LA FESTA DELLA VERGOGNA
LA FESTA DELLA VERGOGNA
di Fabio Calabrese
Pare proprio che questo 2015 sia un’annata di ricorrenze: il 25 aprile di quest’anno cadono i settant’anni dalla conclusione – sfortunata e tristissima per l’Italia – della seconda guerra mondiale, e un mese più tardi, il 24 maggio, il centenario del nostro intervento nel primo conflitto, la Grande Guerra, come fu chiamata quando non s’immaginava che in meno di una generazione ne sarebbe seguita un’altra di ancor più grandi dimensioni e più catastrofica.
Ma non vi preoccupate: ho già pronta e vi sto tenendo in caldo una serie di articoli che svelano alcuni retroscena dell’intervento italiano nel primo conflitto mondiale, su cui solitamente la storia ufficiale non si sofferma con attenzione, intenta come sempre a raccontarci ciò che fa comodo al potere. Ne riparliamo presto, ma ora concentriamoci sul significato del 25 aprile.
Settant’anni di sedicente repubblica democratica, in realtà di proconsolato dipendente da interessi stranieri, hanno gravemente compromesso l’immagine dell’Italia nel mondo, non hanno soltanto gravemente danneggiato le posizioni italiane in ogni settore, ci hanno anche coperti di vergogna e di ridicolo a livello planetario.
Una delle cose che senz’altro suscitano l’ilarità nei nostri confronti fuori dai nostri confini, è questa celebrazione, questa “festa” del 25 aprile, che non è soltanto la materializzazione della peggiore e più squallida retorica concepibile. Io credo che il caso italiano sia veramente unico a livello mondiale e inedito nella storia, di una nazione che celebra una sconfitta, e una sconfitta pesante quale fu quella che subimmo nel secondo macello planetario, come se fosse stata una vittoria. Ma come volete che gli stranieri ci rispettino quando siamo noi per primi, e ormai da quattordici lustri, a tirarci lo sterco addosso?
In realtà una simile bizzarria non è per nulla inspiegabile, perché il 25 aprile non è per nulla una “festa” nazionale, ma celebra la vittoria di una parte sull’altra della guerra civile che fu parallela al conflitto internazionale sul nostro territorio, “festa” non della nazione ma della fazione. Fazione, va detto, che ottenne la sua “vittoria” a poco prezzo, approfittando del fatto che l’Italia e chi realmente la difendeva, furono stritolati dall’avanzare di un nemico che vantava un’imponente superiorità di mezzi. Fazione che è quella anti-nazionale, quella “rossa” che da noi disgraziatamente gode ancora di una credibilità che ha perso quasi dovunque, ispirata a un’utopia mortifera che, come si è ben visto negli eventi del 1989-91 con la caduta del muro di Berlino, con la liquidazione dei regimi comunisti dell’Europa orientale e infine della stessa Unione Sovietica, i popoli che l’hanno subita, hanno immediatamente defenestrato per le vie brevi appena è stata data loro la possibilità di farlo.
In tempi recenti, man mano che gli ambienti della “destra neofascista” sono diventati sempre più “di destra” e sempre meno “neofascisti” e hanno perso parecchio non solo in termini di consenso elettorale ma di spina dorsale, hanno sempre più spesso avanzato la proposta di trasformare il 25 aprile in una “festa della riconciliazione nazionale”, proposta che gli ambienti antifascisti hanno sempre “sdegnosamente” respinto (naturalmente, si è sempre trattato di uno sdegno simulato, poiché per provare realmente sdegno occorre possedere una dignità). Non c’è niente da fare, il 25 aprile è e rimane la festa della fazione, anche se capace occasionalmente di travestirsi da nazione. L’unica cosa da fare per far recuperare un po’ di dignità a questa sciagurata Italia, sarebbe al riguardo quella di abolire questa festività immonda.
Il problema è quello che è stato (pudicamente) chiamato “della memoria divisa”. Continuano a esserci due parti di Italia che interpretano la storia recente in maniera opposta e ne abbiamo avuto un esempio tre anni fa col rifiuto di ricordare gli eroi di Nikolaewka e di El Alamein, caduti della “guerra fascista”, e tempi infelici attendono un Paese che dimentica i suoi eroi ed eleva al rango di eroi traditori e rinnegati quali furono i “resistenti”.
Per far comprendere l’esatta portata delle cose, soprattutto a beneficio dei più giovani, sarà bene spiegare con chiarezza cosa fu la seconda guerra mondiale e come vi fummo coinvolti, anche perché le versioni ufficiali propagandate dai media, dai libri di testo scolastici e – sempre a scuola – dai docenti di sinistra, sono perlopiù false e inattendibili, manipolate per creare consenso attorno al sistema di potere che da settant’anni abbiamo la (s)ventura di subire.
La vulgata canonica ufficiale attribuisce la responsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale al fascismo, ai fascismi, in particolare quello nazionalsocialista, ai Tedeschi e forse in definitiva a un solo uomo: Adolf Hitler. Ora tutto questo è falso, non è altro che una mistificazione che è l’esatto contrario della realtà.
Coloro che hanno voluto, programmato, provocato la seconda guerra mondiale, hanno attirato la Germania hitleriana in una trappola, costringendola ad agire attaccando i due Paesi slavi, prima la Cecoslovacchia, poi la Polonia dove le minoranze tedesche rimaste entro i loro confini a causa del trattato di Versailles, erano oggetto di durissime persecuzioni.
E’ diverso il caso dell’Austria. Essa, una repubblichetta formata dalle terre tedesche che avevano fatto parte dell’impero asburgico, reclamava l’annessione alla Germania dal 1918. Qui era nato lo stesso Hitler, qui il nazionalsocialismo era più diffuso e sentito che nel Reich tedesco, qui le truppe della Wehrmarcht entrarono senza sparare un colpo, accolte dagli applausi e dai festeggiamenti di ali di folla festante.
Sicuramente, i regimi cecoslovacco e polacco furono incitati a perseguitare le minoranze tedesche da chi voleva provocare l’intervento della Germania nazionalsocialista e trascinarla in un nuovo conflitto mondiale, colpevole di essersi rimessa in piedi troppo presto dopo le condizioni umilianti imposte a Versailles e la crisi del 1929. La seconda guerra mondiale non è stata che il secondo tempo del conflitto iniziato, o meglio entrato nella sua fase esplosiva nel 1914, e dietro il quale si legge la tendenza della massoneria e dell’alta finanza internazionale a imporre il proprio potere planetario distruggendo le élite e l’ordine tradizionale dell’Europa, un’unica mano che si scorge già dietro le rivoluzioni “liberali” dell’ottocento, e a partire dalla rivoluzione francese del 1789.
Nel maggio 1940, dopo il crollo della Polonia e con la Francia ormai prossima alla resa, Hitler fermò le divisioni corazzate ormai che stavano per annientare il contingente britannico intrappolato nella sacca di Dunkerque. Era la mano tesa di chi voleva la pace, dopo essere stato provocato e trascinato nel conflitto.
Il grave errore di Hitler fu quello di pensare che i dirigenti britannici avessero a cuore il benessere del popolo inglese come lui aveva a cuore quello del popolo tedesco, invece di essere agenti o strumenti di una cospirazione planetaria pronta ad annientare il popolo inglese come quello tedesco o chiunque, pur di travolgere l’ordine tradizionale europeo e assicurare il dominio della plutocrazia mondiale.
In mezzo a tante menzogne che sono ormai divenute da settant’anni “la verità” ufficiale, occorre cercare di ristabilire la verità autentica anche sulla partecipazione italiana a questo conflitto. Uno dei nostri migliori storici “non convenzionali”, Antonino Trizzino, scovò un documento dell’ammiragliato britannico, che riporta all’inizio del suo libro Navi e poltrone, in cui si richiede una grossa commessa di siluri aerei in vista del conflitto ormai imminente con l’Italia, nel quale si prevedeva il teatro aeronavale avrebbe avuto un ruolo determinante, ma la cosa sorprendente è la data di questo documento, al punto che lo stesso Trizzino pensa a un errore: 1938. Vale a dire che nello stesso momento in cui Francia e Inghilterra chiedevano la mediazione di Mussolini per risolvere la crisi cecoslovacca, mediazione che portò all’accordo di Monaco, la Gran Bretagna preparava la guerra contro l’Italia, il coltello da piantarci nella schiena.
Del resto, basta pensare a quell’incredibile farsa che furono le reazioni franco-britanniche alla campagna di Etiopia, le sanzioni e tutto il resto. Ma come? Costoro avevano imperi coloniali estesi nel loro insieme a più di metà del globo terrestre e trovavano intollerabile che l’Italia sottomettesse l’Etiopia? Per loro era così essenziale che gli Etiopi godessero di quella indipendenza che negavano senza alcuno scrupolo ai popoli da loro assoggettati?
C’è un piccolo particolare che di solito non viene considerato: tutti i rifornimenti italiani diretti in Africa orientale dovevano necessariamente passare per Suez, che era in mani inglesi; sarebbe bastato loro chiudere il transito per il canale di Suez alle navi italiane per renderci impossibile la conquista dell’Etiopia. No, SI VOLEVA che prendessimo l’Etiopia, in modo da avere il pretesto per isolarci internazionalmente, non lasciarci alternative all’alleanza con la Germania e distruggere noi e i Tedeschi nella guerra che andavano preparando.
Un’altra cartina di tornasole molto rivelatrice è rappresentata dalla guerra civile spagnola. Tutte le simpatie, tutti gli aiuti da parte franco-inglese-americana andarono chiaramente alla parte “repubblicana” cioè comunista. E’ credibile che costoro sottovalutassero così gravemente il pericolo insito nel trovarsi con due stalinismi convergenti dal lato orientale e da quello occidentale del nostro continente?
O piuttosto la verità è un’altra: il comunismo era già da allora incluso nella coalizione destinata a stritolare “i fascismi” e l’Europa. Della ben nota ferocia del regime staliniano, delle sofferenze del popolo sovietico, della privazione della libertà e dei diritti umani più elementari, ai “campioni della democrazia” non fregava nulla!
Ci sono dei retroscena della nostra partecipazione alla seconda guerra mondiale, mai adeguatamente approfonditi, che ci raccontano una storia molto diversa da quella consacrata dalle versioni ufficiali. A volere la nostra partecipazione al conflitto nel giugno 1940, che i Tedeschi avevano sconsigliato giudicando impreparate le nostre forze armate, furono soprattutto la monarchia e gli alti comandi militari, che moltiplicarono le pressioni su Mussolini, prendendo a pretesto il collasso militare francese, che poteva generare l’illusione che il conflitto fosse prossimo a concludersi.
L’Italia in quel momento era nelle condizioni peggiori possibili: al cronico ritardo industriale e tecnologico rispetto alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra agli Stati Uniti, si sommava il fatto che ci trovavamo con gli arsenali vuoti, avendo da poco sopportato ben due conflitti, la guerra d’Etiopia e quella di Spagna, che Franco vinse grazie soprattutto all’aiuto italiano, ma le condizioni di impreparazione delle nostre forze armate furono ben occultate a Mussolini, a cui furono fatte credere cose molto diverse dalla situazione reale, in modo che prendesse la decisione fatale sulla base di informazioni errate.
La verità che emerge è sconcertante, eppure è incontestabile: a volere la guerra furono la monarchia e gli alti gradi militari a essa legati, e costoro perseguirono scientemente la sconfitta. I legami di casa Savoia con la massoneria internazionale non erano mai venuti meno, e ora la sconfitta militare appariva il mezzo più idoneo per sbarazzarsi del fascismo, ormai visto come un ostacolo ai disegni massonici di dominio planetario.
Nei suoi libri, soprattutto in uno dal titolo estremamente esplicito, Gli amici dei nemici, Antonino Trizzino ha raccolto un dossier impressionante di cattivo impiego delle nostre forze armate, di “errori” tattici e strategici, di sabotaggi, di informazioni passate al nemico. Era uno sporco, sporchissimo gioco sulla pelle dei nostri combattenti e della popolazione civile, sempre più coinvolta nel conflitto.
Nonostante l’indiscutibile valore dei nostri combattenti, si pensi alla Folgore a El Alamein, il fronte nord-africano crollò soprattutto per la penuria dei rifornimenti dovuta al fatto che i nostri convogli furono mandati senza scorta ad attraversare un mare dominato dalle flotte britanniche, mentre le corazzate e gli incrociatori che li avrebbero dovuti difendere rimanevano alla fonda, e i nostri marinai pagarono uno spropositato tributo di sangue del tutto inutile.
Di disastro in disastro, si arrivò all’invasione della Sicilia poi dell’Italia peninsulare nel 1943.
La capitolazione della Sicilia portò alla tempestosa seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio, che si concluse con la sfiducia a Mussolini.
L’antifascismo, va detto, soprattutto il martellamento mediatico antifascista postbellico che ci assorda da settant’anni, non è solo in malafede, è anche meschino e stupido. Ci si è voluto dare a intendere che il vistoso dimagrimento che allora Mussolini cominciava a manifestare dipendesse dal fatto che egli fosse in qualche modo consustanziale al potere e che si andasse contraendo anche fisicamente man mano che il suo potere diminuiva, una spiegazione, come si vede, degna di minorati mentali. La realtà ovvia è esattamente opposta; furono i problemi di salute da cui il duce cominciava a essere afflitto, che verosimilmente gli impedirono di predisporre le misure per cautelarsi dai nemici del fascismo, dai nemici interni dell’Italia, oltre che di seguire l’evolversi della situazione strategica come sarebbe stato opportuno. Da cosa fosse affetto, precisamente non si sa, ma si sono ipotizzati un’ulcera o un tumore allo stomaco o all’intestino.
Per gli antifascisti è sempre stato e continua a essere motivo di imbarazzo il modo “parlamentare” in cui si svolse la caduta del fascismo. Dopo aver ricevuto la sfiducia del Gran Consiglio, Mussolini si recò dal re a presentare le proprie dimissioni come un qualsiasi presidente del Consiglio; è questo il comportamento di un “dittatore”, di un “tiranno”? Di certo, è il comportamento di un uomo dalla coscienza pulita.
E’ falso che all’uscita dal quirinale Mussolini sia stato “arrestato”; in realtà fu rapito con un atto che non aveva nessuna parvenza di legalità, e portato via in incognito su di un’ambulanza. Questo sequestro di persona del tutto illegale dimostra che il re e gli altri congiurati del 25 luglio temevano la reazione dei fascisti e la reazione popolare, la popolarità di cui, nonostante i rovesci bellici, Mussolini ancora godeva.
Una domanda tuttora senza risposta è se, e fino a che punto Mussolini avesse avvertito il clima di cospirazione da basso impero che gli si stava addensando intorno. E’ tipica delle persone oneste, leali, lineari, l’incapacità di cogliere la tortuosità e la malafede altrui. Le sue parole: “Il tradito può anche essere un ingenuo, ma il traditore è sempre un infame”, si attagliavano ora alla sua situazione, ma non è da escludere che egli fosse più consapevole di quel che si crede, di ciò che si andava preparando, c’erano state delle avvisaglie di cui non era possibile non tenere conto, fra queste l’assassinio di Ettore Muti, “il più bello” e certamente uno dei più stimati gerarchi fascisti, ucciso in un agguato in stile mafioso. Può essere che egli scegliesse di ignorare queste avvisaglie e di andare incontro al suo destino per risparmiare all’Italia il sommarsi alla sconfitta militare che si andava profilando sempre più chiaramente, l’orrore della guerra civile.
In ogni caso, la figura di Mussolini campeggia come quella di un gigante in mezzo a una torma di squallidi nani intenti a trarre vantaggio dalle sventure della Patria.
Sfortunatamente, quella guerra civile che Mussolini aveva cercato di evitare, e che i fascisti cercarono di evitare non reagendo al cambiamento di regime, era dietro l’angolo.
Se si confronta il comportamento degli Italiani durante il secondo conflitto mondiale con quello dei nostri alleati tedeschi e giapponesi, diventa subito evidente una constatazione molto amara: Germania e Giappone ressero alla prova. Come l’Italia, queste due nazioni subirono una quantità terrificante di lutti e distruzioni materiali da parte di un nemico (il cosiddetto “bene assoluto”) che non si faceva alcuno scrupolo nel colpire nella maniera più atroce le popolazioni civili, eppure, a differenza dell’Italia continuarono a combattere unite fino all’ultimo, uscirono dal conflitto materialmente distrutte ma con il loro onore intatto.
Soprattutto tutto quanto è accaduto in Europa dal 1989 in poi, dimostra che nemmeno lo smembramento politico imposto alla nazione centroeuropea durante gli anni della Guerra Fredda, e neppure lo sterco che è stato versato a piene mani addosso ai Tedeschi a partire da quella tragica farsa, obiettiva quanto lo può essere la rappresaglia dei vincitori sui vinti che fu il processo di Norimberga, sono bastati a minare in questo popolo la consapevolezza e il senso di appartenenza nazionale.
L’Italia no, ha miserabilmente ceduto. Il comportamento eroico dei nostri militari in condizioni disperate, a Nikolaewka, a El Alamein e in mille altre occasioni, l’eroismo ancor più caparbio di quanti (molti di più di quanti si vuol far credere, ma sempre troppo pochi) continuarono fino all’ultimo la lotta contro lo stesso nemico, non compensa se non parzialmente la vergogna della massa pronta a cambiare casacca per saltare sul carro del vincitore.
Bisogna rendersi conto, avere il coraggio di capire, per doloroso che possa essere, che questa non è una vergogna da nascondere sotto il tappeto – non esiste un tappeto sufficientemente grande e spesso alla bisogna – ma un problema da affrontare.
Certamente, il comportamento del re, degli alti gradi dello stato e delle forze armate che per primi disertando vigliaccamente, buttandosi nelle braccia del nemico, hanno dato un repellente esempio, hanno avuto il loro peso. Come dice il proverbio, “il pesce puzza dalla testa”, ma non tutto è riducibile a ciò: si pensi alle folle plaudenti che all’indomani del 25 luglio si diedero a distruggere i simboli del regime fascista, folle composte da gente che si era dichiarata fascista fino al giorno prima e che magari negli anni precedenti al conflitto, dal fascismo non aveva ricevuto che benefici.
Certo, si imputava al fascismo la responsabilità della tragedia bellica e della sconfitta che si profilava imminente. Il popolino non poteva rendersi conto che era stato soprattutto l’antifascismo a volere la guerra, e nel contempo a sabotare gli sforzi dei nostri combattenti, a programmare la sconfitta, precisamente allo scopo di arrivare alla caduta del regime.
Eppure, questi fattori, anche se devono essere tenuti nella debita considerazione, sono ancora insufficienti per spiegare quanto è accaduto.
Gli Italiani mostrarono allora, come continuano a mostrare oggi, una sconcertante mancanza di coesione nazionale. Se noi vediamo nel suo insieme la massa dei localismi, dei separatismi che percorre il nostro Paese, possiamo giungere a una sola conclusione: gli Italiani non vogliono o non vorrebbero essere tali, si vergognano di esserlo.
Settant’anni di repubblica democratica imposta dai vincitori, vale a dire di un regime corrotto dove coloro che si sono ripetutamente avvicendati al potere hanno dimostrato sistematicamente di non avere altra finalità che quella di mettere le mani sulla cosa pubblica per interessi personali, hanno avuto ed hanno in tutto ciò un peso notevole, ma le radici di questa piaga sono molto più antiche, affondano direttamente nella nostra non esaltante storia bimillenaria fatta di invasioni e dominazioni straniere, di frammentazione politica, di assenza dello stato nazionale.
Tutto ciò ha provocato il formarsi di quella mentalità profondamente radicata, a livello conscio o inconscio, nella psiche degli Italiani che è stata definita “familismo amorale” per cui lo stato era/è semplicemente il dominatore di turno, da ingraziarsi per scamparne le furie, e da raggirare per trarne il massimo utile personale possibile.
Sessant’anni di stato nazionale liberale non avevano cambiato nulla, perché i liberali risorgimentali e post-risorgimentali avevano si dato all’Italia quell’unità nazionale che mancava da quindici secoli, ma avevano tenuto le masse popolari rigorosamente fuori dallo stato unitario, che continuava ad apparire solo come l’ultimo dei dominatori estranei succedutisi nei secoli.
Il fascismo ha fatto quello che poteva per fare dell’Italia una nazione coesa e per rendere gli Italiani fieri di essere tali, ma obiettivamente ha avuto troppo poco tempo, vent’anni erano veramente pochi per l’opera di ricostruzione morale che sarebbe stata necessaria, e ora, in quel tragico 1943, pagava colpe non sue.
La democrazia che soffriamo da quattordici lustri, non occorrerebbe nemmeno dirlo, poi, ha incancrenito tutte le piaghe.
Il cambio di fronte e di alleanze avvenuto in piena guerra, non fu soltanto un gesto infame, un tradimento vergognoso che ha gettato una macchia di discredito e di disonore sull’Italia e sugli Italiani destinata forse a rimanerci addosso per sempre, fu anche un’incredibile dimostrazione di faciloneria, di dilettantismo, di superficialità da sembrare grottesca se non fosse nel cuore di una delle più atroci tragedie, forse la peggiore in assoluto, della nostra storia.
Dei Tedeschi si può dire tutto ma non che fossero o siano degli stupidi. Tra il sequestro di Mussolini e l’armistizio seguito dal capovolgimento di fronte, passarono un mese e mezzo, un tempo più che sufficiente ai Tedeschi che avevano capito benissimo l’aria che tirava, per prendere le necessarie contromisure. Quelli che invece furono del tutto colti alla sprovvista, furono gli Italiani, le forze armate e la popolazione civile.
Tutto il succedersi degli eventi dimostra la faciloneria sconcertante di coloro che avevano defenestrato Mussolini. Il re nominò capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio. Il principale “merito” di quest’uomo era stato nella prima guerra mondiale, di essere il responsabile del disastro del 24 ottobre 1917, dello sfondamento austriaco avvenuto non a Caporetto, ma a Tolmino, il suo settore, anche se poi fu “spostato” su quello adiacente precisamente per coprire le sue responsabilità. Era stato e continuò a essere uno dei comandanti più detestati dalle truppe per la sua mancanza di qualità umane. Nelle fasi conclusive della guerra d’Etiopia, era riuscito a sostituire Rodolfo Graziani come comandante in capo, in modo da farsi attribuire senza merito la conquista di Addis Abeba e la caduta dell’impero del Negus; era insomma una nullità come uomo e come comandante, come politico riuscì presto odioso agli stessi antifascisti.
L’armistizio fu concluso nella località siciliana di Cassibile fra le autorità militari angloamericane e il plenipotenziario italiano, generale Castellano, il 3 settembre 1943, ma a questo punto Badoglio, spaventato dalla possibile reazione tedesca, non se la sentì di renderlo pubblico.
L’annuncio dell’armistizio fu dato da Badoglio la mattina dell’8 settembre dopo che il comandante americano, il generale Eisenhower, aveva minacciato di renderlo pubblico di propria iniziativa se gli Italiani non si sbrigavano a farlo, e in effetti dopo che la notizia era già stata data dalla radio canadese.
E’ importante sottolineare che questo comunicato radio fu dato in maniera del tutto irrituale, cioè senza seguire nessuna di quelle normali procedure che servivano a impedire che si potessero credere provenienti dai comandi falsi ordini diramati dal nemico, in chiaro e senza nessuna conferma in cifra. In pratica, le forze armate e l’Italia intera vennero lasciate senza ordini e allo sbando. Nulla era stato fatto per preparare le nostre truppe, soprattutto quelle che si trovavano in territorio straniero a contatto di gomito con le unità tedesche, all’imminenza del cambiamento di fronte.
E’ ben noto, ad esempio, anche perché sono settant’anni che gli antifascisti ci ricamano sopra, il tragico episodio dell’isola greca di Cefalonia, dove la nostra divisione Acqui fu massacrata dopo che i suoi comandanti si rifiutarono di cedere le armi ai Tedeschi in una situazione militarmente indifendibile. Si trattò tuttavia di un episodio relativamente isolato, la cui responsabilità, prima che sui Tedeschi, ricade sul governo Badoglio e sui comandanti della Acqui che pretesero che i loro uomini si sacrificassero senza speranza per un concetto dell’onore militare che gli alti comandi avevano già calpestato.
In generale, però la reazione tedesca fu più moderata di quel che c’era da aspettarsi date le circostanze, e di quel che la propaganda antifascista racconta: coloro che accettarono di cedere le armi ebbero il normale trattamento dei prigionieri di guerra. Chi invece decise di continuare a combattere lo stesso nemico, non ebbe problemi di sorta, ne è un esempio la Decima Mas, il cui comandante Junio Valerio Borghese optò per la prosecuzione del conflitto a fianco dello stesso alleato e contro lo stesso nemico con cui era cominciato, prima ancora della proclamazione della Repubblica Sociale.
Quello che invece gli antifascisti e i libri di storia ispirati all’antifascismo che impestano la scuola italiana, i media di regime che ci asfissiano con storie “resistenziali” e via dicendo, non raccontano, è la sorte toccata ai nostri militari già prigionieri degli angloamericani. Quelli di loro che rifiutarono di aderire al governo “cobelligerante” persero lo status garantito dalla condizione di prigionieri di guerra e furono internati nei sinistri lager noti come “Fascist criminal Camp”, il più noto dei quali fu quello di Herford in Texas, il cui scopo, fra sevizie e fame, era la loro distruzione morale e fisica. Pensate che i campioni della democrazia angloamericani non abbiano avuto i loro campi di sterminio? Ebbene, vi sbagliate!
Non certo migliore fu il trattamento riservato ai prigionieri italiani da parte dei sovietici prima o dopo l’8 settembre. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica è emersa dagli archivi sovietici fin allora impenetrabili, una lettera del leader comunista italiano (si fa per dire) Palmiro Togliatti a Stalin. Rifugiatosi nel “paradiso socialista” staliniano, Togliatti, “il migliore” era diventato segretario e uomo di fiducia del tiranno e boia del popolo russo.
Questa lettera era la risposta di Togliatti a Stalin che gli chiedeva se fosse il caso di riservare ai prigionieri italiani un trattamento meno disumano di quello riservato ai tedeschi. Togliatti rispose negativamente: ogni soldato italiano morto in Russia, avrebbe significato una famiglia di antifascisti in più in Italia. Se quest’uomo era “il migliore”, come i suoi seguaci l’avevano soprannominato, immaginate cosa dovevano essere gli altri!
Il voltafaccia dell’8 settembre fu una macchia di disonore indelebile nella nostra storia, ma quel che accadde subito dopo, fu ancora peggio, la mattina del 9 il re, la famiglia reale, Badoglio con il suo governo, fuggirono da Roma per raggiungere il sud già occupato dagli Angloamericani e andare a mettersi sotto la protezione del nemico.
Non si era mai visto fin allora nella storia che un re, un governo, gli alti gradi militari disertassero in massa, fuggissero con un comportamento che avrebbe spedito davanti al plotone d’esecuzione il più umile dei fantaccini.
A Brindisi fu costituito un governo fantoccio sotto la protezione angloamericana. Ovviamente, il voltafaccia e la diserzione facevano comodo agli “alleati”, ma questi non fecero proprio nulla per celare il disprezzo che giustamente provavano nei confronti dei loro nuovi “cobelligeranti”. Per prima cosa, imposero a Vittorio Emanuele III un’abdicazione de facto, obbligandolo a trasferire tutti i poteri al principe ereditario Umberto, che divenne luogotenente del regno, lo stesso Umberto che sarà re per un mese nel maggio 1946, l’ultimo re d’Italia.
Non ci si limitò a questo; l’aeronautica del ricostituito esercito del sud, ad esempio, fu impiegata nei Balcani in appoggio alle bande partigiane del maresciallo Tito. I nostri piloti non sapevano di contribuire al massacro della nostra gente sulla sponda orientale dell’Adriatico, ma gli “alleati” con ogni probabilità lo sapevano benissimo, ed era il più tragico dei dileggi.
Quanti avevano scelto il sud non per opportunismo, ma per un concetto di lealtà (“ubbidire agli ordini del re”) che non trovava più rispondenza nei fatti, capirono presto il clima avvelenato di vergogna e disonore che li circondava. I casi più drammatici furono quelli dell’eroe sommergibilista Carlo Fecia di Cossato che si suicidò, e dell’asso degli aerosiluranti Carlo Emanuele Buscaglia che, dopo aver rubato un bimotore Baltimore, precipitò nel tentativo di raggiungere il nord.
Certamente, non si può negare ai Tedeschi la capacità, all’occorrenza, di agire con efficienza e rapidità. Subito dopo l’8 settembre scattò l’occupazione dell’Italia, almeno delle parti ancora non invase dagli Angloamericani. Su questo rapido intervento tedesco, certamente programmato da gran tempo ed attuato nello stile dinamico del Blietzkrieg, della guerra lampo dell’inizio del conflitto, sono state scagliate da parte antifascista le più atroci maledizioni, ma io come giuliano non posso ignorare il particolare che esso venne quanto meno a interrompere gli eccidi della popolazione italiana a opera dei partigiani jugoslavi che erano già cominciati sulla sponda orientale dell’Adriatico, i primi infoibamenti, che concesse alle nostre martoriate popolazioni almeno un anno e mezzo di respiro.
Un caso esemplare, fu quello di Norma Cossetto, una ragazzina sedicenne la cui unica colpa era quella di essere figlia di un gerarca locale. Sequestrata dai partigiani jugoslavi, fu atrocemente seviziata dopo essere stata ripetutamente violentata e infine uccisa.
Catturati dai Tedeschi, quattro degli assassini partigiani furono fucilati dopo essere stati costretti a passare una notte in compagnia del cadavere della ragazza. Considerato quello che la nostra gente ha subito, è una consolazione che almeno quattro canaglie di quella infame genia abbiano avuto quello che meritavano.
L’Italia divisa in due e trasformata in campo di battaglia, iniziava il capitolo tristissimo della guerra civile che veniva a sommare i suoi orrori a quelli del conflitto.
Il 18 settembre 1943, Benito Mussolini che i Tedeschi avevano liberato dalla prigionia sul Gran Sasso e che in quel momento si trovava in Germania dove era stato portato a incontrare Hitler, annunciò dai microfoni di Radio Monaco, la costituzione di uno stato fascista e repubblicano. Iniziava l’avventura tragica, sanguinosa ed eroica della Repubblica Sociale Italiana.
La storiografia postbellica, parziale e prezzolata, dettata dai vincitori, ha qualificato la Repubblica Sociale come “stato usurpatore”; è invece evidente che essa rappresentava la continuità delle istituzioni italiane, sconvolte dalla diserzione del re e dal governo capeggiato da Badoglio. A mio parere, “stato usurpatore” si può considerare piuttosto il governo fantoccio insediato al sud, marionetta nelle mani degli invasori, premesso che con la fuga del 9 settembre, la monarchia ed esso avevano perso qualsiasi legittimità. Con quell’atto vergognoso, Vittorio Emanuele III aveva bruciato qualsiasi credibilità e qualsiasi diritto casa Savoia potesse vantare a regnare sull’Italia in ragione del passato risorgimentale (anch’esso tutt’altro che privo di ombre, ma sul quale ora non è il caso di aprire un contenzioso).
Io credo che la repubblica democratica postbellica che nel 1946 è succeduta direttamente al governicchio brindisino che la vittoria degli invasori ha esteso a tutta Italia, sia del pari un regime usurpatore: essa ha avuto settant’anni di tempo per dimostrare di non essere altro che un proconsolato dei nostri dominatori, e di essere nel contempo il regime più corrotto che si possa concepire, che ha prodotto una classe politica interessata unicamente a mettere le mani sulla cosa pubblica per fini personali, fregandosene altamente del bene e del futuro degli Italiani.
Non deve stupire il fatto che il fascismo riuscì a dare il meglio di sé proprio nella sua fase finale, quando si approssimava il crollo. La Repubblica Sociale, si può dire, fu quello che il regime sarebbe dovuto essere e non riuscì a essere che in parte, dovendo venire continuamente a patti con forze a esso estranee: la monarchia, l’alto capitale, la Chiesa. Non deve stupire, perché ora queste forze che avevano da sempre costituito le remore, avevano dissociato le loro sorti da quelle del fascismo, inoltre gli opportunisti, i tiepidi, i pavidi avevano avuto e avranno mille occasioni per farsi da parte. La RSI, pur nelle circostanze drammatiche della guerra, introdusse importanti riforme sociali: la socializzazione, ossia la comproprietà delle aziende da parte dei lavoratori, e anche l’intangibilità fiscale della casa di abitazione, considerata non una fonte di reddito, ma un’estensione della persona (oggi, sotto dittatura liberista, la casa è il bene più tassato).
Tuttavia, la RSI non fu solo questo, TRASCESE, si può dire, il fascismo, mirando alla salvaguardia della nazione, al riscatto del suo onore cancellando il tradimento dell’8 settembre, e della sua persistenza fisica, difendendo i confini dai nemici e le popolazioni dall’aggressione “alleata”. L’aeronautica, ad esempio, transitò quasi per intero nei ranghi della RSI, e questo non perché essa fosse “un’arma fascista” come è stato sostenuto dall’imbecille storiografia postbellica, ma perché i quadrimotori “alleati” continuavano a bombardare le nostre città e a fare strage della nostra popolazione civile. “Purché l’Italia viva”, e non “purché il fascismo viva”, fu il motto dei combattenti della RSI.
Prendiamo ad esempio, uno fra i tanti, Adriano Visconti, l’asso dell’aviazione da caccia repubblicana: non è possibile quantificare il numero di nostri connazionali che salvò abbattendo i bombardieri “alleati” che andavano a seminare morte sulle nostre città. La “ricompensa” che ne ebbe fu una raffica di mitra alla schiena dopo essersi arreso col suo reparto al momento della capitolazione.
La difesa dei confini nazionali fu sempre per i combattenti della RSI un obiettivo assolutamente prioritario, ad esempio, poco prima della resa definitiva sventarono un tentativo dei francesi gollisti di impadronirsi di Aosta, ed è merito esclusivamente loro se ancora oggi essa è una città italiana, un atteggiamento del tutto opposto a quello degli antifascisti “resistenziali” per i quali la terra italiana e la gente italiana erano merce di ben scarso valore, come le vicende del confine orientale dimostrarono a sazietà.
Occorre smentire con la massima energia la vulgata resistenziale postbellica, del tutto falsa, secondo la quale, più che come unità combattenti, quelle della RSI fossero impiegate soprattutto nella lotta antipartigiana. Le SS italiane, ad esempio, ad Anzio e Nettuno dimostrarono un tale valore da guadagnarsi le mostrine nere al posto di quelle rosse indossate da tutte le SS non tedesche. Sul Serchio, le truppe repubblicane sfondarono il fronte alleato, un successo tattico che non fu possibile trasformare in una vittoria per la penuria di uomini e di mezzi, ma che nondimeno dimostra il valore disperato di questi uomini nell’estrema difesa della patria.
E’ sciaguratamente vero che, man mano che la situazione militare si faceva più drammatica, costoro dovettero sempre può spesso difendersi dagli attacchi partigiani, di coloro che man mano che la conclusione del conflitto si profilava inevitabile, cercavano di guadagnarsi benemerenze agli occhi del nemico.
Sul fronte opposto, sotto l’ala protettrice degli invasori, gli antifascisti organizzarono quell’azione di fiancheggiamento dell’invasione nemica che fu mistificata come “liberazione nazionale”.
Qui si nota subito che mentre il risicato esercito del sud ebbe un ruolo del tutto marginale e di facciata, quella che invece prese piede e si sviluppò, fu la guerriglia partigiana.
Le tecniche della guerra per bande, il colpire il nemico alle spalle e defilarsi rapidamente, i sabotaggi che colpivano prima che le forze combattenti, le linee di comunicazione e di rifornimento, furono sviluppate dai sovietici dopo la rapida avanzata tedesca del 1941, quando l’operazione Barbarossa sembrava destinata al pieno successo, soprattutto a opera di unità dell’Armata Rossa rimaste tagliate fuori dal resto delle forze sovietiche, dietro le linee tedesche. Si trattava però di un fenomeno ancora diverso dalla guerra partigiana come si sarebbe sviluppata in seguito, perché impegnate in essa erano ancora soprattutto regolari unità combattenti.
Tuttavia occorre sottolineare il punto, foriero di pesanti conseguenze, che i comunisti, strettamente legati all’Unione Sovietica, erano preparati a questo tipo di lotta o guerriglia a un livello tale che gli altri antifascisti neppure si sognavano, ma per spiegare il carattere fortemente ideologico di sinistra e la schiacciante superiorità che i comunisti acquisirono fin da subito fra le formazioni partigiane, occorre considerare anche un altro elemento: nei Paesi che erano stati invasi dai Tedeschi, la lotta partigiana assunse effettivamente un carattere “di liberazione nazionale”; pensiamo al maquis francese che riconosceva il suo leader in Charles De Gaulle, cosa che non portava certo a un’impostazione di sinistra. Ciò non toglie, naturalmente, che costoro fossero degli illusi, TUTTE le nazioni europee, anche quelle nominalmente vincitrici, erano destinate a finire sconfitte, sotto il tallone americano e sovietico. I francesi che militarono nella divisione Waffen SS Charlemagne servirono più adeguatamente la loro patria oltre che la causa europea.
Il caso dell’Italia era diverso: l’Italia era stata alleata della Germania e fascista fino al settembre 1943, in Italia la guerra partigiana non poteva che essere ideologica di sinistra, e la “liberazione nazionale” niente altro che un alibi pretestuoso.
E’ certamente un abuso il fatto che per indicare il fenomeno partigiano si sia usato il termine “resistenza”; a RESISTERE con tutte le loro forze al nemico che stava invadendo la penisola schiacciando anche la difesa più eroica e disperata grazie a una preponderante superiorità di mezzi, furono piuttosto i ragazzi della RSI.
Ho poi sempre trovato un bell’esempio di umorismo involontario il fatto che la prezzolata storiografia postbellica al servizio dei vincitori sia arrivata a chiamare il fenomeno “resistenziale” “secondo risorgimento”, quando si pensa che a usare quest’espressione sono spesso quegli stessi storici di sinistra che poi si danno un gran daffare per spiegarci quanto il risorgimento, quello ottocentesco, fosse meschino e spregevole; e allora, sarebbe meglio che si risparmiassero troppi giri di parole e ci dicessero direttamente che la cosiddetta resistenza è stata un fenomeno meschino e spregevole.
Il termine “partigiano”, invece, lo trovo assolutamente adeguato, dato che già prima di allora significava di parte, fazioso, in malafede.
I mali più persistenti dell’Italia traggono origine da questa situazione: fu la superiorità “militare” del periodo resistenziale che permise al PCI di diventare il partito egemone della sinistra, con il risultato di portare a quella “democrazia bloccata” che permise alla DC di rimanere permanentemente il partito di governo e, non avendo da temere la sanzione popolare del voto, di dare vita a un esteso sistema di corruzione e di appropriazione della cosa pubblica, di cui poi anche il PCI divenne largamente beneficiario.
Io vorrei essere chiaro: credo che la democrazia sia un sistema bugiardo, un’illusione: la sovranità popolare è una favola: all’indomani del conflitto, i popoli europei non ebbero alcun diritto di scelta, erano già stati spartiti come bestiame, era stata già decisa l’aggregazione al blocco comunista o a quello “occidentale” americano, e oggi vediamo bene che non sono liberi nemmeno di decidere di continuare a esistere, ma si è già preventivata la loro sparizione nel caos multietnico. Libertà? Ma è la favola di Babbo Natale, basta pensare alle leggi liberticide che esistono ovunque, e in questi anni si sono moltiplicate, che proibiscono di rimettere in discussione la versione della storia raccontata dai vincitori, e che dovrebbero legittimare per l’eternità il loro sistema di potere!
Tuttavia, è innegabile che anche fra le democrazie esiste una certa gradualità, che ne esistono di più sopportabili e di peggiori, e la democrazia italiana, dove non è mai esistita un’alternanza di governo fra socialdemocratici e liberal-conservatori, dove il timore di perdere il confronto elettorale non ha mai fatto remora alla corruzione, si è collocata presto, e si colloca tuttora fra le peggiori che esistano.
Bisogna poi considerare gli effetti di quella che potremmo chiamare la “pedagogia resistenziale”.
Per i comunisti, la conclusione del conflitto con l’assegnazione dell’Italia al blocco “occidentale” dominato dagli Stati Uniti che rimandava sine die la “rivoluzione” e la loro presa del potere, fu ovviamente una delusione. Costoro inventarono la leggenda di aver “liberato” l’Italia dai Tedeschi e dai fascisti, salvo poi l’arrivo a cose fatte degli angloamericani che li avrebbero disarmati e strappato la vittoria di mano.
Oltre che obiettivamente falso, era un’assurdità: i metodi della guerriglia partigiana portarono al più ad azioni di disturbo che resero più precaria la situazione dei Tedeschi e dei combattenti della RSI, e li costrinsero a distogliere forze dal fronte; non solo se l’Italia non si fosse trovata sotto la pressione di un’invasione, essi sarebbero stati inapplicabili, e senza contare ovviamente il fatto che i partigiani ricevettero dagli “alleati” un costante approvvigionamento di armi e rifornimenti di ogni specie. In pratica costoro furono le mosche cocchiere dell’invasione, anche se bisogna ammettere che si trattò di tafani particolarmente grossi e velenosi.
Se si ripete qualcosa abbastanza a lungo e in maniera sufficientemente martellante, per quanto falso e assurdo, c’è sempre qualcuno che ci crede. In questo caso, la menzogna non riguardava solo la bontà della propria parte, ma anche l’efficacia “militare” dei metodi resistenziali, vale a dire sabotaggi, attentati, pistolettate alla schiena ai “nemici” presi isolatamente in agguati di tipo mafioso, e simili. Ora, provate solo a immaginare che qualcuno allevato in un simile clima dominato da nozioni distorte non solo dal punto di vista politico ma anche da quello strategico, decida di riprendere in mano simili metodi per portare a compimento quella rivoluzione che i padri non avevano potuto fare fino in fondo o che si erano lasciata scippare.
L’assurdo e avvelenato clima di violenza politica degli anni ’70 sono stati il prodotto più conseguente della pedagogia resistenziale, e le Brigate Rosse con la scia di attentati, di delitti, di morti ammazzati assolutamente inutile, sono state le figlie più legittime e carnali della sedicente resistenza.
Questo lo si vede molto bene dal fatto che molti brigatisti non solo erano figli di partigiani, ma spesso i loro primi attentati furono fatti con armi che i loro padri avevano nascosto e accuratamente conservato invece di consegnare, nell’attesa appunto, di “riprendere la rivoluzione”, e il culto feticistico delle armi che, usate ripetutamente in più attentati, finivano per assumere agli occhi dei loro possessori una sorta di sacralità, è un altro tratto che lega in maniera evidente la “resistenza” partigiana al terrorismo brigatista.
Un clima intossicato di faziosità e di violenza politica che ha condizionato la storia italiana per decenni, e non si è dissipato nemmeno oggi.
A volte, i mentitori di professione sono stranamente sinceri, la verità che vorrebbero celare e negare sfugge proprio dalle loro labbra (o, il che è lo stesso, dalle loro penne e tastiere).
Almeno sotto forma di un’ammissione parziale, la verità sulla “resistenza” è sfuggita proprio a una delle vestali autorizzate al lugubre culto della leggenda resistenziale, Giorgio Bocca, che ha scritto: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce».
Sarebbe una descrizione perfetta della strategia di azione partigiana, salvo il fatto che non mette adeguatamente in luce un punto: non si tratta di AUTOlesionismo, in quanto la rappresaglia non va a colpire gli autori dell’azione terroristica, perché coloro che sono oggetto sono costretti a reagire colpendo alla cieca, e chi ci va di mezzo sono i civili incolpevoli. Noi forse ora capiamo meglio cosa fu la strategia “resistenziale”, un piano deliberato, progettato a tavolino, per scavare un solco di odio sempre più profondo e incolmabile tra le truppe tedesche e coloro che continuavano a combattere l’invasore da una parte, la massa della popolazione dall’altra, attraverso la catena di sangue attentato-rappresaglia-attentato-rappresaglia. E’ un metodo che i comunisti hanno usato con ottimi risultati non solo allora, ma ad esempio durante la guerra del Vietnam.
Alla base di tutto ciò, c’è il brutale cinismo, il totale disprezzo per la vita umana dell’ideologia della falce e martello, che considera gli uomini solo come pedine da muovere o sacrificare senza scrupolo in vista della conquista del potere.
Ai capi partigiani veniva raccomandato di colpire i fascisti più moderati e ragionevoli; coloro che più facilmente avrebbero ecceduto nella rappresaglia rendendo la loro causa invisa alla popolazione, rappresentavano un capitale da conservare fino alla fine.
L’incauta rivelazione che ho citato più sopra, fa parte di una storia molto interessante. Una dozzina di anni fa, uno storico di sinistra (che nonostante la sua indubbia formazione in tal senso, dalla sinistra è stato espulso per il vizio intollerabile di dire la verità), Giampaolo Pansa, lavorò a un libro sui combattenti della RSI, I figli dell’aquila. Commise però l’errore imperdonabile di non accontentarsi della solita versione ufficiale, trita e ritrita, dei fatti, ma di scavare un po’ più a fondo; saltarono fuori testimonianze che svelarono il vero volto atroce della “resistenza”. La cosiddetta liberazione fu mattanza feroce, vendetta e massacro spietato dei vincitori sui vinti, soprattutto a partire dal 25 aprile 1945, quando cioè i combattenti repubblicani avevano deposto le armi ed erano ormai indifesi.
Molto spesso, più spesso di quanto non si creda, l’alibi resistenziale servì a coprire delitti che non avevano nemmeno la “giustificazione” ideologica: massacri per compiere rapine, uccisione di persone che avevano avuto solo la colpa di essere testimoni dei fatti. In quelle “radiose” giornate lorde di sangue, non occorreva essere fascisti per cadere sotto gli artigli assassini delle bande partigiane: fossero preti o borghesi o portassero semplicemente una divisa, tutti coloro che costoro pensavano potessero essere d’ostacolo alla “rivoluzione socialista” che costoro pensavano essere imminente, furono brutalmente uccisi, ma per finire nel mirino dei partigiani bastò ancora meno: essere proprietari di qualcosa di cui qualcuno di loro voleva impadronirsi, o anche essere una bella ragazza il cui corpo eccitava in qualcuno di loro lubriche voglie di stupro.
Queste testimonianze che lacerano in maniera impietosa l’idilliaco e ipocrita quadretto della “liberazione” che ci viene ammannito da settant’anni, furono raccolte da Pansa in un altro libro che divenne un best seller: Il sangue dei vinti, e la frase di Bocca fa parte di un tentativo di confutazione del libro di Pansa, una difesa più o meno d’ufficio della favola resistenziale, ma la verità è come il sughero, se si smette di spingere per tenerla sommersa, se ci si distrae un momento, viene a galla.
A Il sangue dei vinti sono seguiti una serie di testi che hanno approfondito e reso sempre più chiaro il quadro fin allora nascosto dalle menzogne “resistenziali”: Sconosciuto 1945, La grande bugia e La resistenza demitizzata. Non poteva mancare un contributo proveniente dalla nostra Area, ci ha pensato l’ottimo Lodovico Ellena con le pagine strappate della resistenza, un testo più smilzo di quelli di Pansa, anche perché non ha avuto accesso alla raccolta di altrettante testimonianze, ma non meno significativo.
In La resistenza demitizzata, Pansa rende anche un doveroso omaggio a quello che è stato il grande storico “non ufficiale” della Repubblica Sociale e dei suoi combattenti, Giorgio Pisanò, ricordando che Pisanò, dopo aver scritto la sua documentata opera Gli ultimi in grigioverde (i combattenti della RSI furono infatti gli ultimi a indossare il “nostro” grigioverde che i padri avevano portato nelle trincee del Carso e i combattenti di allora in Grecia e nelle steppe russe, mentre lo pseudo-esercito brindisino e le forze armate postbelliche adottarono servilmente il cachi degli “alleati”) non trovò nessun editore disposto a pubblicarla, e allora decise di trasformarsi egli stesso in editore. La sua tipografia fu distrutta quattro volte da attentati rimasti tutti rigorosamente senza colpevoli individuati. I metodi con cui si difende la favola resistenziale somigliano stranamente a quelli della mafia.
Le cose sono arrivate al punto che all’epoca un vecchio partigiano che doveva essere una persona che aveva conservato un briciolo di moralità e un ricordo disgustato di quell’ “eroica” esperienza, scrisse una lettera al presidente della repubblica implorandolo di abolire l’immonda e vergognosa festività del 25 aprile, nella quale descriveva così i suoi compagni di allora:
“Pochi idealisti, molti delinquenti”.
Poi le cose hanno ripreso il loro corso, tutto è rimasto come prima, fidando nell’eterna smemoratezza della gente.
Alla brutalità della violenza partigiana, ha sempre fatto da contrappunto la vigliaccheria e l’opportunismo di gente, che purtroppo ha dimostrato di essere una parte non piccola della nostra popolazione, pronta a saltare senza pudore sul carro del vincitore.
A questo riguardo, si può riportare questa testimonianza di Jack Belden, corrispondente di guerra americano durante lo sbarco in Sicilia:
“Strane cose sono accadute qui. Una colonna americana di camion, cingolati, cannoni d’assalto, carri Sherman e camionette si era fermata in fila indiana nel mezzo del paese. Attorno a questa, dai balconi con balaustre di ferro, ragazzi e vecchi gridavano e gesticolavano sventolando drappi bianchi e fazzoletti come fossero bandiere di gioia. Tra le grida spesso si udivano le parole “bravo americano” (…) Appena al di là della folla che ci dava il benvenuto, una colonna di soldati italiani marciava su un lato della strada con le braccia alzate sulla testa … un altro soldato camminava con le lacrime che gli scorrevano lungo il viso. Quei prigionieri guardavano con aria stupefatta il popolo che acclamava gli invasori e i conquistatori che fino ad alcuni minuti prima essi avevano cercato di tenere fuori dal paese. Mai avevo visto uno spettacolo più pietoso”.
Senza dubbio, la vigliaccheria, il servilismo, il voltagabbanismo hanno fatto comodo al nemico e invasore, trasformato in “alleato” e in “liberatore”, ma hanno gettato su di noi ai suoi stessi occhi la vergogna e il discredito, la vergogna e l’umiliazione peggiore della nostra storia bimillenaria che noi “festeggiamo” il 25 aprile.
Mentre tutto questo succedeva nell’interno dell’Italia, cosa accadeva ai nostri confini? Anche questo è un capitolo della nostra storia su cui la vulgata storiografica ufficiale preferisce stendere un velo di oblio e di censura.
Io non so se Stalin o Tito abbiano mai letto il Mein Kampf di Adolf Hitler, ma di certo hanno realizzato alcuni concetti in esso espressi con sorprendente radicalità. Hitler spiegava che il suolo straniero può sempre essere annesso, ma il sangue straniero non può essere assimilato; o lo si allontana o lo si elimina.
Bene, ciò è esattamente quello che costoro hanno fatto: non ci sono dubbi che nel 1943-45 è scattato un piano in grande stile per far avanzare il mondo slavo ai danni di Germania e Italia. Nel 1939 vivevano nei territori a oriente del fiume Oder quindici milioni di tedeschi. Dopo la guerra, si sono contati dodici milioni di profughi, e tre milioni di persone dove sono finiti? Ne abbiamo un’idea piuttosto precisa. Nel febbraio 1945 i Tedeschi riconquistarono temporaneamente alcuni villaggi della Prussia orientale che erano già stati occupati dai Sovietici.
Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu tale da sconvolgere i più incalliti veterani; gli abitanti che non erano riusciti a fuggire, esclusivamente donne, anziani e bambini, erano stati massacrati in maniera orribile, bruciati vivi dopo essere stati inchiodati alle porte delle case. Tutti i cadaveri femminili portavano i segni di ripetuti stupri, compresi quelli di bambine di tre anni di età.
Massacrare le vittime nella maniera più atroce per terrorizzare gli altri e costringerli alla fuga; questo è stato il metodo usato dai “compagni” per modificare la carta etnica dell’Europa. I “compagni” dimostrarono di aver capito benissimo QUEL CHE FANNO FINTA DI NON SAPERE: a fare la nazionalità non sono la cultura, gli apprendimenti, i fattori acquisiti, la lingua, e tanto meno quella finzione burocratica scritta sui documenti (la carta si lascia scrivere!) che è la cittadinanza, ma unicamente il sangue, l’eredità biologica.
In alto Adriatico, gli jugoslavi del maresciallo Tito usarono esattamente gli stessi metodi con le stesse finalità, e in questo caso ricevettero un aiuto non trascurabile dalla morfologia del suolo. Esso nei nostri territori è prevalentemente calcareo; il dilavamento delle acque vi ha nel corso dei millenni formato numerose caverne e inghiottitoi naturali detti FOIBE. Un metodo rapido ed efficiente per eliminare migliaia di persone fu attuato dagli assassini con la stella rossa: si portavano gli italiani prigionieri (CIVILI, in massima parte vecchi, donne e bambini) legati in lunghe file indiane sull’orlo di questi abissi, si uccidevano i primi a colpi di mitra, e questi cadendo trascinavano con sé tutti gli altri. La SINISTRA (in tutti i sensi) pratica dell’infoibamento era rapida e permetteva di fare economia di pallottole; richiedeva poco tempo agli assassini, ma le vittime potevano restare ad agonizzare sul fondo delle caverne per ore, talvolta per giorni.
Quanto all’entità di questo massacro, nonostante tutti i tentativi di minimizzazione, il numeri sono chiari: prima della guerra nella Venezia Giulia poi annessa dal nemico, in Istria, Fiume, Dalmazia viveva mezzo milione di persone di nazionalità italiana. Dopo la guerra si sono contati 350.000 profughi. Mancano all’appello 150.000 persone, vittime della prima grande “pulizia etnica” dei Balcani, massacrate in maniera atroce per nessun’altra colpa se non quella di essere italiani.
In un’intervista del 1991, Milovan Gilas, ex collaboratore di Tito e poi dissidente, in un’intervista televisiva quantificò in 30.000 le vittime delle foibe, e aggiunse con sconcertante candore: “Li ammazzammo non perché fossero fascisti, ma perché erano italiani”.
Bisogna però tenere presente che un assassino tenderà sempre a minimizzare, non a enfatizzare le proprie responsabilità.
Le vittime italiane in alto Adriatico furono un ventesimo dei civili tedeschi massacrati dall’Armata Rossa, questo però non significa che gli jugoslavi fossero meno feroci dei sovietici, ma solo che il “teatro di operazioni” era più ristretto, la bestialità assassina slavo-comunista era la stessa in entrambi i casi, e in entrambi penso che si possa parlare di GENOCIDIO, due dei genocidi di cui si è macchiata l’ideologia sanguinaria con la falce e martello, e che una storiografia prezzolata e una scuola venduta vogliono impedire ai nostri giovani di conoscere.
Chi, come i partigiani comunisti italiani, aveva abbracciato il nemico della propria gente per astrattezza ideologica, doveva rimuovere la consapevolezza del carattere etnico, oltre che ideologico, che il conflitto ha necessariamente avuto. Per i comunisti italiani, esso fu guerra ideologica, e combattuta su due fronti, contro tedeschi e fascisti, e contro le forze partigiane non comuniste, perché durante il conflitto l’unità antifascista è esistita quanto la fata dai capelli turchini, e il fine dei comunisti non era il “ristabilimento della democrazia” ma l’avvento anche in Italia di una dittatura di tipo sovietico.
Un modo semplice e perfettamente in linea con questa impostazione di doppia guerra civile, era quello di denunciare le bande partigiane rivali, e segnalarne i movimenti alle SS. Sebbene non fosse certo il solo, eccelse in questa pratica il capo partigiano comunista Salvatore Moranino. Per evitargli guai giudiziari che avrebbero gettato una sgradevole luce di verità su tutto il partito e sulla vicenda resistenziale attorno alla quale si stava costruendo l’epopea fittizia che dura ancora oggi, nel dopoguerra, il PCI fece in modo che fosse eletto deputato per due legislature. Alla terza il gioco non riuscì, e allora Moranino scappò in Cecoslovacchia dove ottenne la qualifica di perseguitato antifascista, cosa che si attagliava alla perfezione a un ex confidente delle SS, e una rubrica ai microfoni di radio Praga, con il compito di diffamare e insultare l’Italia, che non aveva voluto diventare un tassello del blocco sovietico.
L’episodio che fa capire meglio il fenomeno resistenziale, tuttavia è probabilmente la strage delle Malghe di Porzus. In questa località friulana, i comunisti della Brigata Garibaldi, dopo aver circondato e catturato con l’inganno i partigiani non comunisti della Brigata Osoppo, li macellarono come capretti. Il motivo non è un mistero: le brigate partigiane operanti in Friuli avevano ricevuto l’ordine di mettersi alla dipendenza del IX Corpus jugoslavo, e quelli della Osoppo rifiutarono di obbedire a un atto che prefigurava l’annessione alla Jugoslavia delle nostre terre fino al Tagliamento e oltre. Il lavoro sporco, gli jugoslavi, stavolta preferirono farlo fare agli italiani, talmente idioti da non capire il carattere etnico della guerra.
Con ogni probabilità c’era un accordo fra Togliatti e Tito: la Venezia Giulia e tutto il Friuli alla Jugoslavia in cambio dell’aiuto a “fare la rivoluzione” in Italia. Per i comunisti, la terra e la gente italiana erano e sono merce di poco o nessun valore.
E’ degno di nota anche come si svolse il 25 aprile a Trieste, una tragedia non priva però di una nota grottesca: i membri del CLN triestino “insorsero” e costrinsero alla resa i tedeschi che se ne stavano andando; quindi andarono incontro festosi agli jugoslavi del IX Corpus che stavano arrivando in città. Questi ultimi, quando videro le fasce tricolori al braccio, li catturarono e li fucilarono senza porre tempo in mezzo, non avevano mai dimenticato neppure per un istante che la loro non era una guerra contro il fascismo, ma contro l’Italia.
Trieste fece la terribile esperienza del pugno di ferro slavo-comunista per un mese e mezzo, fino a quando le truppe neozelandesi non scacciarono gli jugoslavi dalla città; se questo non fosse avvenuto, Trieste sarebbe diventata un pezzo di Jugoslavia come il 90% della Venezia Giulia prebellica, come l’Istria, come Fiume, come la Dalmazia, con la presenza italiana scomparsa o ridotta a un’esigua minoranza. In quaranta giorni gli jugoslavi trucidarono tremila persone che furono gettate nella foiba di Basovizza; fortunatamente, non ebbero il tempo di fare un lavoro più accurato.
Nel film Excalibur, John Boorman mette in bocca al suo Merlino queste parole: “La maledizione degli uomini, è che dimenticano”.
Vero, assolutamente vero, e sarà tanto più facile dimenticare se al ricordo si sostituisce una rappresentazione fittizia orchestrata dal sistema mediatico per nascondere cosa questa celebrazione del 25 aprile realmente sia: la sagra della viltà, del tradimento, del piantare il coltello nella schiena dell’alleato di ieri e nella carne della nostra gente, dell’abiezione, della vergogna.
da www.ereticamente.net