L’Olocausto allo scanner

Brani tratti da:
L’Olocausto allo scanner

di Jürgen Graf


Lo Zyklon e le camere di disinfestazione tedesche

L’insetticida Zyklon è stato brevettato nel 1924. Esso è ancora utilizzato per disinfestare i silos, i battelli, etc., ma anche per gassare le tane delle volpi (nel quadro della lotta contro la rabbia). Durante la seconda guerra mondiale è stato utilizzato in molti campi di concentramento, compresi quelli in cui nessuno storico situa camere a gas, e altrove per scopi di disinfestazione.

Si stima che in Germania, durante la guerra, quasi 32 milioni di capi di vestiario siano stati trattati con lo Zyklon B. Questa misura sanitaria ha certamente salvato dalla morte per tifo centinaia di migliaia di persone, fra cui un numero non trascurabile di ebrei prigionieri dei campi di concentramento.

Lo Zyklon era consegnato in un imballaggio stagno, sotto forma di dischi o di pastiglie o di granuli. Polpa di legno o sabbia di diatomee, massa granulosa e bruna, gli servivano da supporto. Il gas si libera al contatto ambientale. La durata di questo processo chimico dipende dalla temperatura dell’aria. Quando il punto di sublimazione, a 25,7·C è raggiunto, occorre circa mezz’ora perché la maggior parte del gas si liberi. In caso di temperatura inferiore, è necessario molto più tempo.

Esaminiamo ora, sulla base di due documenti tedeschi del periodo bellico, come lo Zyklon B era utilizzato.

Per lo spidocchiamento dei vestiti si utilizzavano largamente le camere di disinfestazione costruite dalla DEGESCH (Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung). Queste camere avevano un volume standard di 10m3 e venivano chiuse ermeticamente.

I vestiti da spidocchiare erano appesi a listelli o collocati dentro un carrello mobile.

La camera di disinfestazione veniva riscaldata ad una temperatura tra 25 e 35·C. Il gas che si liberava dai granuli di Zyklon era diffuso attraverso un sistema di ventilazione. Lo stesso sistema serviva ad aerare rapidamente la camera per mezzo di aria preriscaldata.

La scatola di Zyklon si apriva automaticamente alla messa in marcia del sistema di ventilazione ed il suo contenuto si riversava in un recipiente; si voleva così evitare che granuli finiti al suolo fossero dimenticati al momento della pulizia della camera poiché essi potevano liberare del gas per ore e danneggiare gli uomini.

Il trattamento col gas durava almeno un’ora, l’aerazione 15 minuti. In seguito si mettevano gli abiti disinfestati all’aria aperta. Le camere erano preparate da personale esperto (vedere F. Puntigam/H. Breymesser/E. Bernfus, Blausäuregaskammern zur Fleckfieberabewehr [letteralmente: camere a gas ad acido cianidrico per la lotta contro il tifo petecchiale], pubblicazione speciale del Reichsarbeitsblatt, Berlino 1943).

La disinfestazione di locali non riscaldabili e non stagni come le case d’abitazione, i battelli, etc., sprovvisti di sistemi di ventilazione si faceva ovviamente con altri metodi. Una disposizione circa l’utilizzazione, pubblicata nel 1942 dal servizio per la sanità del Protettorato di Boemia-Moravia sotto il titolo Richtlinien für die Anwendung von Blausäure (Zyklon) zur Ungeziefervertilgung [Direttive di utilizzazione del cianuro (Zyklon) per la distruzione dei parassiti] descrive come doveva effettuarsi il trattamento con gas di un edificio. Secondo questo testo, la disinfestazione doveva essere intrapresa da una squadra di almeno due uomini addestrati per questo lavoro. Tutti gli specialisti della disinfestazione erano dotati di una maschera antigas, di due filtri speciali contro l’acido cianidrico, di un rivelatore di gas residuo, di una siringa di antidoto e di una autorizzazione scritta. Prima dell’inizio dell’operazione un pannello di segnalazione speciale, contrassegnato da un teschio e redatto in più lingue, doveva essere affisso sulla porta dell’edificio da disinfestare. Un sorvegliante teneva lontane le persone non autorizzate. Secondo lo stesso testo, la parte più pericolosa dell’operazione era l’aerazione, che doveva durare non meno di 20 ore.

Queste disposizioni operative erano state presentate a Norimberga come documento di accusa sotto il contrassegno NI-9912, quando invece ogni osservatore attento avrebbe dovuto notare che le indicazioni che esse davano sulle particolarità dello Zyklon contraddicevano palesemente gli assertori della gassazione in massa di esseri umani.

Il Rapporto Leuchter

L’impossibilità tecnica delle pretese gassazioni e incinerazioni di massa aveva colpito ricercatori come Felderer e Faurisson già dagli anni settanta. Ma, per offrire concrete argomentazioni a confutazione delle teorie sterminazioniste, occorreva uno specialista di camere a gas.

Nel 1988 ebbe luogo a Toronto, in Canada, il processo di appello contro il canadese di origine tedesca Ernst Zündel. Zündel aveva diffuso l’opuscolo Did Six Million Really Die? dell’inglese Richard Harwood, opuscolo in cui l’Olocausto veniva contestato. Zündel per questo fatto era stato tratto in giudizio su denuncia di un’organizzazione ebraica di nome «Holocaust Remembrance Association». La querela si fondava su una legge che reprime la «diffusione di false notizie», legge che, prima di allora, non era mai stata applicata: si tratta di una legge inglese del 1275, attraverso la quale i cavalieri potevano tutelarsi contro i versi satirici popolari. Il primo processo Zündel, istruito nel 1985, si concluse con la condanna dell’accusato a 15 mesi di prigione. Successivamente la sentenza fu cassata per numerosi vizi di forma. Nel 1988, Robert Faurisson suggerì a Zündel di rivolgersi all’ingegnere americano Fred Leuchter, responsabile della costruzione delle camere a gas impiegate per l’esecuzione dei criminali in diversi Stati americani. Dopo l’assenso di Zündel, Faurisson prese contatto con questo ingegnere. Leuchter partì per la Polonia nel febbraio 1988 in compagnia di sua moglie Carolyn, del cameraman Jurgen Neumann, del disegnatore Howard Miller e dell’interprete di polacco Tjudar Rudolph, per sottoporre ad un esame minuzioso le pretese camere a gas di Auschwitz-I, di Auschwitz-Birkenau e di Majdanek. L’ingegnere redasse poi una relazione peritale.

Le conclusioni di Leuchter furono inequivocabili: in nessuno dei tre campi vi erano state camere a gas destinate allo sterminio di esseri umani. Le sole vere camere a gas esistite erano state le camere di disinfestazione destinate allo sterminio dei pidocchi.


La dimostrazione di Leuchter si basava su tre punti:

1. Le «camere a gas» non erano state costruite per uccidere esseri umani e comunque per questo uso non avrebbero mai potuto funzionare. Esse non erano stagne, di modo che il gas mortale avrebbe continuato ad espandersi all’esterno. Mancavano meccanismi di diffusione del gas, così come dispositivi capaci di riscaldare le camere. Infine, gli impianti d’aerazione che vi si trovavano erano insufficienti. La ventilazione della «camera a gas» del Krema I, per esempio, non era assicurata che da un lucernario; il gas si sarebbe immediatamente sparso raggiungendo l’infermeria delle SS, situata di fronte alla «camera a gas», uccidendo pazienti e medici. Si può supporre che sarebbe ristagnata nelle camere per una settimana, dopo ogni gassazione, una quantità di Zyklonsufficiente per spedire all’altro mondo chiunque fosse entrato. Le maschere antigas non avrebbero offerto sufficiente protezione. Le «camere a gas» erano in realtà degli obitori. Quella del Kremafu trasformata più tardi in rifugio antiaereo.

2. I forni crematori esistenti, d’altra parte, non avrebbero potuto bruciare che una minima frazione delle pretese vittime e le «fosse d’incinerazione» erano pura fantasia.

3. Leuchter e la sua équipe hanno prelevato dei campioni di calcina sia dalle «camere a gas» che da una camera di disinfestazione. Bisogna sapere che [in virtù del legame tra lo ione Cn con gli atomi di ferro del calcestruzzo] il cianuro permane nella calcina e nei mattoni per secoli sotto forma di insolubile ferrocianuro. Mentre il campione prelevato nella camera di disinfestazione presentava ancora, dopo 44 anni, un tenore di cianuro piuttosto elevato, le tracce di cianuro presenti nei campioni prelevati nelle «camere a gas» erano infime, persino nulle. Che si siano trovati tali residui in qualche campione si spiega, secondo Leuchter, col fatto che questi locali erano stati disinfestati una o più volte. Bisogna dire tuttavia che Germar Rudolf, in un’opera recente (Gutachten über die Bildung und Nachweisbarkeit von Cyanidverbindungen in den «Gaskammern» von Auschwitz, Media World, Box 62, Uckfield, E. Sussex, 1993) propone un’altra spiegazione: si tratta di un fenomeno chimico naturale. In una fattoria della Baviera sono stati rilevati residui di cianuro più abbondanti che nelle pretese camere a gas di Birkenau (G. Rudolf, op. cit., pp. 85 e 93).


A ulteriore garanzia la prova del cianuro non è stata effettuata da Leuchter, ma da un dottore in chimica, di nome James Roth, che non aveva alcuna idea della provenienza dei campioni.

Se il rapporto Leuchter fosse stato confutabile, gli sterminazionisti avrebbero immediatamente ingaggiato i migliori chimici ed ingegneri col compito di realizzare una controperizia. Ma nessun chimico e nessun ingegnere hanno effettuato una tale controperizia. Esistono due tentativi di confutazione, l’uno del francese Jean-Claude Pressac (Auschwitz: Technique and Operation of the Gas Chambers, Beate Klarsfeld Foundation, 515 Madison Avenue, New York, 1989; l’opera stampata in soli 1000 esemplari non si trova in libreria e non contiene, malgrado il titolo, alcun dato sul funzionamento delle camere a gas) e l’altro del tedesco Werner Wegner (essa figura nell’antologia Die Schatten der Vergangenheit, di Backes/Jesse/Zitelmann, Propyläen, 1990). Questi due tentativi non hanno alcun senso. Udo Walendy li analizza punto per punto nel numero 50 della rivista Historische Tatsachen. Faurisson ha esposto in dettaglio nel numero 3 della Revue d’histoire révisionniste (B. P. 122, 92704 Colombes Cedex) che ha nel frattempo cessato di essere pubblicata a causa della repressione in Francia come Pressac, nella sua opera monumentale, porti acqua al mulino dei revisionisti.

Le prove del cianuro sono già state rifatte due volte; la prima dall’Istituto di perizie medico-legali di Cracovia su richiesta del Museo di Auschwitz, e la seconda dal chimico tedesco Germar Rudolf. Quest’ultimo giunse nel suo studio molto approfondito alle stesse conclusioni di Leuchter, dal quale dissente su qualche punto secondario.

I chimici polacchi hanno scoperto nei campioni provenienti dalle «camere a gas» dei residui di cianuro ancora più insignificanti di quelli rilevati dal dottor Roth; per evitare delle risultanze troppo imbarazzanti essi hanno prelevato i campioni di paragone nelle camere di disinfestazione i cui muri erano stati imbiancati ma, ciò nonostante, vi hanno trovato dei residui di cianuro ben superiori a quelli che avevano rilevato nei campioni delle «camere a gas».

Tutti gli studi relativi al funzionamento delle camere a gas ed alla capacità dei crematori possono essere rifatti in qualunque momento. Basta inviare in Polonia una squadra composta da chimici, ingegneri e specialisti della cremazione, filmare le loro ricerche e presentarle all’opinione pubblica mondiale.

(N.B.: Nel 1988 al suo processo di appello, Ernst Zündel è stato condannato a 9 mesi di prigione; è stato lasciato in libertà a condizione che non si occupasse più dell’Olocausto. Zündel ha presentato ricorso in appello contro questa sentenza presso la Corte Suprema, la più alta giurisdizione del Canada, che lo ha del tutto prosciolto nell’agosto del 1992, 4 anni e mezzo più tardi.)

Propaganda di guerra

Il 22 marzo 1916 il Daily Telegraph annunciava che gli austriaci e i bulgari avevano gassato 700.000 serbi. Noi non sappiamo se allora i lettori del giornale britannico si siano lasciati abbindolare, ma certamente a guerra finita erano in pochi a credere alla gassazione di 700.000 serbi.

Il 2 agosto 1990 le truppe irachene invadevano il Kuwait. Gli USA tentarono di convincere l’ONU ad intervenire militarmente per liberare l’emirato, ma si trovarono ad urtare contro le resistenze dell’organizzazione. L’atteggiamento dell’ONU mutò però di colpo quando, in ottobre, una ragazza e un chirurgo kuwaitiani, in lacrime, descrissero davanti ad una commissione per i diritti dell’uomo come i barbari iracheni si fossero scatenati contro l’ospedale della città occupata: essi avevano fracassato le incubatrici e gettato i bambini sul pavimento dove li avevano lasciati morire miseramente. Questa testimonianza sollevò l’indignazione del mondo intero e contribuì largamente al successo dei sostenitori della soluzione militare. Poi, nel marzo 1992, l’impostura andò in pezzi: la storia delle incubatrici era stata escogitata da un’agenzia pubblicitaria di New York alla quale l’Emiro del Kuwait aveva versato 10 milioni di dollari. Il chirurgo non era un chirurgo e la giovane «testimone» era la figlia di un diplomatico kuwatiano in servizio negli Stati Uniti.

Tutti e due avevano «provato», per più giorni, la loro «testimonianza oculare», e seguito dei corsi di lingua inglese che erano stati loro espressamente impartiti.

Contrariamente alle invenzioni propagandistiche della prima guerra mondiale e della guerra del Golfo, quelle partorite dalla seconda guerra mondiale sono divenute «verità» storiografiche, e ciò perché ad esse sono legati immensi interessi politici e finanziari.

I primi rapporti sullo «sterminio» degli ebrei apparvero nel 1942 su giornali controllati dai sionisti come il New York Times, ed erano ispirati, secondo ogni verosimiglianza, dal Congresso mondiale ebraico (vedere A. Butz, The Hoax of the 20th Century). L’obiettivo principale di questa propaganda dell’orrore era senza dubbio quello di dimostrare ai governi e alla pubblica opinione degli Stati alleati la necessità di una patria-rifugio per il popolo ebraico.

Arthur Butz, in The Hoax of the Twentieth Century, traccia la genesi della leggenda del secolo. Oltre alle camere a gas, tutti i metodi di sterminio furono via via descritti sulle colonne del New York Times. Il 30 giugno 1942 fu la volta di un «edificio delle esecuzioni», dove quotidianamente 1.000 ebrei venivano fucilati; il 7 febbraio 1943 è la volta di non meglio descritti «centri per l’avvelenamento del sangue». Mentre l’edificio delle esecuzioni e i centri di avvelenamento svanivano prima della fine del conflitto, migliore sorte ebbero le «celle di esecuzione a vapore». Esse fecero ancora apparizione al processo di Norimberga. Il 14 dicembre 1945, a Norimberga, fu messo a verbale quanto segue:

«Tutte le vittime dovevano levarsi i vestiti e le scarpe che erano in seguito raccolte, dopo di che le vittime tutte, donne e bambini in testa, erano spinte nelle camere della morte []. Appena le camere erano state riempite, esse venivano chiuse ermeticamente e vi si introduceva del vapore []. I rapporti ricevuti permettono di stimare che parecchie centinaia di migliaia di ebrei sono stati sterminati a Treblinha» (documento di Norimberga PS-3311).

Settantacinque giorni più tardi, però, il tribunale aveva già dimenticato le camere a vapore: di colpo si parlò delle camere a gas di Treblinka. È dunque soltanto a guerra finita che si trova l’accordo sulla forma definitiva della leggenda.

Le fosse incandescenti di Elie Wiesel

In Legends of Our Time (New York, Avon Books, 1968, pp. 177-78), Elie Wiesel scriveva questo:

«Ogni ebreo, ogni parte di lui, dovrà procurarsi una zona di odio – un odio sano e virile – per ciò che il tedesco personifica e per ciò che è trasmesso nel tedesco. Agire altrimenti sarà tradire i morti».

Nel 1986 Elie Wiesel si vedeva consegnare il premio Nobel per la pace su proposta, come è noto, di 83 deputati del Bundestag. L’attribuzione di questo premio, pensavano i parlamentari, avrebbe costituito un grande incoraggiamento per tutti quelli che si impegnano in favore del processo di riconciliazione.

Nato nel 1928, Elie Wiesel fu internato ad Auschwitz dall’aprile 1944 al gennaio 1945. In La Nuit, la sua «testimonianza» apparsa nel 1958, egli non fa parola delle camere a gas (attenzione: le camere a gas appaiono però all’improvviso nella versione tedesca, Die Nacht zu begraben, Elischa, traduzione di Curt Meyer-Clason, pubblicata dalle edizioni Ullstein; ogni volta che nel testo originale appariva il termine «forno crematorio», Meyer-Clason traduceva con «camere a gas»). Wiesel non ha dunque potuto vedere le camere a gas, non più di quanto ne abbia sentito parlare, altrimenti Ie avrebbe certo menzionate.

In mancanza delle camere a gas, Wiesel ha visto ciò che, a parte lui, nessun altro ha visto:

«Non lontano da noi delle fiamme uscivano da un fosso, delle fiamme gigantesche: vi si bruciava qualcosa. Un camion si avvicinò al buco e vi versò il suo carico: erano dei bambini: dei neonati! Si, io lo avevo visto, I’avevo visto con i miei occhi… Dei bambini nelle fiamme. (È dunque strano se dopo quel momento il sonno fugge i miei occhi?)»

«Ecco dunque, noi andiamo: un poco più lontano si trovava un altro fosso, più grande, per gli adulti.[…] “Padre”, gli dissi, “se è così, io non voglio più attendere. Io andrò verso i fili spinati elettrificati; è meglio che agonizzare per ore nelle fiamme”.»

Ma l’interminabile agonia fra le fiamme fu risparmiata a Elie Wiesel senza che egli avesse il tempo di ricorrere ai fili elettrificati, perché:

«La nostra colonna non aveva che da superare una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Dieci passi ancora. Otto, sette. Camminiamo lentamente, come dietro ad un carro funebre, verso la nostra sepoltura. Quattro passi, tre passi: essa era là ora, vicino a noi, la fossa e le sue fiamme. Raccoglievo tutte le mie forze per saltare fuori dalla fila e gettarmi sui fili spinati: in fondo al mio cuore davo gli addii a mio padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si presentavano in un mormorio alle mie labbra: “Ytgodal veyitkadhach, chmè raba…” Che il suo nome sia elevato e santificato… il mio cuore stava per scoppiare. Ecco, io mi trovavo di fronte all’Angelo della morte. […] No. A due passi dalla fossa, ci venne ordinato di girare a sinistra e ci si fece entrare in una baracca» (La Nuit, Editions de Minuit, 1958 pag. 57-60).

In prossimità della fine della guerra, dunque, oltre alle camere a gas la propaganda parlava di altri metodi di sterminio. Uno di questi consisteva nel bruciare le persone vive. Questa variante del mito dello sterminio si è mantenuta viva nell’ambiente ebraico fin verso il 1960. Come dice R. Faurisson, Elie Wiesel doveva scegliere fra due menzogne della propaganda alleata, e si premurò di scegliere la peggiore.

Belzec o il campo di sterminio fantasma

Situato in Polonia, il campo di Belzec (da non confondersi con quello di Bergen-Belsen) fu, secondo la storiografia ufficiale, al terzo posto fra i campi di sterminio: 600.000 ebrei vi sarebbero stati gassati.

La storia di Belzec è una versione in miniatura dell’insieme della leggenda dell’Olocausto, per cui vale la pena di presentarla in modo relativamente particolareggiato.

Belzec fu aperto nel marzo 1942. Esso serviva da campo di transito per gli ebrei diretti in Russia. Poco dopo l’apertura del campo corsero voci sui massacri che vi si sarebbero perpetrati. Il revisionista italiano Carlo Mattogno approfondisce queste voci nel suo studio Il mito dello sterminio ebraico, Sentinella d’Italia, 1985.-

Prima variante: gli ebrei erano spinti in una baracca dove si dovevano tenere in piedi su di una placca metallica attraverso la quale si faceva passare una corrente elettrica mortale (riportato nel dicembre 1942 dal giornale del governo polacco in esilio Polish Fortnightly Review).

Seconda variante: gli ebrei venivano fucilati, e quelli che non lo erano venivano gassati o uccisi con l’elettricità (dichiarazione fatta dal comitato d’informazione interalleato il 19 dicembre 1942).

Terza variante: gli ebrei erano uccisi dal calore dentro un forno elettrico. È ciò che afferma Abraham Silberschein (Die Judenausrottung in Polen, Ginevra, agosto 1944).

Quarta variante: descritta da Stefan Szende, dottore in filosofia, nel suo libro Der letzte Jude aus Polen (Europa-Verlag Zurich/New York, 1945, p. 290 e segg.):


«La macina per uomini comprende uno spazio di circa sette chilometri di diametro. Questa zona è protetta da filo spinato e da ogni tipo di dispositivo di sicurezza. Nessuno ha il permesso di avvicinarsi a questa zona. Nessuno ha il permesso di lasciare questa zona […]. Si prende loro tutto […] Gli oggetti erano accuratamente classificati, inventariati e naturalmente messi al servizio della razza dei signori. Per sottrarsi a questo lavoro complicato e lungo tutti gli uomini in fila furono lasciati nudi. Gli ebrei nudi venivano condotti in sale gigantesche. Queste sale potevano contenere parecchie migliaia di persone per volta. Esse non avevano finestre, erano in metallo ed il loro pavimento era mobile.

Il pavimento di queste sale scendeva con le migliaia di ebrei dentro un bacino pieno di acqua, posto al di sotto, in modo tale che tuttavia le persone in piedi sulla placca metallica non erano completamente immerse.

Quando tutti gli ebrei in piedi sulla placca metallica avevano già l’acqua ai fianchi, si faceva passare nell’acqua una corrente ad alta tensione. Dopo qualche istante tutti gli ebrei, a migliaia alla volta, erano morti.

Poi il pavimento di metallo si alzava fuori dall’acqua. I cadaveri dei suppliziati vi giacevano sopra. Un’altra linea elettrica veniva attivata e la placca metallica si trasformava in una bara crematoria, scaldata al calor bianco, fino a che tutti i cadaveri erano ridotti in cenere.

Potenti gru sollevavano allora la gigantesca bara crematoria e si evacuavano le ceneri. Dei grandi camini di officina evacuavano il fumo. Il processo era compiuto.

Il treno seguente attendeva già con i nuovi ebrei davanti all’entrata del tunnel. Ciascun treno portava da 3.000 a 5.000 ebrei, talvolta anche di più. C’erano dei giorni in cui la linea di Belzec aveva portato venti di questi treni ed anche di più. La tecnica moderna trionfava nella regia nazista. Il problema dell’esecuzione di milioni di uomini era risolto».


Quinta variante: gli ebrei erano fulminati nelle docce elettriche e poi trasformati in sapone. Questa versione è fornita da Simon Wiesenthal:

«Le persone, schiacciate le une contro le altre, incalzate dalle SS, dei lettoni e degli ucraini, entravano correndo dalla porta aperta nei “bagni”. Questi potevano contenere 500 persone alla volta. Il pavimento dei bagni era in metallo e le docce pendevano dal soffitto. Quando i bagni erano pieni le SS inviavano una corrente ad alta tensione, 5.000 volt, sulla placca metallica. Contemporaneamente le docce spruzzavano acqua. Un grido breve e l’esecuzione era terminata. Un ufficiale medico delle SS, il dottor Schmidt, constatava la morte delle vittime dalla finestrella, si apriva la seconda porta, “la squadra dei cadaveri” entrava e portava via rapidamente i morti. C’era di nuovo il posto per i 500 seguenti» (Der neue Weg, Vienna, n· 19-20, 1946).

Secondo Simon Wiesenthal, i cadaveri delle vittime non venivano «ridotti in cenere con delle resistenze di cremazione scaldate al calor bianco» come dichiara Stefan Szende; i carnefici ne facevano del sapone con la marca RIF, «Rein Judisches Fett», «puro grasso ebreo». N.B.: RIF significava «Reichsstelle fur industrielle Fettversorgang»: «Servizio di approvvigionamento industriale di materie grasse del Reich»):

«Nell’ultima settimana di marzo (1946), la stampa romena annunciò una notizia straordinaria: nella piccola città di Folticeni si sono solennemente sotterrate al cimitero giudaico, durante una cerimonia di inumazione conforme alle regole, 20 casse di sapone [] Le casse portavano la marca RIF – Rein Judisches Fett […] È alla fine del 1942 che fu pronunciata per la prima volta l’espressione «trasporto di sapone»! Avveniva nel Governatorato Generale e la fabbrica era in Galizia, a Belzec: 900.000 ebrei furono utilizzati come materia prima in questa fabbrica dall’aprile 1942 al maggio 1943 […] Il mondo culturale non può concepire il piacere con il quale i nazisti e le loro donne contemplavano questo sapone. Essi vedevano in ciascun pezzo di sapone un ebreo che era stato fatto sparire per incanto e si era anche impedita la crescita di un secondo Freud, Ehrlich o Einstein. […] L’inumazione del sapone in una cittadina romena ha qualcosa di soprannaturale. Il dolore stregato che alberga in questo piccolo oggetto d’uso quotidiano spacca il cuore già pietrificato dell’uomo del XX secolo. Nell’era atomica, il ritorno alla oscura cacina medioevale delle streghe fa l’effetto che può fare un fantasma. E però è la verità!» (Der neue Weg, Vienna, n·17/18, 1946).


Sesta variante: gli ebrei erano assassinati mediante la calce viva. Questa versione è dovuta al polacco, non ebreo, Jan Karski, autore del libro Story of a Secret State edito nel 1944 (Houghton Miffling, Boston, The Riverside Press, Cambridge), pubblicato in francese nel 1948 col titolo Mon Témoignage devant le monde (edizioni S.E.L.F., Parigi), dal quale estraiamo il passaggio che segue (cito in R. Faurisson, Réponse à Pierre Vidal-Naquet, 1982, p. 44):

«Il pavimento del treno [che trasportava gli ebrei] era stato ricoperto di uno spesso strato di polvere bianca, calce viva. Tutti sanno quello che succede quando si versa dell’acqua sulla calce […] Stava arrivando il crepuscolo quando i 45 vagoni (io li avevo contati) furono pieni. Il treno con il suo carico di carne torturata vibrava e urlava come fosse indemoniato».

Settima variante: gli ebrei erano uccisi per mezzo dello Zyklonche era introdotto nei locali delle docce grazie ad un sistema di tubi. È questa versione che decise di propendere un tribunale tedesco nel 1965, ai tempi del processo di Belzec, versione seguita anche da Adalbert Rückerl, ex-direttore dell’Ufficio Centrale di Ludwigsburg incaricato dell’informazione sui criminali nazisti, nel suo libro Nationalsozialistische Vernichtungslager im Spiegel Deutscher Strafprozesse (Deutscher Taschenbuchverlag, 1977 p.133). Il tribunale e il signor Rückerl precisano che in capo a qualche settimana si è poi passati ai gas di scappamento. É stata necessaria qualche settimana perché le SS si accorgessero che i granuli di Zyklon rifiutavano di passare per i tubi.

Ottava variante: gli ebrei erano assassinati dai gas di scappamento dei motori Diesel. Noi citiamo qui un passaggio del Rapporto Gerstein, rapporto che passa, con la «confessione» di Höss, come la prova più importante dell’Olocausto. L’ufficiale delle SS del Servizio Sanità Kurt Gerstein si arrese alle truppe della Prima Armata Francese che occupavano il Wurttemberg nell’aprile 1945 e, prima di suicidarsi in prigione nel luglio dello stesso anno, rese la sua confessione, o più esattamente le sue sei confessioni, poiché, come il francese Henri Roques

[nonché, in precedenza, Carlo Mattogno]

ha brillantemente dimostrato nella sua tesi di laurea, non esistono del Rapporto Gerstein meno di sei versioni, che divergono talvolta considerevolmente fra loro. Secondo le sue sei deposizioni, Gerstein visitò Belzec e Treblinka nell’agosto 1942. A suo avviso, secondo una delle versioni della sua «confessione», 25.000.000 di persone [!!??] furono gassate. A Belzec, da 700 a 800 persone si ammucchiavano in una camera a gas di 25 mq, cioè da 28 a 32 persone per metro quadrato (ed è un ingegnere che lo afferma). Il ricordo di un mucchio di scarpe di detenuti assassinati che poteva raggiungere, secondo certe versioni, un’altezza da 35 a 40 metri, corona questa testimonianza, che figura peraltro in pressoché tutti i manuali scolastici ed in tutti i libri di storia. Ecco un estratto di una delle sei confessioni (André Chelain, Faut-il fusiller Henri Roques?, Polémiques, Ogmios Diffusion, 1986, pp. 90-91; il libro di Chelain contiene il testo completo della tesi di Roques Les «confessions» de Kurt Gerstein. Etude comparativedes différentes versions. Etude critique):

«Le camere si riempiono, “Caricate bene”, ha ordinato il capitano Wirth. Essi stanno gli uni sui piedi degli altri. Da 700 a 800 esseri umani in 25 mq, in 45 metri cubi […] Le porte si chiudono.

Durante questo tempo gli altri attendono fuori nudi […] Ma la macchina diesel non si avvia […].

Wirth arriva. Si vede che gli spiace che ciò succeda proprio oggi quando io sono presente. Si, io vedo tutto ed ascolto tutto! Il mio orologio ha tutto ben registrato, 50 minuti, 70 minuti – il diesel non parte; le persone attendono in queste camere invano. Le si sentono piangere e singhiozzare “come alla sinagoga”, nota il professore Pfannenstiel che ha messo l’orecchio contro la porta di legno […].

Dopo due ore e quarantanove minuti- il mio cronometro lo ha registrato – il diesel parte. Fino a questo momento questi esseri umani vivono nelle camere già riempite: 4 camere per 750 uomini ciascuna, 45 metri cubi ciascuna.

Passano 25 minuti. È vero che molti sono già morti: si vede attraverso la piccola finestrella illuminando un istante la camera con la luce elettrica […].

28 minuti più tardi sono rari quelli che vivono ancora. Infine dopo 32 minuti tutti sono morti; […]»

Per inspiegabili ragioni gli storici preferiscono il Rapporto Gerstein alle altre sette varianti.

Il gas di scappamento dei motori diesel contiene una modesta percentuale di ossido di carbonio (vedere Friedrich Paul Berg, in Ernst Gauss, Grundlagen zur Zeitgeschichte, Grabert, 1994). I prigionieri nella camera a gas così affollata sarebbero morti asfissiati molto prima che l’ossido di carbonio avesse esercitato i suoi effetti. Si tralascia inoltre di considerare che un motore a benzina sarebbe stato uno strumento di morte molto più efficiente di un motore diesel. In realtà, se avessero voluto gassare persone in grande numero, i tedeschi non avrebbero evidentemente utilizzato un motore, ma uno dei tanti gas tossici di produzione industriale. Ci si trova dunque di fronte ad una flagrante contraddizione: il genio tecnico che si attribuisce ai tedeschi e che doveva loro permettere di uccidere milioni di persone all’insaputa del mondo e senza lasciare la minima traccia è incompatibile con la stupidità di cui avrebbero dato prova nella messa in opera del criminale progetto scegliendo , fra tutte le armi possibili, la meno efficace.

Ma prescindendo dalle «tecniche di sterminio» quali prove abbiamo dell’assassinio di 600.000 persone a Belzec?

Un’ispezione sul sito del vecchio campo di Belzec non è di alcun aiuto poiché non vi si trova che un prato, e niente altro.

Non possediamo un solo documento al riguardo. Si risponde che i nazisti avrebbero sempre trasmesso oralmente gli ordini concernenti gli assassinii.

Non si sono trovate fosse comuni. Si risponde che i nazisti avrebbero bruciato i cadaveri.

Anche i resti delle 600.000 vittime sono però spariti. Si risponde che i nazisti avrebbero disperso le ceneri. Non ci si spiega però che cosa sia avvenuto delle ossa; la maggior parte delle persone ignora che le ossa, e a maggior ragione i denti, non bruciano che parzialmente, e che essi devono essere macinati.

Delle camere a gas non è restata che l’ombra. Si risponde che i nazisti avrebbero fatto saltare le camere a gas ed avrebbero sgomberato le macerie.

Belzec è assolutamente assente dalle statistiche del SIR di Arolsen, nelle quali il campo di concentramento di Neuengamme, per esempio, figura esattamente con 5.780 decessi provati – i morti di Belzec non sono stati registrati da nessuna parte.

Non ci sono più testimoni oculari sopravvissuti. Uno solo dei 600.000 ebrei deportati a Belzec, un certo Rudolf Reder, è sopravvissuto nel campo, ma è deceduto negli anni Sessanta.

Quali prove abbiamo allora dei 600.000 assassinati di Belzec?

Nessuna. Non la minima prova.

Treblinka, un’offesa alla ragione

Il secondo campo di sterminio per numero di vittime, secondo gli sterminazionisti, fu Treblinka, situato 80ad est di Varsavia. Anche laggiù non è restata traccia delle vittime (800.000 allo stato attuale delle ricerche storiche ufficiali; nel 1946 si era arrivati fino a tre milioni).

Nei fatti e per la verità Treblinka era, come Sobibor e Belzec, un semplice campo di transito. Dopo la repressione dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia nella primavera del 1943, i sopravvissuti furono inviati, via Treblinka, sia in altri ghetti sia in campi di lavoro.

Secondo il libro di Adalbert Rückerl sui «campi di sterminio», c’erano in tutto a Treblinka da 35 a 40 SS. Come potevano questi 35 o 40 uomini gassare quotidianamente parecchie migliaia di ebrei? Perché erano aiutati da 500 a 1.000 lavoratori ebrei (Rückerl, 212). Questi lavoratori ebrei erano muniti di fruste che rafforzavano la loro autorità. Essi sapevano che sarebbero stati presto o tardi gassati a loro volta, ma non venne loro giammai l’idea di usare le loro fruste contro le 35-40 SS, che essi aiutavano invece a massacrare ogni giorno fino a 10.000 loro correligionari! Anche questi ultimi si mostravano assai disponibili. L’accusato Suchomel ha affermato nel corso del processo di Treblinka a Düsseldorf che essi: «entravano nelle camere a gas nudi ed in buon ordine» (Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2 aprile 1965).

Il film di Claude Lanzmann, Shoah – 9 ore e mezzo di proiezione – è, secondo la prefazione del libro dallo stesso titolo, che contiene l’insieme dei dialoghi del film, un documento capitale poiché, scrive Simone De Beauvoir, «[…] Noi abbiamo letto, dopo la guerra, quantità di testimonianze sui ghetti, sui campi di sterminio; siamo sconvolti. Ma, vedendo oggi lo straordinario film di Claude Lanzmann ci accorgiamo che non sapevamo nulla. Malgrado tutte le nostre conoscenze, I’orribile esperienza restava distante da noi. Per la prima volta la viviamo nella testa, nel cuore, nella carne. Diventa nostra […]». Da parte sua, Pierre Vidal-Naquet considera Shoah «un grandioso film storico» e «una grande opera storica» (Les Assassins de la mémoire, edizioni La Découverte, Parigi, 1987, pp. 143 e 149). Citiamo qui un breve estratto della conversazione che si svolge fra il regista e il parrucchiere di Treblinka Abraham Bomba (Shoah, edizioni Fayard, 1985, p. 143 e seg.):

Lanzmann: E la camera a gas?

Bomba: Non era grande, era 4 metri per 4 circa […] all’improvviso giunge un Kapò : «Parrucchiere, dovete fare in modo che tutte le donne che entrano qui credano di andare semplicemente a tagliarsi i capelli, fare una doccia e che in seguito usciranno.» Ma noi sappiamo già che non si esce da questo luogo.

Lanzmann: E subito esse arrivavano?

Bomba: Si, esse entravano.

Lanzmann: Come erano?

Bomba: Erano svestite, tutte nude, senza abiti, senza niente […].

Lanzmann: C’erano degli specchi?

Bomba: No, niente specchi, dei banchi, niente sedie, solamente dei banchi e sedici o diciassette parrucchieri… […]

Lanzmann: Quante donne trattavate in una infornata?

Bomba: In una infornata… circa… da sessanta a settanta donne.

Lanzmann: E in seguito si chiudevano le porte?

Bomba: No, quando si era finito col primo gruppo entrava il seguente […].

Si trovavano dunque in una camera di 4 metri per 4, 16 o 17 parrucchieri, 60 o 70 donne nude e dei banchi!

Se si tratta di un «documento capitale sullo sterminio degli ebrei», di un «grandioso film storico» e di una «grande opera storica», non si ha forse il diritto di interrogarsi sulla qualità delle altre prove?

Nell’agosto 1992 la Polish Historical Society (91 Strawberry Hill Avenue, Suite 1038, Stanford, CT 06902, USA), ha riunito una documentazione tra le più voluminose che smonta radicalmente l’immagine del «campo di sterminio» di Treblinka. Fermiamoci sui punti seguenti:

A – La propaganda relativa allo sterminio cominciò dopo la costruzione del campo di transito di Treblinka nel luglio 1942 (il campo di lavoro di Treblinkaera stato aperto fin dal 1941 a 3da questo). I metodi seguenti di uccisione apparvero nella propaganda durante la guerra e anche dopo accanto ai massacri coi gas di scappamento dei motori diesel: gassazione con lo Zyklon trattamento con vapori ustionanti; asfissia nella camera di decompressione; elettroesecuzione; fucilazione; mitragliamento.

B – I presunti massacri col gas di scappamento dei motori diesel sono materialmente impossibili. La Society rinvia al fatto che nel 1988, a Washington, un treno funzionante con motore diesel restò bloccato in un tunnel; esso si riempì immediatamente di fumi e trascorsero 40 minuti prima della liberazione senza che uno solo dei 420 passeggeri subisse danni di sorta.

C – Treblinkasi trovava a 240da un’importante linea ferroviaria, a 270da una grande strada e a 800 dal villaggio più vicino. Non vi si sarebbe potuto nascondere il massacro per più di una settimana. Nell’aprile 1943 il governo polacco in esilio situava il «campo di sterminio» 40più a nord, nel cuore di una zona boscosa, in un luogo chiamato «Treblinka III», ma, in seguito, rinunciò tacitamente a questa versione.

D – Ex detenuti di Treblinka hanno disegnato del campo una quarantina di piante che si contraddicono grossolanamente fra loro. Le «camere a gas» in ogni disegno cambiano di posto.

E – Udo Walendy ha personalmente menzionato 44 di queste «camere» sulla rivista Historische Tatsachen. L’Armata Rossa ha completamente distrutto Treblinkacon le bombe ed i proiettili di artiglieria, per poter affermare in seguito che i nazisti avevano cancellato tutte le tracce del loro abominio.

F – Anche dopo secoli si possono riconoscere con buone foto aeree i luoghi dove sono stati praticati scavi nel passato, e questo ha permesso preziose scoperte archeologiche. Auschwitz e Treblinka sono stati fotografati dagli aerei da ricognizione alleati. Le foto di Treblinkamostrano un solo scavo di 66 metri per 5 (e profondo 3 metri, secondo fotografie realizzate nel 1944 da una commissione ebreo-sovietica) che avrebbe potuto contenere al massimo 4.000 cadaveri. Poiché centinaia di migliaia di ebrei sono passati da Treblinka e poiché le condizioni di trasporto erano sovente drammatiche, la cifra di 4.000 vittime entra nel dominio del possibile. Di questi cadaveri comunque nella fossa non è stata trovata traccia.

Questa documentazione – al cento per cento revisionista – è stata raccolta da americani di origine polacca, il cui paese di origine ha terribilmente sofferto sotto il nazional-socialismo. Questi uomini insieme ad un numero crescente di ricercatori della stessa Polonia, privilegiano la verità storica sulla persistente propaganda di guerra contro il nemico di ieri.

Majdanek: nessuna, tre oppure sette camere a gas?

Quanti morti vi furono a Majdanek?

1,5 milioni secondo una commissione sovieto-polacca (1944);

1,38 milioni secondo Lucy Dawidowicz (The War against the Jews, Penguin Books, 1987, p. 191);

360.000 secondo Lea Rosh e Eberhard Jäckel (Der Tod ist ein Meister aus Deutschland, Hoffmann und Campe, 1991, p. 217);

250.000 secondo Wolfgang Scheffler (Judenverfolgung im Dritten Reich, Colloquium Verlag, 1964, p. 40);

50.000 secondo Raul Hilberg (La Destruction des Juifs d’Europe; è vero che Hilberg non parla che delle vittime ebree, cifra fornita nel 1961 e ripetuta nel 1985).

Quante erano le camere a gas a Majdanek?

nessuna, secondo la celebre lettera dell’ebreo Martin Broszat, pubblicata il 19 agosto 1960 dal Die Zeit: Majdanek non figura nell’elenco dei campi dotati di camere a gas;

sette, secondo la Deutsche Volkszeitung del 22 luglio 1976;


sette ancora secondo il giornale televisivo dell’ARD del 5 ottobre 1977: «Si deduce dai documenti delle SS che qui, nelle sette camere a gas […]»;

«almeno tre», secondo la sentenza del processo di Majdanek a Düsseldorf.

Secondo il rapporto della commissione sovieto-polacca del 1944, 18.000 persone furono gassate a Majdanek il 3 novembre 1943 al suono di un valzer di Strauss. Quando l’impossibilità tecnica di questa asserzione è divenuta troppo evidente si è mutato il massacro col gas in un massacro per fucilazione.

Le camere a gas dei campi dell’Ovest

Nei primi anni del dopoguerra si dava per scontato che pressoché tutti i campi di concentramento fossero dotati di una o più camere a gas. Noi citiamo qui una «testimonianza oculare» sulla camera a gas di Buchenwald (Abbé Georges Hénocque, Les Antres de la Bête, G. Durassie et Cie, Parigi, 1947, citato da R. Faurisson, Mémoire en Défense, 1980, p. 192 e seg.):

« […] All’interno i muri erano lisciati, senza fessure e come verniciati. All’esterno si vedevano, al lato dello stipite della porta, 4 bottoni messi uno sopra l’altro, uno rosso, uno giallo, uno verde, uno bianco.

Tuttavia un dettaglio mi preoccupava: non capivo come il gas potesse scendere dai fori del doccino fino in basso. La stanza in cui mi trovavo era costeggiata da un corridoio. Vi entrai e là vidi un enorme tubo che le mie due braccia non arrivavano a contornare completamente e che era ricoperto, per lo spessore di un centimetro circa, di gomma.

A lato, una manovella che si girava da sinistra a destra, liberava l’arrivo del gas. Con una forte pressione esso discendeva fino a terra così che nessuna vittima poteva sfuggire a quella che i tedeschi chiamavano “la morte lenta e dolce “.

Sotto il punto in cui il tubo faceva gomito per penetrare nella camera a gas, erano sistemati gli stessi pulsanti esistenti nella porta esterna: rosso, verde, giallo, bianco, che servivano evidentemente a dosare la discesa del gas. Tutto era architettato ed organizzato scientificamente. Il Genio del Male non avrebbe potuto fare di meglio.

Rientrai nuovamente nella camera a gas per cercare di trovare quella del forno crematorio.

Ciò che fin dal principio colpì il mio sguardo fu una sorta di barella girevole in ferro. Questo congegno perfezionato si manovrava senza fatica e affrontava il contatto bruciante dei forni. Vi si ammucchiavano i cadaveri raccolti nella stanza vicina e lo si portava davanti alla fornace.

Quando io feci questa indimenticabile e inquietante visita, le apparecchiature erano in pieno funzionamento, con il loro carico completo […].

Dopo aver esaminato ancora una volta questo inferno e proseguendo, in uno spesso e pesante silenzio, la mia lugubre passeggiata, aprii la porta di una terza stanza. Era la camera dei… prenotati.

Là erano ammassati i cadaveri di quelli che non si erano potuti bruciare il giorno stesso e che si conservavano per l’indomani. Nessuno potrebbe immaginare, se non l’avesse visto, l’orrore di questa terza scena. In un angolo della stanza, a destra, i morti, nudi, spogliati, gettati alla rinfusa, senza alcun rispetto si ammucchiavano in posizioni bizzarre. Le mascelle erano state spezzate per strapparne le protesi in oro, senza parlare delle «perquisizioni» odiose praticate su quei corpi per assicurarsi che non celassero alcun gioiello capace di aumentare il tesoro dei mostri nazisti […]

Gettando un ultimo sguardo su quel luogo di scandalo e di spavento, lessi, al chiarore delle fiamme che sfuggivano dalla fornace, a 8 o l0 metri d’altezza, la quartina cinica disegnata sull’edificio del crematorio. Eccone la traduzione:

Il verme disgustoso non deve nutrirsi del mio corpo.
La fiamma pura, è lei che deve divorarlo.
Ho sempre amato il calore e la luce.
Perciò bruciami e non seppellirmi.


Mi restava, infine, da contemplare lo spettacolo di cui doveva inorgoglirsi la scienza germanica: su più di un chilometro di lunghezza e per un’altezza di quasi un metro e cinquanta, le ceneri accuratamente raccolte nei forni e utilizzate per concimare i campi di carote e cavoli!

È cosi che centinaia di migliaia di esseri, entrati vivi in questo inferno, uscivano come concime…

Ora, grazie alla mia imprudente intrusione, avevo visto tutto quello che volevo vedere.»

Oltre ai «testimoni oculari» di questo genere, l’esistenza delle camere a gas era provata dalle confessioni dei colpevoli. Suhren, comandante di Ravensbrück, il suo sostituto Schwarzhuber, Treite, medico del campo, sono stati giustiziati o si sono suicidati dopo aver confessato l’esistenza della camera a gas di Ravensbrück e aver vagamente descritto il suo funzionamento. E Franz Ziereis, comandante di Mauthausen, ha rivelato sul suo letto di morte (era stato ferito all’addome con tre colpi di arma da fuoco) la cosa inaudita che era avvenuta al castello di Hartheim, non lontano da Linz: tra uno e un milione e mezzo di persone erano state gassate nel castello!

«Un’impianto di gassazione camuffato da sala da doccia fu costruito al campo di Mauthausen per ordine del Dott. Kresbach, Hauptsturmführer SS […]. Il Gruppenführer Glucks ha dato l’ordine di far passare i miseri prigionieri per pazzi e farli assassinare in una grande installazione a gas. Da uno a un milione e mezzo di persone circa sono state assassinate. Questo luogo si chiama Hartheim e si trova a 10 chilometri da Linz in direzione di Passau» (Simon Wiesenthal, KZ Mauthausen, Ibis-Verlag, 1946, p. 7-8).

Ora, benché la convinzione dell’esistenza delle camere a gas nei campi dell’Ovest sia ancora largamente diffusa nel pubblico, non vi sono più storici seri che credano a gassazioni nel castello di Hartheim o nei campi di Ravensbrück, di Buchenwald e di Dachau, e ciò da decenni. La lettera indirizzata a Die Zeit il 19 agosto 1960 da Martin Broszat, allora collaboratore dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco di cui doveva diventare direttore, ha suonato a morto per tutte queste camere a gas:

«Né a Dachau, né a Bergen-Belsen, né a Buchenwald ebrei o altri detenuti sono stati gassati. […] L’annientamento massiccio degli ebrei con il gas cominciò nel 1941/42 ed ebbe luogo unicamente in rari punti scelti per questo scopo e provvisti di installazioni tecniche adeguate, soprattutto in territorio polacco occupato (ma da nessuna parte nell’ex-Reich): ad Auschwitz- Birkenau, a Sobibor, a Treblinka, Chelmno e Belzec.» [Si noti la mancanza di Majdanek.]

In poche parole, Broszat ammetteva che tutto quanto era stato detto sulle camere a gas del Reich germanico dal 1945 era menzogna (per «Reich germanico» si indica il territorio della Germania nelle sue frontiere del 1937). Né in questa lettera, né più tardi, Broszat ha prodotto la minima prova di quanto affermato: non ha mai rivelato perché le dichiarazioni di testimoni relative alle presunte gassazioni di Auschwitz e di Sobibor dovessero essere più degne di fede di quelle che riferivano delle gassazioni negate di Dachau e Buchenwald.

Fin dal 1948 una commissione di inchiesta americana diretta dai giudici Simpson e Van Roden aveva constatato che le confessioni sulle camere a gas del Reich germanico erano state ottenute con la tortura: percosse, testicoli schiacciati, denti rotti, ecc. Molti accusati erano stati giustiziati subito dopo queste confessioni estorte (The Progressive, febbraio 1949, pp. 21-22).

La genesi del mito di Auschwitz

Nel New York Times del 27 agosto 1943 si poteva leggere a proposito di Auschwitz:

«Le condizioni di vita sono particolarmente dure nel campo di Oswiecim (Auschwitz). Secondo stime, 58.000 persone vi sono perite.»

Sorprendente è che il numero di vittime stimato era piuttosto al di sotto della realtà, mentre la menzione delle dure condizioni di lavoro era esatta. È impossibile tuttavia che gli Alleati abbiano ignorato per due anni ciò che davvero avveniva nel più grande dei campi di concentramento germanici. È solo nel corso del penultimo anno di guerra che la leggenda prende forma concretamente.

Arthur Butz ha magistralmente dimostrato, nella sua opera The Hoax of the Twentieth Century, come la propaganda su Auschwitz sia cominciata all’inizio dell’estate 1944, con dei racconti sulla gassazione di 400.000 ebrei ungheresi a Birkenau.

Era logico che i creatori del mito delle camere a gas facessero di Auschwitz il centro della loro propaganda. Era il campo più importante, aveva registrato, per epidemie di tifo, elevati tassi di mortalità ed era fornito di crematori. Non si potevano sognare condizioni più favorevoli alla nascita di un mito. Inoltre, Birkenau faceva funzione di campo di transito per gli ebrei trasferiti all’Est. Un immenso complesso concentrazionario, un tasso di decessi elevato, un veleno a base di acido cianidrico utilizzato massivamente (lo Zyklonera consegnato anche a circa quaranta sotto-campi), migliaia di deportati ebrei che arrivavano a Birkenau e che sarebbero scomparsi poco tempo dopo, apparentemente senza lasciare traccia, senza contare le selezioni nel corso delle quali si separavano i detenuti atti al lavoro da quelli inabili.

Auschwitz fu occupata dai sovietici il 27 gennaio 1945. Fin dal 2 febbraio appariva nella Pravda un lungo elenco delle atrocità che vi erano state perpetrate, un racconto in cui si poteva leggere in particolare questo:

«Le camere a gas collocate nella parte orientale del campo erano state trasformate. Le si erano provviste anche di torrette e di ornamenti architettonici, di modo che avessero l’aspetto di inoffensivi garages […] Essi [i tedeschi] spianarono le «antiche fosse», dove risultavano dei rilievi, rimossero e distrussero le tracce del sistema della catena di montaggio dove centinaia di persone erano state uccise ogni giorno con la corrente elettrica […]» (citato nel n·della rivista Historische Tatsachen. Robert Faurisson è stato il primo a prestare attenzione all’articolo della Pravda).

Nessuno storico ha mai preteso che vi fossero camere a gas nella parte orientale del campo (o a Monowitz) e, da allora, non si è più sentito parlare del sistema della catena di montaggio che permetteva di uccidere con la corrente elettrica le persone. Quanto alle camere a gas di Birkenau situate nella parte occidentale del complesso di Auschwitz, la Pravda non le menzionava neppure! Ciò prova che all’epoca gli Alleati non si erano ancora messi d’accordo sulla versione ufficiale.

Dopo la liberazione, il campo venne chiuso. Poi, solo pochi osservatori occidentali scelti con molta cura vi furono ammessi, fino a che non si giunse all’apertura del museo di Auschwitz.

Terminata la guerra, gli inglesi cercarono febbrilmente Rudolf Höss, che doveva diventare il testimone chiave del più grande crimine di tutti i tempi. Ma Höss si era nascosto e viveva sotto il nome di Franz Lang in una fattoria dello Schleswig-Holstein. Un distaccamento britannico finì per scovarlo nel marzo 1946. Nel suo libro Legions of Death (Arrow Books Limited, 1983, p.e sgg.) lo scrittore inglese Rupert Butler descrive come è stata ottenuta la confessione di Höss.

Butler s’appoggia alle dichiarazioni del sergente ebreo-britannico Clarke che ha diretto l’arresto e l’interrogatorio del primo comandante di Auschwitz:

«Höss lanciò un grido alla semplice vista delle uniformi britanniche. Clarke urlò: `”Il tuo nome?”

Ogni volta che la risposta era “Franz Lang”, Clarke abbatteva il suo pugno sulla faccia del prigioniero. Al quarto colpo, Höss crollò e ammise la sua identità. […]

Improvvisamente il prigioniero fu strappato dalla sua cuccetta e gli stracciò il pigiama. Fu poi trascinato nudo verso una tavola di tortura e là Clarke credette che colpi e grida non avrebbero avuto mai fine […]

Si gettò su Höss una coperta e fu trascinato verso la vettura di Clarke dove quest’ultimo gli versò in gola un bicchierone di whisky. Mentre Höss cercava di dormire, Clarke gli punzecchiava le palpebre col suo bastone urlandogli in tedesco: “Tieni aperti i tuoi occhi di maiale, razza di porco!” […]»

Ci vollero tre giorni per ottenere [da Höss] una dichiarazione coerente (traduzione presa da Annales d’histoire révisionniste n· l, primavera 1987, pp. 145-146).

Adesso, dopo mezzo secolo, il popolo germanico è sotto l’accusa mostruosa di aver pronunciato contro gli ebrei una condanna a morte collettiva e, nella misura in cui aveva potuto mettere le mani su di loro, di averli annientati con un massacro commesso a sangue freddo. La base principale di questa accusa è una confessione estorta con la tortura.

In verità gli accusatori hanno involontariamente commesso qualche errore a dir poco imbarazzante. Hanno inventato un campo di sterminio, quello di «Wolzek», ossia hanno lasciato che Höss ne inventasse uno, e hanno costretto Höss a confessare che aveva visitato fin dal giugno 1941 il campo di Treblinka, che fu invece inaugurato tredici mesi più tardi.

Dopo aver testimoniato a Norimberga, Höss fu rimandato in Polonia. Nella prigione di Cracovia redasse la sua biografia, di cui si può supporre che sia esatta in gran parte, nonché le sue note sullo sterminio degli ebrei ad Auschwitz. Non sapremo mai se le cose incredibili che Höss ha raccontato nella sua descrizione del processo di gassazione e di cremazione siano nate nell’immaginazione del suo guardiano o se lui abbia avuto l’intelligenza di descrivere, per calcolo, delle operazioni tecnicamente impossibili destinate ad attirare, prima o poi, l’attenzione critica degli storici.

Benché Auschwitz sia stata designata, fin dal processo di Norimberga, come il centro dello sterminio degli ebrei, fino al 1960 si è parlato molto di più di Dachau e della sua o delle sue camere a gas. Ma il mito delle camere a gas del Reich tedesco ha finito per cedere, perché le prove che gli si opponevano erano troppo pesanti. Da qui il trasporto delle camere a gas dietro la Cortina di Ferro.

Il Museo di Auschwitz ha preteso fino al 1990 che 4 milioni di persone fossero state assassinate in questo campo. Di colpo, senza fornire spiegazioni, si sono recentemente ridotte queste cifre a «poco più di un milione», riconoscendo così che ci si era ingannati per mezzo secolo. Ma la nuova cifra non è provata più di quanto lo fosse la vecchia.

Secondo il ricercatore italiano che più d’ogni altro si è specializzato su Auschwitz, Carlo Mattogno, la cifra dei decessi in questo campo sarebbe attorno a 170.000 unità, il 50 % ebrei (Ernst Gauss, Grundlagen, pp. 306-307).

Ma Hitler non aveva «annunciato» l’Olocausto?

In mancanza di prove dell’assassinio di milioni di ebrei, gli sterminazionisti producono citazioni di Hitler e di altri gerarchi nazionalsocialisti, che minacciano gli ebrei di sterminio. Nell’ultimo capitolo del secondo volume del Mein Kampf, si può leggere così:

«Se, all’inizio e nel corso della guerra, si fossero sottoposti una sola volta dodici o quindicimila di questi ebrei corruttori del popolo ai gas tossici che centinaia di migliaia dei nostri migliori lavoratori tedeschi di ogni provenienza e professione hanno dovuto subire in guerra, il sacrificio di milioni di uomini sul fronte non sarebbe stato vano.»

Il contesto in cui si situa il passaggio mostra per intero, col numero da dodici a quindicimila persone da eliminare, che Hitler non annoverava tra i suoi progetti lo sterminio degli ebrei nella loro totalità, ma solamente la liquidazione di quelli attivi nel movimento marxista e che reputava responsabili della disfatta della Germania nella prima guerra mondiale.

Sono rari i libri di storia che non menzionino il discorso di Hitler del 30 giugno 1939, in cui il dittatore dichiarava:

«Se i circoli ebrei internazionali finanziari, dentro e fuori dell’Europa, dovessero riuscire a trascinare i popoli in una nuova guerra mondiale, i risultati non sarebbero la bolscevizzazione della Terra e di conseguenza la vittoria del giudaismo, ma l’annientamento della razza ebrea in Europa.»

Questi propositi costituiscono senza dubbio una chiara minaccia. Ma non bisogna perdere di vista che l’uso di un linguaggio minaccioso era da sempre tipico del movimento nazional-socialista, che aveva dovuto mostrarsi aggressivo fin dall’inizio, negli scontri di strada o nei dibattiti che l’avevano opposto all’estrema sinistra. I nazional-socialisti erano abituati ad utilizzare parole come «distruggere» o «annientare». Esistono d’altronde anche da parte degli Alleati una quantità di citazioni dello stesso genere: ed anche Churchill ha detto, il giorno in cui l’Inghilterra ha dichiarato guerra alla Germania, che lo scopo della guerra era «la distruzione della Germania». Nessuno ha avuto l’idea di imputare a Churchill l’intenzione di sterminare fisicamente il popolo tedesco. In tempo di guerra, i propositi sanguinari di questo tipo sono frasi non insolite.

Dando a tale citazione valore di prova dell’Olocausto, gli sterminazionisti cadono in una contraddizione insolubile: quando si chiede loro perché non esista documento sul genocidio né fosse comuni piene di vittime dell’Olocausto, essi rispondono che i tedeschi hanno voluto nascondere i loro crimini agli occhi del mondo e che, di conseguenza, si sono astenuti dal redigere documenti e hanno fatto sparire tutti i cadaveri delle vittime; ma secondo gli stessi sterminazionisti, i dirigenti nazisti non avrebbero provato alcun disagio a preannunciare con grande anticipo i loro piani di genocidio.

Il processo di Norimberga

Poiché non vi sono prove dell’Olocausto – niente documenti, niente cadaveri, niente armi del crimine – e le sole minacce in sede politica di Hitler costituiscono un fondamento veramente troppo scarno per un’accusa così grave, i tribunali dopo la guerra furono incaricati dai vincitori, poi dai governi tedeschi successivi, di trovare le prove di un genocidio perpetrato su milioni di persone nelle camere a gas, senza che del delitto fosse rimasta la minima traccia.

L’obiettivo del processo di Norimberga è stato quello di configurare un crimine, unico nella storia mondiale, attribuendolo ai tedeschi.

Certo le potenze occidentali non hanno indietreggiato, nell’occasione, davanti alle torture fisiche – si pensi a Rudolf Höss e ai guardiani di Dachau – ma essi hanno generalmente utilizzato una tattica più sottile: poiché l’Olocausto era da considerarsi come un fatto definitivamente stabilito, gli accusatori han dato prova di una grande disinvoltura quanto alla colpevolezza individuale di tale o talaltro accusato.

È così che una figura importante come il ministro degli armamenti Albert Speer è potuto sfuggire alla forca ammettendo l’Olocausto e riconoscendo la propria complicità morale. Durante processi successivi contro nazisti di secondo ordine, gli accusati sono ricorsi, spesso con successo, alla tattica consistente nel riversare qualsiasi colpa su superiori morti o scomparsi.

L’articolo 19 dello statuto del Tribunale Militare Internazionale (TMI) nato dall’Accordo di Londra firmato dagli Alleati l’8 agosto 1945, e base del processo di Norimberga, prevedeva che «Il Tribunale non sarà tenuto alle regole tecniche relative all’amministrazione delle prove […]»: ogni documento che il tribunale giudicasse aver valore di prova era ammesso. Il tribunale poteva accettare corpi di reato senza assicurarsi della loro affidabilità e rigettare le prove a discarico senza darne i motivi. Ciò significa chiaramente che si potevano a volontà forgiare dei corpi di reato e ignorare delle prove a discarico.

Inoltre l’articolo 21 dello statuto stabiliva che «Il Tribunale non esigerà che sia presentata prova di fatti di pubblica notorietà, ma li darà per acquisiti […]». Era lo stesso tribunale a decidere cosa fosse «un fatto di pubblica notorietà». Cosicché la colpevolezza degli accusati era stabilita per principio, poiché l’Olocausto e le altre colpe che pesavano su di essi erano dei fatti di «notorietà pubblica».

Solo chi ha letto di persona i documenti di Norimberga può rendersi conto del carattere semplicemente strampalato delle accuse che i vincitori hanno portato contro i vinti. Noi diamo qui due esempi di cose «sorprendenti» che sono state rimproverate ai tedeschi a Norimberga.

Contrariamente all’opinione largamente corrente, i tedeschi disponevano sotto Hitler della bomba atomica; essi non l’hanno tuttavia utilizzata per combattere gli Alleati, ma unicamente per assassinare gli ebrei, come mostra il dialogo seguente fra il procuratore americano Jackson e Albert Speer:

«Jackson: E certe ricerche ed esperimenti sono stati anche realizzati in materia di energia atomica, non è vero?

Speer: Non eravamo sfortunatamente così lontani, poiché, siccome le migliori forze che noi avevamo in materia di ricerche atomiche erano emigrate in America, eravamo molto in ritardo nel campo della ricerca atomica e ci occorrevano ancora da due a tre anni perché noi potessimo forse ottenere una fissione atomica.

Jackson: Mi sono stati mandati certi rapporti su di un esperimento realizzato in prossimità di Auschwitz e mi piacerebbe sapere se voi ne avete sentito parlare e se voi ne sapete qualcosa. Il fine di questi esperimenti era scoprire un mezzo efficace che permettesse di annientare persone nella maniera più rapida, senza dover costringere – come si era fatto prima – a fucilare, gassare o bruciare. Secondo quello che mi hanno riferito, l’esperimento è stato realizzato nel seguente modo: si alloggiarono 20.000 ebrei in un piccolo villaggio provvisorio costruito tempestivamente a questo fine. Questi 20.000 ebrei furono annientati pressoché istantaneamente con l’aiuto di materiali di distruzione appena inventati, e, in modo tale che non ne restò la minima traccia. L’esplosione provocò una temperatura da 440 a 500 gradi Celsius e distrusse le persone in modo tale che non lasciarono alcuna traccia del tutto.» (Processo dei grandi criminali di guerra davanti al tribunale militare internazionale, Norimberga, 14 novembre 1945 – 1 Ottobre 1946, volume XVI, pp. 579-580).

Secondo le accuse sovietiche, i tedeschi hanno assassinato nel campo di concentramento di Sachsenhausen non meno di 840.000 prigionieri di guerra russi procedendo come segue:

«Nel piccolo locale c’era un’apertura di circa 50 cm. I prigionieri di guerra si dovevano mettere con la testa all’altezza del buco ed un tiratore che si trovava dietro il buco gli sparava. Ma questo dispositivo era in pratica insufficiente, poiché, spesso, il tiratore non colpiva il prigioniero. In capo ad otto giorni si creò un nuovo dispositivo. Il prigioniero era piazzato, come prima, presso la parete; poi si faceva scendere lentamente una piastra di ferro sulla sua testa. Il prigioniero di guerra aveva l’impressione che si volesse misurare la sua altezza. C’era nella piastra di ferro un chiodo e affondava nella nuca del prigioniero. Questi crollava morto sul pavimento. La piastra di ferro era azionata per mezzo di una leva a pedale che si trovava in un angolo di questo locale.» (op. cit. volume VII, pagg. 416-417).

Secondo l’accusa, i cadaveri di 840.000 prigionieri di guerra assassinati in tal modo erano stati incineriti in quattro crematori mobili montati sul rimorchio di un camion. Né l’ammazzatoio a pedale, né i crematori mobili capaci di incinerire ciascuno 210.000 cadaveri in un tempo record, né gli innumerevoli altri prodigi tecnici descritti a Norimberga sono stati presentati al tribunale come corpo del reato. Ma l’assenza del corpus delicti è stata largamente controbilanciata dalle dichiarazioni scritte di testimoni che deponevano sotto giuramento.

I processi per i campi di concentramento nella Germania dell’Ovest

È semplicemente penoso spiegarsi perché il governo tedesco istruisca ancor oggi processi contro pretesi criminali di guerra. Queste le ragioni:

Mentre le strutture politiche della RDT sono state create dall’occupante sovietico, quelle della RFT si sono formate sotto il controllo degli occupanti occidentali, degli Stati Uniti in primo luogo. Gli americani hanno naturalmente sorvegliato che nessun dirigente dello Stato tedesco dimezzato, che essi avevano tenuto a battesimo, si discostasse dalla loro linea sui punti importanti. In seguito, il sistema politico si é riprodotto spontaneamente. Si tratta di una tendenza ormai intrinseca alle strutture gerarchiche – d’altra parte, nessun ateo o libero pensatore dichiarato diventa cardinale della Chiesa romana.

Partiamo dal principio che i cancellieri della Germania dell’Ovest, da Adenauer a Schmidt, hanno creduto all’Olocausto, almeno a grandi linee. D’altra parte, anche se non fosse stato così, si sarebbero ben guardati dal rivelare i loro dubbi. Durante la guerra fredda, la RFT aveva bisogno della protezione degli Stati Uniti contro la minaccia sovietica. Se i dirigenti di Bonn avessero messo in dubbio l’Olocausto o rinunciato ad istruire «processi ai criminali di guerra», la stampa americana, in gran parte sotto il controllo sionista, avrebbe reagito con un fuoco continuo di attacchi antitedeschi, e ciò avrebbe avvelenato le relazioni tra Bonn e Washington (si ricordi che i sionisti hanno calunniato Kurt Waldheim per anni per crimini di guerra puramente inventati; per paura d’essere tacciato di antisemitismo, nessun uomo politico occidentale ha più osato incontrare Waldheim fino a quando il ceco Vaclav Havel, uomo coraggioso e onesto, ruppe il maleficio).

Da una parte la RFT voleva dunque, grazie a questi processi, dare agli Stati Uniti l’immagine dell’alleato modello e portare la prova della propria ortodossia democratica, dall’altra, questi processi giocavano un ruolo importante nella politica interna. Mettendo in evidenza senza posa la brutalità unica del regime nazista, si giustificava nello stesso tempo il sistema democratico parlamentare che doveva la sua introduzione alla vittoria degli alleati. E facendo assistere ad ogni processo masse di scolaretti ci si proponeva di cancellare nella giovane generazione ogni traccia di spirito nazionale e di amor proprio, per assicurare la sua adesione alla politica di Bonn che prevedeva una subordinazione totale agli interessi degli Stati Uniti. Così i processi hanno giocato un ruolo essenziale nella «rieducazione» del popolo tedesco. Essi hanno contribuito a consolidare l’ordine del dopoguerra, al quale anche Bonn apportava il proprio sostegno e che si basava su due dogmi: la colpa esclusiva della Germania nello scatenamento della guerra e la crudeltà senza esempi nella storia del regime «nazista», crudeltà che aveva trovato la sua espressione compiuta nell’Olocausto.

Tutto questo indica che il fine dei processi non consisteva nel mettere i chiaro casi di colpevolezza individuale, ma era di natura puramente politica propagandistica.

Non si può affermare, naturalmente, che gli accusati fossero tutti innocenti; alcuni tra loro erano certamente degli assassini, altri erano dei carnefici. Ma la questione di sapere quali erano veramente colpevoli e quali non lo erano giocava un ruolo a tutti gli effetti secondario. In fondo nessuno si interessava ai personaggi seduti al banco degli accusati: essi erano intercambiabili.

Il semplice fatto che una perizia sull’arma del crimine, cioè sulle camere a gas, non sia stata reclamata in alcuno di questi processi, mostra che essi non sono stati condotti secondo i principi di uno Stato di diritto. Una tale perizia avrebbe rivelato l’impossibilità tecnica della gassazione di massa e la leggenda dell’Olocausto sarebbe caduta come un castello di carte.

Le sole prove a carico erano le testimonianze. Ex deportati, i testimoni odiavano naturalmente gli accusati, poiché le condizioni di vita nei campi di concentramento erano state estremamente dure, anche senza camere a gas e massacri sistematici. In queste condizioni i testimoni erano spinti ad addossare agli accusati, oltre a malefatte forse vere, crimini ancor più gravi. Essi non avevano niente da temere poiché nessun testimone è mai stato perseguito per falsa testimonianza in un processo a criminali di guerra tedeschi, nemmeno Filip Müller che dichiarò al processo di Auschwitz a Francoforte che un SS aveva gettato un bambino nel grasso bollente che colava dal corpo dei gassati durante l’incinerazione, o quell’altro testimone che raccontò che i Kapò – che erano essi stessi detenuti – organizzavano corse ciclistiche nella camera a gas fra due esecuzioni, poiché il locale si prestava molto bene a tali manifestazioni sportive, visto che era in pendenza affinché il sangue dei gassati potesse scorrervi (Nürnberger Nachrichten dell’11 settembre 1978).

Perché la maggior parte degli accusati ha riconosciuto l’esistenza delle camere a gas senza neppure tentare una contestazione?

A Norimberga, l’Olocausto è stato considerato, durante tutti i processi contro i criminali di guerra, un fatto di notorietà pubblica sul quale non c’era da discutere. La discussione verteva unicamente sulla colpa individuale dell’accusato. Se costui contestava l’esistenza delle camere a gas e lo sterminio degli ebrei, si metteva in una situazione assolutamente disperata e il suo «insistere» lo esponeva ad una pena particolarmente severa. Gli accusati sceglievano quasi sempre, d’accordo con gli avvocati, la tattica di non contestare l’esistenza delle camere a gas. Essi negavano solo la loro personale partecipazione alle gassazioni o, quando le testimonianze erano troppo pesanti, sostenevano di aver agito per ordini superiori.

Gli accusati che cooperavano potevano sperare in pene relativamente lievi, per quanto abominevoli potessero essere i crimini loro addebitati. Al processo di Belzec, nel 1965, l’unico accusato, Josef Oberhauser, è stato ritenuto responsabile di aver partecipato all’eliminazione di 300.000 persone, ma se ne è uscito con una pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione. Motivo di questa clemenza: al momento del dibattito Oberhauser ha rifiutato ogni dichiarazione. Ciò voleva dire che non contestava l’accusa, cosicché la giustizia della Germania Occidentale poteva affermare ancora una volta che i colpevoli non avevano mai negato i massacri (Rückerl, op. cit., pp. 83-84). Al processo di Auschwitz, a Francoforte, l’accusato Robert Mulka, giudicato colpevole di gravi efferatezze, è stato condannato a 14 anni di prigione, pena criticata come troppo moderata. Quattro mesi più tardi tuttavia veniva messo in libertà per «ragioni di salute»: egli aveva accettato il gioco dell’accusa ed ammesso l’esistenza delle camere a gas. Quelli che hanno agito diversamente non hanno trovato clemenza. Kurt Franz, imputato al processo di Treblinka, è stato in prigione dal 1959 fino al 1993 poiché non ha cessato di contestare l’immagine ufficiale di Treblinka. Il suo co-accusato, Suchomel, secondo il quale gli ebrei entravano nella camere a gas nudi ed in buon ordine, non ha scontato che quattro anni.

È così che hanno fatto e fanno giustizia in Germania.

Un giudice e un procuratore che, in queste condizioni, mettessero in dubbio l’Olocausto o le camere a gas si esporrebbero subito, consapevolmente, all’irrimediabile rovina della loro carriera. Anche gli avvocati difensori non hanno mai messo in dubbio l’esistenza delle camere a gas, ma solamente la partecipazione al crimine dei loro clienti.

Il tema dei processi ai criminali di guerra è brillantemente esposto al capitolo 4 del Mito di Auschwitz di Wilhelm Stäglich; questo capitolo è la parte migliore di un libro già di per sè rimarchevole. Alla fine della sua opera Stäglich commenta in questi termini il risultato del processo di Auschwitz (pp. 382-383 della versione francese):

«[…] Questa maniera di determinare il verdetto richiama nel modo più penoso la procedura utilizzata nei processi alle streghe di altri tempi. Anche in quell’epoca, come ciascuno sa, il «crimine» propriamente detto non era che «presunto» perché esso era in fin dei conti impossibile a provarsi. Anche i giuristi più eminenti di quei tempi […] sostenevano che, nel caso di «crimini difficili a provarsi», si poteva rinunciare a stabilire la materialità obiettiva del fatto se la «presunzione» deponeva in favore della sua esistenza. Quando si trattava di provare che vi era stato un commercio carnale con il diavolo o che un tal posto fosse un luogo di sabbah ed altre bubbole, i giudici di quell’epoca si trovavano esattamente nella stessa situazione dei nostri «illuminati» magistrati del ventesimo secolo di fronte alle «camere a gas». Essi erano obbligati a credervi, pena il finire sul rogo essi stessi; questo fu lo stesso dilemma per i giudici della Corte di Assise di Francoforte chiamati a pronunciarsi su Auschwitz».

Frank Walus e John Demjanjuk

Nel 1974, Simon Wiesenthal denunciò che il cittadino americano d’origine polacca Frank Walus era un ex collaboratore dei persecutori tedeschi ed aveva a questo titolo commesso durante la guerra crimini inauditi contro gli ebrei.

Walus fu dunque tradotto in giudizio.

Non meno di 11 testimoni ebrei dichiararono sotto giuramento che Walus aveva assassinato bestialmente una donna anziana, una giovane, parecchi ragazzi ed un invalido. Walus, operaio d’officina in pensione dovette prendere a prestito 60.000 dollari per pagare la sua difesa. Egli riuscì infine a far arrivare dalla Germania dei documenti che provavano che egli non aveva mai messo piede in Polonia durante tutta la durata della guerra, ma che aveva lavorato in una proprietà bavarese dove si ricordavano di lui sotto il nome di «Franzl». Ed è così che l’accusa crollò. Grazie a Wiesenthal, Walus è stato rovinato, ma, almeno, è rimasto libero (Mark Weber, «Simon Wiesenthal: Bogus Nazi Hunter»in Journal of Historical Rewiew, traduzione francese in Revue d’histoire révisionniste n· 5, novembre 1991).

In violazione dei principi di uno Stato di diritto, John Demjanjuk, cittadino americano di origine ucraina, è stato consegnato dalle autorità americane ad Israele che lo ha processato come il «mostro di Treblinka».

Cinque testimoni ebrei hanno descritto sotto giuramento la strage causata da «Ivan il Terribile» a Treblinka. Aveva assassinato con le proprie mani 800.000 ebrei per mezzo del gas di scappamento emesso da un carro russo fuori uso. Tagliava le orecchie degli ebrei per rendergliele, è vero, nelle camere a gas. Prelevava dai loro corpi pezzi di carne con l’aiuto della sua baionetta. Sventrava le donne incinte con la sua sciabola prima della gassazione. Tagliava i seni delle donne ebree prima che esse entrassero nella camera a gas. Macellava gli ebrei, li ammazzava, li pugnalava, li strangolava, li frustava a morte o li lasciava morire lentamente di fame. Demjanjuk fu dunque condannato a morte.

Nel settembre 1993 Demjanjuk fu liberato; tutte le testimonianze si erano dimostrate prive di valore.

I racconti dei «sopravvissuti all’Olocausto»

In Evas Geschichte (Wilhelm Heyne Verlag, 1991), Eva Schloss, figliastra di Otto Frank, racconta come sua madre sfuggì alla camera a gas grazie ad un intervento meraviglioso della Provvidenza. Il paragrafo termina così:

«Per ore i forni del crematorio bruciarono quella notte, fiamme arancioni fluirono dai camini verso il cielo nero come la notte» (p. 113).

Si trovano passaggi di questo genere in numerose testimonianze; le fiamme che uscivano dai camini dei crematori e si alzano alte nel cielo fanno parte dell’Olocausto. Bisognerebbe tuttavia far sapere ai sopravvissuti dell’Olocausto che le fiamme non possono uscire dal camino di un crematorio.

Compare in molti di questi racconti un’invenzione particolarmente ripugnante: quella che il grasso umano che colava dai cadaveri durante l’incinerazione venisse utilizzato come combustibile addizionale. Filip Muller scrive in Trois ans dans une chambre à gas d’Auschwitz:

«Accompagnato dal suo collaboratore Eckard, l’ingegnere dei lavori della morte discese nel fondo di una delle fosse dove tracciò due righe ad una distanza di 25-30 centimetri una dall’altra, che egli prolungò in senso longitudinale. Occorreva ora scavare in questo posto, seguendo il tracciato, un canalino in pendenza dal centro, verso i due lati opposti, per lo scolo del grasso dei cadaveri al momento della loro combustione; due serbatoi posti all’estremità dei rigognoli dovevano raccogliere questo grasso» (p. 178).

Ciò che ci racconta Filip Müller è impossibile: chiunque lo potrà verificare presso uno specialista di incinerazione. Tuttavia questa storia orribile ha trovato posto anche in un libro reputato serio come quello di Hilberg (p. 1406). Tali esempi permettono di capire come queste testimonianze nascano: un «sopravvissuto dell’Olocausto» racconta una storia, dopodiché tutti gli altri «sopravvissuti» la ricordano e la riprendono a loro volta, in modo del tutto acritico.

Ben inteso, il libro di un’Eva Schloss o di un Filip Müller possono anche contenere cose vere. Quando autori di questo tipo parlano di condizioni di lavoro e igieniche orribili, di fame, di sevizie occasionali o di esecuzioni si può ammettere che essi dicano la verità. Ex deportato, il revisionista Paul Rassinier conferma questi fatti nel proprio racconto (Le Mensonge d’Ulysse, La Vieille Taupe). Non ne desume tuttavia che i passaggi consacrati alle camere a gas ed alle azioni di sterminio programmato siano autentiche.

Ecco ora qualche estratto di testimonianze relative all’Olocausto:

Elie Wiesel a proposito del massacro di Babi Yar presso Kiev (documentato unicamente da testimoni oculari presentati dalle NKVD sovietiche; cf. l’articolo molto documentato di Mark Wolski in Revue d’histoire révisionniste n· 6, maggio 1992):

«Più tardi appresi da un testimone che, per mesi e mesi, il suolo non aveva cessato di tremare, e che, di tanto in tanto getti di sangue ne erano zampillati.» (Paroles d’étranger, Editions du Seuil, 1982, p. 86).

Kitty Hart in I am alive a proposito dei massacri di Auschwitz:

«Io sono stato con i miei occhi testimone di un delitto, non dell’assassinio di un uomo, ma dell’assassinio di esseri umani a centinaia, di infelici innocenti che, per la maggior parte, ignari del loro destino, erano stati condotti in una vasta sala. È una visione che è impossibile dimenticare. Fuori, una scala era appoggiata contro il muro di questo edificio che era abbastanza basso; essa permetteva di arrivare fino ad un piccolo lucernario. Una figura vestita da SS salì rapidamente i pioli; arrivato in alto l’uomo mise una maschera antigas e dei guanti, poi, tenendo con una mano il lucernario aperto, tolse dalla tasca un piccolo sacchetto il cui contenuto versò in fretta all’interno della costruzione; era una polvere bianca. Dopodiché egli chiuse prontamente il lucernario. Poi ridiscese rapido come la luce, gettò la scala al suolo e fuggì correndo, come se si sapesse inseguito da spiriti malvagi.

Nello stesso istante grida disperate degli infelici che soffocavano… Nel giro di cinque minuti, di otto minuti forse, tutti erano morti» (da Le Mythe d’Auschwitz, pp. 207-208).

La non meglio identificata «polvere bianca» – sconosciuta alla chimica fino ad oggi – sembra talvolta aver fatto difetto ad Auschwitz, cosicché le SS si videro costrette a ricorrere ad altri metodi di assassinio. Eugène Aroneanu descrive questi metodi nel suo «racconto»:

«A 800-900 metri dal luogo dove si trovavano i forni, i detenuti montano su vagoncini che circolano sui binari. Ad Auschwitz sono di dimensioni differenti, e contengono da 10 a 15 persone. Una volta caricato, il vagoncino è messo in movimento su un piano inclinato ed entra a tutta velocità in una galleria. Alla fine della galleria si trova una parete: dietro c’è l’accesso al forno.

Quando il vagoncino viene a sbattere contro la parete, essa si apre automaticamente, il vagoncino si rovescia gettando nel forno il suo carico di uomini vivi […]» (Aroneanu, Camps de concentration, Office Francais d’édition, 1945, p. 182).

Al contrario di questa «esperienza vissuta», la testimonianza di Zofia Kossak (Du fond de l’abîme, Seigneur, Albin Michel, 1951) si limita alla descrizione di camere a gas, ma, secondo lei lo Zyklonnon era versato; esso saliva da buchi praticati nel pavimento:

«[] Una suoneria stridente, e subito dopo, attraverso delle aperture del pavimento, il gas cominciava a salire.

Su un balcone esterno che dominava la porta, le SS osservavano con curiosità l’agonia, lo spavento, gli spasmi dei condannati. Era per loro uno spettacolo di cui questi sodici non si stancavano mai []. L’agonia durava da 10 a 15 minuti [].

Potenti ventilatori espellevano il gas. Mascherati i “Sonderkommando” apparivano, aprivano la porta che si trovava di fronte all’entrata; là vi era una rampa, dei vagoncini. La squadra vi caricava i corpi alla svelta. Altri ne restavano. E poi i morti potevano rinvenire. Il gas così dosato stordisce, non uccide. Capitava molte volte che le vittime caricate all’ultimo giro rinvenissero sul vagoncino I vagoncini scendevano la rampa e si rovesciavano direttamente nel forno» (p. 127-128).

Ad Auschwitz succedevano delle cose strane anche fuori delle camere a gas:

«Di tanto in tanto i medici SS si recavano al crematorio, in particolare gli ufficiali superiori Kitt e Weber. Quel giorno, ci si sarebbe creduti in un macello. Prima delle esecuzioni, questi due medici palpavano le cosce e le caviglie degli uomini e delle donne ancora in vita, come fanno i mercanti di bestiame per selezionare i capi migliori. Dopo le esecuzioni, le vittime erano stese su di un tavolo. I medici sezionavano allora i corpi, prelevando degli organi che gettavano in un recipiente [la versione tedesca originale, op. cit., p. 74, precisava: I recipienti sobbalzavano sotto l’effetto delle contrazioni dei muscoli](Filip Müller, Trois ans dans une chambre à gaz d’Auschwitz, p. 83).


Il sopravvissuto dell’Olocausto Yankel Wiernik stigmatizza il comportamento degli ucraini a Treblinka:

«Gli ucraini erano costantemente ubriachi e vendevano tutto quello che avevano potuto rubare nei campi per avere più soldi per l’acquavite [] Quando essi avevano rimpinzato lo stomaco ed erano ubriachi fradici, si mettevano in cerca di altre distrazioni. Sovente sceglievano le più belle ragazze ebree fra le donne nude che sfilavano, le trascinavano nelle loro baracche, le violentavano e le consegnavano infine alla camera a gas» (A. Donat, The Death Camp Treblinka, p. 165).

Gli autori descrivono come i circa 800.000 cadaveri di Treblinka sono stati eliminati senza lasciare tracce. Citiamo per cominciare un passaggio del libro di Jean-Francois Steiner, Treblinka:


«Biondo e magro, il viso dolce, l’aria distratta, egli arrivò un bel mattino, con la sua piccola valigia, davanti alle porte del regno della morte. Si chiamava Herbert Floss, era specializzato nella cremazione dei cadaveri. []
Il primo rogo fu preparato l’indomani. Herbert Floss svelò il suo segreto: la composizione del rogo-tipo. Come spiegò, tutti i cadaveri non bruciano nello stesso modo, c’erano dei buoni cadaveri e dei cattivi cadaveri, dei cadaveri refrattari e dei cadaveri infiammabili. L’arte consisteva nel servirsi dei buoni cadaveri per consumare quelli cattivi. Secondo le sue ricerche – e, se le si giudica dai risultati, esse erano molto avanzate – i vecchi cadaveri bruciavano meglio di quelli nuovi, i grassi meglio di quelli magri, le donne meglio degli uomini e i bambini meno bene delle donne, ma meglio degli uomini. Se ne concluse che il cadavere ideale era un vecchio cadavere di donna grassa. Herbert Floss li fece mettere da parte, poi fece anche scegliere gli uomini e i bambini. Quando un migliaio di cadaveri fu così dissotterrato e scelto, si procedette al carico, il buon combustibile di sotto e il cattivo di sopra. Egli rifiutò i bidoni di benzina e si fece portare della legna. La sua dimostrazione doveva essere perfetta. La legna fu disposta sotto la griglia del rogo in piccoli focolari che sembravano dei falò. Il momento della verità era suonato. Gli si portò solennemente una scatola di fiammiferi, egli si sporse, accese il primo fuoco, poi gli altri, e, mentre il legno cominciava a bruciare, egli riunì col suo buffo sussiego il gruppo di ufficiali che attendevano poco distanti.

Fiamme sempre più alte cominciarono a lambire i cadaveri, debolmente prima, poi con un impeto continuo come la fiamma di un saldatore. Ciascuno tratteneva il respiro, i tedeschi ansiosi ed impazienti, i prigionieri sconvolti, atterriti, terrorizzati. Solo Herbert Floss sembrava disteso, egli mormorava con aria distaccata, molto sicuro di sé: «Perfetto, perfetto». D’un tratto il rogo s’accese. Subito le fiamme si alzarono, liberando una nuvola di fumo, si diffuse un rombo profondo, i volti dei morti si torsero dal dolore e le carni scoppiarono. Lo spettacolo aveva qualcosa di infernale e le SS stesse restarono qualche istante pietrificate a contemplare il prodigio. Herbert Floss era raggiante. Quel rogo rendeva quel giorno il più bello della sua vita.

Un tale avvenimento andava festeggiato degnamente. Si fecero portare dei tavoli che furono posti di fronte al rogo, ricoperti di bottiglie di liquore, di vino e birra.

La giornata terminava, riflettendo le alte fiamme del rogo, il cielo si arrossava alla fine della pianura, dove il sole spariva in un incendio sfavillante.

Ad un segno di «Lalka», i tappi saltarono. Cominciava una festa straordinaria. Il primo brindisi fu dedicato al Führer. I manovratori delle scavatrici erano saliti sulle loro macchine. Quando le SS alzarono i loro bicchieri gridando, le scavatrici sembrarono animarsi e lanciarono repentinamente il loro lungo braccio articolato verso il cielo, in un saluto hitleriano vibrante e scattante. Fu come un segnale: dieci volte gli uomini alzarono le loro braccia nel saluto hitleriano. Le macchine animate rendevano il saluto agli uomini-macchina e l’aria vibrava di grida di gloria al Führer. La festa durò fino a che il rogo fu interamente consumato. Dopo i brindisi vennero i canti, selvaggi e crudeli, canti di odio, canti di furore, canti di gloria alla Germania eterna []» (Jean-Francois Steiner, Treblinka, Arthème Fayard, 1966 pp. 332-335).


Wassilij Grossmann descrive anche lui l’incredibile capacità pirotecnica dei nazisti in Die Hölle von Treblinka (Edizioni in lingua estera, Mosca, 1946, citato da Historische Tatsachen, n· 44).

«Si lavorava giorno e notte. Persone che hanno partecipato alla cremazione dei cadaveri raccontano che questi forni sembravano dei giganteschi vulcani il cui orribile calore arrossava i volti degli operai, e che le fiamme raggiungevano da 8 a 10 metri di altezza []. A fine luglio il calore divenne soffocante. Quando si aprivano le fosse, il vapore bolliva come se uscisse da un gigantesco poiolo, L’orribile fetore ed il calore dei forni uccidevano le persone sfinite. Essi crollavano morti mentre si tiravano dietro i morti e cadevano sulle griglie dei forni.»

Yankel Wiernik ci offre altri dettagli sorprendenti:

«Si imbevevano i cadaveri di benzina. Questo dava luogo ad uno spreco notevole ed il risultato era insoddisfacente; i cadaveri degli uomini non riuscivano più a bruciare. Ogni volta che appariva un aereo in cielo tutto il lavoro si fermava ed i cadaveri venivano coperti con del fogliame per proteggerli dalla ricognizione aerea. Era uno spettacolo atroce, il più spaventoso che un occhio umano avesse mai visto. Quando si incinerivano i cadaveri di donne incinte, i loro ventri scoppiavano e si potevano vedere gli embrioni bruciare nei corpi delle madri [].

I gangster si trattengono vicino alle ceneri e sono scossi da spasmi di riso. I loro visi raggiano di una gioia veramente diabolica. Essi brindano sul luogo con dell’acquavite e gli alcolici più scelti, mangiano, scherzano e si mettono a loro agio scaldandosi al fuoco» (A. Donat, The Death Camp Treblinka, pp. 170-171).

Per superare facilmente la tensione che regnava a Treblinka, i tedeschi e gli ucraini cercavano la distensione nella musica. Ecco quello che racconta l’esperta di Olocausto Rachel Auerbach.


«Per rendere più bella la monotonia degli assassinî i tedeschi fondarono a Treblinka un’orchestra ebrea []. Questa cosa permetteva il raggiungimento di due fini: per prima cosa i suoni coprivano le grida ed i gemiti delle persone spinte verso le camere a gas e per seconda si incaricava del divertimento della truppa del campo che era rappresentata da due nazioni melomani: i tedeschi e gli ucraini» (Donat, p. 4).

Alexander Pechersky descrive in Die Revolte von Sobibor il modo in cui si svolgevano i massacri in questo campo.

«A prima vista, si ha veramente l’impressione di entrare in una camera da bagno come le altre: rubinetti di acqua calda e fredda, vasche per lavarsi []. Appena le persone sono entrate, le porte si chiudono pesantemente. Una sostanza nera e pesante esce in volute dai buchi praticati nel plafone. []» (citato da Mattogno, Il mito dello sterminio ebraico).

Secondo gli «storici» attuali, tuttavia, i 250.000 assassinî perpetrati a Sobibor non sono avvenuti per mezzo di una «sostanza nera e pesante», ma per mezzo del gas di scappamento.

Dove sono i milioni che mancano?

È all’americano d’origine tedesca Walter Sanning che si deve lo studio demografico di gran lunga più importante sul destino degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nella sua opera innovatrice The Dissolution of Eastern European Jewry (IHR, Costa Mesa, 1983), Sanning procede come segue: egli si fonda quasi esclusivamente su fonti ebraiche anglo-americane e non accetta documenti tedeschi se non quando sia provato che sono emanati da fonti antinaziste. Noi riassumiamo qui brevemente le inchieste di Sanning sui paesi chiave che sono la Polonia e l’Unione Sovietica, coloro che fossero interessati ai dettagli e alle statistiche concernenti gli altri paesi possono procurarsi essi stessi il libro.

Si parla spesso di 3,5 milioni di ebrei viventi in Polonia nel 1939. Si arriva a questa cifra prendendo per base, per gli anni posteriori al 1931 – data dell’ultimo censimento, che aveva contato 3,1 milioni di ebrei – un tasso di crescita massimo, non tenendo conto dell’emigrazione massiccia degli ebrei. Fra il 1931 e il 1939 centinaia di migliaia di ebrei sono emigrati per difficoltà economiche e per l’antisemitismo sempre più aggressivo dei polacchi. Lo stesso Istituto di storia contemporanea di Monaco valuta a circa 100.000 per anno gli emigranti ebrei degli anni Trenta. Ne consegue che nel 1939 non si possono trovare in Polonia più di 2,7 milioni di ebrei (2,633 milioni secondo Sanning).

Una parte considerevole di questi ebrei viveva nei territori occupati dall’Unione Sovietica. Inoltre quando Hitler e Stalin si divisero la Polonia, centinaia di migliaia di ebrei fuggirono dall’Ovest verso l’Est. Non restò nella Polonia occidentale annessa dalla Germania e nella Polonia centrale, anch’essa passata sotto il controllo tedesco con il nome di «Governatorato Generale», che un milione di ebrei o poco più (800.000 secondo Sanning). Gli ebrei dimoranti in territorio sotto controllo tedesco furono concentrati nei ghetti e dovevano aspettarsi costantemente di essere costretti al lavoro obbligatorio, il loro destino era in ogni modo funesto, con o senza le camere a gas. Le epidemie e la fame hanno fatto decine di migliaia di vittime nei ghetti.

Quando le truppe tedesche penetrarono in Unione Sovietica nel giugno 1941, la maggior parte degli ebrei – l’80 % secondo informazioni sovietiche ufficiali (per esempio, David Bergelson, presidente del comitato antifascista ebreo-sovietico) – furono evacuati e disseminati in tutto il territorio dell’immenso impero. Ciò accadde anche per gli ebrei polacchi passati sotto il controllo di Stalin dopo il 1939. Gli ebrei russi che vennero a trovarsi sotto la dominazione tedesca non erano più di 750.000. La guerra, i massacri dovuti alle Einsatzgruppen ed i pogrom scatenati dalla popolazione locale furono certamente sanguinosi, ma la grande maggioranza degli ebrei sopravvisse.

A partire dal 1942 i tedeschi cominciarono ad inviare nelle regioni conquistate ad Est ebrei di tutti i paesi sotto il loro controllo. Questa era la «soluzione finale della questione ebraica». Gli ebrei trasferiti furono chiusi nei ghetti. Il destino di questi deportati è stato pochissimo studiato fin qui; poiché queste operazioni di deportazione contraddicevano il mito dell’Olocausto, i vincitori hanno distrutto o fatto sparire nel limbo delle biblioteche i documenti relativi (gli archivi del solo ministero tedesco degli Affari Esteri confiscati da funzionari americani rappresentavano circa 485 tonnellate di carta – vedere W. Shirer, The Rise and Fall of the Third Reich, New York, 1960, pp. IX, X – di cui solo una parte è stata finora pubblicata). Le «testimonianze dei sopravvissuti», dei deportati ritornati, venivano insabbiate poiché andavano contro la tesi della eliminazione degli ebrei europei nei campi di sterminio. Agli stessi sterminazionisti non resta altro che ammettere le deportazioni massicce degli ebrei verso la Russia; Gerald Reitlinger, per esempio, tratta il soggetto in modo relativamente dettagliato in The Final Solution (Ed. Valentine, Mitchel & Co., 1953). Il fatto che i nazisti avessero fatto passare masse di ebrei in prossimità di sei campi «di sterminio» funzionanti a pieno regime per inviarli in Russia e stabilirveli nel momento in cui essi avevano , sembra, deciso da lungo tempo la distruzione fisica integrale del giudaismo, costituisce tuttavia per gli sterminazionisti un fatto inspiegabile.

Non si può stabilire in modo preciso il numero di questi deportati. L’esperto di statistica SS Richard Korherr giudica che nel marzo 1943 la cifra ammontasse a 1,873 milioni, ma bisogna dire che il rapporto Korherr non è assolutamente aff1dabile.

Steffen Werner tratta del trasferimento degli ebrei in Bielorussia nel suo libro Die zweite babylonische Gefangenschaft (Grabert, 1992). Benché si debba leggerlo con prudenza, questo libro accumula indizi che tendono a mostrare che un numero molto elevato di ebrei fu inviato nella parte occidentale della Bielorussia e che essi vi restarono dopo la fine della guerra. Un grande numero di ebrei polacchi rifugiati o deportati in Unione Sovietica vi sono certamente restati volontariamente, perché essi avevano perduto in Polonia tutti i beni che possedevano e avrebbero dovuto ripartire da zero. Inoltre il governo sovietico seguiva ancora in quel momento una politica ostentatamente filo-semita, che non ebbe alcun cenno a cambiare se non poco prima della morte di Stalin.

Sembrava quasi inverosimile che un numero notevole di ebrei dell’Europa occidentale e dell’Europa centrale siano restati volontariamente in Unione Sovietica. Sono stati trattenuti contro la loro volontà? Quanti hanno trovato la morte, quanti sono rientrati a casa loro o sono emigrati più lontano? Che cosa è avvenuto per esempio delle migliaia di ebrei olandesi che sono stati deportati in Bielorussia via Birkenau e Sobibor? Tutte queste domande restano senza risposta. È venuto il momento, dopo circa mezzo secolo dalla fine della guerra, di aprire gli archivi e di favorire la ricerca storica seria invece di processare ricercatori di valore come Faurisson, di vietare gli studi fondati sui principi della ricerca scientifica come il Rapporto Leuchter e di mettere all’indice un libro come Il Mito di Auschwitz di Stäglich.

La dispersione

Dopo la guerra centinaia di migliaia di ebrei sono emigrati in Palestina, negli Stati Uniti e in diversi altri paesi (esistono 70 comunità giudaiche sparse nel mondo, raggruppate in seno al Congresso mondiale ebraico). La descrizione di queste onde di emigrazione costituisce uno degli aspetti più interessanti del libro di Sanning.

Sanning mostra attraverso quali vie fantastiche molti ebrei hanno raggiunto la loro nuova patria. Un certo numero si arenarono a Cipro o in Persia prima di arrivare alla loro vera destinazione; altri si attardarono in Marocco o in Tunisia. Tutte queste informazioni sono confermate da statistiche demografiche ufficiali e da citazioni estratte da opere di autori ebrei.

Secondo i calcoli di Sanning le perdite ebraiche nei territori dell’Unione Sovietica occupata dai tedeschi ammontano a 130.000 e quelle negli stati europei a poco più di 300.000. Egli indica che il numero reale delle vittime potrebbe però essere sensibilmente inferiore o al contrario più elevato di qualche decine di migliaia. La seconda possibilità ci sembra di gran lunga la più verosimile. È certamente molto improbabile, anche se non del tutto escluso, tenuto conto del numero di fattori di incertezza, che le perdite umane [vale a dire per tutte le cause, gas ovviamente escluso] del popolo ebraico, nella sfera di influenza tedesca, siano ammontate a un milione circa ed è da questa cifra che partì il pioniere revisionista Rassinier, ex deportato antifascista.

La cifra di sei milioni

La cifra mitica di sei milioni di ebrei assassinati è apparsa fino dal 1942 nella propaganda sionista. Nahum Goldmann, futuro presidente del Congresso mondiale ebraico annunciava il 9 maggio 1942 che, di 8 milioni di ebrei che si trovavano in potere di Hitler, da 2 a 3 milioni solamente sopravvivevano (Martin Gilbert, Auschwitz und die Alliierten, C.H. Beck, 1982, p. 44). In seguito le statistiche demografiche sono state manipolate fino a che la cifra desiderata non fosse raggiunta, almeno approssimativamente. Per far questo gli storiografi conformisti procedono come segue:


Per gran tempo, dell’enorme emigrazione dall’Europa anteguerra, non tengono conto altro che della Germania e dell’Austria.

Ignorano l’emigrazione, tutt’altro che trascurabile, di ebrei durante la guerra.

Si basano sui risultati dei primi censimenti del dopoguerra che datano 1946 o 1947 e sono dunque posteriori all’emigrazione di centinaia di migliaia di ebrei nei territori extraeuropei;

Trascurano l’evacuazione massiccia, attestata da fonti sovietiche inconfutabili, di ebrei sovietici dopo l’entrata dei tedeschi in Unione Sovietica e passano sotto silenzio la fuga di gran parte degli ebrei polacchi verso l’Unione Sovietica.

Tutti gli ebrei trasferiti in Russia dai tedeschi e rimasti colà sono dichiarati assassinati. Sono ugualmente considerati come vittime dell’Olocausto tutti gli ebrei morti nei campi di lavoro sovietici in seguito alle deportazioni staliniane e tutti i militari o i partigiani ebrei dei paesi in guerra contro l’Asse morti in combattimento.- 

Gli sterminazionisti non prendono in considerazione fattori come il tasso negativo di crescita demografica conseguente all’emigrazione massiccia e alla divisione delle famiglie.

Esponiamo due esempi di metodi di lavoro degli sterminazionisti:

Primo esempio: un ebreo polacco emigra in Francia negli anni Trenta come decine di migliaia di suoi correligionari. Egli viene qui arrestato nel 1942 ed inviato in un campo di concentramento. Secondo i calcoli dell’avvocato sionista Serge Klarsfeld, 75.721 ebrei residenti in Francia sono stati deportati durante l’occupazione tedesca. Più di due terzi di essi avevano passaporti stranieri, poiché Pétain vedeva di cattivo occhio la deportazione di cittadini francesi. Al fine di gonfiare al massimo il numero delle vittime Klarsfeld, nel suo Mémorial de la déportation des Juifs de France, considera morti tutti gli ebrei deportati che, fin dal 1945, non avessero dichiarato il loro ritorno al ministero degli ex combattenti. Però una tale dichiarazione non era per nulla obbligatoria. Ancora, molti degli scampati ebrei di nazionalità straniera sono emigrati immediatamente in Palestina, in America o altrove.

Ammettiamo che l’ebreo menzionato nel nostro esempio sia emigrato in America del Sud dopo il suo ritorno da un campo di lavoro nel 1945. Egli figura due volte nelle statistiche dell’Olocausto: in primo luogo fa parte degli ebrei che vivevano ancora in Polonia nell’ultimo censimento del 1931, ma non vi era più dopo la guerra ed era per conseguenza stato gassato; in secondo luogo egli non ha dichiarato il suo ritorno in Francia al ministero degli ex combattenti prima della fine del dicembre 1945 ed è stato di conseguenza uno degli ebrei di Francia gassati. Egli, pur essendo vivo, risulta morto dunque due volte.

* * *

Secondo esempio: una famiglia ebrea, chiamiamola Süssmann, viene arrestata dai nazisti nel 1942. Il marito viene inviato in un campo di lavoro, la moglie e i suoi due bambini sono invece mandati in un ghetto dove lei si crea una nuova comunità familiare. A guerra terminata la donna emigra in Israele con i suoi bambini e col nuovo partner, che lei sposa laggiù. Ella fa passare il suo primo marito come scomparso e questi entra nelle statistiche dell’Olocausto. In realtà, nel 1945 egli è emigrato negli Stati Uniti, dove ha fatto registrare il decesso della moglie e dei figli. Ma se qualcuno avesse in seguito l’idea di cercare negli Stati Uniti un certo Jakob Sussmann, non ci riuscirebbe perché Jakob Sussmann non esiste più. Un avviso di decesso apparso in Aufbau, giornale ebreo germanofono di New York, informa che «il 14 marzo 1982 è deceduto improvvisamente il nostro caro padre, padrigno e nonno James Sweetman (Süssmann) precedentemente Danzig […]».

La rivista Historische Tatsachen (n· 52) dà altri esempi, estratti da Aufbau, di simili cambiamenti di nomi: Königsberger diviene King; Oppenheimer, Oppen; Malsch, Maier; Heilberg, Hilburn; Mohrenwitz, Moore; Gunzburger, Gunby. La famiglia Süssmann ha dunque fornito quattro nomi alle statistiche dell’Olocausto, benché tutti i suoi membri siano sopravvissuti alla guerra.

La chiave della questione demografica si trova in Unione Sovietica

Secondo il censimento del 1939, vivevano all’epoca in Unione Sovietica un po’ più di 3 milioni di ebrei. È giusto in quel momento, pur tenuto conto del tasso di natalità estremamente basso della minoranza ebraiche e di una tendenza crescente all’assimilazione, parlare ancora di un accrescimento naturale di questa categoria di popolazione. Il primo censimento del dopo guerra (1959) ha censito solo 2,267 milioni di ebrei sovietici, ma tutti i sionisti si accordarono nel dire che questa cifra non rispondeva assolutamente alla realtà; regnava già a quell’epoca in Unione Sovietica un clima antireligioso ostile alle minoranze nazionali e chiunque si professasse ebreo poteva attendersi delle noie. Inoltre, molti degli ebrei, in quanto buoni comunisti, si sentivano e si dichiaravano volontariamente russi, ucraini, etc., piuttosto che ebrei e ognuno poteva dare, al tempo dei censimenti sovietici, la nazionalità che riteneva essere la propria.

Anche dopo l’inizio dell’emigrazione massiccia di ebrei sovietici verso Israele e gli Stati Uniti, che cominciò alla fine degli anni Sessanta, fonti ebraiche e israeliane stimavano in più di quattro milioni il numero degli ebrei sovietici, e il New York Post scriveva il 1·1990:

«Si stimava che vivessero nell’Unione sovietica da 2 a 3 milioni di ebrei. Però, degli emissari israeliani che, grazie al miglioramento delle relazioni diplomatiche, possono recarsi liberamente nell’Unione sovietica, annunciano che il numero vero ammonta a più di 5 milioni.»

Secondo fonti ufficiali, il numero degli emigrati che hanno lasciato l’Unione Sovietica a partire dagli anni Sessanta, ammontava a un milione circa. Ammettendo un leggero accrescimento di popolazione dovuto alla natalità, e pertanto che le cifre del New York Post siano esatte, avrebbero dovuto vivere in Unione Sovietica prima dell’inizio dell’onda di emigrazione quasi 6 milioni di ebrei – almeno 3 milioni «di troppo» dal punto di vista della statistica del 1959 – ciò prova che una grande parte degli ebrei polacchi che si pretendeva fossero stati gassati, come anche molti ebrei di altri paesi europei – della Romania e dei Balcani principalmente – siano stati ospitati e assorbiti dall’Unione Sovietica.

Si avrà un’idea del modo col quale gli sterminazionisti utilizzano la matematica leggendo l’antologia pubblicata nel 1991 da Wolfgang Benz col titolo di Dimension des Völkermordes (Oldenburg, 1991), nella quale figura un contributo di certo Gert Robel. Secondo Robel, vi erano in Unione Sovietica, all’inizio della guerra tedesco-sovietica, più di 5 milioni di ebrei, il che corrisponde in larga misura al numero calcolato da Sanning. Robel pretende che 2,8 milioni di ebrei sovietici siano stati massacrati dai tedeschi.

Il 12 % almeno della popolazione sovietica ha trovato la morte durante la guerra, principalmente a causa delle evacuazioni massicce ordinate da Stalin e della sua politica della terra bruciata. Non c’è nessuna ragione per ritenere la percentuale di vittime ebree della guerra fosse inferiore, dunque dei circa 2,2 milioni di ebrei che, secondo Robel, sono sopravvissuti ai massacri tedeschi, almeno 264.000 sono periti per cause legate alla guerra. Di conseguenza, se seguiamo Robel, non potevano esservi in Unione Sovietica nel 1941 che 1,9 milioni di ebrei al massimo – probabilmente molti meno. Come può essere accaduto che questo numero sia poi triplicato, tenuto conto del debole tasso di natalità degli ebrei sovietici e della loro tendenza all’assimilazione?

Qualche caso celebre

Molti casi particolari dimostrano che se gli eventi bellici in genere, le epidemie e le privazioni provocarono innumerevoli decessi nei campi di concentramento, non ci fu tuttavia uno sterminio sistematico.

Dopo l’occupazione dell’Italia da parte dei tedeschi, Primo Levi si unì ai partigiani. Fu fatto prigioniero ed inviato a lavorare ad Auschwitz. Malgrado fosse ebreo e partigiano, egli è sopravvissuto e ha scritto dopo la sua liberazione il libro Se questo è un uomo.

L’ebreo austriaco e socialista di sinistra, Benedict Kautsky, avrebbe dovuto trovare cento volte la morte. Egli passò sette anni nei campi: Dachau, Buchenwald, Auschwitz e ancora Buchenwald. Egli ha scritto dopo la guerra la sua opera Teufel und Verdammte (Zurich, 1946). Sua madre ottuagenaria morì a Birkenau nel dicembre 1944. Imprigionare delle persone così anziane è un’infamia, ma non dimostra una volontà di sterminio. La signora Kautsky ricevette peraltro delle cure mediche; non è certo che in libertà avrebbe vissuto più a lungo nelle orribili condizioni dell’ultimo inverno di guerra.

Otto Frank e le sue figlie Anne e Margot sono sopravvissuti ad Auschwitz. Anne e Margot furono trasferite a Belsen, dove morirono di tifo all’inizio dell’anno 1945. Otto Frank è morto in Svizzera in età avanzata.

In Das jüdische Paradox (Europaische Verlagsantstalt, 1976, p. 263), Nahum Goldmann, che fu per parecchi anni presidente del Congresso mondiale ebraico, scrive questo:

«Ma nel 1945 c’erano circa 600.000 ebrei sopravvissuti nei campi di concentramento che nessun paese voleva accogliere».

Se i nazisti avessero voluto sterminare gli ebrei, come mai 600.000 di essi hanno potuto sopravvivere ai campi tedeschi? Fra la conferenza di Wannsee, nella quale si dice sia stato deciso lo sterminio, e la fine della guerra, i tedeschi avevano avuto tre anni e tre mesi per compiere la loro opera.

Gettiamo un colpo d’occhio alla lunga lista dei nomi degli ebrei importanti che sono sopravvissuti ad Auschwitz o ad altri campi e prigioni tedeschi. Vi troviamo, fra molti altri:

– Léon Blum, capo del governo del Fronte popolare della Francia di prima della guerra;
– Simone Veil, che diverrà più tardi presidente del Parlamento europeo;
– Henri Krasucki, che diverrà più tardi il numero 2 del sindacato francese CGT;
-Marie-Claude Vaillant-Couturier, che diventerà più tardi membro del comitato centrale del partito comunista francese;
– Gilbert Salomon attuale PDG di SOCOPA (alimenti e bestiame) e delle Macellerie Bernard;
– Jozef Cyrankiewicz, che diverrà più tardi capo del governo polacco;
– Dov Shilanski e Shevah Weiss, ex ed attuale presidente della Knesseth;
-George Charpak, premio Nobel per la fisica 1992;
– Roman Polanski, cineasta (Rosemary’s Baby);
Leo Baeck, considerato da molti come il più grande rabbino del secolo;
– Jean Améry, filosofo;
– Samuel Pisar, scrittore francese;
– Eric Blumenfeld, uomo politico membro della CDU;
– Ermann Axen, uomo politico, membro del SED;
– Paul Celan, poeta («Der Tod ist ein Meister aus Deutschland»);
Simon Wiesenthal, il famoso «cacciatore dei nazisti»;
– Ephraim Kishon, autore satirico;
– Heinz Galinski e Ignatz Bubis, ex ed attuale presidente del Consiglio Centrale degli ebrei tedeschi;
– Georges Wellers e Shmuel Krakowski, coautori dell’antologia Les Chambres
à gaz, secret d’Etat
(Ed. de Minuit, 1984);
– Elie Wiesel.

* * *

Nel gennaio 1945, Elie Wiesel, detenuto ad Auschwitz, soffrì di un’infezione al piede. Cessò dunque di essere atto al lavoro. Fu ricoverato all’ospedale e subì una piccola operazione chirurgica.

Nel frattempo l’Armata Russa si avvicinava. I detenuti furono informati che le persone in buona salute sarebbero state evacuate e che i malati avrebbero potuto restare, se lo avessero voluto. Elie e suo padre facevano parte dei malati. Cosa scelsero? Di restare e attendere i loro liberatori? No, si aggiunsero volontariamente ai tedeschi – a quei tedeschi che avevano, davanti agli occhi di Elie Wiesel, gettato dei bimbi nelle fiamme di una fossa e spinto degli ebrei adulti nel fuoco di un’altra fossa più grande, dove le vittime avevano «agonizzato per ore nelle fiamme», come si può leggere su La Nuit.

Si insegna ai ragazzi delle scuole che l’obiettivo di Hitler era lo sterminio degli ebrei e che l’annientamento degli ebrei fu deciso il 20 gennaio 1942 alla conferenza di Wannsee. Se i professori di storia e i libri di storia avessero ragione, non sarebbero 600.000 gli ex-detenuti dei campi di concentramento sopravvissuti, ma 600 nel migliore dei casi. Non dimentichiamo che il Terzo Reich era uno Stato di polizia estremamente efficiente.

Nella sua brillante esposizione sulle prospettive storiche della leggenda dell’Olocausto, Arthur Butz esprimeva il parere che gli storici futuri avrebbero rimproverato ai revisionisti la strana cecità che li aveva condotti a permettere agli alberi di nascondere la foresta. In altri termini, a forza di concentrarsi su dettagli, i revisionisti hanno trascurato questa evidenza: alla fine della guerra, gli ebrei erano sempre là.

Ci se ne può convincere leggendo le notizie biografiche riportate qui di seguito e che Martin Gilbert dedica alle persone menzionate nel suo libro Auschwitz and the Allies. Gilbert cita le personalità ebree seguenti:

-Sarah Cender, che fu deportata ad Auschwitz nel 1944 ed emigrò in America dopo la guerra
– Wilhelm Fildermann, che sopravvisse alla guerra nella Romania fascista;
– Arie Hassenberg, che fu inviato ad Auschwitz nel 1943 e fuggì nel gennaio 1945;
-Erich Kulka, che sopravvisse a Dachau, Neuengamme ed Auschwitz, e mise per iscritto, nel 1975, le sue esperienze nei campi;
-Shalom Lindenbaum, che «fuggì dalla colonna in marcia», dopo l’evacuazione di Auschwitz;
-Czeslaw Mordowicz, che fuggi da Auschwitz nel maggio 1944 ed emigrò in Israele nel 1966;
-Arnost Rosin, che fu detenuto ad Auschwitz dal 1942 al 1944 e che, nel 1968, divenne funzionario al servizio della comunità ebraica di Dusseldorf;
-Katherina Singerova, che fu deportata ad Auschwitz nella primavera 1942 e divenne, dopo la guerra, direttrice del Fondo nazionale cecoslovacco a favore dei creatori artistici;
-Dov Weissmandel, che fu inviato ad Auschwitz e che «scappò praticando un buco nel vagone con l’aiuto di una sega introdotta clandestinamente nel treno all’interno di una pagnotta»;
-Alfred Wetzler, coautore del War Refugee Board Report e autore dell’opuscolo Auschwitz: Grab von vier Millionen Menschen, che fuggì da Auschwitz nel maggio 1944, in compagnia del famoso Rudolf Vrba, nato Rosemberg.


Altri ebrei menzionati da Gilbert non furono deportati dai nazisti, ma scelti come interlocutori – fu il caso di Rudolf Kasztner – o utilizzati come spie – fu il caso di Andor Gross. Nella sua grossolana opera, Martin Gilbert non smette di parlare di gassazioni, ma non dà il nome di un solo ebreo gassato.

Al contrario, come abbiamo appena visto, enumera una gran quantità di persone non gassate. I milioni di gassati sono, per riprendere un’espressione di Orwell, dei «non existing people», gente senza nome.

L’articolo Dann bin ich weg über Nacht, apparso su Spiegel (n· 51/1992), evoca i seguenti ebrei:

-Rachel Naor, 20 anni, il cui nonno è sopravvissuto ai «campi di sterminio dei nazisti»;
-Ralph Giordano, che ha vissuto la guerra in Germania in libertà, pur essendo noto alla Gestapo;
-Leo Baeck, che profetizzò, dopo la sua liberazione da Theresienstadt, che l’epoca degli ebrei di Germania era definitivamente terminata;
-Yohanna Zarai, che è sopravvissuta al periodo nazista nel ghetto di Budapest;
-Inge Deutschkron, che ha descritto, nella autobiografia Ich trug den gelben Stern, la sua giovinezza in Germania;
-Theodor Goldstein, 80 anni, che i nazisti internarono nel campo di Wullheide.

Dopo questo articolo, lo Spiegel pubblica un colloquio col presidente del consiglio della comunità ebrea tedesca, Ignatz Bubis, sopravvissuto dell’Olocausto, successore di Heinz Galinski, anche lui sopravvissuto dell’Olocausto.

Certo, tutti questi sopravvissuti pretendono di essere «scampati per miracolo», ma si deve, razionalmente, osservare che i miracoli a catena non sono più miracoli. Lungi dall’essere testimoni chiave dell’Olocausto, tutte queste persone rappresentano la prova che non c’è stato Olocausto.

Allorché, secondo Goldmann, 600.000 ebrei sono sopravvissuti ai campi di concentramento, è verosimile che da 200.000 a 300.000 ebrei siano morti in questi stessi campi, principalmente di malattia, ma anche di stenti durante gli ultimi caotici mesi della guerra. Come gli altri popoli d’Europa, il popolo ebreo ha vissuto una tragedia di portata storica, anche senza camere a gas.

La riunione di famiglia degli Steinberg

Lo State Time di Baton Rouge (Louisiana, Stati Uniti) del 24 novembre 1978 riporta quanto segue:

«Los Angeles (Associated Press) – Un tempo gli Steinberg prosperavano in un piccolo villaggio ebraico della Polonia. Questo avveniva prima dei campi della morte di Hitler. Ecco che un vasto gruppo di più di duecento sopravvissuti e i loro discendenti sono qui riuniti per partecipare insieme a una celebrazione speciale di quattro giorni che è opportunamente iniziata il giorno del Ringraziamento (Thanksgiving Day). Alcuni congiunti sono arrivati giovedì dal Canada, dalla Francia, dall’lnghilterra, dall’Argentina, dalla Columbia, da Israele e da almeno tredici città degli Stati Uniti. “È miracoloso”, ha detto Iris Krasnow, di Chicago. “Qui ci sono cinque generazioni che vanno da tre mesi a ottantacinque anni. Le persone piangono di felicità e trascorrono momenti meravigliosi. È quasi come una riunione di rifugiati della Seconda Guerra Mondiale.” Sam Kloparda di Tel Aviv era stupito del grande albero genealogico posto nel salone dell’hotel Marriot dell’aeroporto internazionale di Los Angeles. Si erano assicurati l’aiuto di molti parenti, tra cui una nuora, Elaine Steinberg, per le loro ricerche dei membri di famiglia. [] Per la madre di Iris Krasnow, Hélène, che aveva abbandonato la Polonia per la Francia e poi per gli Stati Uniti, questo era un gioioso avvenimento. “Piango, dice, non posso credere che tante persone siano sopravvissute all’Olocausto. C’è tanta vita – un’altra generazione. È magnifico.” “Se Hitler lo sapesse, si rivolterebbe nella tomba” dice» (citato da Serge Thion, Vérité historique ou vérité politique?, La Vieille Taupe, 1980, pp. 325-326).

Fra le centinaia di parenti che gli Steinberg non sono riusciti a scoprire – essi avevano fatto pubblicare un annuncio – molti hanno certamente perduto la vita sotto la dominazione tedesca, altri, come quelli che sono stati ritrovati, sono disseminati in tutti i paesi del mondo occidentale, da Israele all’Argentina, passando per gli Stati Uniti. Altri, più numerosi, vivono nelle immense distese russe o vi sono deceduti di morte naturale.

Anche 500.000 zingari?

Al massacro di sei milioni di ebrei, gli sterminazionisti aggiungono il massacro di 500.000 zingari. È l’argomento che tratta Sebastian Haffner nel suo libro Anmerkungen zu Hitler:

«A partire dal 1941, gli zingari dei territori occupati dell’Europa orientale furono sterminati tanto sistematicamente quanto gli ebrei che vi vivevano. Questo massacro [] non è stato affatto studiato nel dettaglio, nemmeno più tardi. Non se ne è parlato molto quando esso ha avuto luogo e anche oggi non se ne sa molto di più del semplice fatto che per l’appunto è avvenuto.» (Anmerkungen zu Hitler, Fischer Taschenbuch Verlag, 1981, p. 130).

Non c’è nessuna prova, dunque, del massacro degli zingari, ma si sa tuttavia che esso ha avuto luogo! Nel numero 23 della rivista Historische Tatsachen, Udo Walendy si dedica ad uno studio approfondito del presunto massacro degli zingari. Il numero della rivista in questione, come tutta una serie di altri, è stato proibito dalla censura dello Stato tedesco, benché i censori si siano mostrati incapaci di scoprire la minima inesattezza nello studio di Walendy. – «Nessun libro ne attesta il martirio, nessuna monografia ne descrive la marcia verso le camere a gas e i commando di esecuzione del Terzo Reich» constata lo Spiegel n· 10/1979, avendo riscontrato l’assenza di ogni documento relativo all’assassinio di 500.000 zingari.

L’opinione di Faurisson sulla questione dell’Olocausto

A prima vista, sembrava incomprensibile che un sistema democratico difendesse, con l’aiuto della censura e del terrore, una leggenda così orrenda come quella della gassazione di milioni di innocenti. Sembra ancora più inconcepibile che coloro che si aggrappano col massimo accanimento a questo mito orripilante siano proprio coloro per i quali la fine della leggenda del secolo significherebbe la fine di un incubo: gli ebrei e i tedeschi.

Se la leggenda è difesa con tutti i mezzi, è perché la vittoria della verità storica rappresenterebbe, per un numero enorme di persone immensamente potenti, una catastrofe incommensurabile e irreparabile.

Robert Faurisson, che forse, più di ogni altro, ha contribuito a smascherare il mito (senza di lui il Rapporto Leuchter non avrebbe mai visto la luce), ha riassunto la sua tesi in una frase di 82 parole, esposta qui di seguito:

«Le pretese camere a gas hitleriane e il preteso genocidio degli ebrei formano un’unica menzogna storica, che ha permesso una gigantesca traffa politico-finanziaria, di cui i principali beneficiari sono lo Stato di Israele e il sionismo internazionale e di cui le principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, il popolo palestinese tutto intero, e le giovani generazioni ebree che la religione dell’Olocausto chiude sempre di più in un ghetto psicologico e morale.»

La posta in gioco

Dal 1952 la RFT ha pagato, secondo lo Spiegel n· 18/1982, 85,4 miliardi di marchi a Israele e alle organizzazioni sioniste così come a singoli ebrei. Una piccola parte di questa somma è andata ad ex prigionieri dei campi di concentramento. Nessuno contesta il fondamento morale di questi versamenti. Ma la maggior parte di questa somma è stata pagata come riparazione per le mitiche camere a gas ad uno Stato che non esisteva all’epoca dell’asserito genocidio. Nell’autobiografia, (Das jüdische Paradox, op. cit., p. 171), Nahum Goldmann scrive:

«Senza le riparazioni tedesche che sono cominciate a giungere nel corso dei primi dieci anni di esistenza dello Stato, Israele non avrebbe che la metà delle sue infrastrutture attuali: tutti i treni in Israele sono tedeschi, le navi sono tedesche, così come l’elettricità, una grande parte dell’industria […] per non parlare delle pensioni versate ai sopravvissuti.»

L’Olocausto costituisce inoltre per Israele un mezzo collaudato per assicurarsi l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Sono i palestinesi che fanno le spese di questa politica. Essi sono tra le principali vittime del mito dell’Olocausto. Molti di loro vivono miserabilmente da decenni in campi per rifugiati, espiando senza alcuna colpa la leggenda sionista delle camere a gas.

Infine, tanto lo Stato di Israele che le organizzazioni sioniste internazionali si servono dell’Olocausto per mantenere permanentemente gli ebrei di tutti i paesi in uno stato di isteria e di psicosi di persecuzione che costituisce il miglior cemento fra di loro. A ben guardare, un solo legame unisce tutti gli ebrei del mondo, askenaziti e sefarditi, religiosi e atei, persone di destra e di sinistra: l’orribile trauma dell’Olocausto, la caparbia volontà di non essere mai più gli agnelli che vengono portati al macello. È così che l’Olocausto è diventato un succedaneo della religione al quale può credere anche l’ebreo più indifferente; è così che le inesistenti camere a gas di Auschwitz sono diventate le reliquie più sacre del mondo.

Pertanto la ragione principale per la quale, dal punto di vista israeliano e sionista, la leggenda deve essere preservata a tutti i costi, resiste ancora. Il giorno in cui il mito sarà riconosciuto come tale, l’ora della verità suonerà in Israele e presso gli ebrei del mondo intero. Come i tedeschi, gli ebrei chiederanno ai loro dirigenti: «Perché ci avete mentito giorno dopo giorno?». La perdita di fiducia che subirà la classe politica israeliana ed ebraica – politici, rabbini, scrittori, giornalisti, storici – sarà irrimediabile. In queste condizioni, una terribile comunanza di destini unisce la classe dirigente israeliana e ebraica alla classe dirigente tedesca: tutte e due si sono cacciate in un ginepraio da cui non è più possibile uscire, e cercano disperatamente di rimandare con tutti i mezzi l’arrivo di quel giorno.

Credere all’Olocausto è come credere alle streghe nel XX secolo

Il mito dell’Olocausto è assurdo. È un’offesa ad ogni spirito riflessivo che consideri i fatti con obiettività. Non passa giorno che i giornali non ricordino un «sopravvissuto dell’Olocausto» – se i tedeschi avessero veramente voluto sterminare gli ebrei, non ne sarebbero restati molti nel maggio 1945.

Gli «storici» ci raccontano che sono stati assassinati ad Auschwitz un milione di ebrei per mezzo dello Zyklon B, a Belzec e a Treblinka un totale di 1,4 milioni di ebrei per mezzo del gas di scappamento dei motori Diesel. Si sarebbero bruciati a cielo aperto una gran parte dei morti di Auschwitz e tutti quelli di Belzec, Treblinka, Chelmno e Sobibor senza lasciare traccia di ceneri o di ossa.

Questo castello di menzogne sarebbe crollato immediatamente se, nel 1949, il primo governo della RFT avesse ordinato, con l’esborso di qualche migliaio di marchi, tre perizie: la prima ad uno specialista della lotta contro i parassiti che conoscesse le caratteristiche dello Zyklon B, la seconda ad un costruttore di motori Diesel, la terza ad uno specialista di cremazioni. Il primo esperto avrebbe dimostrato che le «testimonianze oculari» e le «confessioni dei colpevoli» concernenti i massacri a mezzo dello Zyklonerano in contraddizione con le leggi della chimica e della fisica; il secondo avrebbe dimostrato che i massacri con gas di scappamento dei motori Diesel, anche se teoricamente possibili con grandi difficoltà, erano impensabili in pratica, perché il motore a benzina normale è un’arma molto più eff1cace che non il motore Diesel; il terzo avrebbe affermato categoricamente che l’eliminazione di milioni di cadaveri all’aria aperta e senza che ne resti la minima traccia è materialmente impossibile. Tre perizie realizzate nel 1949 avrebbero risparmiato al mondo decenni di propaganda.

Gli storici del futuro giungeranno sicuramente alla conclusione che la convinzione dell’Olocausto nel XX secolo equivale esattamente alla convinzione dell’esistenza delle streghe nel Medio Evo.

Nel Medio Evo tutta l’Europa, compresi i suoi più grandi intelletti, credeva alle streghe. Le streghe, dimostrate colpevoli di relazioni carnali col diavolo, avevano sempre confessato le loro vergognose azioni. Si sapeva dalle loro confessioni che il pene di Satana era coperto di squame e che il suo sperma era ghiacciato. Dei ricercatori erano riusciti a stabilire, grazie a degli esperimenti scientifici, che parecchie streghe non abbandonavano il loro letto nella notte di Varpurga, nel momento in cui attraversavano l’aria a cavallo della loro scopa per andare ad accoppiarsi con il principe delle tenebre. In altri termini, non erano i corpi delle streghe che cavalcavano le scope, ma la loro seconda persona, la loro anima. Migliaia di eretici finirono sul rogo, come le streghe, per aver contratto patti col diavolo; il contenuto di questo patto era stato ricostruito con esattezza, grazie al lavoro minuzioso di tribunali perfettamente legali. Legioni di testimoni degni di fede confermavano queste constatazioni scientifiche sotto giuramento. I libri dedicati alle streghe, al diavolo, all’inferno ed alla stregoneria riempivano biblioteche intere.

Nella nostra epoca, nel secolo di Einstein, della fissione nucleare e dei voli verso Saturno, dottori in legge, professori di storia, intellettuali specialisti di letteratura universale dalle conoscenze enciclopediche, editori di note riviste d’informazione, giornalisti di grido, professori di filosofia, teologi conservatori o modernisti e scrittori tedeschi candidati al premio Nobel, credono che 360.000 ebrei siano stati assassinati nella doccia di Majdanek per mezzo di palline di Zyklonintrodotte attraverso dei doccini nei quali si trasformavano senza indugio in un gas che, benché più leggero dell’aria, discendeva immediatamente a «tagliuzzare i polmoni» (E. Kogon). Essi credono che Joseph Mengele abbia personalmente gassato 400.000 ebrei con l’accompagnamento di melodie di Mozart. Essi credono che l’ucraino John Demjanjuk abbia fatto entrare a colpi di bastone nella camera a gas di Treblinka 800.000 ebrei ai quali aveva previamente tagliato le orecchie, per asfissiarli con i gas di scappamento del motore Diesel di un carro russo in demolizione. Essi credono che la camera a gas di Belzec potesse contenere 32 persone per metro quadrato. Essi credono che i commando speciali di Auschwitz entrassero in una camera a gas satura di acido cianidrico neanche una mezz’ora dopo la gassazione di 2.000 persone, non solamente senza maschera antigas, ma con la sigaretta in bocca, restandone indenni. Essi credono che si possano bruciare centinaia di migliaia di cadaveri senza che ne resti la minima traccia di ceneri o di ossa; che il grasso colasse dai cadaveri durante la cremazione e che le SS gettassero dei neonati in questo grasso bollente; che Rudolf Höss abbia visitato nel giugno 1941 il campo di Treblinka creato nel luglio 1942; che Simon Wiesenthal sia sopravvissuto a una dozzina di campi di sterminio senza essere sterminato in nessuno dei dodici campi; che si potesse seguire da una finestrella nella porta l’agonia di 2.000 persone chiuse in una camera a gas di 210 metri quadrati, come se le persone in piedi davanti alla finestrella non avessero impedito la vista all’osservatore. Essi credono che Hitler avesse ordinato all’inizio del 1942 lo sterminio totale degli ebrei e non sono minimamente scossi nelle loro convinzioni quando leggono nel libro di Nahum Goldmann che l’autore ha contato dopo la guerra 600.000 sopravvissuti ebrei al soggiorno nei campi di concentramento. Essi credono a tutte queste cose con un fanatismo religioso incondizionato e qualunque dubbio altri osi esternare diviene il peggior peccato che si possa commettere anche negli anni Novanta del nostro secolo. Tutto perché è provato da testimonianze degne di fede e dalle confessioni ottenute dai colpevoli in processi formalmente irreprensibili!

I libri consacrati all’Olocausto riempiono biblioteche intere, legioni di autori e produttori traggono profitto dall’Olocausto; Claude Lanzmann è diventato una celebrità mondiale grazie al suo film Shoah, in cui descrive come 16 o 17 parrucchieri taglino i capelli di 70 donne nude in una camera a gas di 4 metri per 4; «storici» come Poliakov, Hilberg, Langbein, Jäckel, Friedländer, Scheffler, e Benz devono le loro lauree universitarie alle camere a gas, e in numerose scuole americane gli «Studi dell’Olocausto» sono materie obbligatorie allo stesso titolo della fisica o della geometria.

Quando questa follia sarà cessata e l’umanità si risveglierà, noi proveremo una vergogna immensa, infinita, al pensiero che essa abbia potuto accettare una mistificazione di tale portata.

Alcune semplici domande agli sterminazionisti

Chiunque creda alla realtà dell’Olocausto e delle camere a gas, deve essere in grado di rispondere alle domande che seguono. Ponete queste domande agli storici, ai giornalisti e alle altre persone che difendono la tesi della storiografia ufficiale.

1) Credete, poiché il comandante di Mauthausen Franz Ziereis l’ha confessato poco prima di morire, che da un milione a un milione e mezzo di persone siano state gassate nel castello di Hartheim presso Linz? Se sì, perché non lo crede più nessuno? Se no, perché credete voi dunque alla gassazione di un milione, un milione e mezzo di persone ad Auschwitz? Perché la confessione di Höss – di cui è provato che fu estorta sotto tortura e che riferiva di tre milioni di morti in un solo campo – dovrebbe essere più degna di fede di quella di Ziereis, di cui più nessuno parla da decenni?

2)alle gassazioni di Dachau – delle quali un pannello attesta che non hanno mai avuto luogo – e di Buchenwald? Se sì, perché nessuno storico vi crede più da molto tempo? Se no, perché credete allora alle camere a gas di Auschwitz e di Treblinka? Quali prove dell’esistenza di queste camere a gas mancano nel caso delle camere a gas di Dachau e Buchenwald?

3)che centinaia di migliaia di ebrei siano stati assassinati col vapore a Treblinka come si è preteso al processo di Norimberga nel dicembre 1945? Credete ai «mulini per uomini», nei quali milioni di ebrei sono stati uccisi con la corrente elettrica come lo crede Stefan Szende, dottore in filosofia? Credete che a Belzec 900.000 ebrei siano stati trasformati in sapone di marca RIF – Rein Judisches Fett [puro grasso ebraico] – come scrive Simon Wiesenthal? Credete alle fosse incandescenti del signor Elie Wiesel e ai vagoni con la calce viva del signor Jan Karski? Se sì, perché nessuno storico condivide più le vostre convinzioni su questi punti? Se no, perché credete dunque alle camere a gas? Perché rigettate un’assurdità per credere ad un’altra?

4)spiegate che per un solo assassinio a colpi di pistola si debba produrre al processo una perizia sull’arma del crimine e sui proiettili, mentre per nessuno dei processi sui campi di concentramento una perizia dell’arma del reato è stata ordinata, quando erano in causa milioni di morti?

5)una camera a gas nazista nella quale degli ebrei sono stati assassinati per mezzo dello Zyklon e spiegatene il funzionamento.

6)l’esecuzione di un condannato a morte in una camera a gas americana, quest’ultima deve essere accuratamente ventilata prima che un medico, dotato di un grembiule di protezione, di una maschera antigas e di guanti, possa penetrarvi. Secondo la confessione di Höss e le testimonianze oculari, i commando speciali di Auschwitz entravano nelle camere a gas sature di acido cianidrico immediatamente o dopo una mezz’ora dalla gassazione di 200 prigionieri, non solamente senza maschera antigas, ma con la sigaretta in bocca e maneggiavano i cadaveri contaminati senza esserne danneggiati. Com’era possibile?

7)un solo storico pretende che vi siano stati dei crematori nei due «campi di sterminio» menzionati sopra [Treblinka e Belzec], né a Sobibor né a Chelmno. Come hanno potuto i nazisti far sparire i cadaveri di 1,9 milioni di persone assassinate in questi quattro campi in modo tale che non ne sia rimasta la minima traccia?

8)abbiamo bisogno di testimonianze né di confessioni per sapere che gli americani hanno lanciato bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945. Come può avvenire che non si disponga di una qualunque prova, altro che di testimonianze e di confessioni per un genocidio che ha fatto milioni di vittime nelle camere a gas – non un solo documento, non cadaveri, non l’arma del crimine, niente?

9)il nome di un solo ebreo gassato e fornitene la prova – una prova che possa essere accettata da un tribunale giudicante secondo i principi del diritto comune in un normale processo criminale apolitico. Una prova! Una prova soltanto!

10)censimento dell’inizio del 1939 registrava in Unione Sovietica poco più di tre milioni di ebrei. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Paese ha perduto – almeno – il 12 % della sua popolazione e la percentuale di perdite ebree è stata certamente superiore. Il 1· luglio 1990, il New York Post, citando esperti israeliani, constatava che più di 5 milioni di ebrei vivevano ancora in Unione Sovietica quando l’emigrazione massiccia era in atto da molto tempo. Poiché una simile crescita naturale non è possibile, a causa di un tasso di natalità molto basso, ci sarebbero dovuti essere statisticamente circa 3 milioni di ebrei «di troppo» in questo Paese prima dell’inizio dell’onda di emigrazione degli anni Sessanta. Può questo stato di cose spiegarsi altrimenti che col fatto che una grande parte degli ebrei polacchi e molti ebrei di altri paesi siano stati assorbiti dall’Unione Sovietica?

11)pronti a chiedere la sospensione delle misure giudiziarie dirette contro i revisionisti? Siete favorevoli al libero dibattito e all’apertura completa degli archivi? Sareste pronto a discutere pubblicamente con un revisionista? Se no, perché? Non avete fiducia nel valore delle vostre argomentazioni?

12)vi fosse possibile accertare che le camere a gas non sono esistite, pensate che la scoperta dovrebbe essere tenuta nascosta o divulgata?