il materiale pesante, nella nassa di immensi accerchiamenti, vicino ai quali gli accerchiamenti del Belgio e della Francia nel 1940 sarebbero stati quasi giochi di bambini. Era anche assicurarsi, economicamente, le enormi ricchezze minerarie del Donez.
Disgraziatamente, Guderian non disponeva di forze sufficienti per condurre, contemporaneamente, la corsa verso Mosca e l’annientamento del nemico all’altra estremità della Russia, verso il Donez. Qualunque fosse stata la scelta, la seconda operazione sarebbe stata quasi certamente intrapresa troppo tardi.
Se, invece di dover fermare i suoi mezzi corazzati sull’autostrada di Smolensk e abbandonare provvisoriamente la conquista di Mosca, a portata di mano, Hitler avesse potuto disporre di due o tremila carri armati in più, le due operazioni giganti, la conquista di Mosca all’Est e raccerchiamento della massa sovietica al Sud, sarebbero potute riuscire in tempo e simultaneamente. E anche la terza operazione, la conquista, fin da prima deH’inverno 1941, del Volga inferiore e del Caucaso.
Ci si è domandato a lungo come Hitler avesse potuto commettere un tale errore di valutazione e slanciarsi attraverso il gigantesco impero dei Sovieti con, solamente, 3.524 carri armati, suppergiù ciò che possedeva entrando in Francia nel mese di maggio 1940. Era stato vittima, anche lui, delle illusioni che fuorviano tanti strateghi in seguito alla meschina campagna militare dei Sovieti in Finlandia durante l’invemo 1939-1940? Nemmeno!
— «Quando ho dato l’ordine alle mie truppe di entrare in Russia — mi disse un giorno — ho avuto la sensazione di sfondare a spallate una porta dietro la quale si trovava un locale buio di cui ignoravo tutto!».
Allora?… Allora si è dovuto attendere lo spoglio degli archivi della Heereswaffenant per conoscere la verità. Quei documenti rivelano che subito dopo la campagna di Francia del 1940, Hitler, vedendo la schiacciante minaccia sovietica affermarsi, esigette una produzione mensile da 800 a 1000 carri armati. La cifra non aveva nulla di pazzesco, e sarebbe largamente superata un anno dopo. Anche se le fabbriche del Reich non avessero prodotto che la metà dei carri armati richiesti allora dal Führer il rush dei mezzi corazzati hitleriani attraverso l’U.R.S.S. sarebbe stato impossibile da fermare.
Ma, fin da allora, il sabotaggio che sarebbe sfociato neH’attentato contro Hitler, del 20 luglio 1944, era condotto sornionamente da importanti generali dell’Amministrazione, ai quali erano affidati i servizi di produzione delle retrovie. Col pretesto che quei carri armati sarebbero costati due miliardi di marchi (quale importanza!) ed avrebbero richiesto centomila lavoratori qualificati (la Germania ne traboccava, essendo allora la Wehrmacht inattiva) la Heereswaffenamt soffocò gli ordini di fabbricazione.
I sabotatori andarono più lontano. Hitler aveva esigito che i carri armati III, provvisti fin allora di cannoni di 37 calibri, fossero dotati di cannoni da 50 mm L- 60, capaci di superare i mezzi corazzati più potenti. Non è che alla fine dell’invemo, cioè troppo tardi, che Hitler apprese che i cannoni da lui previsti, di 60 calibri di lunghezza, non ne avevano che 42. Questa debolezza si sarebbe rivelata fatale davanti a Mosca.
— «Quando — racconta Guderian — Hitler si accorse, nel febbraio 1942, che le sue istruzioni non erano state eseguite, sebbene le possibilità tecniche esistessero, fu preso da una violenta colera e non perdonò mai agli ufficiali responsabili di aver agito di loro arbitrio.»
Ma il male era fatto.
Lo sforzo per la creazione di un nuovo armamento fu quasi insignificante. Durante quei mesi, i1 Terzo Reich, se l’avesse realmente voluto, avrebbe potuto facilmente produrre cinquemila, seimila nuovi carri armati, più potentemente calibrati, esattamente adattati al clima e alle straordinarie difficoltà del terreno che avrebbero dovuto affrontare nei loro futuri combattimenti.
Allora, sì, la corsa attraverso l’U.R.S.S. sarebbe stata irresistibile.
Non fu così. Venti Panzer Divisionen penetrarono il 22 giugno 1941 in Russia, invece delle dieci che avevano conquistato il Belgio, l’Olanda e la Francia nel maggio dellanno precedente. Ma il passaggio da dieci a venti divisioni era teorico. C’erano due volte più Panzer Divisionen ma due volte meno carri armati in ognuna di esse.
Malgrado tutto, ciò che avvenne ebbe del prodigio. Guderian discese a marce forzate verso il Donez sostenendo combattimenti di una audacia inaudita. Due favolose razzie, vicino a Kiew, a Ouman, alle quali Guderian non era intervenuto, poi vicino Poltava, annientarono le forze sovietiche del Dnieper. Fu solamente dopo quell’ultimo accerchiamento, il più colossale della guerra (665.000 prigionieri, 884 mezzi corazzati e 3.718 cannoni conquistati) che Hitler diede l’ordine a Guderian di risalire verso il nord, per cercare, non solo di prendere Mosca di rovescio, cioè dal sud-est, ma anche di lanciarsi fino a Nijni-Novgorod (attualmente Gorki) a quattrocento chilometri più ad est, sul Volga stesso!
L’operazione, se fosse riuscita, sarebbe stata la più prodigiosa cavalcata corazzata di tutti i tempi: dalla Polonia a Smolensk, poi da Smolensk al Donez, poi dal Donez, di nuovo, verso Mosca, e a 80 leghe al di là di essa, verso il Volga ! Parecchie migliaia di chilometri da superare in cinque mesi, combattendo! Con del materiale usato, dei serventi sfiniti!
Guderian ripartì attraverso tutto, superando delle tappe che raggiunsero fino cento venticinque chilometri in un giorno. Nello stesso tempo, tutte le forze corazzate tedesche del Nord correvano da Smolensk diritte davanti a sé, verso la capitale sovietica. Mosca stava per essere presa in conclusione di una manovra di una precisione strategica perfetta. La guerra sarebbe stata terminata ugualmente!
Le cinque settimane perdute prima deH’inizio della campagna e la mancanza di due o tremila carri armati che avrebbero permesso lo sdoppiamento delle colonne d’assalto, stavano per fare fallire quell’immenso sforzo finale a qualche chilometro dal successo. Dalla fine di ottobre 1941, un fango tremendo aveva impantanato le formazioni di carri armati del Reich. Non più un mezzo blindato avanzava. Non più un cannone poteva essere spostato. Gli approvvigionamenti restavano invischiati sulle strade: non solo il rifornimento dei soldati, ma le le munizioni dell’artiglieria e la benzina dei carri armati. Il gelo stava per fare il resto. Stava per aggravarsi, in novembre e all’inizio di dicembre 1941, in maniera sempre più catastrofica, passando da 15° sotto zero, a 20° sotto zero, a 35° sotto zero, per raggiungere perfino 50° sotto zero! Da centocinquant’anni, la Russia non aveva conosciuto un inverno più feroce!
Impossibile ai carri armati idi spostarsi. Il quaranta per cento dei soldati aveva i piedi congelati, privi dell’equipaggiamento invernale al quale l’Intendenza non aveva gran che pensato, essa pure, tra il 1940 e il 1941. Vestiti sempre delle leggere divise estive, spesso senza pastrano e senza guanti, nutriti appena, correvano inesorabilmente verso il crollo fisico. Di fronte a loro i Sovieti disponevano di carri armati capaci di sfidare il fango, il gelo e il freddo. Il primo materiale inglese aveva appena raggiunto i sobborghi di Mosca. Truppe fresche erano state condotte, in fortissimo numero, dalla Siberia, mentre un intervento giapponese — che, esso pure, mancò — avrebbe trattenuto molto opportunamente in Asia.
Ogni giorno la battaglia diveniva più atroce. Pure, gli assalitori tedeschi proseguivano il loro sforzo, qualunque fosse il rigore del clima. Delle punte avanzate avevano perfino oltrepassato Mosca al nord, a Krasnaia Poliana. Altre avevano raggiunto i sobborghi di Mosca e occupato il deposito dei tram. Davanti a loro, nel gelo divorante, le cupole della capitale dei Sovieti risplendevano, tentacolari.
E’ là, a qualche chilometro dal Cremlino stesso, che l’assalto si inceppò per sempre. Le unità erano divenute scheletriche. La maggior parte di esse non possedeva più nemmeno un quinto degli effettivi. I soldati si abbattevano sulla neve, incapaci anche del minimo sussulto. Le armi, gelate, s’inceppavano, si rifiutavano ad ogni uso.
I Sovieti, invece, inarcati a qualche chilometro appena dalle loro basi, ricevevano in abbondanza viveri, munizioni e l’appoggio di nuovi carri armati che uscivano a centinaia dalle stesse fabbriche di Mosca. Si slanciarono alla controffensiva. I superstiti tedeschi di quella terribile epopea furono superati dall’ondata. La battaglia di Mosca era perduta. Oltre ad essa, Stalin aveva vinto la semitranquillità di sei mesi d’inverno, sei mesi che sarebbero stati un baluardo immediato, e la sua salvezza in seguito.
CAPITOLO VIII
L’inferno russo.
Dovunque fossimo stati, il dramma sarebbe stato ugualmente atroce, dal dicembre 1941 all’aprile 1942, sui tremila chilometri di distesa del fronte russo, da Petsamo al Mar d’Azov. Noi, volontari stranieri, perduti come i Tedeschi in quelle steppe orrende, eravamo ridotti agli estremi: morire di freddo, morire di fame, lottare ugualmente. I miei camerati belgi ed io, ci dibattevamo allora nelle nevi del Donez. Dappertutto, la tramontana urlante. Dappertutto, nemici urlanti. Le posizioni erano ricavate direttamente dai blocchi di ghiaccio. Gli ordini erano formali: non indietreggiare. Le sofferenze erano indicibili. Indescrivibili. I cavallini che ci portavano delle uova gelate, grige, e munizioni talmente fredde che ci bruciavano le dita, costellavano la neve di un sangue che cadeva loro dalle narici, a goccia a goccia. I feriti erano congelati, appena caduti. Le membra colpite diventavano, in due minuti, livide come una pergamena. Nessuno si sarebbe arrischiato ad urinare fuori. Talvolta il getto stesso era convertito in una bacchetta gialla ricurva. Migliaia di soldati ebbero gli organi sessuali o l’ano atrofizzati per sempre. I nostri nasi, le nostre orecchie erano gonfiati come grosse albicocche, dalle quali scolava un pus rossastro e appiccicoso.
Era orribile, orribile. Solo nel nostro settore delle creste centrali del Donez più di undicimila feriti perirono in qualche mese nella miserabile scuola in cui, tagliati da tutto dalla neve che raggiungeva perfino i quattro metri di altezza, dei medici militari, barcollanti per la stanchezza, amputavano centinaia di piedi e di braccia, ricucivano i ventri bucati contenuti in blocchi di sangue e di escrementi gelati, corazze lucenti di materie rossicce e verdastre, simili a piante aggrovigliate raso a un acquario pietrificato.
L’evacuazione, dai nostri posti di combattimento fino a queM’atrooe clinica, di quei feriti esposti a tutti i venti, si faceva su piccole carrette di contadini russi. I corpi appena protetti da un po’ di stoppia strappata ai tetti delle ultime isbe. Il trasferimento durava a volte parecchi giorni.
I morti non si sotterravano più da molto tempo. Si ricoprivano di neve come si poteva. Avrebbero atteso il disgelo di maggio per ricevere una sepoltura. Dei parassiti scatenati ci divoravano vivi. Nelle nostre divise sudicie, quei pidocchi grigi, dalle piccole uova brillanti come perle, erano incastrati gli uni dietro gli altri, come grani di mais. Una mattina, al colmo dell’esasperazione, mi spogliai malgrado il freddo: ne uccisi su di me più di settecento.
Ma i nostri stessi vestiti non erano più che stracci. La nostra biancheria personale, divenuta brunastra, si era sfilacciata ogni settimana di più. Era finita in medicazioni urgenti di feriti. Dei soldati impazzivano, correvano gridando diritti davanti a sé, nelle nevi senza fine. In ogni corpo a corpo di battaglione, quattro, cinque, sei uomini fuggivano così. Le steppe li inghiottivano presto. Mai, credo, in nessuna parte del mondo, tanti uomini hanno sofferto così.
Tennero duro, nonostante tutto. Una ritirata generale attraverso quegli interminabili deserti bianchi e divoranti sarebbe stato un suicidio. Il rifiuto di Hitler, mandando al diavolo i suoi generali presi dal panico che richiedevano un ripiegamento di cento, di duecento chilometri, salvò l’esercito, non lo si ripeterà mai abbastanza. Nei freddi di 40° e 50° sotto zero, e sotto tornadi di neve che travolgevano tutto, a che cosa avrebbe potuto condurre una marcia indietro? La maggior parte degli uomini sarebbe perita per strada, come perì l’armata in ritirata di Napoleone la quale, poi, non era in marcia in pieno inverno, ma in ottobre e in novembre, cioè in autunno. E Napoleone si ritirava lungo un solo asse stradale e non indietro da tremila chilometri di fronte, attraverso steppe immerse in un gigantesco mistero glaciale. Tuttavia, delle centinaia di migliaia di uomini che Napoleone aveva condotto con sé nella ritirata, solamente qualche migliaio sopravvisse.
Allora, che cosa sarebbe avvenuto delle truppe tedesche inghiottite dall’immensità delle nevi, in gennaio e febbraio 1942, nel momento più terribile del gelo?
Per una semplice operazione di collegamento, un giorno di gennaio 1942, dovemmo impiegare diciassette ore per superare quattro chilometri, scavandoci nella neve, con la pala e con l’ascia, un profondo corridoio. L’unico spazzaneve fornito al nostro settore era stato bloccato da muraglie di ghiaccio. Non era mai arrivato a romperle, nonostante sforzi terribili.
E anche, se avessimo potuto, a prezzo delle più terribili sofferenze, operare, in due o tre settimane, un ripiegamento di cento o duecento chilomtri, che ci sa rebbe stato di cambiato? Un grado di freddo di meno? Una grande parte dell’esercito sarebbe perita ritirandosi. Il resto si sarebbe trovato in una situazione ancora più tremenda, svuotato delle sue ultime forze fisiche e morali da un tale sforzo, con, in meno, il materiale difensivo lasciato sul posto o abbandonato per strada.
Contro i suoi generali, Hitler aveva ragione. Bisognava interrarsi non importa come, proteggersi non importa come, sostenersi non importa come. Mandar giù tutto, ma sopravvivere! E anche scagliarsi sul nemico se, tagliati fuori dalle retrovie, si doveva assolutamente trovare un po’ di cibo o un vago riparo.
Poiché essi, i Russi, genti delle nevi, non solo erano, fisicamente, più rozzi di noi ed erano abituati ai freddi orrendi di quei climi, ma sapevano, da secoli, come resistervi. Possedevano l’arte di costruire dei ripari contro il freddo, ben diversamente protettivi dei nostri poveri rifugi maldestramente improvvisati.
Taluni dei loro campi di neve erano un gruppo isolato di casolari semisotterranei per tribù mongole. I piccoli cavalli nervosi vivevano tra quei mugik militarizzati, ben piantati, tarchiati, gli occhi alla cinese a forza di fissare le nevi, gli zigomi gialli di grasso grossolano con cui si imbrattavano, e che li riscaldava. I loro piedi, negli stivali di feltro, erano avvolti in grosse fascie di mollettone. Le loro uniformi, doppie o triple, fasciate da ogni parte come frittelle soffiate. La tramontana non vi penetrava. Vivevano così da sempre. E quell’inverno particolarmente atroce non li sorprendeva esageratamente. Difesi in quel modo dall’ostilità della natura, poterono perfino dedicarsi a violente operazioni offensive, al sud come al nord.
Dovevamo allora contrattaccare, riprendere le steppe perdute. Riconquistavamo dei villaggi distrutti. Erigevamo, davanti ai muri anneriti delle isbe, dei parapetti di blocchi di ghiaccio. Chilometri di neve separavano i nostri nodi di resistenza. Il nemico si infiltrava dappertutto. I corpo a corpo erano terrificanti. Nella sola giornata del 28 febbraio 1942, in una borgata distrutta chiamata Gromowaja-Balka (Valle del Tuono!), e nella quale il nostro battaglione resisteva da otto giorni all’assalto di ottomila Russi, perdemmo in una mischia tremenda che durò dalle sei del mattino fino a notte, la metà dei nostri camerati. Ci difendevamo disperatamente tra i cadaveri dei cavalli sui quali le pallottole risuonavano come sul cristallo. I Russi avanzavano a ranghi serrati, drappeggiati nei loro lunghi pastrani violacei. Senza tregua, sorgevano nuove ondate, che falciavamo sugli stagni gelati.
L’inverno russo fu così. Per sette mesi, tutto non fu che biancore accecante. Il freddo rodeva i corpi. I combattimenti limavano le ultime forze. Poi, un mattino, il sole apparve, tutto rosso, al di sopra dei poggi bianchi. La neve scese a poco a poco lungo gli alti pali, acconciati con mazzi di paglia, che avevano segnalato le piste fino al giorno in cui quelle sommità chiomate non erano state sommerse. Delle acque brunastre scesero con impetuosità da tutte le colline, si ammassarono nei valloni. Un mulino si rimise a girare nel cielo azzurro. Il calvario di centinaia di migliaia di soldati tedeschi e non tedeschi del fronte russo era finito. La tragedia dell’invemo era terminata.
Ma era la conquista della Russia che bisognava riprendere. Ora la tattica di guerra di Hitler era basata non solo su una nuova strategia — mezzi corazzati e aviazione di rottura che si scagliavano insieme e in massa — ma anche sull’effetto della sorpresa.
Nel 1942, non sarebbe stato più possibile contare su quell’effetto della sorpresa. Stalin conosceva ormai quel metodo. La superiorità d’iniziativa era dunque perduta. L’intervento strategico di Hitler era stato geniale: la Blitzkrieg, cioè la guerra lampo, l’irruzione folgorante nelle retrovie del nemico, la rottura massiccia delle sue linee in punti precisi sui quali veniva buttato, di sorpresa, il grosso delle forze. L’ariete era costituito dall’enorme massa dei carri armati, davanti ai quali l’artiglieria volante degli Stukas, seminando il terrore, faceva tutto a pezzi, apriva le vie di passaggio.
In Polonia, in Olanda, nel Nord della Francia, in Jugoslavia, questa nuova formula di guerra aveva vinto perché, in ognuno di quei paesi, era la prima volta che era stata impiegata, permettendo alle pinze giganti, di ferro e di fuoco, di riversarsi e di richiudersi sulla schiena dell’avversario, incastrato, demoralizzato, annientato in un batter d’occhio. In alcuni giorni, centomila, duecentomila uomini erano stati presi.
E’ quella stessa formula che Hitler aveva rieditato nel 1941 facendo irruzione attraverso la Russia, ottenendo le stesse penetrazioni, le stesse retate, ma a una scala favolosa, particolarmente in Ucraina e nel Donez. In quattro mesi, parecchi milioni di prigionieri, migliaia di cannoni e di carri armati, erano stati presi. Ma gli Urali erano più lontani dei Pirenei! Ci si sarebbe dovuti precipitare prima. Oppure potere, grazie a una forza molto superiore di mezzi corazzati, condurre due o tre volte più operazioni di accerchiamento invece di dover correre con le stesse forze, limitate, dal nord al sud e dal sud al nord. Il gelo aveva preceduto Hitler, gli era caduto addosso con i suoi quaranta e i suoi cinquanta gradi sotto zero, più forte dell’acciaio delle sue divisioni corazzate e della volontà dei suoi audaci capi di Armata. Nel 1942, bisognava dunque tirare in ballo di nuovo ciò, senza più contare di poter sorprendere un avversario ormai avvisato.
Del resto, Stalin che, lui pure, era un genio a suo modo, un genio elementare che tuffava ogni giorno la sua volontà nel sangue degli altri per rivivificarla, Stalin aveva avuto il tempo, non solo di scoprire i segreti della strategia hitleriana che aveva mancato poco per spezzarlo, ma di trovarvi una difesa. Essa era semplice: guadagnare tempo; guadagnare mesi, anni, durante i quali avrebbe potuto formare nuove armate, attingere, senza alcuna pietà, nel serbatoio di duecento milioni di abitanti ddl’U.R.S.S., forgiare a sua volta dozzine di divisioni di carri armati che, un giorno, avrebbero surclassato in maniera schiacciante — ventimila carri armati contro qualche migliaio — le forze corazzate che avevano assicurato i trionfi folgoranti di Hitler, dall’autunno 1939 all’autunno del 1942.
Hitler, nell’estate del 1942, avrebbe raccolto ancora delle vittorie molto spettacolari tra il Don, il Volga e il Caucaso. Ma i tentativi di grandi accerchiamenti non avrebbero avuto più esito. Come il toro che non si può sorprendere due volte, il Russo aveva scoperto le trappole e vi sarebbe sfuggito ogni volta in tempo.
L’ultimo errore sovietico fu commesso nel maggio 1942. E finì di mettere Stalin in guardia. Le sue truppe si erano concesso il lusso di prendere, prematuramente, l’iniziativa. Forse cercavano prima di tutto di disorganizzare la massa offensiva tedesca che stava operando i preparativi per prendere, a sud, lo slancio? In ogni caso, nei primi giorni del maggio 1942, fummo sul punto di essere sommersi, nel Donez, dall’enorme valanga di truppe sovietiche che si slanciava dalla regione di Karkov verso il Dnieper e Dniepropetrovsk.
Sfondarono il fronte tedesco, dilagarono davanti a sé. Ma correvano e niente più. Correre non basta per distruggere. I Russi non avevano ancora afferrato esattamente il meccanismo delle pinze di accerchiamento. Li lasciammo perdere nel vuoto. Le divisioni tedesche e i volontari stranieri, belgi, ungheresi, romeni, croati, italiani non persero la testa. Tutti sarebbero restati esattamente attaccati ai fianchi dell’apertura nemica. Si richiusero nelle sue retrovie quando il nemico si fu addentrato molto di più, e in modo primitivo. Nuovamente, come nel 1941, parecchie centinaia di migliaia di Russi furono fatti prigionieri. Nessuna delle loro unità potè sfuggire.
Eravamo ammassati sui due fianchi e nel dorso della massa sovietica presa nelle nostre reti..
Fu per i Russi un grande disastro, che completò Hitler mettendo a profitto quel terribile salasso dei Sovieti per gettarsi su Orel, aprendo così alle sue truppe la strada delle pianure del Don, di Stalingrado e del Caucaso.
Stalin si era definivamente reso conto che egli era ancora lungi da uguagliare tatticamente il suo vincitore. Non si sarebbe più arrischiato ad attaccarlo a fondo prima che le sue forze non fossero divenute molto superiori a quelle del Reich.
Allora, solamente, esse avrebbero potuto compensare, con il numero, la superiorità tecnica delle armate corazzate di Hitler, ancora schiacciante nella primavera del 1942, ma che si sarebbe assottigliata man mano che i giovani capi dell’Armata rossa, liberati dall’ignoranza abitudinaria dei loro maggiori, avrebbero assimilato, a forza di tempo, di accanimento e anche di rovesci analizzati con intelligenza, la strategia che aveva fatto Hitler vincitore e che avrebbe finito per convertirlo in vinto.
Si potè credere, nell’estate de 1942, che Hitler, lanciandosi verso l’estremità sud della Russia sovietica, stava per finire, questa volta per davvero il colosso russo. Le brecce di luglio e agosto erano state assolutamente impressionanti. Noi stessi, che vi partecipavamo, eravamo inebriati. Cavalcavamo attraverso le magnifiche pianure del Don, nelle quali milioni di piante di mais e di girasole, alte tre metri, si estendevano fino aH’estremità del cielo dorato. Superavamo a nuoto, mitra al collo, i fiumi verdi, larghi un chilometro ai piedi di colline sovrastate da antichi sepolcri tartari e festonate dai pampini delle uve in via di maturazione. Progredivamo di trenta, quaranta chilometri ogni giorno. In alcune settimane l’ala sinistra dell’offensiva era arrivata in prossimità di Stalingrado.
All’ala destra, avevamo, noi, varcato il Don, raggiunto i grandi laghi del Manich, costellati, la notte, dei milioni di margherite irreali gettate dalla luna sui flutti. Dei cammelli disegnavano le loro gobbe spelate, fruste come del vecchio cuoio. Un turbine di polvere, lungo dozzine di chilometri, segnalava le colonne di carri armati che erano seguiti da migliaia di giovani fanti col colletto aperto, che cantavano a squarciagola nell’estate cocente. All’inizio di agosto, al di là delle acque balzanti del fiume Kuban, si innalzarono davanti ai nostri occhi abbagliati i picchi giganti del Caucaso, dalle cime bianche, splendenti come lastre di vetro. Nelle radure delle prime foreste, davanti a capanne di legno appollaiate su palafitte — per proteggersi dai lupi, l’inverno — delle Armene mungevano delle bufale gigantesche, dal collo cascante come un boa grigio. Avevamo avanzato per più di mille chilometri! Eravamo arrivati alle frontiere dell’Asia! Chi oi avrebbe ancora fermati?
Nondimeno, in realtà, non eravamo in nessun posto poiché, se avevamo conquistato il suolo, non avevamo agguantato l’avversario per il colletto. Questo era fuggito prima di essere preso nei nostri accerchiamenti. Non si sarebbe inarcato al suolo che quando saremmo quasi arrivati alla fine della nostra corsa, terribilmente lontano dalle nostre basi, numericamente ridotti: feriti, sciancati, malati colpiti dalla dissenteria erano stati lasciati lungo la strada, in gran numero. L’estate stava per finire. Fu soltanto allora che i Russi ci affrontarono, nel momento in cui le prime piogge d’autunno si abbatterono in enorme quantità. Una seconda volta, l’invemo russo stava per bloccare tutto? Farci fallire tutto?
Lucido, avendo infine capito che un salasso simile a quello del 1941 avrebbe completato la sua perdita, Stalin aveva vigilato con cura estrema affinché le sue truppe non si fossero più lasciate incastrare da nessuna parte. Era meglio per lui perdere mille chilometri piuttosto che cinque milioni di uomini, come l’anno precedente. Lo spazio, in guerra, è una fisarmonica. Va, viene.
Non eravamo arrivati a conquistare che l’aria dorata dell’estate e un suolo nudo. Le rotaie delle linee ferroviarie erano state sezionate ogni dieci metri. Le fabbriche erano state vuotate del loro materiale, fino all’ultimo banco di lavoro e fino all’utimo bullone. Le miniere di carbone bruciavano dovunque, favolose masse arancione che facevano impazzire i nostri cavalli. Non restavano, nei villagi, che dei vecchi contadini incurvati, delle contadine devote e bonaccione, dei bei bambini biondi, che giocavano vicino ai pozzi di legno. Sulle piazze pubbliche, ci attendevano sole le orribili statue, sempre le stesse, di volgare cemento, di un Lenin in giacca da piccolo borghese e dagli occhi da Asiatico, o di una sportiva mammelluta, dalle coscie massicce come un ceppo di calcestruzzo.
L’unica seria resistenza, non la incontrammo che troppo tardi, proprio alla fine, giusto nel momento in cui si sarebbe dovuto concludere la conquista prendendo i pozzi di petrolio davanti alla frontiera di Persia — obiettivo reale della nostra offensiva verso il sud — mentre Paulus avrebbe dovuto ributtare definitivamente i Russi dall’altra parte del Volga, divenuto frontiera dell’Europa. Ma anche là i Sovieti si erano improvvisamente inarcati.
Ho conosciuto, come tanti altri, lo sforzo disperato di quelle ultime settimane, quelle settimane in cui sentimmo, per la prima volta, che, forse, la vittoria, cioè la Russia, ci sfuggiva. Avevamo raggiunto, a cento chilometri dall’Asia turca, dei monti alti e selvaggi, dalle foreste di quercie non sfruttate, nelle quali non si procedeva più che a colpi di accetta, coperte di ostacoli, annegate dalle piogge dell’autunno. I carri armati non passavano più. Le bestie non passavano più, o crepavano di fame, flagellate dalle raffiche. Ci intrufolavamo a stento in quei boschi spugnosi, dalla vegetazione eterna, sbarrati dai cespugli spessi e pungenti di migliaia di prugnoli selvatici. Là, i Russi erano re, avendo preparato i loro covi molto per tempo, in agguato nei fitti cespugli, o installati a cavalcioni sui rami dell’enorme foresta. Ci tendevano mille trabochetti, cd sparavano, invisibili, presenti dovunque.
Le piogge, frammiste alle prime nevi, si abbatterono in uragano. Esse tagliarono, dietro alle nostre spalle, i ponti di tavole che avevamo gettato sui torrenti al momento della nostra avanzata. E’ per mezzo di essi, solo di essi, che avrebbero potuto giungerci un rifornimento di fortuna e delle munizioni. Ridotti a noi stessi, vivevamo della carne cruda dei cavalli morti da una o due settimane e che le acque ribollenti rigettavano nelle curve dei torrenti. Con i coltelli, li riducevamo in una specie di pastone nerastro.
L’itterizia trasformava i soldati in spettri: solo nel nostro settore, di fronte ad Adler e a Tuapse, dodicimila itterici furono evacuati in qualche settimana. La nostra Legione, come un gran numero di altre unità, non era più che l’ombra di se stessa, ridotta a un settimo dei suoi effettivi! Scarniti, eravamo appollaiati a più di mille metri di altezza su picchi spazzati da tempeste, sotto gli alberi storti dai tornadi autunnali.
I Russi si arrampicavano di notte, di ceppo d’albero in ceppo d’albero, fino ai nostri covi ricolmi d’acqua, che segnavano la nostra linea di cresta. Li lasciavamo avvicinare fino a due o tre metri. Nell’ombra, ingaggiavamo dei combattimenti spaventosi. I tiri di sbarramento, di giorno, erano tali che i cadaveri della notte dovevano rimanere nel vuoto impigliati a radici, fino a che la testa non si fosse staccata, in capo a due o tre settimane, e che non fosse rimasto più, sotto i nostri occhi stravolti, che vertebre grigie che spuntavano dalla giacca, sovrapposte come collane di negre.
Pochi tra di noi non erano stati feriti. Avevo avuto lo stomaco bucato e il fegato perforato. Che altro avrei potuto fare se non restare tra i miei uomini sull’orlo della depressione? Non eravamo più, affamati, irsuti, che dei relitti umani. Come, in quello stato, avremmo potuto passare un secondo inverno quando le nevi avrebbero ricoperto l’intera catena dei monti e tutto il retroterra del paese?
Fu allora, il 19 novembre 1942, alle cinque del mattino, all’altra estremità del fronte del Sud, a nord-ovest di Stalingrado, alla testa di ponte di Kremenskaja sul Don, che migliaia di cannoni sovietici ruggirono, che migliaia di carri armati si slanciarono attraverso le posizioni della Terza e della Quarta Armata romene. Una settimana dopo, duecentotrentamila soldati tedeschi sarebbero stati rigettati verso Stalingrado, in un accerchiamento che non era più grave, in realtà, di venti accerchiamenti in cui i Russi si erano fatti prendere precedentemente, che avrebbe anche potuto essere rotto, ma che l’imperizia e l’apatia del funzionario pignolo che era il generale Paulus, avrebbe convertito, in qualche settimana, in disastro. La Seconda Guerra mondiale era giunta alla sua grande frattura. La Germania invincibile di Hitler, era stata vinta per la prima volta. Aveva perso l’equilibrio sulla china della disfatta. La caduta si sarebbe prolungata per quasi mille giorni, prima che l’ultimo cadavere, quello di Hitler, bruciasse a Berlino, sotto duecento litri di benzina, nel giardino annerito della Cancelleria.
CAPITOLO IX
Hitler, chi era?
Questo Hitler, di cui nessuno sa di preciso, dozzine di anni dopo, se i suoi resti calcinati esistono ancora, e dove possano essere andati a finire, chi era? Che cos’era quest’uomo che ha messo sottosopra il mondo e ne ha cambiato il destino per sempre ? Qual era il suo carattere? Quali erano le sue passioni? Che cosa pensava? Che cosa avveniva nel suo cuore? Ne aveva poi uno? E quale fu il suo progredire interno fino al giorno in cui, a cento metri dai Russi trionfanti, si fece saltare le cervella?
Io, l’ho conosciuto, conosciuto durante ben dieci anni, conosciuto molto da vicino nel momento della gloria, come nel momento in cui, attorno a lui, l’universo delle sue opere e dei suoi sogni crollava. Io so. So chi egli era: il capo politico, il condottiero, l’uomo, l’uomo nudo e crudo, l’uomo emplicemente. E’ veramente troppo semplice accontentarsi di coprire di oltraggi le spoglie di un vinto morto, di dire, di scrivere, di inventare sul suo conto qualunque cosa, certi che il pubblico accetterà qualsiasi cosa purché ciò completi l’idea che esso si è fatto di Hitler — quella di un mostro! — certi anche del fatto che i rari testimoni che potrebbero spiegare che non fu affatto così si terranno cheti per non essere subito fatti erba dello stesso ignominioso fascio di Hitler morto.
Tutto ciò che il pubblico può raccontare, o tutto ciò che gli si può raccontare, mi lascia completamente indifferente. Quello che importa è la verità, è quello che so.
D’altronde, ci vuole la stupidità delle folle per credere che un uomo che trascinò cento milioni di Tedeschi dietro a sé, per il quale morirono milioni di giovani, non era che una specie di Sardanapalo o di Nerone, che beveva sangue, da mattino a sera, al rubinetto della sua follia.
Lo vedo ancora a Berlino, il 1° maggio 1934, appollaiato alla sommità di una grandiosa tribuna, al campo di aviazione di Temipelhof. Centinaia di migliaia di ascoltatori gridavano di passione sotto il suo sguardo. Pure, ero rimasto deluso. La sua eloquenza era poco sfumata, violenta, elementare, abbastanza monotona. Un uditorio latino sarebbe stato più esigente. Anche l’Ironia era ruvida. Era una eloquenza-forza, più che una eloquenza arte.
Nello stesso modo, il bagliore dei suoi occhi non m’impressionò mai particolarmente. Non frugava, come si è detto, nello sguardo dell’interlocutore. La loro luce non aveva nulla d’insostenibile. Azzurro, vivo, l’occhio era bello, il suo sprizzo era fresco, nuovo, con una grande proiezione di potenza, certo, ma che non cercava né di intimidire, neanche di sedurre, né soprattutto di lusingare. Si poteva guardarlo bene in volto, con intensità, senza sentire che vi invadesse o che lo si disturbasse.
Lo stesso per i famosi fluidi. Delle vecchie pazze come la principessa Elena di Romania hanno scritto che quando Hitler stringeva la mano, le sue dita lanciavano scariche elettriche, evidentemente diaboliche! La mano di Hitler non stringeva troppo, era piuttosto molle. Generalmente anche, soprattutto con dei veri amici, Hitler non dava la mano, ma stringeva l’altra nelle sue due mani. Non mi sono mai sentito trafitto da quel contatto, come da vecchia pazza di principessa romena. Non sono mai saltato in aria sotto la deflagrazione! Era una stretta di mano normalissima, come quella di una guardia forestale ardennese.
Hitler era semplice, molto curato. Le sue orecchie mi hanno sempre stupito, lucenti come conchiglie. Egli non faceva il play-boy , credetemi. I suoi vestiti erano stirati con cura, è difficile dirne di più. Le sue giacche militari erano tutte uguali, senza nessuna grazia. Calzava il numero 43: una notte in cui ero capitato da lui all’improvviso calzato di stivali di feltro russi, egli andò al suo armadio, mi riportò un paio dei suoi stivali e ficcò nelle punte un pezzo di giornale perché non vi nuotassi, giacché io calzo il 42. Questo particolare vi dice come l’uomo era senza complicazioni.
Non aveva bisogno di nulla, salvo di bellezza. Si pagò, con i diritti d’autore del suo Mein Kampf, un meraviglioso Botticelli che agganciò al di sopra del letto. A parte ciò, non aveva mai un marco su di sé. E’ morto senza lasciare un pfennig. Per lui questo problema dei beni personali, del denaro personale nemmeno esisteva. Sono sicuro che durante gli ultimi anni della sua vita non vi pensò una sola volta.
Mangiava in dieci minuti. E anche il suo pasto era uno spettacolo piuttosto sbalorditivo. Poiché quell’uomo che si coricava alle cinque o alle sei del mattino ogni giorno, e che era già in piedi alle undici, occhiali in mano, davanti ai suoi incartamenti, mangiava appena. E ancora, erano cibi, che, per il grande pubblico, «non danno forza». Condusse tutto lo sforzo terribile della guerra senza avere inghiottito una sola volta cento grammi di carne. Non mangiava uova. Non mangiava pesce. Un piatto di pasta, o un piatto di verdura. Qualche dolce. Acqua. Sempre acqua. Ed i festeggiamenti culinari hitleriani erano terminati!
Aveva la passione della musica. A un punto perfino stupefacente! Aveva una memoria uditiva degna della memoria parlata di un de Gaulle. Un motivo musicale, da lui sentito una volta, era assorbito per sempre. Lo fischiettava senza difficoltà, per quanto lungo fosse. Wagner era di suo dio. Non ne ignorava una sfumatura. Egli confondeva, nella Storia di Spagna, Isabella la Cattolica (XV secolo) e Isabella II (XIX secolo), ma non avrebbe confuso due note di tutto il repertorio musicale di tutto l’universo.
Amava il suo cane. Gli era stato rubato un cane durante la Prima Guerra mondiale. Fu uno dei più grandi dispiaceri della sua giovinezza. Sì, è così. Ho conosciuto Blondie, il suo cane degli ultimi anni. Il bravo animale misurava coi propri passi a fianco suo il baraccamento di tavole, come se avesse soppesato, anch’esso, le alee del fronte russo. Hitler gli preparava lui stesso il pastone verso mezzanotte, lasciando i visitatori presenti per andare a dar da mangiare al suo compagno.
E delle compagne? Qui veramente, si sono superati tutti i limiti dell’immaginazione in follia, perfino del sadismo. Se vi è proprio un uomo per il quale la donna-amore abbia contato poco, questi è Hitler.
Non parlava mai di donne. Aveva orrore delle battute da corpo di guardia di cui tanti uomini — i piccoli caratteri soprattutto — sono ghiotti. Dirò di più: era esageratamente pudico. Pudico nel comportamento. Pudico nei sentimenti.
Egli ammirava la bellezza femminile. Un giorno, si adirò perché il suo ufficiale di ordinanza non aveva chiesto l’indirizzo a una ragazza, straordinariamente bella e radiosa, che si era spinta fino alla sua automobile per acclamarlo. Non che avesse voluto fissare un appuntamento, come cento uomini avrebbero fatto, ma gli sarebbe piaciuto mandarle un mazzo di fiori.
La compagnia femminile gli piaceva. Ho conosciuto molto bene Siegrid von Weldseck, la più bella ragazza del Reich, alta, gli occhi chiari, la pelle meravigliosamente dolce, i seni minuti. Chiunque sarebbe stato pazzo di lei. Ho passato con lei le ultime belle ore della guerra, precisamente quando, nel mio settore del fronte dell’Oder, venne a ricercare il fascio di lettere che le aveva scritto il suo amico, il Führer.
Ebbene! l’essenziale della loro relazione consisteva, lei stessa me lo raccontò, nell’andare da lui ogni martedì — e non vi si recava nemmeno sola — allo scopo di incantarsi di musica! Hitler non abbondava di confidenze sui suoi successi femminili. Milioni di donne tedesche — e non tedesche! — sono state innamorate di lui. Un intero armadio rinchiudeva lettere di donne che l’avevano supplicato di far loro un bambino! Non faceva loro nemmeno la corte. Aggiungerò che l’amore non contava niente per lui. Una fatalità quasi spaventosa segnò i suoi diversi slanci sentimentali.
Aveva esordito con un amore innocente. L’eroina si chiamava Stefania. Lui aveva sedici anni. Ogni sera si insediava sul ponte di Linz per vederla passare.
Ebbene! mai, durante i mesi in cui durò il maneggio, osò dirle una parola! Hitler — ciò sembra impensabile — era un timido. Ma timido come una comunicanda.
Si consumò due anni ad amare da lontano la suddetta Stefania. Egli disegnava il palazzo — wagneriano, certo! — in cui avrebbero vissuto la loro felicità. Le scriveva, da Vienna, lettere disperate, a caratteri nervosi, tratteggiati. Ma la firma era illeggibile, e l’indirizzo non era indicato.
« E’ vero, mi ricordo. Ma è cosa vecchia ! Cinquant’anni! Sì, ricevevo proprio le lettere di cui dite. Allora, a sentirvi, erano lettere di Hitler?». E’ Stefania che parla così. Mai il suo innamorato di allora si presentò, mai osò presentarsi. Essa si sposò. Vive a Vienna, molto anziana signora, vedova di un tenente-colonnello. Fu il primo amore di Hitler. A ventanni, completamente assorto da quell’amore muto, Hitler era ancora un uomo vergine. E’ così. E’ vero, rigorosamente vero.
Si sono, evidentemente, raccontate centinaia di stupide storie su amori di Hitler con prostitute viennesi, con Ebree, evidentemente, e, perfino sulla sifilide di cui tali signore gli avrebbero fatto dono. Sono menzogne. In tutta la giovinezza di Hitler, non vi fu che un amore, quello di Stefania. E non le rivolse mai la parola.
Se l’amore per Stefania non aveva portato a nulla, tutti gli altri amori di Hitler non condussero che a catastrofi. Nemmeno una delle donne che strinse nelle sue braccia l’uomo che fu certamente il più amato d’Europa terminò il suo romanzo senza un raccapricciante dramma. La prima si impiccò in una camera d’albergo. La seconda, sua nipote Geli, si uccise nel suo appartamento di Monaco, usando la sua stessa rivoltella. Hitler ne fu come impazzito. Per tre giorni, misurò a grandi passi senza fermarsi il suo piccolo appartamento bavarese, pronto a suicidarsi. Mai più il ricordo di Geli avrebbe abbandonato la sua vita. Geli era dovunque. Il suo busto era ornato di fiori senza sosta.
La terza fu Eva Braun, Eva Braun intorno alla quale si sono intessute leggende favolose, spesso insensate, talvolta grottesche.
Qui ancora, sono testimone. Ho saputo tutto di lei. Era una piccola impiegata del migliore amico di Hitler, il fotografo monachese Hoffman, mio ottimo amico, pure. Essa era pazza del bel Adolfo, pur assai male agghindato in quel tempo, nella sua orrenda gabardine chiara, sempre sgualcita, la ciocca cadente come una coda di uccello morto, il naso abbastanza grosso, appoggiato sullo spazzolino da denti dei suoi baffi. Ma ila bella Eva, grassottella e rosea, lo amava perdutamente. Essa tentò di prenderlo nella trappola di un bacio. Una notte di veglione, indusse Hoffman, il suo padrone, a telefonargli affinché li raggiungesse alla loro festa. Usciva poco. Anche una notte di cenone, la passava solo nel suo due-stanze. Finì per lasciarsi convincere e arrivò. Proprio nel momento in cui passava, senza rendersene conto, sotto il vischio, la bella Eva, che spiava il momento, gli saltò al collo, seguendo la vecchia tradizione. Hitler si fermò di botto, arrossendo come un coscritto, girò sui tacchi, strappò dall’attaccapanni la sua gabardine e riguadagnò la via, senza nemmeno aprire bocca. Ve lo dico: di fronte alle donne, egli era incredibilmente timido. Un solo bacio aveva messo in fuga colui che avrebbe messo in fuga, dieci anni dopo, l’intera Europa!
Ma la faccenda non sarebbe finita lì. La povera Eva era più innamorata che mai. Allora, il dramma, di nuovo, entrò. Quando ebbe proprio coscienza che il caro Adolfo era radicalmente inaccessibile, prese, lei pure, una piccola rivoltella e se la scaricò in pieno cuore.
Si ignora, generalmente, quel suicidio. Ma, dieci anni prima di suicidarsi a Berlino, vicino a Hitler, Eva Braun aveva voluto già, per amore di Hitler, suicidarsi una prima volta, a Monaco. Dopo i due cadaveri precedenti, c’era di che spaventarsi. Eva non era morta. Hitler volle sapere se veramente vi era stato un suicidio per raggiungere la morte, o, semplicemente, per impressionarlo con una piccola commedia. Il rapporto del professore deH’università di Monaco che, a sua richiesta la esaminò, fu categorico: Eva non aveva mancato la morte che per qualche millimetro. Essa era proprio stata l’innamorata integrale, quella che aveva preferito perire piuttosto di non potere proiettare verso il suo diletto tutto lo slancio della sua vita. E’ da allora che data l’ingresso di Eva Braun nella vita di Hitler. Oh! entrata discreta. Non li si vedeva mai soli. Essa era invitata a Berchtesgaden, ma sempre in compagnia di altre ragazze, delle mogli di collaboratori del Führer.
Ci si sedeva al sole, sul terrazzo, di fronte alle Alpi grige, azzurre e bianche. Non vi fu mai amicizia — poiché fu, innanzi tutto, un’amicizia — più riservata di quell’amore. Tutte le storie di bambini nati da loro rientrano nel campo della fantasia totale. Hitler adorava i bambini, li riceveva sulla sua terrazza, li vezzeggiava. Ma non ne ebbe mai né da Eva né da nessun’altra. Nella sua vita, la donna non fu che uno sprazzo di bellezza, in mezzo ai lavori della sua vita politica che era tutto per lui. E ancora, le ombre della morte intenebrarono sempre le fuggevoli luci dei volti femminili sui quali il suo sguardo si era posato.
Poiché non era finita con le pallottole di rivoltella. Un’altra tragedia femminile stava per scoppiare sotto il balcone di Hitler, il primo giorno della Seconda Guerra mondiale. Questa volta, era una Inglese che si suicidava. Era una ragazza meravigliosa. L’ho ben conosciuta e ammirata, come le sue sorelle, una delle quali era la moglie di Oswald Mosley, il capo dei fascisti inglesi. Erano tutte belle, ma Unity — Unity Mitford — era simile a una dea greca, slanciata, bionda, il perfetto tipo germanico. Si era illusa che Hitler e lei avrebbero potuto incarnare l’alleanza germano-britannica che Hitler sognò sempre, che egli evocava ancora qualche giorno prima di morire. Unity seguiva Hitler dappertutto. Quando questi attraversava le folle prima di raggiungere la tribuna, lei era là, raggiante, trasfigurata. Ogni volta, un sorriso tenero illuminava il rude volto di Hitler, un breve istante. La invitava, lei pure. Eva Braun ne era anche un poco gelosa, senza osare tuttavia manifestarlo. Poiché, se Hitler ammirava, lisciava con lo sguardo e con una certa emozione il mirabile volto e il corpo perfetto di Unity, particolarmente nella casa di Wagner a Bayreuth, l’idillio era sempre limitato a ciò. Hitler era allora alla vigilia della guerra, e la chioma dorata della bella Unity poteva difficilmente essere la sua esclusiva preoccupazione.
Ma, per Unity, Hitler era tutto. Quando, il 3 settembre 1939, la guerra con l’Inghilterra scoppiò e Unity comprese che il suo amore si spezzava, essa passò al di sopra dei cespugli di rose che fiorivano sotto le finestre dell’ufficio del Führer e tirò fuori la rivoltella dalla borsetta. La pallottola la ferì gravemente alla testa, ma non la uccise. Avvenne ancora una cosa assolutamente straordinaria. Dopo che Hitler ebbe affidato Unity ai più grandi chirurghi del Reich che la salvarono (ogni giorno, in piena guerra di Polonia, le faceva inviare delle rose), organizzò il suo ritorno in Gran Bretagna. Ora, si era nell’inverno 1939-1940, e già i principali paesi del continente erano entrati nel conflitto. Nondimeno Hitler ottenne che un treno speciale trasportasse la ferita, non solo attraverso la Svizzera ma attraverso tutto il territorio francese, fino a Dunkerque, da dove una nave, sorvolata, protetta dalla Luftwaffe, la riportò sulle rive della sua patria. Non servì a nulla. Unity vivacchiò ancora durante le ostilità, distrutta dalla sua pena. Poi si lasciò morire dopo che il corpo di Hitler fu scomparso nel fascio di fuoco del giardino della Cancelleria, il 30 aprile 1945.
Non rimase più che Eva a partire dal 1939. Il suo ruolo rimase fino alla fine proprio modesto. Lo dico poiché ho passato fino a una intera settimana vicino a Hitler, durante quegli anni, al suo Gran Quartier generale. Eva Braun non vi apparve mai. Mai d’altronde una sola donna, qualunque fosse, condivise l’intimità di Hitler durante i quattro anni che questi trascorse, ritirato, nelle sue costruzioni delle retrovie. Eva scriveva. Telefonava la sera, verso le dieci. A ciò si limitava quell’amore al rallentatore, tanto discreto quanto poco romantico. Solo la fine della guerra gli diede una conclusione grandiosa.
Quando Eva si rese conto che tutto crollava, che 1’uomo che essa amava più di tutto stava per soccombere, si gettò in aereo nella fornace di Berlino, per poter morire al suo fianco.
Fu allora, nell’ultimissimo giorno della sua esistenza, per onorare in lei il coraggio della donna tedesca e il sacrificio dell’amante che preferiva morire piuttosto che sopravvivere a colui che amava, che Hitler la sposò.
Prima, non si era sposato, perché sua moglie, la sua sola moglie, era la Germania. Quel giorno, egli lasciava la Germania per sempre. Sposò dunque Eva. Fu veramente un omaggio. La sua ultima notte, non la passò nemmeno con lei. Egli era l’eroe saggio. Lo rimase fino alla soglia stessa della morte. Tutto fu tragico fino alla fine. Quando accanto al corpo di Hitler inondato di benzina in fiamme, il corpo di Eva si mise a crepitare, il suo busto, improvvisamente, si raddrizzò. Vi fu un attimo di spavento. Poi ricadde nelle fiamme. Così si consumò l’ultimo amore di Adolf Hitler.
Per quanto allucinante fosse stata la vita sentimentale — così poco conosciuta —del capo del Terzo Reich, essa occupò, in realtà, una parte abbastanza insignificante nella sua esistenza. Ciò che contò per lui, veramente, esclusivamente, fu la battaglia pubblica. Politicamente, mai un uomo, sulla terra, sollevò un popolo come fece Hitler. Nondimeno, ben scaltro sarebbe colui che scoprisse adesso tra il grosso pubblico tedesco un ex-hitleriano che si manifesti tale senza timore!
La verità, tuttavia, è che quasi tutti i tedeschi furono hitleriani, fin dall’inizio, o in seguito. Ogni elezione, ogni plebiscito portarono ad Hitler un’adesione più vibrante e, infine, quasi unanime. La gente votava per lui perché desiderava votare per lui. Nessuno ve la costringeva. Nessuno la controllava. Che fosse nel territorio stesso del Reich, o nelle regioni ancora sottomesse ad autorità straniere (Saar, Danzica, Memel), i risultati erano identici. Dire il contrario è falso. Ad ogni elezione, il popolo tedesco provò che esso era tutto col suo Führer. E perché non avrebbe dovuto esserlo?
Hitler lo aveva tirato fuori dal ristagno economico. Aveva ridato il lavoro a milioni di disoccupati disperati. Cento leggi sociali nuove avevano tutelato il lavoro, la salute, il tempo libero, l’onore degli operai. Hitler aveva inventato per loro l’auto popolare, la Volkswagen, pagabile a un prezzo insignificante in parecchi anni. Le sue navi da diporto portavano in giro, dai fiordi della Norvegia alla Canarie, migliaia di lavoratori. Aveva rivivificato l’industria del Reich, divenuta la più moderna e la più efficace del continente. Aveva dotato la Germania — un quarto di secolo prima che la Francia non provasse ad imitarlo — di splendide autostrade. Aveva unificato la nazione, reso un esercito a un paese che non aveva il diritto di possedere che dei carri armati di cartone. Di un paese vinto, dissanguato (tre milioni di morti!) dalla Prima Guerra mondiale, aveva rifatto il paese più forte d’Europa.
Ma soprattutto — e ciò lo si è proprio dimenticato, e fu la realizzazione capitale di Hitler, quella che cambiò politicamente l’Europa — egli aveva riconciliato la massa operaia con la patria. Il marxismo internazionale — e diverse influenze cosmopolite — avevano, in cinquanta anni, diviso dappertutto il popolo dalla nazione. L’operaio rosso era contro la patria, non senza ragione sempre, poiché la patria dei dotati era spesso stata una matrigna per lui.
In Belgio, sfilava dietro alle bandiere rosse dal fucile spezzato. In Francia, le ribellioni militari alla Marty erano state opera sua. In Germania, i comunisti strappavano ile spalline agli ufficiali. La patria, erano i borghesi. Il marxismo, era l’antipatria.
Hitler, grazie al suo programma rivoluzionario di giustizia sociale e grazie agli immensi miglioramenti che aveva apportato nella vita dei lavoratori, ricondusse al1’idea nazionale milioni di proletari, segnatamente sei milioni di comunisti tedeschi, che sembravano perduti per sempre per la loro patria, che ne erano stati perfino i sabotatori, e avrebbero potuto divenirne gli affossatori.
La vera vittoria — vittoria duratura e di portata universale — che Hitler riportò sul marxismo fu questa: la riconciliazione del nazionalismo e del socialismo, da cui prese il nome di nazionalsocialismo, in realtà il più bel nome che abbia mai portato, al mondo, un partito.
All’amore per la terra natale, normale, ma che lasciato a sé stante, sarebbe stato troppo ristretto, univa lo spirito universale del socialismo, apportando, non a parole ma nella vita reale, la giustizia sociale e il rispetto per i lavoratori. Il nazionalismo era troppo spesso, prima di Hitler, feudo esclusivo dei borghesi e delle classi medie. All’opposto, il socialismo era dominio quasi sempre esclusivo della sola classe operaia. Hitler fece la sintesi dei due. Un de Gaulle invecchiante tenta qualcosa d’altro?
Dove l’azione di Hitler è più misconosciuta, è nel dominio della strategia di guerra. A parte un Cartier che, nel suo libro “I segreti della guerra svelati a Norimberga”, ha accertato, documenti alla mano, l’ampiezza del genio militare del Führer, resta di buon garbo, tra le menti che si credono distinte, parlare con una condiscendenza ironica degli interventi di Hitler nelle operazioni di guerra del suo tempo. Tuttavia è Raymond Cartier che ha ragione.
La cosa più sensazionale in Hitler, fu — e la storia dovrà ben riconoscerlo un giorno — il suo genio militare. Genio eminentemente creatore. Genio folgorante. L’invenzione della strategia moderna fu opera sua. I suoi generali applicarono, con più o meno convinzione, i suoi insegnamenti. Ma, lasciati a loro stessi, essi non avrebbero avuto più valore dei generali francesi e italiani della loro generazione. Erano, come loro, indietro di una guerra, avendo appena scoperto, prima del 1939, l’importanza dell’azione combinata dell’aviazione e dei carri armati, che Hitler li costrinse a praticare.
Perfino de Gaulle, che passa per precursore in questo campo, non lo fu che parzialmente. Egli comprese che le rotture del fronte non si sarebbero mai ottenute sparpagliando i carri da combattimento, di battaglione in battaglione, come volgari cannoni portati, di un appoggio limitato. In questo, metteva a soqquadro le teorie sorpassate dello Stato maggiore francese. Invece, ciò che non afferrò de Gaulle e che afferrò Hitler con una vivacità di spirito geniale, è la combinazione indispensabile dell’assalto terrestre — per mezzo della massa dei mezzi corazzati che spuntano in un punto preciso — e dell’assalto aereo, simultaneo, delle squadre di aerei che attaccano a ondate schiaccianti il punto di rottura fissato, frantumando tutto, aprendo la breccia. Senza gli Stukas, la rottura delle Panzer-Divisionen a Sedan, il 13 maggio 1940, non sarebbe stata possibile. Fu il precipitare massiccio di mille Stukas sulla riva sinistra della Mosa che aprì e forzò la via.
Alcuni militari tedeschi afferrarono sorprendentemente fin dall’inizio, fin dal 1934, l’importanza della nuova strategia che spiegava loro Hitler, i Guderian per esempio, i Rommel, i Manstein. Ma, a vero dire, si trattava di ufficiali poco conosciuti, dal grado poco importante. Furono, essi pure, scoperti da Hitler che, sentendoli ricettivi, li spinse avanti, fornì loro dei comandi e lo strumento. Non furono che un pugno. La massa dei generali tedeschi, restii, o poco convinti davanti a quelle novità, rimasero fino al 1940 degli specialisti altamente qualificati di una strategia antiquata che non avrebbe, in alcun modo, permesso la conquista in tre settimane dell’intera Polonia, né soprattutto la favolosa cavalcata motorizzata da Sedan a Nantes e a Lione, nel maggio e in giugno 1940.
Hitler era, militarmente, un inventore. Si parla degli errori che ha potuto commettere. Lo straordinario sarebbe stato che costretto ad inventare senza sosta, non ne avesse affatto commessi. Ma egli ideò, oltre alla strategia del raggruppamento motorizzato delle forze di terra e delle forze dell’aria — che si insegnerà nelle Scuole militari fino alla fine del mondo — delle operazioni così totalmente differenti come lo sbarco in Norvegia, la conquista della Grecia, l’adattamento della guerra corazzata alle sabbie dell’Africa — alla quale nessuno aveva fino allora pensato — e, perfino, anche, i ponti aerei. Quello di Stalingrado fu di gran lunga più difficile, complicato e pericoloso, di quello degli Americani a Berlino, dieci anni dopo.
Hitler conosceva ogni particolare dei motori, ogni vantaggio ed ogni inconveniente dei pezzi di artiglieria, ogni tipo di sommergibile o di nave, e la composizione della flotta di ogni paese. Le sue conoscenze e la sua memoria su tutti questi argomenti erano prodigiosi. Nessuno lo prese in fallo una sola volta. Ne sapeva mille volte di più dei suoi migliori specialisti.
Bisogna ancora, in più, possedere la forza della volontà. L’ebbe sempre, in sommo grado. Politicamente, solo la sua volontà di acciaio spezzò tutti gli ostacoli, gli fece vincere difficoltà fantastiche sulle quali chiunque altro si sarebbe infranto. Essa lo condusse al potere nel rispetto assoluto delle leggi, riconosciuto legittimamente dal Reichstag, nel quale il suo partito, il più numeroso del Reich, era ancora, tuttavia, minoritario il giorno in cui il maresciallo Hindenburg lo designò cancelliere.
Forza e astuzia. Hiter era abile, scaltro. E, anche, gioviale. Lo si è dipinto come un bruto selvaggio, rotolantesi di furore sul pavimento, mordendo i tappeti a pieni canini. Non vedo bene, tra di noi, come questa impresa mandibolare sarebbe stata realizzabile! Ho passato parecchi giorni e parecchie notti vicino a Hitler. Mai ho assistito a uno di quegli accessi di collera, tanto descritti.
Che ne abbia avuto, talvolta, ciò non ha nulla d’impossibile. Qual è l’uomo che, portando sulle proprie spalle mille volte meno preoccupazioni di Hitler, non sia mai uscito dai gangheri? Qual è il marito che non ha fatto alla moglie scenate fragorose, che non ha sbattuto le porte, che non ha rotto un piatto o altro? Che Hitler fosse talvolta andato su tutte le furie non avrebbe nulla d’inverosimile. Tanto più che motivi d’irritazione non mancavano: generali imbecilli che non capivano nulla, che indietreggiavano, che non obbedivano, che sabotavano gli ordini; collaboratori che mentivano; ritmo di produzione che non era mantenuto; rovesci che cadevano da ogni parte; tradimenti fatali nel suo immediato seguito. Ma, anche allora, Hitler era capace di rimanere perfettamente calmo.
Mi ricordo di un caso proprio tipico. Un pomeriggio d’autunno del 1944, ero presso Hitler dal quale ero appena arrivato con Himimler, nella sua lunga macchina verde. Prendevamo il tè quando, ad un tratto, cadde in mezzo a noi una notizia stupefacente: delle divisioni aeroportate britanniche erano state paracadutate con pieno successo in Olanda, alle spalle dei Tedeschi, a Amheim, presso Nimègue. Era tutto il sistema di difesa di Hitler che veniva preso di rovescio, e l’accesso alla Ruhr minacciato in maniera immediata e diretta! Si è, in seguito, raccontato compiacentemente che un traditore olandese della Resistenza aveva, in anticipo, informato i Tedeschi di quel piano. Ciò che avrebbe permesso l’anniontamento in qualche giorno di quelle divisioni britanniche. E’ una menzogna, una menzogna di più, come ne sono state lanciate molte altre dopo il 1945. Posso dirlo poiché ero presente quando si annunciò la notizia a Hitler e a Himmler. Essa lo colpì di stupore. Ma ho visto anche il seguito: Hitler riprendersi in due minuti, convocare lo stato maggiore, analizzare per due ore la situazione, soppesando i dati, poi, nel silenzio generale, dettare gli ordini, lentamente, senza uno scoppio di voce. Era impeccabile e magnifico. Si fermò. Chiese gli si riportasse dei tè caldo. E, fino a notte, avendo richiuso il cassetto della guerra, mi parlò del liberalismo. Vi assicuro che non aveva, quel pomeriggio, mangiato i tappeti a quattro palmenti! Ebbe anche espressioni divertenti, poi partì, calmo, leggermente curvo, a passeggiare sotto i pini, con Blondie, la sua cagna.
Non solo queste storie dei furori estremi di Hitler hanno della leggenda, ma egli era un uomo delicato, pieno di attenzioni. L’ho visto preparare con le sue mani dei panini imbottiti per uno dei suo collaboratori che partiva in missione. Una notte in cui discutevo col maresciallo Keitel in un baraccamento, apparve, lui, l’astemio, recandoci una bottiglia di spumante per allietare la nostra conversazione.
Contrariamente a tutto quello che è stato detto, egli era un moderato. Dal punto di vista religioso, aveva delle posizioni tutte sue. Non poteva sopportare le intromissioni politiche del clero, ciò che non era in sé reprensibile. Ciò che era impressionante, invece, era la sua idea sull’avvenire delle religioni.
Ai suoi occhi, era divenuto inutile combatterle, perseguitarle; le scoperte della scienza, dissipando i misteri — essenziali all’influenza delle Chiese — la progressione del benessere — spazzando la miseria che, per duemila anni, avvicinò alla Chiesa tanti esseri infelici — avrebbero ridotto, sempre più, a suo parere, l’influenza delle religioni.
— « In capo a due secoli , a tre secoli — mi diceva saranno giunte, le une all’estinzione, le altre a un assottigliamento quasi totale.»
Bisogna dire che la crisi, durante gli ultimi anni, di tutte le religioni e più particolarmente della religione cattolica, il suo indietreggiamento, o la sua eliminazione tra i popoli di colore, il suo ripiegamento forzato sulla Europa bianca, i suoi «adattamenti» dottrinali, i suoi arretramenti davanti al giudaismo trattato fino allora da nemico millenario e che mandava un tempo così briosamente ai roghi, la sua demagogia a scoppio ritardato, le sue svalutazioni disciplinari, le sue spinte anarchiche e di dubbia originalità non hanno dato particolarmente torto a Hitler. La sua veduta su questa evoluzione, allora inimmaginabile, era, essa pure, se lo si può dire, profetica. La pratica della religione non gli dava fastidio. Avevo ottenuto da lui che i nostri cappellani cattolici avessero potuto proseguire il loro apostolato in mezzo ai nostri soldati dopo che fummo diventati una brigata poi una divisione delle Waffen SS. Il nostro esempio si allargò a macchia d’olio. La figura più originale della divisione francese di Waffen SS, la Carlomagno, era un prelato cattolico, Moms. Mayol de Lupé, colosso colorito, commendatore della Legion d’onore e Croce di Ferro di prima classe. Questo prelato di Sua Santità (doppiamente S.S.!) non dava in alcun modo fastidio a Hitler, e nemmeno la nostra maniera di praticare la religione.
Un mattino in cui, presso Hitler stesso, uscivo, più devoto di oggi, per recarmi a messa, m’imbattei in lui in un viale di abeti. Andava a coricarsi, terminando, nel prima mattino, la sua giornata. Io, la cominciavo. Ci augurammo buona notte e buon giorno. Poi, repentinamente, rialzò verso di me il naso che aveva abbastanza grosso: — Ma Léon, a quest’ora, dove andate? — Vado a comunicarmi — gli risposi chiaro e tondo. Un bagliore di sorpresa sprizzò dai suoi occhi. Poi mi disse, affettuoso: — Ebbene! in fondo, se mia madre vivesse ancora, essa vi avrebbe accompagnato -.
Mai mi sentii, da lui, oggetto del minimo discredito, del minimo sospetto perché ero cattolico. Numerose volte ripetei anche a Hitler che dopo la guerra, non appena avrei rimesso in piedi il mio paese, avrei lasciato andare la politica per contribuire alla fioritura morale e spirituale del nuovo complesso europeo. «La politica è un settore. Non è il solo. Anche le anime devono avere la propria vita e realizzarsi. Bisogna che la nuova Europa renda questo realizzarsi possibile, facile e libero».
In ogni caso, sarebbe spettato ai cristiani sostenere fermamente il loro ideale nel mondo nuovo che si annunciava. Anche se taluni dei principali dirigenti del Terzo Reich erano ostili alle loro convinzioni religiose, essi avrebbero potuto occupare il terreno, esattamente come lo avevano fatto i credenti sotto Bismarck come pure sotto la repubblica francese di Combes. Non avevano disertato le loro responsabilità politiche sotto i regimi che, pure, avevano espulso i religiosi dai conventi, o imposto la scuola laica. In tutto, non si combatte che essendo presenti, gettandosi nel più forte della mischia, invece di gemere lontano sterilmente.
Hitler era come era. Il genio ha i suoi eccessi. Ma ha anche possibilità straordinarie di creazione e di divinazione. Hitler vincitore avrebbe potuto portare all’Europa unificata dalle sue armi, delle possibilità considerevoli. Ma, anche, indiscutibilmente, dei pericoli considerevoli. Per mettere a frutto le une e per scongiurare gli altri, il meglio era ancora di essere saldamente installati sul posto. Fu, in ogni caso, la mia scelta. Tenendo il broncio a tutto il Terzo Reich vincitore (e vincitore, avrebbe potuto esserlo; la grande maggioranza degli Europei credette proprio, nel 1940 e nel 1941, che lo sarebbe stato!) ci saremmo eliminati dall’avvenire.
Distinguendoci sul campo, il solo che ci fosse allora offerto, potevamo piantare vigorosamenee i nostri stivali nel terreno del Reich, pronti a partecipare molto attivamente all’edificazione dei tempi futuri. Hitler, soldato, era sensibile al coraggio del soldato. Un gran numero di dirigenti dei paesi occupati era un poco geloso di me, perché Hitler mi testimoniava, molto manifestamente, un affetto quasi paterno. E’ stata ripetuta ovunque la frase che mi scoccò rimettendomi, nel 1944, le Fronde di Quercia: «Se avessi un figlio, vorrei che fosse come voi». Ma, invece di ammuffire nell’inazione politica del loro paese, quei leader — nessuno lo impediva loro — avrebbero potuto, altrettanto bene di me, andare a conquistare al fronte dell’Est i diritti e il rispetto che assicurano anni di combattimento, due dozzine di decorazioni duramente guadagnate, e un buon elenco di ferite iscritto sulla propria pelle e sul proprio libretto militare.
Ad ogni modo, l’Europa dei soldati era stata creata. Era lei che avrebbe dominato con la sua forza il continente, che l’avrebbe unificato con la sua solidarietà, che l’avrebbe modellato con il suo ideale. I volontari non tedeschi del fronte dell’Est erano, lo si sa, un mezzo milione.
Tutti erano venuti al fronte russo imbottiti di sospetti e di complessi. I Tedeschi avevano invaso i nostri paesi. Non avevamo dunque nessuna ragione per amarli teneramente. Taluni di loro, a Berlino e nei paesi occupati, ci esasperavano con la loro superbia di dominatori. L’Europa che noi volevamo non si sarebbe fatta come essi la pretendevano, incollando le dita alla cucitura dei calzoni, di fronte a un qualsiasi General-Oberst o a un Gauleiter. Essa si sarebbe fatta nell’uguaglianza, senza che uno Stato onnipotente imponesse una disciplina da Feldwebel a degli stranieri di seconda zona.
O Europei uguali, o niente Europa! Anche in piena guerra, perfino quando rischiavamo la nostra pelle in ogni momento al fronte a fianco dei Tedeschi, e — questi erano a corto di uomini, tuttavia! — al posto dei Tedeschi, degli agenti del S.D., il famoso Siecherein Dienst, non esitavano a farci spiare in piena battaglia! Ne scoprii diversi. Li smascherai davanti alla truppa, esigetti dalle autorità tedesche delle scuse ufficiali, li feci comparire davanti al tribunale di guerra, incaricandomi io stesso delle funzioni di accusatore. Ottenni la loro condanna a parecchi anni di detenzione in fortezza.
Nel gigantesco apparato amministrativo del Terzo Reich, i leccapiedi e gli spioni non mancavano. Pur colmandoci ipocritamente di salamelecchi, dei Tedeschi di Bruxelles, importanti, non trovandoci malleabili come di loro gradimento, bombardavano Berlino di rapporti «geheim» (segreto!), mirando ad infierire contro di noi. Sorvegliavo i loro maneggi da vicino. Erano arrivati al punto di fare fotocopiare, in sette copie, la mia corrispondenza familiare dal fronte!
Quando ritornai in Belgio, decorato con la Ritterkreuz, dopo la rottura dell’accerchiamento di Cerkassy, tutti i «pezzi grossi» tedeschi di Bruxelles, che avevano visto le fotografie di Hitler mentre mi riceveva con un affetto innegabile, e che avevano fiutato il vento, arrivarono alla mia proprietà della Drève de Lorraine per salutarmi. Il capo del S.D. si trovava nel lotto, un colonnello chiamato Canaris — come l’ammiraglio, il capo e traditore del controspionaggio tedesco – che terminò la sua carriera, nell’aprile 1945, in una posizione abbastanza elevata, che pure non aveva previsto, sospeso a un gancio da macellaio. Quando, venuto il suo turno, il mio Canaris bruxellese si avvicinò, mellifluo, dissi, con una voce stentorea, indicando agli astanti le lettere S.D. ricamate sulla sua manica: — Colonnello, sapete cosa significano queste lettere? L’altro era divenuto cremisi. Non capiva. Per lui, S.D. significava, evidentemente, Siecherein Dienst. Una siffatta domanda, davanti a tutti i generali tedeschi, lo aveva lasciato interdetto. Che cosa volevo mai dire?… — Non lo sapete ? Ebbene, ve lo spiegherò io, colonnello: S.D., significa Sorveglianza Degrelle! – Il povero diavolo sarebbe sparito attraverso le condutture del W.C. se lo avesse potuto. Tutti capirono che era meglio non provare più a pestarmi i calli, perché avevo gli stivali duri. Con i cospiratori tedeschi, queste reazioni vigorose davano soddisfazione.
I temperamenti, neppure, non corrispondevano sempre. I Tedeschi sono spesso solenni, sostenuti, presto suscettibili. Non avevamo la testa a vaso di fiori. E lo scherzo ci divertiva più dei discorsi compassati.
Nondimeno, in capo a due anni di lotte comuni, di sofferenze comuni, di vittorie comuni, i nostri pregiudizi erano caduti, le amicizie si erano annodate, le affinità politiche si erano affermate. Ma erano dei giovani che si univano. Dei giovani che avrebbero, dopo la guerra, imposto la loro unità dell’Europa del Fronte ai vecchi retrogadi, ben decisi a metterli da parte, generali o no, senza riguardi esagerati, ogni volta che la loro eliminazione sarebbe stata necessaria, o semplicemente utile.
Realmente, al fronte dell’Est, l’Europa esistette. Non un’Europa da bottegai, ansiosi di accrescere, unificandosi, il gettito delle loro botteghe. Non un’Europa di soldati conservatori, che avevano, con tanta intolleranza, spadroneggiato nei loro feudi occidentali sotto l’occupazione. Ma un’Europa di soldati, un’Europa di idealisti, che, uniti dalla prova sostenuta in comune, erano arrivati a non più formare che una sola gioventù, a non possedere che una sola fede politica, a non avere più che una medesima concezione dell’avvenire.
Camerati nell’Europa dei giovani soldati europei vincitori, saremmo stati, come al fronte, uguali e solidali, sbattendo a mare i decatizzati onnipotenti, infagottati nel busto del loro passato fuori moda.
Le Waffen S.S. tanto denigrate, così stupidamente e così ingiustamente, furono questo: gli aristocratici dell’Eroismo, che s’imponevano a tutti perché erano i più prodi, i più audaci, quelli che avevano un ideale, forgiato col ferro e col fuoco, e che si scagliavano per farlo trionfare.
Si è fatto di loro i furieri dei campi di concentramento. Il soldato delle Waffen S.S., guerriero tutto preso dal combattimento, a mille o duemila chilometri dal suo paese, ignorava tutto sui campi di concentramento. Le lettere delle nostre famiglie mettevano talvolta un mese per pervenirci. L’arrivo di un giornale era un avvenimento. Il combattente non aveva la più insignificante idea di quello che facevano gli Ebrei o di ciò che si stava facendo di loro nell’Europa di allora.
Quando partimmo per la Russia, neanche un solo Giudeo, a nostra conoscenza, era stato ancora fermato, in quanto Ebreo, in un solo paese dell’Occidente. I grossi personaggi israeliti avevano avuto tutto il tempo di sloggiare, e non avevano mancato di farlo.
La Waffen S.3. non seppe nulla, al fronte, della sorte degli Ebrei dopo il 1942, che rinnovava antiche tragedie: poiché San Luigi che li cacciò dalla Francia, Isabella la Cattolica che li cacciò dalla Spagna non erano hitleriani, che io sappia.
La Waffen S.S. radunò in una formidabile coorte, come Roma e come l’Impero napoleonico non conobbero mai, i più valorosi soldati, non solo della Germania ma dell’Europa intera. I non-Tedeschi fraternizzavano in una ugualianza completa con i Tedeschi. Era talvolta perfino anormale. Eravamo quasi meglio trattati dei nostri camerati del Reich! Pochi Tedeschi sono stati oggetto dell’affetto e della considerazione di Hitler come lo sono stato, io, capo straniero di una divisione di Waffen S.S. straniere.
Allora, perché avremmo dovuto avere paura dell’avvenire, vedendo l’unità europea che formavamo, in un milione di giovani di ventotto paesi diversi, i più intrepidi, i più duri e i meglio armati di tutta l’Europa? Chi avrebbe osato sfidarci? E chi ci avrebbe resistito? L’avvenire non era più di vecchi intriganti, destinati ad ospizi futuri, era nostro, dei giovani lupi.
Conoscevo Hitler a fondo.
Non temevo più il rischio di fare gruppo, in una Europa comune, con un genio che aveva superato, politicamente, le tappe delle regioni e delle nazioni.
— Dopo la guerra — mi diceva — cambierò il nome di Berlino perché non appaia più come capitale dei soli Tedeschi, ma la capitale di tutti. Lui avrebbe potuto creare, forgiare, unire.
A questa creazione, certamente rischiosa — ma al fronte conoscevamo altri rischi! — esaltante, all’altezza dei più grandi sogni, come avremmo potuto preferire il ritorno a un concubinaggio sordido con regimi piccolo-borghesi, senza grandi vizi, senza grandi virtù, sotto i quali l’Europa disunita avrebbe potuto, tuttalpiù, continuare a sguazzare, come prima della guerra, nella più molle mediocrità ?… Con Hitler arrischiavamo grosso. Ma, anche, arrischiavamo grande.
Fu allora, nel momento in cui avevamo scongiurato i più gravi dubbi e preparato i più alti disegni, che l’avversità si abbattè su di noi come crolla un’enorme muraglia, il giorno in cui, sotto i cieli bianchi e gelidi del Volga, eccheggiò lo scricchiolio sinistro della capitolazione di Paulus a Stalingrado.
CAPITOLO X
Da Stalingrado a San Sebastiano.
Che pensare di Paulus, il maresciallo tedesco che, sprofondando a Stalingrado alla fine di gennaio 1943, trascinò nella sua rovina Hitler e il Terzo Reich? Fu la scalogna, o più precisamente l’errore di Hitler — poiché fu lui che ve lo nominò — di avere avuto come capo della Sesta Armata, nel punto cruciale del fronte russo e nel momento in cui si stava giocando la sorte della guerra, un uomo che non aveva nessuna delle qualità indispensabili per ricevere un tale urto, o, almeno, per mitigare il disastro.
Quel disastro fu totale, militarmente e psicologicamente. Non si poteva essere più integralmente vinto di quanto lo fu Paulus. E la sua disfatta non poteva avere, nell’opinione pubblica mondiale, una ripercussione più ampia. Tuttavia, 300.000 uomini perduti, non era la fine del mondo: i Russi ne avevano perduti venti volte di più in un anno e mezzo. Immensi spazi restavano a Hitler in U.R.S.S. e nella Germania dell’Est, dove avrebbe potuto manovrare e nei quali manovrò fino alla fine di aprile 1945. La Germania possedeva sempre, nel 1943, imponenti risorse materiali e straordinarie possibilità industriali su tutta la superficie dell’Europa occupata. In quell’epooa, Dniepropetrovsk, a migliaia di chilometri dalla Ruhr, risplendeva ancora, nella notte, delle luci abbaglianti delle fabbriche di munizioni della Wehrmacht. E, protetti dai loro sbarramenti aerei di palloni, gli stabilimenti estoni di Hitler continuavano ad estrarre dallo scisto la più ricca benzina della Luftwaffe. Pure, Stalingrado segnò la caduta. Là fu rotta la cordata. Si sarebbe potuto credere ad una corda rotta, che si sarebbe potuto riparare. Ma la rottura fu irrimediabile, seguita da un ruzzolone sempre più accelerato verso il baratro.
Hitler, nominando Paulus alla testa della Sesta Armata, non si era immaginato che il militare-funzionario, meticoloso, indeciso, che distaccava verso un grande comando in Ucraina, sarebbe stato, per l’appunto, colui che, tra tutti i suoi comandanti di armata, stava per dover assumere, strategicamente, le più grandi responsabilità. La sua armata aveva, durante l’offensiva dell’estate 1942, ricevuto una zona di progressione senza rischi speciali. Scagliarsi verso il Caucaso, affrontare, a più di mille chilometri dal punto di partenza, i monti, le gole, le acque tonanti che sbarravano l’accesso ai petroli, era ben più rischioso che fare avanzare delle truppe, perfettamente agguerrite, per qualche centinaia di chilometri tra il Dnieper e il Don, attraverso pianure appena ondulate, fino a che avessero raggiunto un fiume molto largo, il Volga, che avrebbe potuto costituire, subito, la più formidabile linea di difesa naturale di tutto il fronte della Russia. Nondimeno fu qui che tutto si arenò e che tutto vacillò.
Qualunque altro capo militare tedesco, della Wehrmacht o della Waffen S.S. — un Guderian, un Rommel, un Manstein, un von Kleist, un Sepp Dietrich, uno Steiner o un Gille — avrebbe raggiunto Stalingrado in qualche settimana e vi si sarebbe fortificato. Paulus era un alto funzionario di stato maggiore, competente quando era alla scrivania davanti alle sue carte, un creatore di piani in stanza, un preparatore minuzioso di statistiche. La gente come lui era necessaria, ma nella sua specialità. Il più alto comando diretto che aveva esercitato era stato quello di un battaglione, cioè di un migliaio di uomini! E ciò risaliva a dieci anni prima! Quel comando, molto limitato, gli aveva d’altronde valso, dal suo capo, il generale Heim, il seguente giudizio: «mancanza di forza di decisione». Ora, Hitler gli aveva affidato, ad un tratto, trecentomila uomini!
Quasi tutta la sua vita, Paulus l’aveva trascorsa nella burocrazia degli stati maggiori. Ma era ambizioso. Sua moglie, una Romena, abbastanza comicamente soprannominata Coca, schiumosa come la broda dallo stesso nome, era ancora più ambiziosa di lui. Era di una sufficienza e di una vanteria irritanti. A sentirla, lei era della più alta nobiltà balcanica, di sangue reale, proclamava. In realtà, portava il nome plebeo e poco poetico di Solescu e suo padre, un tipo strano, aveva lasciato in asso sua madre, da lungo tempo. Essa faceva i vezzi nei salotti. Scocciava, con le sue domande indiscrete, tutto ciò che contava nello stato maggiore generale, accanita per vedere suo marito prendere, semplicissimamente, la successione del maresciallo Keitel!
Hitler si fidava prima di tutto dei volti che conosceva. Egli vedeva, ad ogni piè sospinto, il volto severo di Paulus chino sui suoi incartamenti di capo delle operazioni. Aveva appena proceduto a numerosi e improvvisi rimaneggiamenti al fronte russo, distaccando, per esonerare dei generali troppo vecchi e senza mordente, i più brillanti capi di cui aveva seguito i successi durante l’estate. Dovette sostituire, inoltre, improvvisamente, il capo della Sesta Armata, il maresciallo von Reichenau, colpito d’apoplessia tra le nevi del Donez, a 40° sotto zero. Colto di sorpresa, Hitler designò il generale Paulus, che aveva sottomano nei suoi uffici. L’uomo fece assolutamente pietà. Quando dovette, nel luglio 1943, intraprendere l’offensiva verso il Volga, avrebbe dovuto scagliarsi, correre come tutti noi correvamo. Strascicò, mise radici, perdendosi in difficoltà che erano cose da niente, annullando decisioni appena prese, ossessionato inoltre da problemi personali veramente irrisori, i più notevoli dei quali furono, per tutta la durata della campagna, lo stato deficiente del suo sistema intestinale!
E’ penoso constatare che il capo di una grande unità in combattimento poteva essere letteralmente assorto, in piena azione, da storie miserabili a un tale punto! Tutti avevamo la colica, senza fare tante storie! Buon Dio, ci si buttava verso i radi cespugli della steppa! Tre minuti dopo, si ripartiva cantando, alleggeriti, la cinghia dei calzoni restrinta di un buco! Ma Paulus inondava la corrispondenza delle sue intemperanze intestinali! Centinaia di miglia di soldati, che avevano bevuto del brodo di gallina troppo grasso o dell’acqua putrida, non facevano appello, per questo, alla testimonianza dei Cieli e degli Dei!
La corrispondenza spedita da Paulus esiste ancora. Essa trabocca di desolate descrizioni delle sue diarree, di vecchie storie di sinusiti e di lamentazioni sulle difficoltà materiali che incontrava, come ogni capo di unità importante ne incontrava e che non erano, nella sua armata, più drammatiche che altrove! Al contrario, aveva la partita nettamente più facile. La sua marcia era la meno lunga, quella in cui gli ostacoli erano i più ridotti e, in ogni caso, i più semplici da ridurre. Una volta raggiunto l’obiettivo, il Volga gli avrebbe fornito la sua enorme barriera d’acqua larga dieci chilometri e profonda una decina di metri.
Anziché fare questo, smarrito nei dettagli, roso dalle apprensioni e dai suoi guai di trippaglia, Paulus la tirava per le lunghe nella sua andatura, lasciando al nemico il tempo di raggrupparsi fin da prima dell’attraversamento dell’ultima grande ansa del Don. Il fiume fu attraversato, ma con quindici giorni di ritardo. Più nulla impediva seriamente di dare l’ultimo colpo di raspa. Degli arditi arrivarono sulla sponda dello stesso Volga. Due o tre giorni di messa a frutto vigorosa di quella penetrazione e Paulus, dall’alto dei costoni rocciosi della riva destra, non avrebbe più veduto davanti a sé che un fiume vuoto e, alle sue spalle, la massa delle ultime truppe sovietiche accerchiate. Il maresciallo sovietico Eremenko non viveva più, messo alle strette, soffocato nel suo ultimo ridotto di ottocento metri, il didietro nel Volga.
Qui ancora, Paulus mancò completamente di mordente, si lasciò bloccare a quelle poche centinaia di metri dalla vittoria finale, sprofondando in operazioni limitate, micidiali, deludenti, come se non si fosse ricordato che dei combattimenti di terreno, per il metro quadrato, davanti a Verdun nel 1917.
Tutto doveva nuocere a questo funzionario superato dal suo ruolo. Il settore che copriva, al nord, il fronte di Stalingrado era stato imprudentemente affidato, nella sua totalità, a contingenti romeni e italiani che si fecero sfondare fin dal primo giorno dell’offensiva che i Russi avevano preparato in gran segreto nella loro testa di ponte di Kresmenskaia. L’osservazione tedesca aveva tuttavia scoperto i loro preparativi, e dei provvedimenti erano stati presi immediatamente per rinforzare il settore minacciato. Ma era detto che nemmeno una sventura sarebbe stata risparmiata a quello sfortunato Paulus.
I carri armati della ventiduesima divisione corazzata tedesca, che si trovavano in riserva, avevano ricevuto da Hitler, il 10 novembre 1942, cioè nove giorni prima dell’assalto dei Sovieti, l’ordine di raggiungere il settore, giudicato in pericolo, della Terza Armata romena. Quei carri armati a riposo erano stati mimetizzati da un mese sotto covoni di fieno. Sotto quei ripari, dei topi — sì, dei topi! — avevano rosicchiato, mangiato, senza che nessuno lo sospettasse, centinaia di metri di filo e di cavo dell’impianto elettrico!
Al momento di farli uscire dai covoni e di metterli in marcia, trentanove di quei centoquattro carri armati non poterono nemmeno essere messi in moto; trentasette altri dovettero essere abbandonati strada facendo. In conclusione, non furono più che venti, dopo nove giorni di complicazioni tecniche, a potere fare fronte all’offensiva russa che, nel frattempo aveva rotto il fronte dei Romeni da trenta ore e dilagava come un uragano. Le guerre sono così. Si perdono per un incidente irrisorio, o buffo. Un branco di topi bulimioi fu alla base del grande tracollo del fronte dell’Est! Senza di loro, i centoquattro carri armati della ventiduesima divisione corazzata avrebbero potuto preparare il loro sbarramento prima che l’assalto sovietico fosse stato sferrato. Quegli sporchi piccoli denti di roditori avevano tagliuzzato i nervi dei carri armati. La corsa sovietica non trovò uno sbarramento davanti a sé che trenta ore dopo la sua rottura. Venti carri armati in tutto! Ciò che era sfuggito all’appetito dei musi ficcanaso. Più di settantacinquemila soldati romeni erano stati frattanto annientati!
Il Don formava, ugualmente, all’ovest del settore di Paulus, un secondo sbarramento. Altra incredibile scalogna: quando dei carri armati sovietici, scagliandosi attraverso tutto verso quel fiume, apparvero in prossimità del ponte principale a Kalatch, i difensori tedeschi li scambiarono per carri armati amici. Il ponte non saltò. In cinque minuti, il Don fu attraversato! Da quel momento, Paulus perse la testa. Si gettò perfino in un aereo per andare a rifugiarsi in un P.C. di soccorso, a Nijni-Cirskaia, ad ovest del Don, vi sciupò ore decisive, isolato dal suo stato maggiore, dovette ritornare, su ordine telefonico di Hitler furente, esitò, più innervosito che mai, non sapendo cosa decidere. Lasciò congiungersi alle sue spalle le colonne dei carri armati sovietici che scendevano dal nord e che salivano dal sud, senza avere potuto concepire una difesa intelligente.
Nulla era stato ancora perduto per questo. Hitler aveva immediatamente messo in marcia verso Stalingrado una colonna corazzata di soccorso, al comando del generale Hoth, dipendente dal maresciallo von Manstein. Si è scritto cento volte che il Führer aveva abbandonato Paulus. Nulla di più falso. Le sue forze corazzate arrivarono fino ai fiume Mischkova, a quarantotto chilometri a sudovest di Stalingrado, così vicino a Paulus che già le radio degli accerchiati e quelle dei loro liberatori avevano stabilito il contatto. Si è conservato il fascio di messaggi scambiati tra Paulus e il maresciallo von Manstein. La loro lettura deprime. Paulus avrebbe potuto, in quarantotto ore, salvare i suoi uomini. Bisognava gettarsi, come poteva, verso i suoi salvatori, con ciò che aveva alla sua portata e con il centinaio di carri armati che gli restavano. Un anno dopo, presi, esattamente come lui, con undici divisioni, nell’accerchiamento di Cerkassy, ingaggiammo dapprima sul terreno ventitré giorni di combattimenti accaniti poi, quando furono segnalati a una ventina di chilometri i mezzi corazzati del generale Hube che venivano in nostro aiuto, ci avventammo verso di loro, forzando la rottura. Perdemmo ottomila uomini nel corso di un corpo a corpo orrendo ma cinquantaquattromila uomini passarono attraverso la breccia e furono salvati.
Anche se Paulus ne avesse perduti il doppio, o il quintuplo, era meglio che abbandonare la sua armata, come fece, alla morte nell’orrore dell’accerchiamento finale, o della capitolazione che fu ancora peggio, poiché dei duecentomila prigionieri della Sesta Armata, i Sovietici ne fecero perire, in seguito, di angherie e di fame, più di centonovantamila, nei loro campi. Di tutti i prigionieri di Stalingrado, novemila soltanto ricomparvero nella loro patria, parecchi anni dopo la guerra.
Tutto dunque era meglio che restare nella nassa. Bisognava rompere. Paulus non arrivò a decidersi a nulla. Von Manstein non gli dava tregua per radio; mandò, in aereo, ufficiali del suo stato maggiore nella sacca stessa di Stalingrado, per indurlo a mettersi finalmente in moto. Le colonne dei suoi carri armati, al comando di Hoth, si erano spinte avanti a punta di lancia, correvano sempre più il rischio di farsi accerchiare a loro volta se le tergiversazioni di Paulus si fossero dovute ancora prolungare. Fu allora che questi, avendo perso la testa per la sua mania pignolesca dei raggruppamenti meticolosi a base di scartoffie e che, in realtà, preferiva in fondo a se stesso non muoversi più, mandò un cablogramma ai suoi salvatori per dire che gli occorrevano sei giorni in più per mettere a punto i preparativi di sgombero! Sei giorni! In sei giorni, nel 1940, Guderian e Rommel erano corsi dalla Mosa all Mare del Nord! Paulus e la sua Sesta Armata non sono sfuggiti al disastro di Stalingrado perché il capo non ebbe né forza di volontà né spirito di decisione. La salvezza era a portata di mano, a quarantotto chilometri. Lo sforzo inaudito dei carri armati di liberazione, arrivati vicinissimi a lui e che avrebbe potuto raggiungere in due giorni, non servì a nulla. Paulus, teorico incapace sul campo, cervello molle, abbattuto ancora prima di decidersi, lasciò proprio sfinirsi nell’attesa la colonna liberatrice. Non apparve affatto. Non tentò nemmeno di apparire. I carri armati di von Manstein, dopo un’attesa interminabile ed estremamente pericolosa, dovettero troncare, ritornare verso la base di partenza.
Paulus finì un mese dopo, ancora più miserabilmente. Avrebbe dovuto, almeno, farsi uccidere alla testa delle sue ultime truppe. Si sdraiò sul suo letto nella postazione sotterranea del comando, attese che i negoziatori del suo stato maggiore avessero terminato, fuori, le chiacchiere con degli emissari sovietici. Egli chiedeva, con un’insistenza che faceva male, che una volta arreso, un’automobile fosse messa a sua disposizione per condurlo al Gran Quartier generale del nemico. I suoi soldati agonizzavano. Lui, pensava ad un’auto che lo trasportasse. L’uomo era tutto lì.
Qualche ora più tardi, ricevuto a colazione dal comando russo, chiese della vodka e alzò il bicchiere, davanti ai generali sovietici sbalorditi, in onore dell’Armata rossa che l’aveva appena battuto! Il testo di quel piccolo brindisi esiste ancora, registrato all’istante, come si immagina, dai Servizi di informazione dei Sovieti!
Quel testo dà la nausea. Duecentomila soldati di Paulus erano morti o partivano verso i campi in cui la morte atroce li attendeva. Lui, vodka in mano, salutava i comunisti vincitori!
Lo condussero a Mosca in treno speciale, in vagone letto. Già questo militare eternamente indeciso non era più, politicamente e moralmente, che un relitto. Era, fin da allora, maturo per il tradimento. Sarebbe sfuggito, grazie ad esso, alle forche di Norimberga. Sarebbe ritornato a insediarsi nella Germania dell’Est. Vi sarebbe vegetato ancora qualche anno. E’ morto da molto tempo. Ma questo militare mediocre, pusillamine e senza volontà, aveva spezzato i reni all’esercito del suo paese. Come un gatto con la schiena stritolata, la Wehrmacht si sarebbe stiracchiata, ancora per due anni, sulle strade della disfatta, tenace, eroica. Ma essa era perduta fin dal giorno in cui Paulus, rifiutandosi al rischio, aveva spezzato, davanti al mondo intero, il mito dell’invincibilità del Terzo Reich.
La prova che Paulus avrebbe potuto resistere, liberarsi e perfino vincere la battaglia, fu prodotta, nello stesso inverno, dal maresciallo von Manstein che Paulus non aveva osato raggiungere quando avrebbe potuto — e dovuto — gettare con vigore tutte le sue truppe accerchiate verso i loro salvatori. Costoro sferzavano senza tregua per tre mesi i Russi che, liberati dell’armata di Paulus nelle loro retrovie, avevano potuto correre in avanti per centinaia di chilometri, superando il Don, superando il Donez, sommergendo una parte deH’Ucraina. Quando furono ben scesi verso l’ovest, Manstein li incastrò, una volta di più, li battè su tutta la linea, riconquistò Karkov con la massima facilità, neutralizzando parzialmente e momentaneamente il disastro del Volga.
Se Paulus si fosse lanciato verso Manstein, combattendo poi a suo fianco, o se si fosse abbarbicato alle rovine di Stalingrado fino alla primavera — ciò che non era strettamente irrealizzabile — la guerra avrebbe potuto, forse, essere ancora vinta, o, almeno, i Sovieti sarebbero stati contenuti più a lungo.
Malgrado tutto quello che aveva di spaventoso la battaglia di Stalingrado, possibilità di resistenza sussistevano. Scorte considerevoli di munizioni e di provviste furono prese dai Russi in Stalingrado conquistata. Il ponte aereo aveva dato un appoggio che non era stato totale, ma che era stato lo stesso considerevole. Anche soltanto i ventitremila cavalli e animali da carico accerchiati con le truppe, rappresentavano milioni di chili di carne utilizzabile. Le statistiche delle riserve fornite da Paulus erano false, come sono false tutte le statistiche fornite dalle unità combattenti che segnalano le metà di quello che possiedono e chiedono il doppio di quello che aspettano. A Leningrado, con trenta volte meno rifornimenti, i Russi resistettero per due anni e vinsero, alla fine.
E poi, ad ogni modo, prolungare, anche nelle peggiori sofferenze, la resistenza a Stalingrado, era meglio che mandare duecentomila sopravvissuti a perire di sofferenze nei campi di carestia sovietici.
Delle divisioni corazzate erano state fatte arrivare in fretta dalla Francia per liberare gli assediati. Ogni mese guadagnato contava. Nel frattempo, delle armi nuove potevano essere utilizzate, suscettibili di cambiare tutto. Caccia a reazione, aerei a geometria variabile erano stati inventati nel Reich già allora, mentre gli Alleati non ne avevano ancora nessuna idea. I missili tedeschi stavano per essere operativi, essi pure, nel 1944. Se la sorte non avesse nuociuto a Hitler, particolarmente quando saltò in aria la sua fabbrica di acqua pesante in Norvegia, una bomba atomica come quella di Hiroshima avrebbe potuto altrettanto bene cadere prima del 1945 su Mosca, o su Londra, o su Washington. Su un altro piano, non era inimmaginabile che Churchill e Roosevelt si rendessero conto, prima che fosse troppo tardi, che stavano consegnando metà dell’universo all’U.R.S.S.
Avrebbero potuto, in tempo, rinunciare a mettere al servizio di Stalin i quattrocentocinquantamila autocarri, le migliaia di aerei e di carri armati, le materie prime e il materiale bellico favoloso che assicurarono ai Sovieti il loro dominio, dalle isole Curili fino all’Elba. Il meglio era dunque resistere, resistere sulla riva del Volga, resistere sul Dnieper, resistere sulla Vistola, resistere sull’Oder. Ogni campagna impiegata a sbarrare la strada alle armate rosse salvava, forse, i milioni di di esseri liberi dell’Europa minacciata di morte.
Dopo Stalingrado, una volta confermate le possibilità di resistenza militare del Terzo Reich e riconquistata Karkov, la speranza sopravvisse, per qualche mese ancora, di riprendere, una terza volta, l’iniziativa. Dopo il primo inverno, la rimessa in marcia delle armate europee aveva richiesto uno sforzo enorme poiché Stalin aveva avuto il tempo di adattarsi alla guerra-lampo e, soprattutto di scoprirne il segreto. La corsa al Caucaso era stata realizzata, ma, a dire il vero, era stata mancata, giacché il grosso del nemico ci era scivolato tra le dita. Dopo un secondo inverno e dopo il disastro di Stalingrado, molto più importante moralmente che militarmente, una terza offensiva sarebbe divenuta ancora più difficile, tanto più che tutto, nel frattempo, era cambiato in Occidente.
Gli Alleati erano sbarcati in Africa del Nord, si erano disseminati lungo il Mediterraneo del Sud, da Orano al canale di Suez. Romrnel aveva perso la partita, e non era più, lui, l’antico proconsole romano, che un subalterno amaro, inacidito, prossima vittima d’intriganti. Il continente europeo poteva essere invaso in qualunque momento, e lo sarebbe stato nell’anno stesso, che avrebbe visto gli Yankee masticare il loro chewing-gum sotto gli aranci di Palermo e correre dietro alle ragazze nei vicoli tenebrosi di Napoli dal profumo di gelsomino e di urina.
L’ultimo tentativo fu rischiato comunque. La massa potente di tutte le Panzer-Divisionen che rimanevano disponibili si slanciò, una volta ancora, verso Kursk, vicino a Orel, nel giugno 1943 per una grande battaglia di annientamento del materiale sovietico, che, se avesse avuto successo, ci avrebbe consegnato, alla fine, dopo tanti assalti, i grandi fiumi e le grandi pianure fino all’Asia. La prova fu decisiva. I Sovieti erano stati a una buona scuola. I loro maestri tedeschi del 1941 e 1942 avevano ormai insegnato loro tutto. Le loro fabbriche, riallestite al riparo dei monti Urali, avevano sfornato migliaia e migliaia di carri armati. Gli americani avevano fatto stupidamente il resto, colmandoli gratuitamente di materie prime in quantità gigantesche e degli armamenti più moderni. Nelle nostre retrovie, l’aviazione americana frantumava tutto, per facilitare ai Sovieti la corsa verso la preda europea.
Il duello Kursk-Orel fu allucinante. Hitler aveva impegnato su quel terreno stretto tanti carri armati quanti ne aveva impegnati sull’intera distesa del fronte russo al momento dell’assalto generale del giugno 1941. Per parecchi giorni migliaia di mezzi corazzati tedeschi e sovietici lottarono ferro contro ferro. Ma la doppia penetrazione originaria delle armate del Reich si restrinse di giorno in giorno, fu bloccata, neutralizzata. L’eseroito tedesco, questa volta, era stato veramente battuto. Non aveva potuto passare. La prova era appena stata fatta che il materiale russo era diventato il più forte. E’ qui che la Seconda Guerra mondiale fu persa, a Kursk e vicino a Orel, e non a Stalingrado, poiché trecentomila uomini perduti, accidentalmente, su undici milioni di combattenti non significavano un disastro irrimediabile. Il disastro irrimediabile fu quel duello decisivo delle armate corazzate di Hitler e di Stalin, sul campo di battaglia Kursk-Orel, al centro stesso della Russia, nel giugno 1943.
Da allora, l’immenso rullo compressore russo non aveva più che da scendere verso i paesi civilizzati dell’Ovest. Tutto ciò che si sarebbe potuto ancora fare, era impedirgli di calare troppo in fretta con la speranza di bloccarlo comunque prima che raggiungesse il cuore dell’Europa. Per salvare quello che poteva essere salvato, lottammo ancora per due anni, due anni terribili, nei quali perdevamo in una settimana più uomini che prima in un trimestre. Ci abbarbicavamo al terreno, ci lasciavamo accerchiare per trattenere il nemico dieci giorni di più. Non ci sottraevamo che a prezzo di sortite e di rotture apocalittiche, lasciando dietro a noi, nelle nevi notturne, protrarsi in lontananza le grida disperate dei morenti: camerati, camerati … Poveri camerati che le nevi ricoprivano lentamente, quelle nevi che, più di una volta, erano state il nostro unico cibo… Bisognava scagliarsi attraverso i villaggi russi in fiamme, tra i feriti che si contorcevano dal dolore sul lastrone di ghiaccio arrossato, tra i cavalli che si dibattevano, sventrati, con le budella sparse come raccapriccianti serpenti bruni e verdi. Gli ultimi carri armati si ributtavano verso il sacrificio o, più esattamente, verso lo sterminio. Intere unità si facevano massacrare sul posto.
Ma i fronti saltavano dappertutto, erano stati spalancati. Decine di migliaia di carri armati, milioni di Mongoli e di Kirghisi si disseminarono sulla Polonia, sulla Romania, sull’Ungheria, sull’Austria, poi sulla Slesia e sulla Prussia orientale. Ritornavamo alla carica senza tregua, riconquistando villaggi tedeschi sommersi dai Sovieti qualche ora prima: i vecchi, castrati, agonizzavano al suolo in pozze di sangue; le donne, le più vecchie come le ragazzine, violentate cinquanta volte, ottanta volte, giacevano appiccicose, le mani e i piedi ancora legati a paletti.
E’ questo martirio dell’Europa che volevamo ritardare, limitare nella misura in cui sarebbe stato ancora possibile. I nostri ragazzi morivano a migliaia per contenere quegli orrori, permettere ai fuggiaschi di correre alle nostre spalle verso i rifugi di un Ovest sempre più ristretto. Quando si rimprovera a Hitler di avere continuato così a lungo la lotta, non ci si rende conto che, senza la sua volontà frenetica, senza i suoi ordini draconiani di resistenza sul posto, senza le esecuzioni e le impiccagioni dei generali che si ritiravano e dei soldati che fuggivano, decine di milioni di Europei dell’Ovest sarebbero stati, essi pure, raggiunti, sommersi, e conoscerebbero oggi la soffocante schiavitù dei Baltici, dei Polacchi, degli Ungheresi, dei Cechi. Immolando i resti del suo esercito in un corpo a corpo disperato, un soldato contro cento soldati, un cannone contro cento cannoni, un mezzo corazzato contro cento mezzi corazzati, Hitler, qualunque sia stata la sua responsabilità all’inizio della Seconda Guerra mondiale, salvava, ha salvato, milioni di Europei che senza di lui, senza le sue energie, e senza tutti i nostri poveri morti non sarebbero più stati — e per lungo tempo — che degli schiavi.
Quando Hitler si fece saltare le cervella, ciò che poteva essere salvato era salvato. Le colonne gementi degli ultimi profughi avevano raggiunto la Baviera, l’Elba, lo Schleswig-Holstein. Solamente allora il fumo del cadavere di Hitler salì sotto gli alberi dilaniati del suo giardino. Le armi tacquero. La tragedia era terminata.
Nell’ora in cui la capitolazione fu resa pubblica, gli ultimi combattenti non formavano più che gruppi isolati, tagliati spesso da ogni contatto col comando. I pochi camerati che mi attorniavano non volevano, non più di me, cedere, consegnarsi. Un aereo era stato abbandonato nel nostro settore, il settore norvegese che avevamo raggiunto in capo a una battaglia interminabile lungo il Baltico, dall’Estonia alla Danimarca. Racimolammo della benzina, qua e là. Avevamo duemiìatrecento chilometri da superare, se volevamo raggiungere un paese come la Spagna rimasto fuori della mischia.
Ci restava una probabilità su mille di uscirne? Senza dubbio! Per più di duemila chilometri al di sopra del nemico, della sua artiglieria contraerea, delle basi delle sue squadriglie di caccia, saremmo stati bersagliati cento volte. Ma preferivamo tutto alla capitolazione.
Ci slanciammo in aria in piena notte, oltrepassammo l’Europa intera nell’abbagliamento del fuoco alleato. Raggiungemmo, all’alba, il golfo di Guascogna. I nostri motori sbuffavano, soffocavano, i serbatoi di benzina erano esauriti. Stavamo per perire a qualche minuto dalla Spagna?… Eravamo decisi, se occorreva, ad atterrare in qualsiasi modo; se non eravamo uccisi al suolo, avremmo preso d’assalto qualunque macchina. Nel crepitio delle sei mitragliatrici che portavamo, avremmo probabilmente raggiunto comunque la frontiera. Ma no, l’aereo si manteneva sempre. Potemmo raddrizzarlo una ultima volta, fare cadere sui motori gli ultimi decilitri di benzina che restavano in fondo al serbatoio. Ci ributtammo nel vuoto. Non avemmo più il tempo di vedere nulla. Rasentavamo tetti rosa, scendevamo in picchiata verso una rada chiara. Poi, un enorme scoglio si drizzò davanti ai nostri occhi. Troppo tardi! Facemmo freno, a trecento chilometri all’ora, con lo scafo stesso dell’apparecchio. Un motore saltò come un fuscello. Già l’aeroplano aveva deviato, preso da follia, correva nei flutti, vi si sprofondava.
Di fronte a noi, all’estremità delle acque lucenti, San Sebastian si destava. Dall’alto della diga, due guardias civiles agitavano il ventaglio nero di tela cerata del loro copricapo. L’acqua aveva invaso l’aereo spezzato, fino a venti centimetri dal tetto, proprio abbastanza per lasciarci ancora respirare. Eravamo tutti a pezzi, ossa rotte, carni straziate. Ma nessuno era morto, neanche morente. Delle piroghe si avvicinavano, ci raccoglievano, approdavano sulla spiaggia. Un’ambulanza mi conduceva via. Avrei passato quindici mesi, grande ferito, all’Ospedale militare di Mola. La mia vita politica era finita. La mia vita di guerriero era finita. Quella, ingrata fra tutte, di esiliato braccato, odiato, incominciava.
Capitolo XI
Gli esiliati.
Mein lieber Degrelle… Era Himmler che si rivolgeva a me. Eravamo affondati, in piena notte del 2 maggio 1945, nel fango di un campo tenebroso. A cinquecento metri davanti a noi, un migliaio di aerei alleati completava l’annientamento della città di Kiel. Tutto saltava in aria a mucchi chiari come metallo in fusione, rendendo ancora più nera la notte nella quale ci ranicchiavamo.
Mein lieber Degrelle, dovete sopravvivere. Tutto cambierà presto. Dovete guadagnare sei mesi. Sei mesi… — Mi fissava coi suoi piccoli occhi curiosi, dietro gli occhiali che scintillavano ad ogni getto delle esplosioni. Il suo volto tondo, normalmente di un pallore lunare, era divenuto livido in quei capitomboli da fine del mondo.
Qualche ora prima, alla fine del pomeriggio, avevamo perduto Lubecca. Tallonati dai carri armati inglesi e mitragliati dai Tipfligers, rifluivamo sulla strada maestra della Danimarca, quando avevo visto Himmler sbucare da una strada di campagna, in una grossa macchina nera. Già, poco prima, ero caduto faccia a faccia con Speer, 1’ex-ministro degli Armamenti, architetto straordinario e il più gentile ragazzo dell mondo. Lui, in quel diluvio di fuoco, restava, come sempre, di indole allegra. Avevamo scherzato insieme un momento. Himmler era sopraggiunto. Lui non scherzava spesso. In ogni caso, quando lo faceva, era sempre con impegno. In quel crepuscolo del 2 maggio 1945 — Hitler era morto da più di cinquanta ore e lo aveva lasciato fuori da ogni successione — Himmler aveva un aspetto più austero che mai, spento, la testa lucida sotto quattro scarsi capelli. Aveva tentato di sorridermi, tra i denti che aveva piccoli, denti di roditore sotto i quali, già, era nascosta la fialetta di cianuro di potassio che lo avrebbe folgorato qualche giorno dopo.
Ero salito nell’automobile vicino a lui. Avevamo fatto sosta nella corte di una fattoria. Mi aveva annunciato che ero diventato generale da qualche giorno. Generale, caporale, ciò non importava più molto! Il mondo ci stava cadendo addosso. Presto saremmo stati tutti senza uniforme e senza spalline. E anche morti, per la maggior parte.
Avevamo ripreso insieme, fin dalla notte, la strada del grande porto di Kiel. Quando stavamo per entrarvi, l’aviazione degli Alleati ei aveva offerto il prodigioso fuoco d’artificio dell’ultimo annientamento. L’intera Kiel saltava in aria, ardeva. Sulla nostra strada, le bombe precipitavano come noci, esplodevano o rimbalzavano. Non avevamo avuto che il tempo di saltare in un campo paludoso. Una delle due segretarie di Himmler, una ragazza lunga e sgradevole, aveva subito perduto nella pania ambedue le scarpe a tacchi alti. Appollaiata su uno dei suoi polpacci, che aveva ossuti e gracili, frugava nella melma nera, cercando invano di ripescare le sue calzature e lamentandosi. Ognuno alle sue preoccupazioni.
Himmler continuava con le sue. Mein lieber Degrelle, sei mesi, sei mesi… L’avevo urtato spesso con la mia intransigenza. Un uomo intellettualmente mediocre, sarebbe stato un insegnante diligente, in tempi normali. Le vedute europee lo superavano. Ma, alla fine, si era abituato ai miei punti di vista e ai miei modi. In quel momento in cui il nostro universo sprofondava, gli importava che sopravvivessi.
Già, il 21 aprile 1945, dopo l’Oder, mi aveva chiesto di diventare ministro degli Affari esteri del governo che sarebbe subentrato al gruppo di Hitler. Mi aveva, poi, inviato il generale Steiner per strappare il mio consenso.
L’avevo creduta una facezia. Sarei stato l’ultimo a poter trattare, come ministro degli Affari esteri, con degli Alleati che mi facevano tutti la posta, per impiccarmi di gran carriera! Impegolato nel fango, Himmler ripeteva tenace: Tutto sarà cambiato fra sei mesi! Finalmente, gli risposi, fissando, sotto i lampi delle esplosioni, i suoi piccoli occhi stanchi: non fra sei mesi, Reichführer, fra sei anni! Avrei dovuto dire: fra sessantanni! E, adesso, credo che perfino fra sessantanni le probabilità, per me, di una qualsiasi resurrezione politica saranno ancora più esili! La sola resurrezione che mi attende ormai sarà quella del Giudizio Universale, al forte suono delle trombe apocalittiche!
L’esiliato ha, naturalmente tendenza a credere che la sua buona fortuna stia per ricomparire. Spia l’orizzonte. Il minimo sintomo di cambiamenti nel suo paese perduto riveste ai suoi occhi un’importanza capitale. Una elezione, un incidente di stampa senza interesse lo mettono in effervescenza. Tutto sta per cambiare! Nulla cambia. I mesi passano, gli anni passano. All’inizio, l’esiliato di qualità era riconosciuto. Lo si guardava dovunque andasse. Cento persone oggi gli camminano gomito a gomito, indifferenti: il buon donnone che lo urta pensa ai porri da comperare; l’uomo, troppo lento davanti a lui, sbircia le passanti; il monello che corre colpendogli gli stinchi non ha la minima idea di ciò che egli è e, soprattutto, di ciò che egli fu, Non è più che uno sconosciuto nel mucchio. La vita è passata, ha lavato tutto, l’esistenza del proscritto è divenuta senza colore, come il resto.
Nel maggio 1945, quando mi ritrovai su un lettino di ferro all’ospedale di San Sebastiano, ingessato dal collo fino al piede sinistro, ero ancora una vedette. Il grosso Governatore militare era venuto scampanellando tutte le sue medaglie, tappezzato di grandi cordoni, diffondendosi in abrazos rumorosi. Non aveva ancora bene afferato che ero caduto dalla parte sbagliata e che non ero più da frequentare. Lo avrebbe compreso presto! Tutti lo avrebbero capito presto!
In capo a quindici mesi, quando le mie ossa sarebbero state saldate, mi sarei ritrovato, una notte, ben lontano di là, in una via nera, guidato verso un asilo segreto. L’unica soluzione per me, l’unica sopravvivenza, mentre si reclamava da ogni parte la mia estradizione — dodici pallottole nella pelle! — era nella buca dell’oblio. Avrei passato due anni nella prima buca del1’oblio. Ne avrei conosciute ben altre! Mi avevano sistemato in una cameretta buia, attaccata ad un ascensore di servizio. Non potevo vedere nessuno. Non potevo mai avvicinarmi a una finestra. Le imposte rimanevano sempre abbassate.
I due vecchi che mi alloggiavano costituivano il mio solo universo. Lui, pesava sui centocinquanta chili. La prima cosa che scorgevo la mattina era, nel corridoio, il suo secchio di urina. Ne produceva quattro litri per notte. Lavoro intensivo. Il suo unico lavoro. Fin da prima del pasto di mezzogiorno, si rimetteva in pigiama, un pigiama gigantesco, aperto, spalancato, su un triangolo di carne pallida.
Lei, trottava sotto un fascio di capelli radi, gialli e irsuti, navigando nel buio della casa — la luce scotta! — su due vecchi cenci — le scarpe logorano! La sera ascoltavano ambedue, insediati su due poltrone di vimini, un lavoro teatrale alla radio. In capo a cinque minuti, dormivano, lui, espettorando grugniti profondi in avanti, lei, la testa ributtata all’indietro, emettendo sibili striduli. All’una del mattino, il silenzio della fine della trasmissione li risvegliava. Lei prendeva allora la gabbia degli uccelli; lui una grande statua tinteggiata con colori sgargianti di San Giuseppe che brandisce un ramo di palma verde. Si mettevano in cammino a piccoli passi verso le loro camere da letto. I brontolìi ricominciavano. Il mattino, ritrovavo davanti alla porta i quattro litri di urina.
Tale sarebbe stata la mia vita per due anni: la solitudine, il silenzio, l’ombra, due vecchi che riempivano un secchio fino all’orlo, portavano San Giuseppe e due pappagallini. Non avrei visto un sorriso una sola volta. Né due grambe graziose su un marciapiede. Nemmeno un albero che stagliasse nel cielo qualche foglia ingiallita.
Dopo, sono ben dovuto uscire. La mia ferita allo stomaco — regalo del Caucaso — si era aperta da un capo all’altro. In sei mesi, avevo perduto trentadue chili. In una clinica discreta, mi avevano aperto il ventre, dall’esofago fino all’ombelico, per diciassette centimetri.
Ero stato riconosciuto in capo a tre giorni da un infermiere. Dovettero condurmi via in piena notte su una barella. Mi avevano tirato su per una scala stretta fino a un quarto piano. Grondavo sudore e sangue, poiché, per i contorcimenti della barella, tutti i punti di sutura erano saltati! Che vita! Non farsi vedere — per non essere riconosciuto — non serve a nulla. Vi riconoscono ugualmente, vi vedono ugualmente, anche se siete a diecimila chilometri di là.
Possiedo un incartamento veramente buffo sui miei soggiorni in venti paesi diversi. Quel giorno un giornalista mi aveva scoperto a Lima! Un altro giorno, era stato a Panama! 0 nella pampa argentina! 0 in una villa vicino al Nilo, dal colonnello Nasser! Ogni volta, i particolari erano talmente precisi che finivo per chiedermi se non ero là realmente, se non mi sbagliavo.
Un grande giornale francese portò, sotto un enorme titolo di prima pagina, delle precisazioni assolutamente complete sulla mia vita in Brasile, sul mio modo di vestire, di mangiare, di parlare. Da vero reporter parigino, l’autore si dilungava molto, beninteso, sui miei amori! Si, amavo una negra! E ne avevo perfino avuto un bel piccolo negretto! Il lettore, nonostante tutto, dubitava?
Dubitare? Ma la foto era lì! La foto di mio figlio, il piccolo negro, un marmocchio di tre o quattro anni, l’occhio tondo, ciocche di capelli crespi che si allungavano sul cranio come un tappeto di muschio! Mia suocera, santa donna del Périgord, sobbalzò, alla prima colazione, leggendo quelle rivelazioni abbastanza inattese nel suo quotidiano abituale ! Questo nipotino del concubinato non le piaceva davvero per niente! Dovetti faticare .parecchio per farle sapere che non avevo mai, in vita mia, messo il piede in Brasile, che nessun negretto era entrato nella famiglia.
Non importa. Trenta volte, cinquanta volte dovetti apprendere che ero a Caracas, a Valparaiso, a Cuba — dove un povero diavolo fu messo al fresco in mia vece! – e perfino nella stiva della nave Monte Ayala, fermata in alto mare dagli Americani per ispezionarla, alla fine del mese di agosto 1946 — dunque quindici mesi dopo la guerra! — e ricondotta nel porto di Lisbona, dove fu perquisita da cima a fondo per parecchi giorni: un poliziotto americano risalì perfino il camino dal basso in alto per vedere se non mi fossi aggrappato nella fuliggine!
Un rapporto di un servizio segreto mi descriveva nell’atto di entrare in un bosco con un colonnello portoghese! L’Intelligence Service mi aveva avvistato a Gibilterra! Dei giornalisti mi avevano seguito in Vaticano! Altri, in un porto dell’Atlantico, dove comperavo cannoni! Mi si vide perfino ad Anversa, dove, sembra, ero andato a respirare l’aria del paese.
Ogni tanto, è vero, venivo scoperto da uno stordito, o da un fedele che mi cadeva tra le braccia piangendo. Me la cavavo per riprendere le mie carabattole e rifilare altrove. Ho incontrato talvolta anche dei nemici. Fu sempre una cosa buffa. Avevano reclamato la mia testa a gran voce, e improvvisamente, si trovavano davanti a me. Dapprima stupore. La curiosità vinceva. In due parole divertenti, l’atmosfera si scioglieva.
Ho perfino avuto, un giorno, la sorpresa di trovarmi seduto, in un piccolo ristorante popolare, a fianco di uno dei capi più in vista del partito socialista belga, un Liegese. Non gli avevo fatto caso. Lui nemmeno. Era a tavola con un pezzo di ragazza bionda, corazzata come una Mercury. Leggevo la mia gazzetta. Rialzai il naso, incrociai il suo sguardo. Fu, per un secondo, sbalordito. Poi sorrise, mi fece una strizzatina d’occhio. Neppure lui mi avrebbe condotto ai patibolo!
Gli unici che mi braccarono, dovunque, con un odio veramente diabolico, furono i Giudei. Il governo belga, certo, mi perseguitò a lungo con astio. Sollecitò venti volte la mia estradizione. Ma, tuttavia, Spaak, il ministro degli Affari esteri, non osava esagerare. Aveva la coda di paglia. Aveva fatto di tutto, in giugno e luglio 1940, per ottenere dai Tedeschi di poter rientrare nella Bruxelles di Occupazione. Li aveva bombardati di telegrammi, mettendo in movimento, attraverso l’Europa, tutte le sue conoscenze. Ero molto ai corrente di quelle manovre.
Il suo amico e Presidente, l’ex-ministro socialista de Man, mi aveva perfino prodotto le lettere che Spaak scriveva, a Bruxelles, a sua moglie, affinché gli facesse ottenere da Hitler l’autorizzazione ad andare. Henri de Man ha sempre avuto un debole per te! scriveva Spaak alla sua consorte per stuzzicarla ad andare a trovare il suddetto Henri, che, lo sguardo sardonico, si sganasciava dalle risa leggendo al mio tavolo quelle argomentazioni!
Hitler non accettò la richiesta di Spaak, ripetuta dieci volte. E’ la ragione per cui filò a Londra. Ma senza l’opposizione di Hitler, egli sarebbe proprio entrato nel sistema, come de Man vi era entrato, fin dal mese di maggio 1940.
In quanto ai Giudei è tutta un’altra faccenda. Mai REX, prima della guerra, era stato realmente antisemita. Le manovre bellicistiche dei Giudei mi indignavano, è vero. E’ vero anche che non mi sono particolarmente simpatici. Mi urtano il temperamento. Ma li lasciavo piuttosto tranquilli. Al REX, potevano fare parte del Movimento come chiunque. Il capo di REX-Bruxelles, al tempo della nostra vittoria del 1936, era un Ebreo. Perfino nel 1942, in piena occupazione tedesca, il segretario del mio sostituto, Victor Mattys, era ebreo. Si chiamava Kahn, è tutto dire!
Dei campi di concentramento, dei forni crematori, avevo ignorato tutto. Non toglie che i Giudei si sono messi in testa, dopo la guerra, che un grande movimento antisemita era stato ricostituito nel mondo, e che ne sarei stato il capo. Prima, non ne ero il capo. Poi, sia increscioso o no, esso non esisteva. Duque, né questione di persecuzioni né di organizzazioni antigiudaiche.
Sono venticinque anni che i cristiani si mantengono paciosi. Non toglie che, per decapitare, liquidandomi, una organizzazione assolutamente inesistente, dei dirigenti ebrei, del più alto livello, appartenenti segnatamente alla direzione della sicurezza generale dello Stato d’Israele, hanno preparato contro di me spedizioni di rapimento su spedizioni di rapimento.
Non mancava nulla: la grande Lincoln dal contenitore posteriore convertito in una specie di bara a narcotico, nella quale mi avrebbero trasportato in stato d’incoscienza; la nave che mi attendeva alla costa vicina per condurmi a Tel Aviv; cinque rivoltelle per trucidarmi se avessi resistito; sei milioni per pagare i complici; i piani completi della mia abitazione e dei suoi accessi. La notte precedente, le linee telefoniche ed elettriche erano state tagliate sulla mia collina, i cani delle proprietà vicine erano stati avvelenati.
Ci mancò poco, in un luglio bruciante di sole, che non vi cadessi. Gli aggressori israeliani, guidati da un Giudeo molto noto, il giornalista-poliziotto Zwij Aldouby, si fecero cogliere, armati fino ai denti, mentre erano sul punto di riuscire.
Furono condannati a otto, dieci, e dodici anni di prigione. Un’altra operazione fu preparata, quasi simultaneamente, per mezzo di un elicottero, in partenza da un porto marocchino. Qualche anno dopo, un nuovo ratto-assassinio fu tentato. Questa volta, gli aggressori giudei erano arrivati dal mare, venendo da Anversa. Fu un’Ebrea stessa che informò del complotto una delle mie sorelle, volendo ringraziarmi, disse, di averle salvato la vita durante la guerra. In quell’epoca, ho, come tutti lavrebbero fatto, cercato di salvare tutta la gente che avevo saputo essere in apprensione. Ma non compilavo liste per il dopoguerra! Tanto che non mi ricordo nemmeno di quell’Ebrea che salvai allora e che mi salvò in seguito!
Il suo avvertimento venne a proposito, i tre membri della spedizione si fecero pizzicare, appena sbarcati.
Ma faceva venire la rabbia. Ogni volta, dovevo far fagotto, buttarmi in proprietà di campagna di vecchi amici, perfino in una fabbrica di birra, o, per lunghi mesi, in una cella, non divertente vi prego di crederlo, di un chiostro benedettino. Mi rammenterò a lungo i Benedicamus Domino urlati alle cinque del mattino dallo svegliatore di turno! Battersela senza sosta, vuol dire anche impossibilità di guadagnarsi il pane, di avere una occupazione fissa, dovunque sia, o semplicemente di avere un tetto, se si è sempre minacciati e si deve sempre filare altrove.
Le interviste dei giornalisti non hanno mancato, esse pure, di complicare la mia vita di proscritto, richiamando spesso e intempestivamente l’attenzione sul mio nome. Di quelle interviste, ne sono state pubblicate a dozzine, tutte inventate come romanzi polizieschi. Due volte, molto tempo fa, ho ricevuto nel mio rifugio degli «inviati speciali» che hanno in seguito presentato le mie dichiarazioni interamente travisate, mentre mi avevano promesso, certo, di mandarmi i testi per accordo preliminare! Ho fuggito, da allora, i giornalisti come la peste!
Si è sempre raggirati da loro poiché il loro obiettivo è diverso: essi cercano il sensazionale, da pubblicare rapidamente. Ma la verità non si espone sotto titoli alti una mano, a tale velocità. Una sola volta, una rivista ha pubblicato una autentica mia intervista. Lo desiderava. Desideravo, io, far credere in quel momento che ero a Buenos Aires. Feci dunque rimettere — ero a migliaia di chilometri di là — una intervista interamente scritta di mio pugno, domande e risposte, nella quale tutto avveniva a Buenos Aires in una clinica. Il testo fu pubblicato integralmente. La rivista sapeva perfettamente che nessun cronista del suo gruppo mi aveva visto, e che non ero a Buenos Aires in alcun modo. Che glie ne importava? La cosa più importante, è che il pubblico emetta degli oh! e degli ahi durante tutta la lettura!
Gli si spiega bene quello che Onassis e l’ex signora Kennedy fanno nel loro letto, e lo stato delle ovaie, con disegni dimostrativi, della regina Fabiola, mentre nessuno, in quelle redazioni, è cameriere o infermiere di servizio! Quando il giornalista si sposta, è perché vuole ventilarsi al fresco della principessa e preparare delle spese di trasferta nettamente incoraggianti. Fiuta un poco l’aria, poi redige il testo a grande velocità e alla meno peggio. Non rimane più che riscuotere le «cartelle».
Ma l’esiliato, come vede il pubblico? Anche lui, col tempo, non può più immaginare che un pubblico irreale, inesistente. Egli gli presta un modo di pensare che non ha più. Ha perso il filo dell’evoluzione. Tutto cambia, e non sa che tutto è cambiato. Il mondo non è più come era, la gente non è piu come egli l’ha conosciuta. Come qualsiasi vecchio industriale superato dalla vita moderna, dovrebbe riadattarsi. Continua a ritenere che i metodi di un tempo siano sempre altrettanto validi, che ci si appassioni ancora ad essi, e soprattutto a lui.
A chi interessa ancora in capo a qualche anno? La gente si eclissa. Gli avvenimenti si succedono. Ognuno di essi proietta il precedente nella fossa dell’oblio. L’esiliato rimane convinto di essere sul podio dell’attualità. Ora, il sipario è stato abbassato da molto tempo. Egli aspetta che rispuntino gli applausi, come se il pubblico fosse sempre davanti alla sua tribuna, non rendendosi conto che gli anni l’hanno spinto nelle quinte. Questo equivoco è spesso penoso. Chi dirà a un esiliato che egli non conta più? Non se ne rende conto. Soprattutto, non vuole rendersene conto. Il suo sorriso è contratto, ma è il suo ultimo modo di convincersi che l’avvenire non gli è chiuso in maniera definitiva.
Anch’io, ho creduto a lungo nella sopravvivenza. Ero in piena giovinezza. A trentotto anni, non stavo per scomparire così, per sempre, comunque! Ebbene! sì, si scompare! Gli amici muoiono lontano, l’uno dopo l’altro. Il passato diventa sfocato, come una riva che si diluisce poi, infine, scompare agli occhi dei naviganti. Per un ragazzo di venti anni, che non era nato quando siamo sprofondati, chi siamo noi?… Egli ingarbuglia tutto. 0 non sa neanche più nulla delle nostre storie, che non lo appassionano più dei baffi ruvidi di Vercingetorige o dei denti cariati di Luigi XIV.
Non è tutto. Vi è ressa nella categoria. Gli esiliati si succedono, si accatastano gli uni sugli altri. Già i Perón, i Truffilo, i Batista, gli abati Fulbert Youlou, vinti assai dopo di noi, non sono più che sagome appena scopribili. I nomi dei Lagaillarde, degli Ortiz, e perfino dei Bidault e dei Soustelle, le due ultime vedette politiche dell’affare d’Algeria non dicono più nulla, in capo a cinque anni, al 90% dei Francesi. Siamo nel secolo della velocità. Per scomparire dal campo visivo del pubblico, pure, si fa in fretta.
Anche per la gente ben informata, un uomo politico esiliato da venticinque anni è diventato un essere quasi irreale. Lo credono scomparso. O non credono più che esista ancora.
Una sera, ero invitato a pranzo da un luminare della medicina, universalmente conosciuto, e molto vicino al capo dello Stato del paese nel quale risiedevo in quel momento. Personalità molto in vista entravano. Ognuno di quegli invitati mi aveva conosciuto in diverse tappe del mio esilio, e sotto nomi diversi. Per l’uno, ero stato Enrique Duran, polacco (ben strano nome polacco!). Per l’altro, Lucien Demeure, francese. Per l’altro Juan Sanchiz. Per altri, Pepe a basta. Ero stanco di ostentare, ad ogni stretta di mano, quella panoplia di nomi falsi.
Quando entrò un grosso banchiere che non avevo mai incontrato, non esitai più e mi presentai sotto il mio vero nome: Léon Degrelle! L’altro mi guardò, divertito. — E io, Benito Mussolini! – Dovetti sudare prima di convincerlo che ero proprio io, e che non gli avevo preparato uno scherzo!
Così, con il tempo, l’esiliato scivola nel vago e nell’oblio. Egli è passato dalle Mercedes del potere ai mètro maleodoranti dell’esilio. Ci vuole tempo ai più lucidi per farsi una ragione. L’esiliato preferisce aggrapparsi. Egli ha creduto in qualche cosa che fu, in un momento della sua vita, eccezionale. Soffre orribilmente di essere passato da questo eccezionale all’ordinario, al ristorante banale a prezzo fisso, alla biancheria personale da quattro soldi. Il grande sogno sfasciato, disintegrato, lo tormenta. Riprende spesso a credere che, tuttavia, non si sa mai, qualcosa potrebbe riscaturire. Qualche cosa, sì. Ma noi, no. Per noi, è finita.
Tanto vale rendersene conto virilmente e stendere il bilancio. I fascismi hanno segnato il loro tempo, e l’avvenire al di là del loro tempo. E’ questo che conta. Cosa hanno lasciato? Cosa hanno cambiato?
Indipendentemente dalle nostre personali vite, un tempo così fragorose di dinamismo, ormai eliminate, il vero problema che si pone è questo: di questa grande Avventura — o Epopea — dei fascismi, una volta chiusi i sepolcri, cosa rimane? e che cosa rimarrà?
CAPITOLO XII
E se Hitler avesse vinto?
E’ il grande dilemma: se Hitler avesse vinto?
Mettiamo, poiché fu a lungo possibile che un tale avvenimento si fosse verificato. Nell’ottobre 1941, Hitler fu molto vicino alla conquista di Mosca (ne aveva raggiunti i sobborghi), e a fiancheggiare il fiume Volga, dalla sua sorgente (vi era giunto), fino alla foce (essa era alla sua portata). Mosca non aspettava che l’apparizione dei carri armati del Reich sulla piazza del Cremlino per rivoltarsi. Stalin sarebbe saltato. Sarebbe stata finita. Alcune colonne tedesche di occupazione, alla maniera dell’ammiraglio Koltchak nel 1919, avrebbero rapidamente attraversato la Siberia o vi sarebbero state paracadutate. Di fronte all’Oceano Pacifico, la croce uncinata sarebbe sventolata a Vladivostok, a diecimila chilometri dal Reno.
Quali sarebbero state le reazioni nel mondo? L’Inghilterra di fine 1941 avrebbe potuto lasciar cadere le armi in qualunque momento. Sarebbe stato sufficiente che in una sera di whisky troppo abbondante, Churchill fosse crollato in una poltrona, sbavando, colpito da apoplessia. Che questo bevitore inveterato si sia mantenuto così a lungo nell’alcool è un caso per i medici. Il suo medico personale ha, d’altronde, pubblicato, dopo la sua morte, dei particolari molto buffi sulla resistenza bachica del suo illustre cliente.
Ma, anche vivo, Churchill dipendeva dall’umore del suo pubblico. Il pubblico inglese cercava ancora, nel 1941, di tenere duro. Ma era stanco. La conquista della Russia da parte di Hitler, disimpegnando tutta la Luftwaffe, avrebbe finito di annientarlo. Quella guerra, a cosa lo conduceva? A cosa, d’altronde, lo ha condotto? L’Inghilterra ha finito la guerra completamente spoglia, privata della totalità del suo Impero e ridotta, nel mondo, al rango di Stato secondario, alla fine dei suoi cinque anni di spogliarello. Un Chamberlain al posto di Churchill avrebbe, da molto tempo, appuntato una bandiera bianca all’estremità dell’ombrello.
Ad ogni modo, solo di fronte ad una Germania vittoriosa — estendendo un Impero, senza pari al mondo e ricolmo di tutto, su diecimila chilometri di larghezza, dalle isole anglo-normanne del Mare del Nord alle isole Sakhalin nel Pacifico — l’Inghilterra non sarebbe più stata che una zattera bucata dal tornado. Non avrebbe potuto più resistere a lungo sulle onde. Churchill si sarebbe stancato — e gli Inglesi prima di lui — di vuotare secchi d’acqua, senza sosta, da un guscio sempre più invaso. Rifugiarsi più lontano? In Canadà? Churchill, bottiglia al fianco, vi sarebbe diventato cacciatore di pellicce o bettoliere, ma non salvatore. In Africa? In India? L’Impero britannico era già perduto. Non avrebbe potuto essere l’ultimo trampolino di una resistenza che non aveva più senso.
Non si sarebbe nemmeno più parlato di de Gaulle, diventato professore a Ottawa, rileggendo San Simone nelle riunioni serali o tenendo tra le mani la matassa di lana del lavoro a maglia della laboriosa Zia Yvonne.
La vittoria inglese fu veramente il colpo di fortuna di un vecchio testardo funzionante ad alcool, disperatamente aggrappato ad un albero spaccato, dagli scricchiolii sinistri, e per il quale gli dei degli ubriaconi ebbero eccezionali indulgenze.
Non importa! Una volta l’U. R. S. S. in mano ad Hitler, nell’autunno del 1941, la resistenza inglese avrebbe fatto cilecca, senza Churchill o con Churchill.
In quanto agli Americani, non erano ancora entrati in guerra a quell’epoca. Il Giappone faceva loro la posta, si accingeva a saltare loro addosso. Hitler, una volta l’Europa sua, non aveva da immischiarsi del Giappone più di quanto il Giappone, nel giugno 1941, si fosse immischiato dell’offensiva tedesca in U.R.S.S..
Gli Stati Uniti, impegnati in Asia per molto tempo, non si sarebbero messi in una guerra in più sulla groppa, in Europa. Il conflitto militare Stati Uniti-Hitler non avrebbe avuto luogo, a dispetto delle voglie bellicistiche del vecchio Roosevelt, rinverdito, cadaverico nella sua cappa di cocchiere di fiacre, malgrado le istigazioni della moglie Eleonora, tutta denti in fuori, denti sporgenti a schiena d’asino, simili agli uncini di un caterpillar.
Mettiamo dunque che alla fine dell’autunno del 1941 — vi arrivò a un quarto d’ora di tram — Hitler si fosse insediato al Cremlino, come si era insediato a Vienna nel 1937, a Praga nell’aprile 1939, e nel vagone dell’Armistizio a Compiègne, nel giugno 1940.
Quid? Cosa sarebbe avvenuto in Europa?
Hitler avrebbe unificato l’Europa con la forza, è fuori di dubbio.
Tutto ciò che è stato fatto di grande nel mondo, è stato fatto con la forza. E’ deplorevole, si dirà. Sarebbe certo più decente che la buona plebe, le patronesse della Parrocchia e le impavide Vestali dell’Esercito della Salvezza ci radunassero democraticamente in pacifiche unità territoriali, che odorino di cioccolato, di mimosa e di acqua benedetta. Ma le cose non vanno mai così.
I Capeti non hanno ricavato il Regno di Francia a colpi di elezioni a suffragio universale. A parte l’una o l’altra provincia depositata nel letto reale, contemporaneamente alla vestaglia, da una giovane sposa dondolante, il resto del territorio francese fu espugnato con lo schioppo o con la bombarda. Nel Nord, conquistato dalle Armate reali, gli abitanti si fecero cacciare dalle loro città — Arras particolarmente — come topi. Nel Sud, nell’Albigese che resisteva a Luigi VlII, i Catari, battuti, picchiati dai Crociati della Corona, furono abbrustoliti nelle loro roccaforti, specie di forni crematori ante-hitlerismo. I protestanti di Coligny si ritrovarono all’estremità delle picche della notte di S. Bartolomeo, o si dondolarono sotto le corde del patibolo di Montfaucon. La Rivoluzione dei Marat e dei Fouquiet-Tinville preferì, per consolidare la sua autorità, l’acciaio lucente della ghigliottina e il suo canestro di crusca, ai bicchieri colmi di vino rosso agli elettori del nostrano, al caffè d’angolo.
Anche Napoleone infilzò con la baionetta ognuna delle frontiere del suo Impero, La Spagna cattolica non invitò i Mori a spagnolizzarsi al ritmo delle sue nacchere. Essa li sventrò vigorosamente durante i sette secoli della Riconquista, fino a che l’ultimo degli Abenceragi non ebbe messo le gambe in spalla e ritrovato le palme ed i cocchi delle sponde d’Africa. Gli Arabi non avevano immaginato di unificare più gentilmente, a loro profitto, il Sud della Spagna, essi che inchiodavano gli Spagnoli che resistevano alle porte delle città, come Cordova, tra un cane e un maiale crocifissi ai due lati e vociferando con indignazione. Nel secolo scorso, Bismarck forgiò col cannone l’unità tedesca, a Sadowa e a Sedan. Garibaldi non radunò le terre italiane col rosario in mano, ma prendendo d’assalto Roma pontificia.
Gli Stati d’America stessi non divennero Uniti che dopo lo sterminio degli antichi proprietari, i Pellerossa, e dopo quattro anni di stragi molto poco democratiche durante la guerra di Secessione. E ancora! Venti milioni di Negri vivono, in questo momento, loro malgrado, sotto la ferula di milioni di Bianchi che, nel secolo scorso, continuavano a tatuare a fuoco i loro padri e madri, precisamente come si fosse trattato di puledri o mule.
In fatto di iscrizione nelle liste elettorali, era abbastanza rudimentale. D’altronde non votavano nemmeno, una volta finita la marchiatura!
Solo gli Svizzeri hanno costituito, più o meno pacificamente, il loro piccolo Stato di caffettieri, di balestrieri, di servette e di lattai. Ma, a parte lo scoppio della mela di Guglielmo Tell, i loro degni cantoni non hanno brillato molto nella storia politica deU’universo, I grandi Imperi, i grandi Stati, si sono tutti costituiti con la forza. E’ deplorevole? E’ un fatto.
Hitler, insediandosi in una Europa riluttante, non avrebbe fatto certamente nulla di più di Cesare che si aggiudicava le Gallie, di Luigi XIV che s’impossessava dell’Artois e del Rossiglione, degli Inglesi che conquistavano gli Irlandesi, saccheggiandoli, perseguitandoli, degli Americani che puntavano i cannoni dei loro incrociatori sulle Filippine, su Portorico, su Cuba, su Panama e che portavano, a colpi di razzo, le loro frontiere militari fino al 37° parallelo vietnamita. La democrazia, cioè il consenso elettorale dei popoli, non viene che dopo, quando tutto è finito.
Le folle vedono l’universo attraverso il buco della serratura delle loro piccole preoccupazioni personali. Mai un Bretone, un Fiammingo, un Catalano del Rossiglione, non avrebbero, da loro stessi, operato per integrarsi a una unità francese. Il Badese pretendeva caparblamente di restare Badese. Il Wurtemburghese, Wurtemburghese. Il padre di un mio caro amico di Amburgo espatriò negli Stati Uniti dopo ili 1870 piuttosto che vedersi integrato nell’Impero di Guglielmo I. Sono le élite che fanno il mondo. E sono i forti che, stivali nel retro, spingono avanti i deboli. Senza di loro, i popoli dispersi, farebbero perpetuamente del surplace.
Nel 1941, o nel 1942, anche se la vittoria di Hitler in Europa fosse stata totale, irresistibile, anche se, come diceva Spaak, la Germania fosse stata «signora dell’Europa per mille anni », i brontoloni avrebbero fruttificato a milioni. Ognuno si sarebbe aggrappato alle proprie manie, al proprio paese, superiore, evidentemente, a tutti gli altri paesi! Da studente, ascoltavo sempre con sbigottimento i miei compagni di Charleroi urlare al disopra le loro casse di birra: Paese di Charleroi, Sei tu che preferisco! Il più bell’angolo di terra sì, sei tu, sì, sei tu!
Ora, è il più brutto posto del mondo, con i suoi interminabili agglomerati di case operaie dai mattoni nerastri, sotto i cento cappelli a punta dei suoi terreni di scarico polverosi! Anche i fiori vi sono cosparsi di polvere di carbone! Nondimeno, con gli occhi meravigliati, gli amici carloreggiani sbraitavano il loro entusiasmo! Ognuno è infatuato del proprio paese, della propria regione, del proprio regno, della propria repubblica.
Ma questo complesso europeo del piccolo e del meschino poteva evolversi, si stava anche evolvendo. Un’evoluzione accelerata non aveva nulla di irrealizzabile. La prova era stata fatta, in dieci riprese, delle possibilità di unire degli Europei molto lontani gli uni dagli altri e che, pure, sono fondamentalmente gli stessi.
I centomila Protestanti francesi che dovettero lasciare il loro paese dopo la revoca dell’Editto di Nantes, si amalgamarono meravigliosamente con i Prussiani che li accolsero. Nel corso dei nostri combattimenti di febbraio e marzo 1945, nei villaggi dell’ovest dell’Oder, vedevamo dovunque, sulle targhe dei carretti dei contadini, stupendi nomi francesi che sentivano l’influenza dell’Angiò e dell’Aquitania.
Al fronte, abbondavano i von Dieu le Veut, i von Mézières, i de la Chevalerie. Al contrario, centinaia di migliaia di coloni tedeschi si sono sparsi, durante parecchi secoli, attraverso i paesi baltici, in Ungheria, in Romania, e perfino — in centocinquantamila! — lungo il Volga. I Fiamminghi, discesi in grandissimo numero nel nord della Francia, hanno dato a questa le sue élite industriali più tenaci. I benefici di quelle coabitazioni sono stati così evidenti nello spazio detto latino. Gli Spagnoli di Sinistra, che non ebbero altra risorsa di quella di rifugiarsi in Francia dopo il loro tracollo del 1939, si sono, in una generazione, confusi coi Francesi che li accolsero: una Maria Casarés, figlia di un Primo ministro del Frente Popular, è diventata una delle attrici più ammirate del Teatro Francese! Le centinaia di migliaia d’italiani spinte in Francia dalla fame, durante il secolo scorso, si sono, anch’essi, assimilati con una facilità estrema. A un punto tale che uno dei più grandi scrittori della Francia del secolo scorso fu un figlio di Veneziano: Zola. Nella nostra epoca, gli scrittori figli d’italiani sono legione, Giono in testa.
L’impero napoleonico, esso pure, aveva radunato gli Europei senza chiedere troppo il loro parere. Nondimeno, si era visto come le loro élite si erano riunite con una rapidità straordinaria: il Tedesco Goethe era cavaliere della Legion d’onore; il principe polacco Poniatowski era diventato maresciallo di Francia; Goya dotava di autori Spagnoli il museo del Louvre; Napoleone si proclamava, sulle sue monete, Rex Italicus. I grognards, i soldati della vecchia guardia dell’Imperatore, reclutati in dieci diversi paesi d’Europa, si erano pure stropicciati gli uni con gli altri, avevano fraternizzato, esattamente come noi l’avremmo fatto a nostra volta nei ranghi della Waffen S.S. durante la Seconda Guerra mondiale. Ma ogni volta, o la persecuzione, o la guerra, o la necessità di guadagnare il pane, o la volontà dell’uomo forte, avevano dovuto dare la spintarella. Normalmente, i popoli d’Europa si limitavano alla cunetta delle loro frontiere. Essi non la superavano — e ogni volta con successo — che quando li si spingeva fuori.
Quelle esperienze feconde, ripartite nel tempo, che riunivano gli Europei più diversi, provenienti altrettanto bene dalla Prussia che dall’Aquitania, dalla Fiandra che dall’Andalusia o dalla Sicilia, potevano perfettamente rinnovarsi, accumularsi e amplificarsi.
Vinta, persa, la Seconda Guerra mondiale stava per dare il grande avvio. Aveva costretto tutti gli Europei e particolarmente gli avversari che sembravano i più irriducibili, i Francesi e i Tedeschi, a procedere affiancati. Anche se si detestavano, anche se non vagheggiavano che di sferrarsi calci negli stinchi, dovettero proprio imparare, volenti o nolenti, a conoscersi. Quei quattro anni passati a battersi, a o coabitare alla meno peggio, a cercare di comprendersi, di decifrarsi poiché proprio occorreva, non sarebbero stati vani. Tutti avevano dovuto fronteggiarsi, vincitori o vinti. Nessuno avrebbe dimenticato il volto dell’altro. I brutti momenti sarebbero sfumati. Ci si sarebbe ricordati, in seguito, di quello che contava. Il confronto dei popoli europei era stato fatto.
Durante i venticinque anni che hanno seguito questo confronto, altri confronti hanno avuto luogo alla cadenza e alla velocità della nostra epoca. Decine di milioni di Europei viaggiano ormai. Lo straniero non è più un essere che si guarda con timore o con odio, o facendosene beffa. Lo si frequenta. Il Bressano non vede più l’universo unicamente attraverso i suoi formaggi blu e le galline inanellate. Il Normanno ha superato la sua sidreria, e il Belga il suo boccale di gueuzoalambic. Migliaia di Svedesi vivono sulla costa di Malaga. Michelin, nonostante le sue mollette per bicicletta, si accoppia con l’Italiano Agnelli, e il Tedesco Gunther Sachs ha potuto sposare, senza che la Repubblica francese crollasse, un’attrice «made in Paris».
Perfino il generale de Gaulle trova garbato rivelare ai Francesi di avere nelle vene sangue tedesco, grazie ad un prozio divoratore di crauti, nato nel paese che rese così popolari i Nazisti!
I giovani non hanno nemmeno più paese, spesso. Si sentono snazionalizzati. Si sono creati un mondo a sé, di idee audaci o strambe, di dischi frenetici, di peli spioventi, di calzoni logori, di camicie vistose, di ragazze largamente aperte alla confusione delle nazionalità!
II piccolo Gallo francese del 1914 e la grande Aquila nera planante sulla città hanno cessato di lanciare i loro chicchirichì o di stridere. Le loro penne, il loro becco, il loro letame e il loro volo planato appaiono già, alla nuova generazione, come strani reperti preistorici per musei che non saranno nemmeno visitati.
Questo ravvicinamento europeo, e perfino mondiale, che ha sommerso, in un quarto di secolo, secoli di passato, si è operato senza stimolante politico, anche soltanto col circolare di milioni di persone da un paese all’altro, col guardare di milioni di persone, al cinema o alla televisione, altri paesaggi ed altri volti. Gli usi si sono mescolati tanto naturalmente che, in un cocktail, si legano gli ingredienti più diversi.
Sotto Hitler, certamente il processo di unificazione si sarebbe sviluppato più rapidamente ancora, e soprattutto meno anarchicamente. Una grande costruzione politica comune avrebbe orientato e concentrato tutte le tendenze. Prima, milioni di giovani, non-Tedeschi come Tedeschi, che avevano lottato insieme dalla Vistola al Volga, erano diventati, negli sforzi e nelle sofferenze subite in comune, camerati per la vita e per la morte. Si conoscevano. Si stimavano. Le piccole rivalità europee di un tempo, pallini di borghesi imbecilli, a noi sembravano irrisorie. Questo «noi» non era, nel 1945, che un nocciolo. Ma, al centro del più grosso frutto, si trova un nocciolo, principio di vita. Noi eravamo quel nocciolo. L’Europa, massa pastosa, non l’aveva mai portato in sé. Adesso esisteva. Conteneva già allora il nostro avvenire.
A tutta la gioventù, un mondo da creare sarebbe stato offerto dall’Europa uscita dal genio delle armi. I milioni di giovani Europei rimasti paciosi, durante la guerra, ad assaporare le conserve di papà e a dare saggi di mercato nero, stavano per essere tentati a loro volta. Anziché vegetare a Caudebec-en-Caux o a Wuust-wezel, chinati per cinquant’anni su aringhe affumicate o su bietole, milioni di giovani avrebbero avuto, distese davanti al loro dinamismo, le terre senza fine dell’Est, offerte a tutti, che fossero della Frisia, della Lozère, del Mecklemburgo o degli Abruzzi. Là avrebbero potuto sfaccettarsi una vera vita da uomini, d’iniziatori, di creatori, di capi!
Tutta l’Europa sarebbe stata attraversata da questa corrente di energia.
L’ideale che aveva, in così pochi anni, preso al cuore tutta la gioventù del Terzo Reich, perché esso significava audacia, dono, onore, proiezione verso il grande, avrebbe preso al cuore, esattamente alla stessa maniera, i giovani di tutta Europa. Finite, le vite mediocri! Finito, l’orizzonte sempre grigio e ristretto! Finita, la vita legata allo stesso paese, allo stesso lavoro, al rastrelliere dello stesso mediocre alloggio, al paniere dei pregiudizi di parenti stabilizzati nel piccolo e nell’ammuffito!
Un mondo vibrante avrebbe chiamato i giovani attraverso migliaia di chilometri senza frontiere, ove si sarebbero potuti aprire i polmoni largamente, avere un appetito vorace, divorare tutto a quattro palmenti, conquistare tutto a piene mani, nella gioia e nella fede!
Gli anziani stessi avrebbero seguito, per finire, poiché il denaro sarebbe seguito.
Anziché ristagnare nei conciliaboli inaciditi, i dosaggi, i fermi di orologi bloccati per prolungare i dibattiti, la volontà di ferro di un capo, le decisioni dei gruppi responsabili che egli avrebbe insediato per costruire largamente la sua opera, avrebbero, in venti anni, creato un’Europa reale, non un congresso esitante di comparse consumate dalla diffidenza e dai calcoli nascosti, ma una grande unità politica, sociale, economica, senza settori riservati.
Bisognava ascoltare Hitler esporre, nel suo baraccamento di legno, i suoi grandi progetti per il futuro! Canali giganti avrebbero unito tutti i grandi fiumi europei, aperti alle navi di tutti, dalla Senna al Volga, dalla Vistola al Danubio. Treni a due piani — in basso le merci, in alto i viaggiatori — su ferrovie sopraelevate, di quattro metri di scartamento, avrebbero attraversato comodamente gli immensi territori dell’Est ove i soldati di un tempo avrebbero costruito le aziende agricole e le industrie più moderne del mondo.
Che cosa rappresentano le poche concentrazioni interminabilmente discusse, zoppicanti sulle loro gambe di legno, che sono state tentate sotto l’egida dell’attuale Mercato comune, accanto ai grandi complessi che una autorità reale avrebbe potuto realizzare — imporre se fosse stato necessario — a delle forze economiche europee un tempo disparate, contradditorie, od ostili, che si tirano calci nei polpacci, che fanno il doppio o triplo impiego, egoiste e anarchiche? Il polso di un arbitro le avrebbe ricondotte rapidamente alla legge della coproduzione intelligente e dell’interesse comune.
Il pubblico per venti anni avrebbe borbottato, mostrato riluttanza. Ma in capo ad una generazione, l’unità sarebbe stata realizzata. L’Europa avrebbe costituito per sempre il più potente complesso economico dell’universo e il più grande focolare d’intelligenza creatrice. Le folle europee avrebbero allora potuto respirare. La disciplina avrebbe potuto essere allentata, una volta vinta questa battaglia dell’Europa.
— La Germania avrebbe divorato l’Europa?
Il pericolo esisteva. Perché non dirlo? Il medesimo pericolo era esistito un tempo. La Francia di Napoleone avrebbe potuto divorare l’Europa. Personalmente, non lo credo. I diversi geni europei, già sotto l’Imperatore, si sarebbero compensati.
La stessa ambizione di dominio minacciava, incontestabilmente, l’Europa hitleriana. I Tedeschi sono dei grandi mangiatori. Taluni consideravano l’Europa come un piatto a loro riservato. Erano capaci di numerosi sgambetti, tesi con falsità. Ma sì, ma sì! Ce ne rendevamo conto. Lo temevamo. Se no, saremmo stati dei tonti o almeno, degli ingenui, ciò che in politica, non è meglio. Prendevamo le nostre precauzioni, cercando di afferrare, il più saldamente possibile, delle posizioni di controllo o di prestigio dalle quali avremmo potuto difenderci, tempestare o bloccare le spese.
Vi erano dei rischi, è dunque proprio vero. Sarebbe stupido negarlo. Ma vi erano anche dei motivi di fiducia, che erano pure forti.
Hitler, dapprima, era un uomo abituato a vedere molto lontano, e che l’esclusivismo tedesco non soffocava. Era stato austriaco, poi tedesco, poi gran-tedesco. Dal 1941, aveva superato tutte quelle tappe, era Europeo. Il genio aleggia al disopra delle frontiere e delle razze. Napoleone, egli pure, non era stato dapprima che còrso, e anche un Córso antifrancese! Alla fine, a Sant’Elena, egli parlava del «popolo francese che aveva tanto amato» come di un popolo stimato, ma non il suo in esclusiva. Cosa vuole il genio? Superarsi sempre. Più la massa da plasmare è considerevole, più egli è nel suo elemento. Napoleone nel 1811 si vedeva già arrivato in India.
L’Europa per Hitler, era una costruzione adatta alla sua misura. La Germania non era che un edificio importante che egli aveva edificato un tempo, che guardava con compiacimento. Ma era già arrivato molto al di là. Da parte sua, nessun pericolo reale esisteva di una germanizzazione dell’Europa. Essa era all’estremo opposto di tutto ciò cui la sua ambizione, il suo orgoglio, il suo genio miravano, gli dettavano.
C’erano gli altri Tedeschi? Ma c’erano anche gli altri Europei! E quegli altri Europei possedevano qualità proprie, eccezionali, indispensabili ai Tedeschi, senza le quali la loro Europa non sarebbe stata che un pesante impasto mal lievitato. Penso, prima di tutto, al genio francese. Mai i Tedeschi avrebbero potuto, per dare vita all’Europa, fare a meno del genio della Francia, anche se avessero voluto non ricorrere ad essa, anche se, com’era il caso di taluni, la disprezzavano.
Nulla sarebbe stato possibile e nulla sarà mai possibile in Europa senza la finezza e la grazia francesi, senza la vivacità e la chiarezza dello spirito francese. Il popolo francese ha l’intelligenza più pronta. Essa capta, afferra, traspone, trasfigura. Essa è viva. Essa è lieve. Il gusto francese è perfetto. Mai si rifarà una seconda cupola degli Invalidi. Mai ci sarà un secondo fiume incantevole come lo è la Loira. Mai vi sarà una raffinatezza, un fascino, un piacere di vivere come a Parigi.
L’Europa di Hitler sarebbe stata pesante all’inizio. A fianco di un Goering, signore del Rinascimento, che aveva il senso dell’arte e del fasto, e di un Goebbels dall’intelligenza aguzza come una mannaia, numerosi capi hitleriani erano ottusi, volgari come bovari, senza gusto, che smerciavano la loro dottrina, le loro idee, i loro ordini come carne tritata o sacchi di concimi chimici. Ma, appunto a causa di questa grossolanità, il genio francese sarebbe stato indispensabile alla nuova Europa. Vi avrebbe fatto miracoli. In dieci anni, avrebbe segnato tutto. Il genio italiano, esso pure, avrebbe fatto da contrappeso alla potenza troppo massiccia dei Germanici. Ci si è spesso burlati degli Italiani. Si è visto, dopo la guerra, di che cosa erano capaci. Avrebbero altrettanto facilmente inondato con le loro scarpe impeccabili, con la loro moda elegante, con le loro automobili di razza come dei levrieri, una Europa hitleriana, quanto i campi ristretti di un Mercato Comune esordiente.
Il genio russo sarebbe ugualmente intervenuto, ne sono sicuro, in modo considerevole, nell’affiliazione di una Europa troppo tedesca, nella quale duecento milioni di Slavi dell’Est stavano per essere integrati. Quattro anni vissuti mescolati al popolo russo, l’hanno fatto stimare, ammirare ed amare da tutti i combattenti antisovietici. La disgrazia è che, da mezzo secolo, le virtù di quei duecento milioni di brava gente siano soffocate — e rischiano di esserlo ancora a lungo — sotto l’enorme cappa di piombo del regime dei Sovieti.
Quel popolo è pacifico, sensibile, intelligente ed artista, possedendo anche il dono della matematica, il che non è contradditorio: la legge dei numeri è alla base di tutte la arti.
Entrando in Russia, i Tedeschi, che erano stati sottomessi ad un indottrinamento nazista veramente troppo sommario, immaginavano che i soli esseri validi dell’universo erano gli Ariani, che, necessariamente, dovevano essere dei giganti, strutturati come canne d’organo, più biondi del tè, gli occhi azzurri come un cielo tirolese nel mese di agosto.
Era abbastanza comico, poiché Hitler non era alto e aveva il pelo castagno. Himmler lo stesso. Goebbels aveva una gamba più corta dell’altra, era basso di statura e di carnagione molto bruna come una prugna secca. Zeep Dietrich aveva l’aspetto di un gestore tarchiato di bar marsigliese. Bormann era contorto come un ciclista in pensione. A parte qualche gigante, che serviva l’aperitivo sulla terrazza di Berchtesgaden, gli alti pezzi d’uomo dal pelo ossigenato, dagli occhi di fiordaliso, non abbondavano, lo si vede, nel seguito di Hitler.
Si immagina la sorpresa dei Tedeschi, scendendo attraverso la Russia, nel non incontrare che biondi dagli occhi azzurri, tipi esatti degli Ariani perfetti che si era loro fatto ammirare in esclusiva! Dei biondi. E delle bionde! E quali bionde! Alte ragazze dei campi, splendide, forti, l’occhio azzurro chiaro, più naturali e più sane di tutto quello che aveva radunato la Hitler-]ugend. Non si poteva immaginare razza più tipicamente ariana, se ci si atteneva ai canoni sacrosanti dell’hitlerismo!
In sei mesi, tutto l’esercito tedesco era diventato russofilo. Si fraternizzava dovunque con i contadini. E con le contadine! Come sotto Napoleone, l’Europa si faceva anche tra le braccia delle Europee, nella fattispecie quelle belle ragazze russe, tagliate per l’amore e la fecondità, e che si vide, durante la ritirata, seguire perdutamente nell’orrore dei peggiori combattimenti, gli Eric, i Walter, i Karl, i Wolfgang che avevano loro insegnato, nelle ore vuote, che il piacere di amare ha il suo fascino dovunque, anche venendo dall’Ovest.
Dei teorici nazisti professavano teorie violentemente antislave. Esse non avrebbero resistito a dieci anni di compenetrazione russo-germanica. I Russi dei due sessi avrebbero conosciuto il tedesco molto presto. Lo conoscevano già spesso. Trovavamo dei manuali di tedesco in tutte le scuole. Il legame della lingua sarebbe stato stabilito in Russia più in fretta che in qualunque altro luogo d’Europa.
Il Tedesco possiede mirabili qualità di tecnico e di organizzatore. Ma il Russo, sognatore, è più immaginativo e più vivo di spirito. L’uno avrebbe completato l’altro, i legami del sangue avrebbero fatto il resto. I giovani Tedeschi, proprio naturalmente, e qualunque cosa la loro propaganda avesse fatto per opporvisi, avrebbero sposato centinaia di migliaia di giovani Russe. Esse piacevano loro. La creazione dell’Europa all’Est si sarebbe completata nel modo più gradevole. L’unione germano-russa avrebbe fatto miracoli.
Sì, il problema era gigantesco: saldare cinquecento milioni di Europei, che non avevano, all’inizio, alcuna voglia di coordinare il loro lavoro, di accoppiare le loro forze, di armonizzare i loro caratteri, i loro temperamenti particolari. Ma Hitler portava in sé il genio e la potenza capaci d’imporre e di realizzare quest’opera gigantesca sulla quale avrebbero inciampato cento politicanti ostacolati dalla loro mediocrità e dai loro paraocchi.
Sei milioni di soldati sarebbero stati là per assecondare la sua azione di pace, provenienti dall’Europa intera, quelli della Division Azul e quelli dei Paesi Baltici, quelli della Division Flanden e quelli dei Balcani, quelli della Division Charlemagne e le loro centinaia di migliaia di camerati delle trentotto divisioni della Waffen S.S.!
Sulla penisola europea che rimase a galla all’Ovest, dopo il diluvio del Terzo Reich, si sono edificati, tuttavia, i primi banconi, mal forniti, poco stabili ancora, di un Mercato comune che sa di baratto. Bene. Ma una vera Europa, sorta da un ideale eroico e rivoluzionario, costruita in grande, avrebbe avuto ugualmente un altro andamento!
La vita della gioventù di tutta Europa avrebbe conosciuto un ben altro lustro e un ben altro senso che conducendo un’esistenza di beatniks erranti e di protestatari, giustamente ribelli a regimi democratici che non offrirono loro mai obiettivi che avessero potuto entusiasmarli, soffocandoli invece per tutti i miserabili anni del dopoguerra.
Dopo aver ricalcitrato, i diversi popoli europei sarebbero stati sorpresi nel vedere che si completavano così bene. I plebisciti popolari avrebbero confermato, noi ancora vivi, che l’Europa della forza era diventata, dai Pirenei agli Urali, l’Europa libera, la Comunità dei cinquecento milioni di Europei consenzienti.
Peccato che nel XIX secolo Napoleone abbia fallito. La sua Europa, fondata nel crogiuolo della sua epopea, ci avrebbe risparmiato molte sventure, segnatamente le due guerre mondiali. Essa avrebbe preso in tempo, nelle sue mani abili, la grande macchina dell’universo, anziché -lasciare ognuno dei nostri paesi sfinirsi al di fuori dell’Europa in rivalità colonialiste, spesso abiette e cupide e che, alla fine, si rivelarono non redditizie.
Allo stesso modo, peccato che nel XX secolo Hitler abbia fatto cilecca a sua volta. Il comunismo sarebbe stato spazzato via. Gli Stati Uniti non avrebbero fatto piegare il mondo sotto la dittatura dello scatolame. E, dopo venti secoli di balbettamenti e di sforzi falliti, i figli di cinquecento milioni di Europei, uniti loro malgrado all’inizio, avrebbero posseduto infine il complesso politico, sociale, economico e intellettuale più potente del pianeta.
— Sarebbe stata l’Europa dei campi di concentramento?
Si insiste dunque ad ammannire senza fine questo ritornello! Come se non ci fosse stato che questo nell’Europa che si edificava! Come se, dopo la caduta di Hitler, gli uomini non avessero continuato a sterminarsi in Asia, in America, nell’Europa stessa, nelle vie di Praga e di Budapest!
Come se le invasioni, le violazioni di territorio, gli abusi di potere, i complotti, i rapimenti politici non fossero fioriti, più che mai, nel Vietnam, a San Domingo, in Venezuela, alla Baia dei Porci, a Cuba, e perfino in piena Parigi al tempo dell’affare Ben Barka, già dimenticato! E anche al di là delle frontiere di Israele! Perché non dirlo! Poiché non è Hitler, comunque, che si è scagliato con i suoi carri armati verso il monte Sinai ed ha occupato con la forza, nel Medio Oriente, i territori altrui!
Bisogna essere — sì — contro la violenza, cioè più esattamente contro tutte le violenze. Non soltanto contro le violenze di Hitler, ma anche contro le violenze di Mollet che lanciò migliaia di paracadutisti sul canale di Suez nel 1956, con tanta premeditazione quanto doppiezza; contro le violenze degli Americani, che sparano a quindicimila chilometri dal Massachusetts o dalla Florida ai Vietnamiti, ai quali non avevano da dettar legge per nulla; contro le violenze degli Inglesi, che colmano d’armi i Nigeriani per liberare, grazie a un milione di morti biafrani, i pozzi di petrolio supercapitalisti; contro le violenze dei Sovietici, che hanno schiacciato sotto i loro carri armati gli Ungheresi e i Cechi che rifiutano la loro tirannia!
La stessa osservazione va fatta in merito ai crimini di guerra.
Si sono trascinati dei vinti a Norimberga, sono stati rinchiusi in celle come scimmie, si è vietato ai loro difensori di fare uso dei documenti che avrebbero potuto mettere a disagio gli accusatori, segnatamente di ogni riferimento ai massacri, a Katyn, di quindicimila ufficiali polacchi, perché il rappresentante di Stalin, il loro assassino, faceva parte del Tribunale dei Crimini di Guerra di Norimberga anziché esservi citato. Se si pretende ricorrere a tale procedura, sia ben inteso che essa vale per tutti i criminali, non solo per i criminali tedeschi, ma anche per i criminali inglesi che massacrarono duecentomila innocenti a Dresda, ma anche per i criminali francesi che, senza alcun giudizio, fucilarono sul loro territorio dei prigionieri tedeschi indifesi, ma anche per i criminali americani che stritolarono gli organi sessuali dei prigioneri S.S. di Malmedy!
Questa procedura deve valere in egual misura per i criminali sovietici che misero fine alla Seconda Guerra mondiale con orribili crudeltà nell’Europa occupata e che hanno fatto infornare milioni di persone nei loro spaventosi campi di concentramento del Mar Bianco e della Siberia.
Ora quei campi non sono stati chiusi dopo la Seconda Guerra mondiale come quelli del Terzo Reich di cui, venti anni dopo la liquidazione, continuano a riempirci le orecchie senza tregua. Quei campi dell’U.R.S.S. esistono sempre oggi, funzionano sempre oggi. Si continua ad inviarvi migliaia di esseri umani che hanno avuto la disgrazia di dispiacere a Breznev, Kossighin e agli altri dolci agnelli democratici! Di quei campi, in piena attività, in cui i Sovietici chiudono implacabilmente tutti quelli che si oppongono alla loro dittatura, nessuno fiata tra gli urlatori di Sinistra! Nessuno tra di loro se ne adombra!
Allora cosa! Dove l’amore della verità? Dell’equità? Dov’è la buona fede? Dov’è la farsa? Chi è più ripugnante? Chi uccide? o chi recita la commedia della virtù e tace?
Vedendo l’impunità totale così accordata ai criminali di pace e di guerra dall’istante in cui non fossero tedeschi, tutti i furfanti del dopoguerra se la sono goduta un mondo, torturando a morte, con una efferatezza atroce, un Lumumba, finendo col mitra un Che Guevara, assassinando a rivoltellate, davanti alla stampa, dei prigionieri in piena Saigon, allestendo con le più potenti complicità, l’abbattimento pubblico — come a un tiro alle pipe di un baraccone da fiera — di un Kennedy I, poi di un Kennedy II, che davano fastidio, negli U.S.A., ai detentori reali del potere — sbirraglia e alta finanza — rimpiattati sotto la copertura democratica.
— Tutti i criminali alla sbarra! Chiunque essi siano! dovunque siano!
Se no, tante grida virtuose di censori indignati quando si tratta di Hitler e muti quando non si tratta più di lui, non sono che abiette commedie, che mirano solo a convertire lo spirito di vendetta, e la critica della violenza nella più tortuosa delle ipocrisie!
Pace alle ceneri di coloro che sono morti sotto Hitler! Ma l’infernale battere di grancassa continuato instancabilmente sulle loro urne dai falsi puritani della democrazia, finisce per diventare indecente! Sono più di venti anni che dura, attraverso il mondo, questo scandaloso ricatto, scandaloso perché condotto con un partito preso tanto totale quanto cinico! Il senso unico, sta bene per le vie strette. La Storia non se ne soddisfa. Essa non ammette che la si converta in un vicolo cieco, in cui si appostano in agguato i provocatori dall’odio eterno, i sepolcri imbiancati, i falsificatori e gli impostori.
Il bilancio è il bilancio. Nonostante la disfatta nell’U.R.S.,S., nonostante Hitler sia stato bruciato, nonostante Mussolini sia stato impiccato, i «fascismi» saranno stati — con l’instaurazione dei Sovieti in Russia — il grande avvenimento del secolo.
Talune delle preoccupazioni di Hitler del 1930 si sono offuscate. La nozione dello spazio vitale è superata. La prova: la Germania Occidentale, ridotta a un terzo del territorio del Grande Reich, è oggi più ricca e più potente dello Stato hitleriano del 1939. I trasporti internazionali e i trasporti marittimi a basso prezzo hanno cambiato tutto. Su uno scoglio brullo, ma ben collocato, si può, ora, installare la più potente industria del mondo.
I contadini, tanto favoriti dai «fascismi», sono passati dovunque in secondo piano. Una fattoria intelligentemente industrializzata rende, oggi, più di cento aziende agricole senza razionalizzazione e senza attrezzature moderne adattate con precisione. Un tempo maggioranza, i contadini costituiscono una minoranza sempre più ridotta. Il pascolo e l’agricoltura, già cari a Sully, hanno cessato di essere le sole mammelle dei popoli sovralimentati o che non hanno denaro per alimentarsi. E soprattutto le dottrine sociali, quali che fossero, che non tenevano conto che del capitale e del lavoro, sono superate.
Un terzo elemento interviene sempre più: la materia grigia. L’Economia non è più un affare a due, ma a tre. Un grammo d’intelligenza creatrice ha più importanza, spesso, di un treno di carbone e di piriti. Il cervello è diventato la materia prima per eccellenza. Un laboratorio di ricerche scientifiche può valere più di una catena di montaggio. Prima del capitalista e prima del lavoratore: il ricercatore!
Senza di lui, senza i suoi gruppi altamente specializzati, senza i suoi ordinatori e senza le sue statistiche, il Capitale e il Lavoro sono dei corpi morti. Gli stessi Krupp e i Rothschild hanno dovuto scansarsi davanti alle migliori menti.
L’evoluzione di questi problemi non avrebbe preso Hitler alla sprovvista. Egli leggeva tutto, era al corrente di tutto. I suoi laboratori atomici furono i primi del mondo. E’ proprio del genio rimettersi in ciclo senza sosta. Hitler, focolare dotato d’immaginazione in continua combustione, avrebbe prevenuto l’avvenimento e il cambiamento.
Egli aveva, prima di tutto, formato degli uomini.
La Germania e l’Italia, sebbene vinte, schiacciate (il Terzo Reich non era più che un favoloso cumulo di macerie e di mattoni nel 1945), avrebbero fatto presto a ritornare a capo dell’Europa. Perché? Perché la grande scuola dell’hitlerismo e del fascismo aveva creato dei caratteri. Aveva formato migliaia di giovani capi, aveva dato una personalità a migliaia di esseri, aveva rivelato loro, in circostanze eccezionali, doti di organizzazione e di comando che lo sciocco piccolo tran-tran, semi-borghese, dei tempi precedenti non avrebbe loro mai permesso di valorizzare.
Il miracolo tedesco del dopo 1945 fu questo: una generazione, materialmente a terra, era stata preparata superiormente a un ruolo di dirigente da una dottrina basata sull’autorità, la responsabilità, lo spirito d’iniziativa; alla prova del fuoco, questa aveva dato ai caratteri la tempera del migliore acciaio che, nell’ora in cui bisognava rimettere tutto in piedi, si rivelò una leva irresistibile.
Ma la Germania e l’Italia non furono le sole ad essere sollevate dal grande uragano hitleriano. Il nostro secolo è stato da lui scosso fin nelle fondamenta, trasformato in tutti i campi, si tratti dello Stato, delle relazioni sociali, dell’economia, o della ricerca scientifica.
L’attuale spiegamento delle scoperte moderne, dall’energia nucleare fino alla miniaturizzazione, è Hitler — turatevi le orecchie, ma è così! — che lo avviò, quando l’Europa assopita mangiava la zuppa quotidiana senza preoccupazioni di vedere più lontano della propria scodella.
Che sarebbe stato un von Braun, giovane Germano massiccio, totalmente sconosciuto e privo di risorse, senza Hitler? Durante gli anni ingrati, questi lo spinse, lo stimolò. Goebbels gli dava talvolta il cambio, sostenendo von Braun con la sua amicizia. Ancora nel 1944, questo ministro — il più intelligente dei ministri di Hitler — trascurava i suoi impegni per incoraggiare von Braun nell’intimità.
Questo fu il caso di centinaia di altri. Avevano del talento. Ma cosa avrebbero fatto col solo talento?
Gli Americani sapevano bene che l’avvenire scientifico del mondo era là, nei laboratori di Hitler. Mentre si lasciavano compiacentemente presentare come i re della scienza e della tecnica, essi non ebbero preoccupazione più grande, quando furono vincitori nel 1945, di quella di precipitarsi attraverso il Terzo Reich, ancora fumante, per recuperare centinaia di scienziati atomici.
I Sovieti condussero una corsa parallela. Trasportarono treni interi di scienziati di Hitler a Mosca.
A tutti quelli tra di loro che potè raggiungere, l’America fece dei ponti d’oro. Gli U.S.A. presero come capo del loro immenso complesso nucleare il von Braun di Hitler, di Hitler a cui l’America moderna deve tanto poiché è lui che, per primo, nell’agosto del 1939, dunque ancora prima dell’inizio della guerra di Polonia, fece salire il primo razzo del mondo nel cielo di Prussia.
II mondo moderno è nato quel giorno.
Allo stesso modo in cui la polvere che uccideva ha servito l’universo, l’era nucleare, aperta da Hitler nel 1939, trasformerà i secoli futuri. Qui ancora, come in campo sociale, i disprezzatori di Hitler non sono che i suoi tardivi imitatori. Il Centro francese di Pierrelatte è forse qualcosa di diverso di un «alla maniera» della base hitleriana di Peenemunde, con venticinque anni di ritardo?
Hitler scomparso, il mondo democratico si è rivelato incapace di creare qualcosa di nuovo nel campo politico e sociale, o perfino di rabberciare il vecchio. Hanno avuto un bel provare a rialzare sulle loro zampe i vecchi ronzini sfiancati d’anteguerra. Barcollanti, essi sono ricaduti al suolo sudicio.
Da Nasser a de Gaulle, da Tito a Castro, dovunque si guardi, fra i paesi vecchi che si sforzano di uscire dal passato o fra i paesi nuovi di un Terzo Mondo che si sveglia, dappertutto risorgono le formule: nazionalismo e socialismo, rappresentati dall’uomo forte, incarnazione e guida del popolo, amante potente delle volontà, creatore d’ideale e di fede.
Il mito democratico vecchio stile, pompieristico, chiacchierone, incompetente, sterile, non è più che un pallone gonfiato a cento teste vuote, che non inganna più nessuno, non interessa più nessuno, e fa perfino ridere i giovani.
Chi si preoccupa ancora dei vecchi partiti e dei loro vecchi bonzi svalutati e dimenticati ? Ma Hitler, ma Mussolini, chi li dimenticherà mai?… Milioni di nostri ragazzi sono morti, alla fine di una orrenda odissea, cosa sono diventate, laggiù, tanto lontano, le loro povere tombe?… Le nostre vite, di sopravvissuti, sono state frantumate, devastate, eliminate. Ma i fascismi, per i quali abbiamo vissuto, hanno modellato la nostra epoca per sempre. Nella nostra disgrazia, è la nostra grande gioia.
Si potrà grattare quanto si vuole il tatuaggio sotto le nostre braccia di soldati! Troppo tardi! Noi guardiamo i nostri inquisitori sfidandoli! Il sipario della Storia può cadere su Hitler e su Mussolini, come cadde su Napoleone. I nani non cambieranno più nulla. La grande Rivoluzione del XX secolo è fatta.
INDICE
Prefazione.
Presentazione dell’edizione francese.
I. La museruola per i vinti.
II. Quando l’Europa era fascista.
III. Verso il potere a venticinque anni.
IV. L’Europa scoppia.
V. Hitler per mille anni.
VI. A fianco dei Tedeschi.
VII. I tram di Mosca.
VIII. L’inferno russo.
IX. Hitler, chi era?
X. Da Stalingrado a San Sebastiano.
XI. Gli esiliati.
XII. E se Hitler avesse vinto?