IL FIGLIUOL PRODIGO DELL’EROISMO: ETTORE MUTI
Elogio funebre a Ettore Muti – Ravenna 19.02.1944 – XXII
di Alessandro Pavolini
O Ravennati, ecco che per una volta ancora Ettore Muti è tornato alla sua città: dove sempre tornava dopo le sue gesta di guerra, dopo le sue avventure di atleta e di corridore, dopo i suoi voli e i suoi duelli di combattente attraverso le nazioni e i mari. Allora i suoi camerati rimasti in provincia s’affollavano ad ascoltare dalla bocca di “Gim” i nomi delle imprese remote: Dancalia, Addis Abeba, Oviedo, Alcaniz, Isole Baleari, Isole dell’Egeo, Isole Bahrein…. Egli era il figliuol prodigo dell’eroismo, e tornando portava nella piazza natìa il profumo del mondo.
Così come portava lontano, in Spagna o nello Scioa, fra le più varie genti in armi, il suo risentito accento romagnolo, l’aria della sua città. L’affondatore dell’incrociatore rosso nel mare di Huelva serbava ovunque il suo stile di squadrista ravennate. Perché egli era il campione di una generazione che Mussolini condusse dalla guerriglia all’Impero. Era, come Italo Balbo, il cavaliere di una Rivoluzione che nacque nei borghi e s’irradiò nei continenti.
Dovunque andasse, legionario e corsaro di Fiume o aerosiluratore nel Mediterraneo, un’aura di leggenda gli nasceva intorno, senza mai falsare la sua bellissima e scanzonata schiettezza. Perciò anche oggi non sappiamo immaginarlo altro che quale lo conoscemmo: un personaggio di epopea, sì, ma estremamente e oserei dire terribilmente giovane e vivo.
Io lo vedo al posto di pilotaggio dei nostri vecchi trimotori d’Africa; e so che ciascuno di voi similmente lo vede in altri momenti della sua vita: della sua vita così intensa, che il cuore si rifiuta di sentirla terminata. E non si vorrebbe se non raccontarne gli ininterrotti episodi.
Ma no, là è la bara; e la sua tragica immobilità disperde le affettuose illusioni della memoria. Là egli giace, assassinato. Ecco che il cuore cessa bruscamente di rievocare e la mente domanda: perché?
Perché lo uccisero degli italiani, se fin dal limite della sua fanciullezza, quando quindicenne fuggì da casa e farsi Ardito in battaglia, la sua esistenza non fu che una continua offerta all’Italia? “Un’offerta senza misura”, come di lui scrisse D’Annunzio? Era il più valoroso dei nostri soldati, in cielo e in terra, il più bel guerriero della nostra razza. In nome di Dio, perché lo fecero uccidere?
Sei mesi sono passati dall’agosto infame. E non è mistero che allora i più fedeli, spersi nella marea montante della vergogna regia, anelanti alla liberazione del Duce come all’unico principio possibile della riscossa, avevano in Muti il loro punto di riferimento.
Ma ciò potrebbe spiegare un arresto, una prigione. Non l’assassinio, non lo sparo alla nuca per ordine governativo. Perché, dunque?
Ormai la storia successiva risponde ampiamente all’interrogativo.
Perché non si poteva perfezionare la diffamazione del Fascismo, senza sopprimere fisicamente quelle che erano le incarnazioni di un Fascismo altissimo e valoroso.
Perché non si potevano insozzare con la calunnia gli squadristi e le gerarchie, che avevano dato migliaia di morti alla guerra, senza togliere dal mondo dei vivi colui che era stato squadrista e gerarca e che portava innumerevoli sull’ampio torace i segni della morte sfidata in combattimento.
Perché non si poteva stringere la mostruosa alleanza col comunismo, senza sigillarla col sangue di chi era stato alfiere della lotta antibolscevica in Italia e in Europa, dall’Emilia alla Catalogna.
Perché non si osava perpetrare il tradimento all’alleato, il tradimento ai combattenti e ai Caduti, senza prima levar di mezzo un esponente così tipico, generoso e popolare della nostra guerra.
Per questo, dopo aver inseguita nei rischi più temerari la morte del soldato prode, egli ebbe invece la corona del martirio.
L’assassinio governativo del nostro Eroe fu la degna prefazione dell’8 settembre. Soltanto l’uomo che ordinò di uccidere Muti poteva condurre in porto, nella sua delinquenziale ambizione, nella sua obbedienza alla setta contro la fedeltà alla Patria, la liquidazione dell’esercito, delle flotte, dell’onore nazionale.
Abbattuto a tradimento, lo si gettò nella camera mortuaria che accoglie i relitti notturni della malavita e si scagliò fango sulla sua memoria prima ancora che terra sulla sua bara.
Evidentemente si intendeva così di additare un bersaglio e un metodo a tutta la canaglia sovversiva, che si aveva avuto cura di armare. Il bersaglio erano i fascisti, il metodo l’omicidio alle spalle.
Né si può dire che il sinistro esempio non abbia dato la sua messe luttuosa, fino a ieri e fino ad oggi. A migliaia già si contano i caduti del Fascismo repubblicano ed Ettore Muti è la scolta e il simbolo di questa falange sacra.
Dietro di lui, ecco le Camicie Nere e i cittadini che in Istria e in Dalmazia gridarono Italia e Duce sull’orlo delle “foibe”, sul limitare della vita. Ed ecco, mese per mese e giorno dietro giorno, i nostri martiri delle strade e delle piazze: ecco Ghisellini, Resega, Facchini, Capanni e gli altri tutti, vittime dei sicari al soldo inglese, bolscevico, ebraico e massonico.
Se qui, dopo il rito e davanti al tempio, noi non leviamo il grido della vendetta, noi d’altronde, in cospetto della salma del nostro Eroe, dobbiamo pur dichiarare che a un avversario il quale mira alla nostra distruzione fisica non si può se non rispondere in modo da renderlo certo che per tale via esso raggiungerà molto prima la distruzione fisica propria.
A parte questo, un conforto grande lenisce il nostro dolore, ed è il rilevare che il sacrificio non è stato inutile, che l’olocausto vale e fortifica.
O italiani, se dopo la capitolazione il disonore non ha interamente travolto la Patria, è unicamente perché una schiera tra voi, raccolta sotto le insegne mussoliniane del Fascismo repubblicano, ha dimostrato che in Italia c’è ancora chi tiene alla fedeltà più che alla vita, chi sa gettarsi in una mischia senza attendere i segni della sorte.
E’ il sangue dei nostri Martiri che ha investito il nostro Governo di una legittimità ben superiore a quella elettorale. E’ il sangue dei nostri Morti che ha dato vita e crisma al nuovo Stato in cui si raccoglie ogni speranza di un avvenire italiano.
Avemmo ieri la ventura di ascoltare, dalla bocca del rappresentante del Führer nella Repubblica Sociale Italiana, una notizia solenne: quella che i reparti italiani sono entrati in linea di combattimento, al vecchio grido repubblicano e legionario di “Roma o morte!”.
In quell’istante il nostro pensiero è andato al Duce.
Duce nostro, poiché non siamo davanti a Te e la consueta trepidazione non ci vincola, consentici di dirTi con semplicità la nostra gratitudine e il nostro amore. Non solo e non tanto per quanto hai fatto in passato, dando al mondo in crisi una Idea di salvezza e alzando la Patria agli indimenticabili fastigi, che il tradimento ha compromessi ma che costituiscono per sempre un pegno e un pungolo verso il futuro.
Gratitudine e amore siano soprattutto per la Tua fatica di oggi, maggiore d’ogni altra, per l’audacia e per la dedizione con cui ti accingesti all’impresa disperata e con cui la stai conducendo al suo duro ma ormai chiaro progresso, marciando diritto, fedele e solitario oltre tutte le viltà e tutte le incomprensioni, attraverso tutte le tragedie collettive o intime, verso le méte originarie della Tua Rivoluzione, verso la rinascita del Tuo popolo.
Sotto la Tua guida noi siamo certi della ripresa.
Essa procede su due binari paralleli: il fatto guerra, il fatto sociale.
Il partito non è una fazione angusta, ma una diretta avanguardia di popolo che niente deve dividere dalla massa. Si tratta di liquidare rapidamente, col ritmo della giustizia rivoluzionaria, i residui del tradimento; si tratta di estirpare le cellule del sovversivismo professionale e del brigantaggio ribellistico, e quelle, conniventi, della plutocrazia speculatrice. Il che significa abolire i diaframmi fra l’avanguardia politica e la massa sana o sanabile.
Questo avverrà. Questo sta avvenendo. Tanto nei nuovi battaglioni, quanto nelle aziende socializzate, i militi del Fascismo e gli italiani della Repubblica faranno una forza sola, mobilitata integralmente, uomini e donne, per il combattimento e per il lavoro, solidale sotto le aggressioni della barbarie aerea, nuovamente risolute a conquistarsi, in armi, il diritto alla vita.
Camerati del Fascismo repubblicano, che nel nome di Muti rialzaste le fiamme e che nel nome di Muti qui vi siete raccolti da ogni provincia, io so che da questo rito ritorneremo tutti alla nostra battaglia con fede ritemprata.
Camerati germanici, che avete voluto essere presenti con noi, in voi salutiamo tutti i vostri soldati. Salutiamo con gratitudine eterna i superbi difensori della nostra terra, nell’ansia di poter dar loro il cambio nelle linee in numero sempre crescente.
La vostra musica militare ha suonato per voi e per noi, la grave e dolce canzone del commiato: “Ho perduto un camerata”. Sì, entrambi abbiamo perduto un camerata, ma per entrambi si è accesa una luce perenne di fraternità eroica.
Ed è in questa luce che Ettore Muti, soldato di Mussolini, torna per sempre alla sua terra, dove le grandi ombre del Poeta della razza e del Profeta della rivolta ideale ci ispirano a non disperare della nostra gente e a difendere a viso aperto la nostra Idea.