GLI STATI UNITI ED IL RESTO DEL MONDO

GLI STATI UNITI ED IL RESTO DEL MONDO
400 anni di storie americane
L’IMPERO GIUDAICO-MASSONICO DALLE ORIGINI ALL’ALBA DEL 2000

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INTRODUZIONE

 

Gli Stati Uniti  ci hanno abituato a soprusi e violenze.  La  loro storia offre il ripetersi di comportamenti ed episodi sempre immancabilmente tragici e simili che devono imporre una riflessione su come questo popolo o i suoi governi si pongano nei confronti del resto del mondo:

– la demonizzazione dell’ avversario…
– la  montatura di pretesti per scatenare una guerra…
– la presuntuosa arroganza nel considerarsi portatori di una missione civilizzatrice da imporre con le buone o con le cattive al mondo…
– la doppiezza di chi, mentre incolpa gli altri di comportamenti, violenze e nefandezze di ogni genere,  nascostamente commette azioni simili se non peggiori…
– l’ ipocrisia, di chi pur commettendo crimini, è sempre pronto a trovare ragioni per autoassolversi… 

IL GENOCIDIO DEI NATIVI E LE PRIME GUERRE DI ESPANSIONE

 1620-1900

 

 I WAMPANOAG ED IL GIORNO DEL RINGRAZIAMENTO

Il quarto giovedì di novembre negli Stati Uniti si festeggia  il Thanksgiving Day, la Festa del Ringraziamento, probabilmente la celebrazione più tradizionale e sentita del paese.

In occasione della ricorrenza, in tutto il paese si susseguono le manifestazioni dedicate all’ avvenimento: soprattutto si organizzano rappresentazioni, dedicate ai bambini e, spesso, interpretate dai bambini, in cui si può assistere alla rievocazione di quella che, secondo tradizione, fu la prima Festa del Ringraziamento, organizzata dai Padri Pellegrini per ringraziare il Signore del primo raccolto nella nuova terra.

Nelle rappresentazioni si rievoca anche la partecipazione alla Festa dei saggi indiani Wampanoag che avevano assistito ed aiutato i puritani a superare il primo duro inverno sul nuovo continente ed avevano insegnato loro come coltivare le piante tipiche del nuovo mondo e li avevano riforniti dei prodotti della nuova terra. Nelle rievocazioni si vedono i buoni Padri Pellegrini invitare i saggi indiani Wampanoag e questi partecipare alla festa portando con se cacciagione e gli immancabili tacchini.

In queste festose rievocazioni non viene mai raccontato il destino di quegli amichevoli indiani che pure aiutarono i primi emigranti a sopravvivere, persino i libri di storia sono avari di parole circa gli avvenimenti successivi.

I Puritani

Nel 1620 una nave inglese, la Mayflower, con a bordo un centinaio di profughi religiosi appartenenti alla setta dei puritani, attraversò l’Atlantico e, inizialmente diretta in Virginia, approdò alla fine nella baia di Cape Cod. Il primo inverno fu piuttosto duro per loro: erano arrivati troppo tardi per seminare ed avere un raccolto, e senza del cibo fresco metà della colonia morì di fame o per malattie.

I puritani erano gli adepti di un movimento rigorista inglese, fortemente contrari all’assetto episcopale e alla supremazia dei sovrani sulla chiesa.  Durante il regno di  Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, furono estromessi dalla vita politica e dalle cariche pubbliche attraverso  l’Atto di supremazia(1559). che imponeva che i pubblici ufficiali prestassero giuramento riconoscendo l’ autorità del sovrano. I puritani si diedero allora una organizzazione separata e molti  presero la via dell’esilio verso l’ Olanda e l’America settentrionale.

Atto di Supremazia

Il primo Atto di Supremazia fu promulgato da Enrico VIII nel 1534. In esso il Parlamento riconosceva il re quale ” supreme head of the Church of England”. Come noto alla base dell’ atto di supremazia c’era la volontà di Enrico di  annullare il suo matrimonio con Caterina d’ Aragona (annullamento rifiutato dal papa) e convolare a nozze con Anna Bolena. La promulgazione del Supremacy Act è  considerato l’ atto che sancisce la separazione della Chiesa d’ Inghilterra dalla Chiesa Cattolica Romana.
Nel 1544 Enrico VIII, con l’Act of Succession, aveva indicato la linea di successione designando come erede al trono,  Edoardo unico maschio, figlio di Enrico e della sua terza moglie Jane Seymour. Dopo Edoardo la linea di successione voluta da Enrico  prevedeva la cattolica Maria figlia di Enrico e della prima moglie Caterina d’ Aragona.
Alla morte di Enrico avvenuta nel 1547, fu proclamato re Edoardo che aveva 10 anni quando salì al trono. Cagionevole di salute, Edoardo morì  nel 1552 a 16 anni, non prima di aver tentato di  apportare delle modifiche alla legge di successione al trono per evitare che ricadesse nelle mani dei cattolici. Tuttavia Maria, forte della legge di successione e supportata dal popolo, si sbarazzò velocemente dell’ usurpatrice Jane Grey, cugina di Edoardo e che fu regina d’Inghilterra per soli 9 giorni.
Maria, in seguito soprannominata la sanguinaria per aver represso nel sangue una cospirazione rivolta ad assassinarla per insediare al suo posto la sorellastra protestante Elisabetta (figlia di Enrico e di Anna Bolena), restaurò il cattolicesimo ed abrogò l’ Act of Supremacy del padre.
Alla improvvisa morte di Maria per un tumore al ventre, salì al trono Elisabetta che promulgò nel 1559 un secondo Atto di Supremazia   leggermente e sottilmente diverso dal primo (nella ridefinizione della supremazia religiosa del re fu, in qualche modo, più prudente in quanto assunse il titolo di “Supremo Governatore della Chiesa d’Inghilterra”, piuttosto che di “Capo Supremo”).
L’ Atto di supremazia di Elisabetta è più importante per quanto riguarda l’ argomento in oggetto ( i puritani) per varie ragioni. Innanzitutto,  ovviamente, era l’ atto effettivamente in vigore all’ epoca essendo stato il precedente, come detto, abrogato da Maria. in secondo luogo in realtà sono proprio gli atti del 1959 ( l’ Atto di Supremazia e l’ Atto di Uniformità con le modifiche al Prayer Book) a definire in maniera organica il corpus della chiesa anglicana e quindi, in questo senso, sono, forse, più significativi dell’ Atto di Supremazia originario di Enrico: l’ insieme di questi atti è infatti chiamato la “riorganizzazione religiosa della regina Elisabetta”. Infine Elisabetta non aveva molte simpatie per i puritani e questi atti (ed anche altri che furono promulgati successivamente dalla sovrana) avevano sicuramente un calcolato intento di colpire anche i puritani. L’ atto di Uniformità, dopo la tempesta della guerra civile, fu poi riformulato nuovamente nel 1662 da Carlo II.

Successivamente al periodo dell’ esilio, in cui si inquadra il viaggio della Mayflower, i puritani  furono tra i principali attori della  guerra civile che  per venti anni sconvolse l’ Inghilterra e che, a partire dal  1640, vide schierati da una parte il re, gli inglesi anglicani, gli scozzesi presbiteriani, l’ aristocrazia ed addirittura, successivamente, i cattolici irlandesi (che giunsero ad allearsi con i realisti inglesi contro il comune nemico) e dall’ altra appunto i protestanti settari, il  parlamento, la media borghesia, la piccola nobiltà terriera.

I rivoluzionari governarono l’Inghilterra per quasi venti anni,  processarono e condannarono a morte Re Carlo I, misero a ferro e fuoco l’ Irlanda cattolica e ne espropriarono le terre a favore degli inglesi (se in Irlanda del Nord oggi ci sono molti protestanti è la conseguenza della politica di “pulizia etnica” promossa dai re d’Inghilterra ma, soprattutto, da Cromwell, che  assegnò a coloni inglesi e scozzesi le terre migliori).
Il ventennio della guerra civile e della predominanza del parlamento e dei puritani, finì con la morte di Cromwell (1658)   e con la restaurazione di Carlo II Stuart figlio di Carlo I.

Nel 1662 Carlo II  promulgò l’ “Atto di Uniformità” con il quale imponeva l’ adozione di una forma leggermente riveduta del Prayer Book elisabettiano, il libro principale della chiesa anglicana, fortemente osteggiato da puritani e calvinisti. Inoltre, in base all’ “Atto di Uniformità”,  tutti i ministri di culto dovevano pubblicamente dare il loro consenso ed assenso non finto al Prayer Book, e ricevere la consacrazione da parte del vescovo, se questa non era ancora stata per loro eseguita. Doveva pure essere fatto un giuramento di fedeltà e di ripudio del “National Coveranno” il documento espressione del calvinismo ortodosso contro la chiesa anglicana. Questi provvedimenti condussero alla grande espulsione (Great Ejection) di circa 2000 ministri.   La destituzione dei pastori e le incarcerazioni seguite alla proclamazione dell’Atto di Uniformità  determinarono la crisi del puritanesimo. Nonostante la successiva piena libertà ottenuta con il Toleration Act (1689) il movimento, si andò esaurendo in Inghilterra, ma lasciò tuttavia una importante eredità nel Nuovo mondo. La piccola colonia dei “padri pellegrini” della Mayflower sbarcati nel Massachusetts il 21 dicembre 1620 fu seguita dalla grande migrazione dei puritani che fondarono Boston nel 1630.

Fuggiti dunque dai contrasti religiosi e sociali nell’ Inghilterra dell’ inizio del ‘600,  i puritani non tardarono a manifestare anche nel nuovo mondo la rigidità e l’  integralismo religioso che, in Inghilterra, avevano manifestato contro anglicani e, sopratutto, cattolici. Vi furono contrasti ed epurazioni nei confronti dei  membri delle sette non calviniste che tentarono d’insediarsi nella colonia di Plymouth. Anche il predicatore Roger Williams (1603?-1683) fu fortemente osteggiato per la sua tolleranza religiosa verso le altre sette, sopratutto i battisti, e per la sua apertura ed amicizia verso gli indiani d’ America. Nei confronti di quest’ ultimi, i puritani furono altrettanto spietati. Secondo un vecchio, ma significativo adagio:

Arrivati in America i Padri Pellegrini si gettarono prima in ginocchio, e poi sugli indigeni. –

I Wampanoag

Quando i padri pellegrini giunsero nel New England, non trovarono una terra inabitata, ma occupata da varie tribù indiane alcune delle quali avevano già avuto scontri armati con i soldati inglesi.  In particolare una delle tribù  più potenti della zona ed anche quella nel cui territorio vennero a sbarcare i padri pellegrini, erano i  Wampanoag (conosciuti anche come Pokanoket) nome che significa  “Popolo dell’ est” o “Popolo dell’ alba” essendo infatti composto da due parole in lingua Algonquiana: wampa, che significa aurora, e noag, che significa popolo. Questi indiani, infatti, vivendo lungo le estreme propaggini della costa est,  erano i primi a vedere ogni giorno il sorgere del sole.

La festa del Ringraziamento, benché ufficialmente istituita molto tempo dopo,  si rifà ad un episodio effettivamente accaduto. L’ inverno del 1620 fu molto duro per gli emigranti: la piccola comunità poté sopravvivere solo grazie all’ ospitalità ed all’ aiuto degli indiani ed in particolare ad uno degli ultimi Pawtuxet rimasti, il cui nome,  Squanto (Tisquantum), è rimasto nelle cronache di quegli anni. Costui, nonostante la sua tribù fosse stata decimata dai soldati inglesi, si prese cura di quei civili e insegnò loro a cacciare, pescare, coltivare il mais e li sfamò con i prodotti delle sue terre. Fece inoltre da mediatore con la potente tribù dei Wampanoag, guidata da capo Massasoit.

Per celebrare la buona sorte e ringraziare del primo raccolto, i pellegrini organizzarono una festa alla quale, in realtà non erano stati invitati né Squanto né altri indiani con l’ eccezione di capo Massasoit, costui si presentò, ma non solo bensì accompagnato da più di cinquanta guerrieri, a testimonianza della potenza della sua tribù.

Massasoit e gli inglesi sottoscrissero un trattato di pace e di alleanza. In base al trattato i Wampanoag si impegnavano a non aggredire i pellegrini e se qualche indiano avesse commesso dei crimini contro questi, Massasoit si impegnava a consegnare il colpevole perché fosse punito, inoltre venne sottoscritto un trattato di mutua alleanza in base al quale se uno dei due gruppi fosse stato ingiustamente aggredito da nemici esterni, l’ altro sarebbe intervenuto in sua difesa. Inoltre si convenne che durante gli scambi commerciali non venissero portate armi.

Nel 1621 Edward Winslow, leader dei pellegrini e, successivamente, governatore di Plymouth, descriveva così capo Massasoit:

“Di corporatura vigorosa, era nel fiore degli anni, corpo atletico, espressione solenne e di poche parole. Il suo abbigliamento differiva ben poco da quello dei suoi sudditi, solo per una collana di perle d’osso intorno il collo da cui pendeva sulle spalle una piccola borsa di tabacco che usava per offrire; il suo viso era dipinto con un pesante colore rosso e sia la testa che il viso erano cosparsi di olio. Tutti i suoi sudditi avevano i visi ornati pitture parzialmente o completamente con pitture alcune di colore nero, altre con rosso o giallo ed alcuni portano pitture bianche, alcuni erano coperti con pelli, altri erano nudi, ma tutti alti, forti, tutti uomini di notevole corporatura (Lives of  the Governors of New Plimouth and Massachussets Bay – Jacob Bailey Moore – Gates & Stedman 1848 pag. 44)

Simile la descrizione di Massasoit in una lettera del settembre del 1623 di Emmanual Altham, uomo d’ affari inglese che visitò le colonie, :

“Vorrei aggiungere qualcosa sulla statura di Massasoit. E’ un uomo come non si è mai visto in questa regione ed è molto coraggioso, molto acuto per un selvaggio, indossa, come tutti i suoi uomini, solo una pelle di lupo sulle spalle; sulla vita è cinto da collane”

Le descrizioni sopra riportate mostrano quanto i coloni fossero  colpiti dall’ aspetto degli indiani. Forte dell’ amicizia con i Wampanoag la piccola colonia poté prosperare e diventare forte, Hobbamock, consigliere di capo Massasoit,  si trasferì a Plymouth con la sua famiglia come ambasciatore del suo popolo.

Per tutto il periodo della sua lunga vita fino alla morte intorno al 1660, Massasoit riuscì a mantenere l’ alleanza con gli inglesi basata sul commercio, ma il cui prezzo via via crescente era il dover sopportare le incursioni nei suoi territori man mano che la colonia si allargava ed una certa interferenza negli affari politici della sua nazione.

Questa situazione di contrasti tra indiani e coloni si accrebbe quando a Massasoit successe il figlio Wamsutta (anche conosciuto con il nome di re Alessandro): ai contrasti legati al possesso delle terre si aggiunse la crisi nel commercio delle pelli che erano uno dei principali beni scambiati tra indiani e coloni. Come conseguenza Wamsutta iniziò una politica estera più indipendente infittendo le relazioni con i  coloni del Connecticut, colonia inglese sorta intorno al 1630 in un territorio ove erano insediamenti olandesi che furono ben presto (forzatamente e sanguinosamente) assorbiti. Il Connecticut  era la zona intorno alla foce del fiume omonimo e quindi posta a sud ovest rispetto la  Massachusetts Bay Colony fondata dai padri pellegrini. Questa sorta di riaffermata indipendenza irritò le autorità della colonia del Massachussets che, evidentemente,  avevano perso il riguardo ed il timore (per non parlare della riconoscenza) che i loro padri quarant’ anni prima avevano nutrito per gli allora potenti Wampanoag. Ora i potenti erano i coloni e così ingiunsero a Wamsutta di presentarsi presso le autorità della colonia. Il giovane capo indiano, sospettoso riguardo le reali intenzioni degli inglesi, rifiutò di presentarsi e fu quindi forzatamente costretto a recarsi a Plymouth da una banda di uomini armati.

Pochissimi giorni dopo gli uomini di Wamsutta riportarono a casa il corpo del loro capo morto: stranamente, subito dopo essere stato interrogato dalle autorità della colonia, il capo indiano si era ammalato ed era improvvisamente morto. Gli successe il fratello Metacom, chiamato dagli inglesi re Filippo. I  Wampanoag e Metacom si convinsero che Wamsutta era stato avvelenato, ovviamente, se questo fu,  non vi sono testimonianze da parte inglese.

Dopo il sospetto assassinio di Wamsutta, i Wampanoag e capo Metacom mantennero per ancora alcuni anni la pace con gli inglesi, ma ormai i coloni si appropriavano di sempre più terre e cresceva lo scontento tra gli indiani. C’era intanto anche un’ altro modo di soggiogare gli indiani: il Reverendo  John Eliot verso la fine degli anni 50 completò la traduzione della Bibbia in Algonquiano, il ceppo linguistico al quale la gran parte delle tribù del nord est appartenevano.  Eliot fondò le  “praying towns,” nelle quali gli indiani convertiti al cristianesimo potevano vivere. Mentre ci si aspettava che i nativi abbandonassero tutte le loro tradizioni e la loro cultura, (e, non incidentalmente, le loro terre), e adottassero il modello di vita dei bianchi, essi erano comunque tenuti segregati dai bianchi in questi piccoli villaggi. La maggior parte dei nativi scelsero di stare ben lontani da queste “praying towns” e di rimanere”selvaggi”.

Nel 1671 il governo di Plymouth, preoccupato della crescente irritazione degli indiani contro gli sconfinamenti dei coloni, tentò di costringere gli indiani a consegnare le armi da fuoco. La risposta non fu positiva e anzi, la richiesta aumentò i sospetti di Metacom ed anche di alcuni delle tribù tradizionalmente nemiche, i Narragansett, i Pequot e i Mohegan del sud.  Inoltre  Metacom fece notare che erano i puritani ad invadere le terre dei Wampanoag ed a rubare i loro raccolti. Negli anni successivi le tensioni crebbero, indiani e Puritani furono uccisi durante scaramucce. Più i coloni tentavano di invadere le terre, più gli indiani opponevano resistenza.

La scintilla che innescò la “guerra di Re Filippo”, scoccò nel gennaio del 1675, quando un indiano di nome John Sassamon, ex collaboratore di Metacom e che era diventato cristiano, denunciò alle autorità che il re stava facendo progetti per combattere gli inglesi. Le accuse di Sassamon non furono provate, ma poco tempo dopo  il suo corpo trovato sotto uno stagno ghiacciato.  Dalla testimonianza di un indiano, la colonia di Plymouth arrestò tre Wampanoag e li condannò  all’impiccagione per l’assassinio di John Sassamon. L’esecuzione avvenne l’8 giugno 1675 a Plymouth. Questo atto era una palese violazione dei trattati in quanto la giustizia per i loro affari interni doveva essere amministrata autonomamente dagli indiani. I Wampanoag presero come un insulto ed una arrogante interferenza nei loro affari interni  la condanna della corte inglese, un atto che voleva essere un chiaro attentato alla loro indipendenza. In risposta, il 20 giugno, un drappello di Pokanoket, una tribù alleata, probabilmente senza l’approvazione di Filippo, assaltò molte case coloniche isolate a Swansea in Massachusetts. Posero sotto assedio la città che distrussero poi cinque giorni dopo.

Per tutto il 1675 le forze indiane ebbero il sopravvento. Ad un certo punto tra i puritani si parlò anche di un possibile rientro in Inghilterra, ma col tempo i nativi cominciarono a scarseggiare di cibo e furono anche attaccati da tribù rivali che si allearono con gli inglesi. Nel gennaio del 1676 Metacom – Filippo viaggiò verso ovest fino al territorio dei Mohawk cercando un’ alleanza che non riuscì ad ottenere. Anche le speranze di ottenere approvvigionamenti dai francesi del Canada a nord, non si realizzarono. Alla fine la guerra di attrito e di terra bruciata logorò senza speranza le forze indiane. Nell’ agosto del 1676 Wetamoo vedova di Wamsutta, fratello di Re Filippo, morì annegata nel fiume Taunton, mentre cercava di sottrarsi alla cattura degli Inglesi. Il suo cadavere venne recuperato, denudato ed oltraggiato, la testa fu staccata dal busto e infissa su una picca per essere mostrata ai Pellirosse che si erano già arresi.
Il 12 agosto 1676, in seguito alla delazione di un indiano, i soldati circondarono la palude dove si nascondeva re Filippo, ormai quasi abbandonato da tutti i suoi guerrieri. Un colpo di moschetto sparato da Alderman, un indiano traditore al servizio del capitano Church, pose fine alla libertà e alla vita di re Metacomet, che aveva meno di 40 anni. Il suo corpo venne squartato e decapitato e la testa fu inviata dapprima a Plymouth e quindi a Boston, per essere esibita come trofeo.

La guerra era costata ai puritani inglesi circa 900 caduti, ma una gran parte dei Wampanoag era stata massacrata, i sopravvissuti furono venduti come schiavi. I Narragansett, i Podunk, i Nipmuck furono anch’ essi virtualmente eliminati.

In poco più che 50 anni dal giorno dell’approdo a Plymouth i puritani avevano distrutto la cultura che aveva abitato quelle terre per migliaia di anni.

IL VAIOLO COME ARMA PER STERMINARE GLI INDIANI OTTAWA

Pochi anni prima della guerra di Secessione Americana e della nascita degli Stati Uniti, sir Jeffrey Amherst fu il comandante delle forze anglo-americane nella “guerra Franco-Indiana”, capitolo nordamericano della guerra dei sette anni. Per fiaccare la resistenza delle tribù indiane, alleate dei Francesi,  il generale Amherst pianificò ed autorizzò il progetto di contaminare le tribù indiane ostili con il virus del vaiolo.

Armi di distruzione di massa, armi atomiche, armi batteriologiche… Con il pretesto di distruggere le inesistenti  armi di distruzione di massa irachene gli USA hanno invaso ed occupato una nazione sovrana, ne hanno abbattuto il governo, perseguitato e distrutto la classe dirigente, instaurato un regime compiacente. Hanno deliberatamente suscitato in tutto il mondo arabo l’ ostilità tra sunniti e sciiti e fomentato una sanguinosa guerra civile e religiosa che probabilmente avrà conseguenze per molti anni a venire.

Ma la storia ci ha insegnato che i veri ideatori e, probabilmente, gli unici utilizzatori di armi di distruzione di massa sono proprio gli USA. Gli USA hanno sempre coltivato il deliberato proposito di non fare la guerra solo agli eserciti, ma colpire la stessa popolazione nemica: nel  loro modo di fare la guerra è sempre presente e manifesta una costante tentazione verso il genocidio. I bombardamenti strategici delle città tedesche e giapponesi,  l’ uso della bomba atomica, i 4 milioni di morti vietnamiti, i 10 anni di sanzioni all’Irak ne sono solo gli  ultimi esempi.

Le prime esplorazioni francesi nel nuovo mondo risalgono al 1523 ad opera del navigatore italiano Giovanni da Verrazzano. Dopo alcuni tentativi senza successo, i primi insediamenti stabili furono realizzati alla fine del 1500. Nel 1608 Samuel de Champlain, incaricato da Enrico IV di Francia, fondò Quebec. Per sopravvivere nel nuovo mondo i francesi fin dall’ inizio stabilirono forti legami con alcune tribù indiane (sopratutto gli Huroni) ed alcuni coloni (i “Coureurs de Bois”) presero a vivere con gli indiani imparandone lingua e costumi. Nel censimento del 1666 si contò in tutta la Nuova Francia una popolazione di soli 3215 abitanti, di cui, per di più, le donne erano solo poco più di un migliaio. Per popolare le nuove colonie i francesi incentivarono i matrimoni con i nativi. Nella seconda metà del 1600 gli esploratori francesi arrivarono nella valle dell’ Ohio e del Mississipi, e poi più a sud attraverso la Luisiana fino a raggiungere il Golfo del Messico.

Scontri tra i coloni francesi della Nuova Francia ed i coloni inglesi della Nuova Inghilterra si erano verificati  fin dall’ inizio  del 1600. Le colonie francesi nel nuovo mondo erano molto estese ma poco abitate rispetto agli insediamenti inglesi. Per di più i coloni inglesi strinsero alleanza con la potente tribù degli Irochesi. Le truppe regolari inglesi inoltre erano molto più numerose delle truppe regolari francesi quasi inesistenti nel territorio della Nuova Francia per cui i coloni francesi dovevano fare affidamento soprattutto su se stessi e sulle tribù indiane alleate.

Intorno al 1750 la Nuova Francia contava all’incirca 70.000 abitanti, molti di più rispetto all’inizio del secolo, ma sempre numericamente molto inferiori rispetto al milione e più delle colonie Britanniche del Nord America.

Nel 1754 scoppiò la guerra “Franco-indiana” che in pratica fu lo scenario americano della guerra che in Europa è la Guerra dei Sette Anni. All’ inizio della guerra l’ epicentro fu Fort Duquesne che, posizionato dove ora sorge la città di Pittsburg, era stato realizzato dai francesi per assicurarsi il controllo della valle dell’ Ohio. Il forte resistette a molti attacchi dei coloni britannico-americani. In uno di questi tentativi l’ allora colonnello George Washinghton fu costretto ad arrendersi alla milizia francese. I Francesi  permisero a Washington e ai suoi uomini di ritornare liberamente a casa senza armamenti.

Nel 1755  il Generale Edward Braddock guidò una spedizione contro la postazione francese di Fort Duquesne, ma sebbene numericamente superiore alla milizia dei coloni francesi e ai loro alleati indigeni, l’esercito di Braddock fu sorpreso durante la marcia, costretto alla ritirata ed il generale inglese ucciso.

Alla lunga però la resistenza francese andò man mano indebolendosi. Nel settembre 1759 gli Inglesi assediarono Quebec dal mare ed un esercito sotto il generale James Wolfe sconfisse i Francesi comandati dal generale Louis-Joseph de Montcalm. La guarnigione di Quebec si arrese il 18 settembre e, l’anno successivo, la Nuova Francia fu definitivamente conquistata dai Britannici. L’ultimo governatore della Nuova Francia, Pierre Francois de Rigaud, Marchese di Vaudreuil-Cavagnal, si arrese l’8 settembre 1760, al Generale Maggiore Jeffrey Amherst. La Francia dovette rinunziare ad ogni sovranità su tutti i suoi territori nel nuovo mondo.

Le tribù indiane che vivevano nella valle dell’ Ohio furono sorprese ed esasperate dalla sconfitta dei loro alleati francesi. I nativi non avevano affatto perso il controllo delle loro terre e quando gli fu detto che avrebbero dovuto rendere sottomissione al re inglese, si sentirono oltraggiati.  La rabbia degli indiani ed il loro rifiuto di accettare la sconfitta nella guerra appena terminata era comprensibile e basata su svariate motivazioni:

    * Il dominio inglese nel Nord America avrebbe significato la costruzioni di nuovi insediamenti militari e l’ arrivo di nuovi coloni nelle terre indiane: la presenza francese, come abbiamo visto, era molto meno invasiva e le relazioni tra indiani e francesi erano state spesso cordiali.
* I mercanti britannici non avevano la reputazione di commerciare in modo onesto, reputazione che era invece prerogativa dei francesi. Per di più i nativi erano diventati molto dipendenti dalle merci europee per quanto riguarda armi da fuoco, munizioni ed altri beni ed ora sarebbero stati costretti a commerciare con gli inaffidabili coloni inglesi.

L’ arroganza britannica era ben conosciuta tra gli indiani. In molti casi i francesi avevano sposato donne indiane ed avevano vissuto in mezzo agli indiani. Ben pochi inglesi avevano seguito questo esempio e molti avevano espresso disprezzo per le usanze, la cultura,  il modo di vivere degli indiani giungendo ad oltraggiarne la dignità come persone. Le tensioni si accrebbero maggiormente quando all’ inizio del 1763  Jeffrey Amherst in qualità di nuovo governatore generale del Nord America annunciò che non avrebbe più onorato la tradizionale presentazione annuale di doni alle tribù, una tradizione da lungo tempo onorata dai francesi. Gli indiani si sentirono insultati ed umiliati dal comportamento di Amherst, oltre ad essere in collera per il mancato arrivo dei doni solitamente attesi: coperte, manufatti, liquori, armi.

Pontiac, il capotribù degli indiani Ottawa, alleato dei francesi nella recente guerra,  divenne l’ elemento coagulante del malcontento generale.  Pontiac (c.1720-1769) era uomo di notevole abilità oratoria ed il suo messaggio trovò immediatamente orecchie ben disposte tra i  Delaware,  i Seneca, i Chippewa, i Miami, i Potawotomi, gli  Huron ed anche tra altre tribù. La guerra con gli indiani nella valle dell’Ohio scoppiò nella primavera del 1763 e fu nominata dai coloni britannici la “Pontiac’s Rebellion”.

Gli indiani assediarono Fort Detroit e attaccarono Fort Pitt che era stato costruito dagli inglesi sul luogo dove fino a pochi anni prima sorgeva il francese Fort Duquesne. In totale altri otto o nove forti inglesi caddero nel corso dell’anno nelle mani degli indiani. Il primo fu Fort Sandusky, seguirono in breve tempo Fort Saint Joseph nel Michigan, quindi Fort Miami e Fort Quiatenon nel territorio dell’Indiana, Fort Michilimackinac, fra i laghi Huron e Michigan. Durante l’estate una colonna inglese forte di 250 uomini marciò contro il villaggio di Pontiac, ma l’attacco di sorpresa fallì e gli inglesi ebbero a lamentare forti perdite nella battaglia di Bloody Run alla fine di luglio 1763; nello scontro cadde anche il capitano inglese al comando della  colonna.

Galvanizzate dalle vittorie di Pontiac altre tribù si unirono alla lega da lui guidata e scesero in guerra. Anche una parte degli Irochesi, tradizionali alleati degli inglesi, si schierò con Pontiac.

Intorno Fort Pitt vi furono vari sanguinosi scontri tra indiani e truppe inglesi. Il forte era ben difeso e la guarnigione disponeva anche di pezzi di artiglieria. Per gli inglesi era vitale mantenere il controllo del forte che costituiva un solido avamposto per controllare la vallate del fiume Ohio. Tra sir Jeffrey Amherst governatore generale di tutto il  Nord America ed il colonnello Henry Bouquet (inglese di origini svizzere) che comandava le truppe inglesi nella zona di Fort Pitt nell’estate del 1763 intercorse un frenetico scambio di messaggi. Per fortuna la gran parte di queste missive sono conservate tra i documenti della Libreria del Congresso.

Tre sopratutto i documenti che attestano la volontà di contagiare i nativi col vaiolo che nel frattempo era esploso tra i soldati inglesi:

Innanzitutto il testo della missiva spedita dal colonnello Henry Bouquet al generale Amherst, datata 23 June 1763 (microfilm reel 34/40, item 281), in cui il colonnello dà notizia che tra le truppe di Fort Pitt era scoppiata un’epidemia di vaiolo. Questa lettera è importante in quanto chiarisce che il discorso successivo non sarà puramente accademico, ma i due militari avevano piena coscienza che c’erano tutte le condizioni (cioè degli ammalati di vaiolo) per portare ad effettuazione pratica il  loro piano:

Captain Ecuyer writes me that Fort Pitt is in good state of defence against all attempts from Savages, who are daily firing upon the Fort; unluckily the Small Pox has broken out in the garrison, for which he has built an Hospital under the Draw Bridge to prevent the Spreading of that distemper. – (da Bouqueut a Amherst 23 giugno 1763)

In una successiva missiva di Bouquet al Generale Amherst, datata 13 luglio 1763  (microfilm reel 34/40, item 305), il colonnello sottopone al suo superiore il piano di adoperare coperte infettate da malati per contagiare gli indiani:

P.S. I will try to inocculate the Indians by means of Blankets that may fall in their hands, taking care however not to get the disease myself.
As it is pity to oppose good men against them, I wish we could make use of the Spaniard’s Method, and hunt them with English Dogs. Supported by Rangers, and some Light Horse, who would I think effectively extirpate or remove that Vermine.
H.B. – (da Bouqueut a Amherst 13 luglio 1763)

Infine il testo della lettera del generale  Amherst al colonnello  Bouquet, datata 16 luglio 1763  (microfilm reel 34/41, item 114):

P.S. You will Do well to try to inoculate the Indians by means of Blankets, as well as to try Every other method that can serve to Extirpate this Execrable Race. I should be very glad your Scheme for Hunting them Down by Dogs could take Effect, but England is at too great a Distance to think of that at present. – (da Amherst a Bouqueut 16 luglio 1763)

Si ricorderà inoltre che gli indiani avevano un sistema immunitario inadatto a proteggerli nei confronti di molte malattie portate dagli europei: queste popolazioni non erano mai entrate in contatto con queste malattie per cui non era stato possibile nessun adattamento: anche malattie come l’influenza potevano avere esiti letali.

Tra il 1764 ed il 1766 le truppe inglesi tornarono all’offensiva sia nella zona dei laghi che nella valle dell’Ohio e costrinsero alcune tribù alleate degli Ottawa a negoziare un trattato di pace. Gli indiani  indeboliti anche per l’ epidemia di vaiolo, opposero una resistenza via via più debole.

Anche se non si potrà mai sapere con certezza se il piano ordito da Amherst abbia avuto effetto e fosse la causa od una delle cause dell’epidemia di vaiolo che effettivamente decimò gli indiani, rimane il fatto che il piano fu effettivamente realizzato e che gli indiani, che certamente non conoscevano la corrispondenza intercorsa tra gli ufficiali inglesi, ebbero comunque netta la sensazione che in qualche strana maniera fossero stati contagiati. Ad esempio molti anni più tardi, nel 1887, Andrew J. Blackbird capo Ottawa anche lui, ma anche uno storico ed uno studioso (pubblicò diversi libri ed un vocabolario della lingua Ottawa) pubblicò nel suo  “History of the Ottawa and Chippewa Indians of Michigan”:

It was a notable fact that by this time [1763] the Ottawas were greatly reduced in numbers from what they were in former times, on account of the small-pox which they brought from Montreal during the French war with Great Britain. This small pox was sold to them shut up in a tin box, with the strict injunction not to open the box on their way homeward, but only when they should reach their country; and that this box contained something that would do them great good, and their people! The foolish people believed really there was something in the box supernatural, that would do them great good. Accordingly, after they reached home they opened the box; but behold there was another tin box inside, smaller. They took it out and opened the second box, and behold, still there was another box inside of the second box, smaller yet. So they kept on this way till they came to a very small box, which was not more than an inch long; and when they opened the last one they found nothing but mouldy particles in this last little box! They wondered very much what it was, and a great many closely inspected to try to find out what it meant. But alas, alas! pretty soon burst out a terrible sickness among them. The great Indian doctors themselves were taken sick and died. The tradition says it was indeed awful and terrible. Every one taken with it was sure to die. Lodge after lodge was totally vacated – nothing but the dead bodies lying here and there in their lodges – entire families being swept off with the ravages of this terrible disease. The whole coast of Arbor Croche… was entirely depopulated…. It is generally believed among the Indians of Arbor Croche that this wholesale murder of the Ottawas by this terrible disease sent by the British people, was actuated through hatred, and expressly to kill off the Ottawas and Chippewas because they were friends of the French Government or French King.

“Gli Ottawa erano molto diminuiti di numero a causa del vaiolo che avevano portato da Montreal durante la guerra tra francesi ed inglesi. Questo vaiolo veniva loro venduto in una scatoletta, dietro severa raccomandazione di non aprirla per via, mentre tornavano a casa, ma soltanto quando fossero arrivati nella loro terra; e dicevano che la scatoletta conteneva qualcosa che avrebbe arrecato un gran bene a loro e alla loro gente!  E quei pazzi credevano davvero che nella scatoletta ci fosse qualcosa di soprannaturale che avrebbe fatto loro un gran bene. Arrivati a casa, secondo le istruzioni ricevute, aprivano la scatola, ma s’ avvedevano che dentro ce n’ era un’ altra più piccola. Di questo passo arrivavano ad una scatoletta piccolissima, non più lunga di un pollice; e quando aprivano l’ ultima, non vi trovavano altro che un po’ di roba ammuffita! Si chiedevano, stupitissimi, cosa poteva essere e molta gente veniva a ficcare il naso nella scatoletta per capirne qualcosa. Ma, ahimè ahimè! ben presto tra di loro scoppiava una terribile malattia. Perfino i grandi dottori indiani s’ ammalavano e morivano. I racconti dell’ epoca ne parlano come di una cosa spaventosa. chiunque ne fosse colpito era sicuro di morire. Una dopo l’ altra le case venivano completamente svuotate, nelle capanne non restavano che cadaveri sparsi qua e la, intere famiglie venivano spazzate via da quel terribile flagello. L’ intera zona di Arbor Croche… fu interamente spopolato. Per lo più gli indiani di Arbor Croche credettero che questo assassinio su vasta scala degli Ottawa mediante quella terribile malattia mandata dagli inglesi, fosse compiuto per odio, e apposta per accoppare gli Ottawa ed i Chippewa, perché erano amici dei francesi e del Re di Francia che loro chiamavano il “Grande Padre”   
(traduzione tratta da “Sul sentiero di guerra. Scritti e testimonianze degli indiani d’America” di Adriana Dell’Orto Charles Hamilton).

Nel 1766 Pontiac accondiscese a concludere un trattato di pace con gli inglesi.

A condurre le trattative non fu il generale Amherst,  momentaneamente non troppo in favore presso la corona inglese che gli incolpava di non aver saputo impedire la sollevazione degli Ottawa, bensì sir William Johnson, profondo conoscitore degli indiani (successivamente ebbe anche una moglie indiana). Il trattato di pace prevedeva l’immunità per gli indiani “ribelli” ed inoltre fu dato luogo alla “Proclamazione del 1763”, una serie di misure  già allo studio all’inizio della ribellione di Pontiac, in base alle quali veniva proibito momentaneamente ai coloni americani di stabilirsi e di acquisire privatamente terre in gran parte dei territori che avevano costituito la Nuova Francia. Veniva cioè proibito ai coloni di acquistare  terreni dai nativi: ogni eventuale acquisto avrebbe dovuto essere effettuato da funzionari regi e con convocazione di assemblee delle tribù indiane interessate. A maggior ragione era fatto divieto ai coloni di appropriarsi di terre con insediamenti non regolarizzati ufficialmente. La linea divisoria individuata dalla Proclamazione tra le colonie sulla costa atlantica ed i territori indiani non era comunque da considerare un confine permanente, ma piuttosto una linea temporanea che poteva essere successivamente spostata verso ovest sulla base di accordi e regolamentazioni successive.

Queste limitazioni, evidentemente istituite per limitare gli attriti con i nativi, furono naturalmente molto contestate dai coloni americani che iniziarono subito a fare pressioni sul parlamento inglese perché venissero modificate. Le pressioni ebbero un certo successo ed il confine fu più volte rettificato, ma, sopratutto, di lì a poco sarebbe scoppiata la Guerra di Secessione Americana e con la nascita degli Stati Uniti la legislazione di tutela prevista dalla “Proclamazione del 1763” sarebbe stata abrogata.

Nella guerra di Secessione gli inglesi non diedero alcun comando operativo al generale Amherst a causa dei suoi stretti rapporti con i coloni americani. Oggi diverse cittadine statunitensi  nel Massachusetts,  nel  New Hampshire ed altrove,  sono dedicata ad Amherst Hero of the French and Indian War“.

LA DISTRUZIONE DI ATLANTA

Nel 1864, dopo aver ottenuto la resa della città di Atlanta, il generale Sherman ordinò a tutta la popolazione di sgombrare la città confederata.

Quando il consiglio cittadino si appellò a lui perché revocasse l’ ordine, adducendo il motivo che avrebbe provocato grande sofferenza a donne, bambini ed anziani ed ad altri che non avevano alcuna responsabilità per quella guerra, Sherman mandò una risposta in cui chiaramente faceva intendere che avrebbe fatto qualunque cosa per ottenere la vittoria dell’ Unione:

La guerra è crudeltà e non si può ingentilirla e coloro che hanno portato la guerra nella nostra nazione meritano tutti gli anatemi e le maledizioni che si possano lanciare … Voi non potrete mai avere la pace e contemporaneamente  una divisione della nostra nazione… io condurrò la guerra in modo da ottenere una completa e veloce vittoria.

Prima di lasciare Atlanta Sherman rase al suolo la città e proseguì la sua marcia in direzione del mare.

La guerra civile americana era scoppiata nell’ aprile del 1861. Fin dall’ inizio della guerra i confederati erano consapevoli  che, nonostante l’abilità dei loro generali e dei loro soldati, la guerra non poteva essere vinta.

A causa della disparità economica fra i due campi, della potenza industriale e demografica degli stati del nord , l’unica speranza per i confederati era di poter resistere tanto a lungo da indurre un cambio nel governo unionista e far sì che giungessero al governo quei politici che, contrariamente a Lincoln, vedevano con favore l’avvio di negoziati di pace con il sud. La guerra combattuta dal sud fu quindi di natura prettamente difensivistica ed il sud non seppe o non volle approfittare delle vittorie iniziali, ottenute prima che il nord riuscisse a schierare completamente tutto il suo potenziale industriale bellico.

Al contrario Lincoln ed i generali unionisti a partire dal 1863, anno in cui riuscirono a guadagnare l’ iniziativa, cercarono in tutti i modi di affrettare la conclusione della guerra, ma non potendo ottenere vittorie decisive sul campo, cercarono di strangolare l’economia e la capacità di resistenza del sud anche attraverso la distruzione delle sue infrastrutture: progettarono e misero in atto quella che oggi si chiama guerra totale.

Nel 1864, nel bel mezzo della guerra, si tenne un’elezione presidenziale. Jefferson Davis presidente confederato sperava che al nord gli americani avrebbero voltato le spalle a Lincoln ed al partito Repubblicano ed auspicava che venisse eletto un presidente Democratico (il generale George McClellan) favorevole a negoziati di pace.

Era dunque vitale per i generali nordisti fedeli a Lincoln ottenere  una vittoria significativa che potesse persuadere l’opinione pubblica nordista che la fine della guerra era vicina e potesse quindi rafforzare all’ interno Lincoln ed il partito Repubblicano.

Per raggiungere questo scopo un esercito di 100.000 uomini con a capo il generale W. T. Sherman iniziò ad invadere la Georgia con il compito di razziare il Sud per distruggerne l’economia e la capacità di resistenza. Queste truppe invasero la Georgia seminando saccheggi e devastazione sul loro cammino. Si aprirono un varco largo da 50 a 60 miglia e lungo più di 200 lasciandosi alle spalle la più totale distruzione.

La campagna per la conquista di Atlanta condotta da Sherman si concluse con successo il 2 settembre 1864 con la presa della città, un risultato che rese molto famoso Sherman al nord e che sicuramente contribuì alla rielezione alla presidenza degli Stati Uniti di Lincoln nel novembre dello stesso anno.

Dopo Atlanta, Sherman continuò con la tattica della terra bruciata durante la sua avanzata verso il porto di Savannah ed il mare.  Sebbene il saccheggio fosse ufficialmente vietato, gli storici sono in disaccordo su quanto bene fosse fatta rispettare questa regola. La velocità ed efficienza nell’opera di distruzione da parte dell’ esercito di Sherman era notevole. E’ ben nota la pratica degli “Sherman’s neckties” ovvero le cravatte di Sherman: per far sì non venissero riutilizzati,  i binari ferroviari divelti venivano resi malleabili con il calore e quindi piegati di solito intorno gli alberi. Avendo gli stati del sud poche fonderie e scarse scorte di ferro, il danno era difficile da riparare.

La pratica dei neckties fu adottata a seguito di un esplicito ordine di Sherman,   datato 18 luglio 1864:

…twisting the bars when hot. Officers should be instructed that bars simply bent may be used again, but if when red hot they are twisted out of line they cannot be used again. Pile the ties into shape for a bonfire, put the rails across and when red hot in the middle, let a man at each end twist the bar so that its surface becomes spiral.

Un’ altra accusa rivolta a Sherman su cui gli storici disputano è quella di aver deliberatamente bruciato la città di Columbia, capitale del South Carolina, il 17 febbraio 1865. In effetti le distruzioni operate nel South Carolina furono ancora maggiori di quelle in Georgia questo perché agli occhi dei nordisti il South Carolina aveva la colpa di essere il primo stato ad aver dichiarato la secessione.

Lo scrittore e critico letterario americano Edmund Wilson riporta che nelle sue  Memoirs  Sherman mostra di essere preda di un preoccupante “appetito per la guerra„ che “si sviluppa e si alimenta sul Sud”.

Molti hanno denunciato il comportamento di Sherman come  precursore della disumanità delle guerre su grande scala del ventesimo secolo.

Nel libro di Louis Menand  The Metaphysical Club: A Story of Ideas in America sono riportate le seguenti considerazioni:

For the generation that lived through it, the Civil War was a terrible and traumatic experience.  It tore a hole in their lives.  To some of them, the war seemed not just a failure of democracy, but a failure of culture, a failure of ideas.  At traumatic wars do–as the First World War would do for many Europeans sixty years later, and as the Vietnam War would do for many Americans a hundred years later–the Civil War discredited the beliefs and assumptions of the era that preceded it.  ……  The Civil War swept the away the slave civilization of the South, but it swept away almost the whole intellectual culture of the North along with it.  It took nearly half a century for the United States to develop a culture to replace it, to find a set of ideas, and a way of thinking, that would help people cope with the conditions of the modern life.

IL GENOCIDIO DEGLI INDIANI

La strage di Sand Creek

Nel 1851 gli Stati Uniti ed i rappresentanti delle tribù dei Sioux, Cheyenne, Arapaho, Crow, Shoshone ed altre, firmarono un importante trattato. Nel trattato di Fort Laramie il governo degli stati Uniti riconosceva agli indiani il possesso delle regioni delle Grandi Pianure (la gran parte dei territori abitati dagli indiani) “fintanto che l’ acqua scorri e le aquile volino”. Inoltre gli indiani permettevano il passaggio dei coloni lungo la pista dell’Oregon; in cambio il governo prometteva una sovvenzione annua di 50.000 dollari per 50 anni. Gli indiani avrebbero anche permesso che alcune strade e dei forti venissero costruiti nei loro territori.

Più tardi il congresso unilateralmente tagliò gli stanziamenti a dieci anni e comunque diverse tribù non ricevettero mai le forniture promesse come pagamento.

Ma tra il 1850 ed il 1860 le Montagne rocciose del Kansas e del Colorado furono meta di una corsa all’oro che portò un’ondata di coloni ad insediarsi tra le montagne e  le circostanti colline. L’immigrazione improvvisa generò scontri con le tribù Cheyenne e Arapaho che vivevano nell’area ed infine sfociò nel 1864 nella guerra del Colorado. Il governatore del territorio (non  ancora  stato) del Colorado decise di mettere a capo della milizia locale il colonnello John Chivington, al fine di liberarsi definitivamente del problema degli indiani.

Chivington  cavalcò il malcontento della gente contro i governanti e contro coloro che sostenevano le necessità della pace con i Cheyenne. Nell’agosto 1864 a Denver dichiarò pubblicamente che “i Cheyenne dovranno essere completamente rinchiusi o eliminati prima che se ne stiano calmi. Io dico che se uno di loro viene catturato nelle vostre vicinanze, la cosa migliore da fare è ucciderlo.” Un mese più tardi, espresse il suo parere sulla possibilità di fare un trattato con i pellerossa: “Semplicemente non è possibile per gli indiani obbedire o anche solo comprendere qualunque trattato; io sono assolutamente convinto che la sola strada che abbiamo per avere la pace in Colorado sia di ucciderli tutti.”

“I want you to kill and scalp all, little and big… nits make lice”. (Voglio che li uccidiate e li scalpate tutti , adulti e bambini … le uova fanno i pidocchi). Questo  era l’ applaudito slogan di Chivington e la frase divenne il motto del suo reggimento.

Alcuni mesi più tardi, Chivington mantenne la sua promessa di sterminio. Nelle prime ore del mattino del 29 novembre 1864,  guidò un reggimento di “Volontari del Colorado” versò la riserva Cheyenne di Sand Creek dove era accampata la tribù capeggiata di Black Kettle (Pentola Nera) un capo Cheyenne ben noto per la sua condotta pacifica. Gli ufficiali dell’ esercito federale avevano promesso a Pentola Nera che non avrebbe avuto noie se si fosse ritirato nella riserva: cosa che il capo indiano aveva fatto. Inoltre sulla capanna di Pentola Nera era bene in mostra la bandiera americana ed una bandiera bianca.

Ciononostante,  Chivington ordinò l’ attacco sul tranquillo villaggio inerme. La maggior parte dei guerrieri si trovava diversi chilometri a est a cacciare il bisonte per i bisogni dell’accampamento. Dopo alcune ore di combattimento i “Colorado volunteers” avevano perduto soli nove uomini mentre circa 200 Cheyenne, la maggior parte dei quali donne e bambini, erano stati massacrati. Dopo la carneficina  i volontari del Colorado scalparono i corpi e operarono mutilazioni sugli organi sessuali che poi esposero come trofei al loro trionfale ritorno in Denver.

Robert Bent, impiegato alla riserva, fu testimone dell’ attacco che così descrisse:

“…(vidi) sventolare la bandiera americana e udii Pentola Nera che diceva agli indiani di stare intorno alla bandiera e lì si accalcarono disordinatamente: uomini, donne e bambini. Questo accadde quando eravamo a meno dì 50 metri dagli indiani. Vidi anche sventolare una bandiera bianca. Queste bandiere erano in una posizione così in vista che essi devono averle viste. Quando le truppe spararono, gli indiani scapparono, alcuni uomini corsero nelle loro tende, forse a prendere le armi… Penso che vi fossero seicento indiani in tutto. Ritengo che vi fossero trentacinque guerrieri e alcuni vecchi, circa sessanta in tutto… il resto degli uomini era lontano dal campo, a caccia… Dopo l’inizio della sparatoria i guerrieri misero insieme le donne e i bambini e li circondarono per proteggerli. Vidi cinque squaws nascoste dietro un cumulo di sabbia. Quando le truppe avanzarono verso di loro, scapparono fuori e mostrarono le loro persone perché i soldati capissero che erano squaws e chiesero pietà, ma i soldati le fucilarono tutte. Vidi una squaw a terra con un gamba colpita da un proiettile; un soldato le si avvicinò con la sciabola sguainata; quando la donna alzò un braccio per proteggersi, egli la colpì, spezzandoglielo; la squaw si rotolò per terra e quando alzò l’altro braccio, il soldato la colpì nuovamente e le spezzò anche quello. Poi la abbandonò senza ucciderla. Sembrava una carneficina indiscriminata di uomini, donne e bambini. Vi erano circa trenta o quaranta squaws che si erano messe al riparo in un anfratto; mandarono fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino; riuscì a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una fucilata. Tutte le squaws rifugiatesi in quell’anfratto furono poi uccise, come anche quattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le squaws non opposero resistenza. Tutti i morti che vidi erano scotennati. Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto. Il capitano Soule mi confermò la cosa. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli organi sessuali e udii un soldato dire che voleva farne una borsa per il tabacco. Vidi una squaw i cui organi genitali erano stati tagliati… Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia; due soldati la scoprirono, estrassero le pistole e le spararono e poi la tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo numero di neonati uccisi con le loro madri. “

Uno dei capitani, Silas Soule, rifiutò di obbedire all’ordine di Chivington di attaccare il pacifico accampamento di Sand Creek ed ordinò ai suoi uomini di trattenere il fuoco.

Qualche tempo più tardi anche a causa delle rivelazioni di Soule, Chivington fu sottoposto a processo per la strage: non solo Soule, ma anche gli impiegati bianchi che lavoravano alla riserva di Sand Creek e che, impotenti, avevano assistito al massacro, testimoniarono contro Chivington. Il processo riguardò sia le efferatezze commesse sia il fatto che era stato attaccato proprio un accampamento di indiani notoriamente non ostili e che anzi si erano portati in quella zona proprio in ossequio agli ordini del governo.

Ovviamente Chivington fu condannato ed altrettanto ovviamente immediatamente amnistiato e dichiarato non punibile.

Il capitano Soule fu più tardi assassinato da un soldato che era stato sotto il comando di Chivington a Sand Creek.

Il capo Pentola Nera e diverse centinaia di indiani sfuggirono al massacro e riuscirono a raggiungere i guerrieri della tribù che erano a decine di chilometri di distanza sul sentiero di caccia. Pentola Nera venne ucciso quattro anni dopo dal generale Custer.

RED CLOUD – Il trattato di Laramie del 1868

Red Cloud divenne una figura preminente all’ interno della nazione Lakota grazie alle doti di comando dimostrate durante le guerre territoriali contro i tradizionali nemici dei Sioux:  Pawnees, Crows, Utes e Shoshones.
A partire dal  1866, Red Cloud orchestrò la guerra di maggior successo mai combattuta da una nazione indiana contro gli Stati Uniti.

L’ esercito aveva iniziato a costruire forti lungo la Bozeman Trail che attraversava il cuore del territorio Lakota nell’attuale Wyoming. La Bozeman Trail era una pista che connetteva la Oregon Trail ai territori del Montana dove a partire dal 1860 si sviluppò una corsa all’ oro.

L’ ondata di cercatori e coloni causò anche in questa regione come già era stato per i Cheyenne in Colorado la discesa degli indiani sul sentiero di guerra. Quando le carovane di minatori e coloni iniziarono ad attraversare la terra dei Lakota, Red Cloud lanciò una serie di attacchi ai forti che l’esercito aveva costruito. Memorabile fu la sconfitta della colonna del tenente colonnello William Fetterman a poca distanza  Fort Phil Kearny nel Wyoming nel dicembre del  1866. Le guarnigioni erano continuamente nel timore di essere attaccate, la condotta di guerra di Red Cloud fu così efficace che gradatamente s’ impose negli stati Uniti la convinzione di negoziare un nuovo accordo con gli indiani. Nel 1868 fu firmato l’ importante Secondo Trattato di  Fort Laramie (il precedente era del 1851).

In forza del trattato gli Stati Uniti abbandonarono i loro forti lungo la Bozeman Trail e riconobbero ai Lakota il possesso esclusivo di un territorio che comprendeva la parte ovest del South Dakota, incluse le Black Hills, insieme con buona parte del  Montana and Wyoming.

Red Cloud morì nel 1909, la sua lunga e complessa vita rimane testimonianza della varietà di modi con cui gli Indiani resistettero alla conquista.

estratto dal trattato di Fort Laramie del 1868:

The United States agrees that the following district of country, to wit, viz: commencing on the east bank of the Missouri river where the 46th parallel of north latitude crosses the same, thence along low-water mark down said east bank to a point opposite where the northern line of the State of Nebraska strikes the river, thence west across said river, and along the northern line of Nebraska to the 104th degree of longitude west from Greenwich, thence north on said meridian to a point where the 46th parallel of north latitude intercepts the same, thence due east along said parallel to the place of beginning; and in addition thereto, all existing reservations of the east back of said river, shall be and the same is, set apart for the absolute and undisturbed use and occupation of the Indians herein named, and for such other friendly tribes or individual Indians as from time to time they may be willing, with the consent of the United States, to admit amongst them; and the United States now solemnly agrees that no persons, except those herein designated and authorized so to do, and except such officers, agents, and employees of the government as may be authorized to enter upon Indian reservations in discharge of duties enjoined by law, shall ever be permitted to pass over, settle upon, or reside in the territory described in this article, or in such territory as may be added to this reservation for the use of said Indians

Le Black Hills (Colline Nere) devono il loro nome al fatto che erano scure per la presenza di folti boschi, inoltre erano presenti valli e praterie. I rilievi non erano propriamente colline bensì una catena di basse montagne che arrivavano anche a 2000 metri di altezza. La regione, attualmente compresa nel South Dakota e nel Wyoming, era abitata dall’ uomo fin da tempi remoti. In questa vasta regione i Lakota giunsero nel 1700 provenendo dal Minnesota e ne presero possesso dopo una lunga serie di guerre con altre tribù indiane. Erano il cuore della nazione Sioux ed un luogo le cui ricchezze naturali (pascoli, bisonti) sarebbero state sufficienti per la vita delle tribù.

Gli Stati Uniti non rispettano il trattato

Nel 1874 una spedizione condotta dal generale  Custer confermò la scoperta di giacimenti d’ oro nella regione delle Black Hills nel Dakota, un’area sacra per molte tribù indiane e che, secondo il trattato di Fort Laramie del 1868, era interdetta ai bianchi.

Così come era successo nel Colorado alla fine degli anni cinquanta e nel Montana agli inizi degli anni sessanta, iniziò una nuova corsa all’ oro. Nonostante il divieto molti cercatori cominciarono ad affluire nella regione provocando la reazione dei Lakota che difendevano la loro terra. Il governo USA tentò dapprima di comprare le Black Hills dagli indiani; alla Commissione inviata dal Governo diedero risposta negativa i rappresentanti di oltre 14.000 nativi americani («Le Colline Nere sono la mia terra e io le amo. Chiunque vi metterà piede sentirà il suono di questo fucile» disse Little Big Man-“Piccolo Grande Uomo”, vice capo degli Oglala di Cavallo Pazzo, come risposta alla commissione).

Quando il tentativo fallì , si  tenne una riunione ristretta alla Casa Bianca  il 2 novembre 1875,  (presidente Ulysses Grant, Segretario agli Interni Zachariah Chandler, Segretario della Guerra Belknap, e Generali Crook e Sheridan). Nel corso della riunione si decise di non ostacolare più i cercatori d’oro e che, in caso di azioni ostili dei nativi americani, sarebbe stato legittimo l’intervento dell’esercito; qualora il ministro agli Affari Indiani si fosse opposto, ne era prevista la sostituzione. Il 9 novembre venne redatto un rapporto da cui risultavano accuse infondate a carico dei nativi americani fino ad accusare i Sioux Hunkpapa di Toro Seduto di rifiutare i benefici della civiltà. Il contenuto del rapporto era completamente falso, ma autorizzava l’intervento dell’esercito se i nativi americani non avessero immediatamente fatto rientro nelle loro riserve: si decretò che per il 31 gennaio 1876 tutti i Lakota dovessero abbandonare la regione per ritirarsi nelle riserve.

 Nel maggio 1876, Edward Pierrepoint, Procuratore Generale degli Stati Uniti, emise una sentenza aberrante: Il trattato di Fort Laramie sottoscritto con gli indiani pochi anni prima ed in base al quale era stato proibito ai bianchi di entrare nelle Colline Nere, era incostituzionale e, comunque, non era applicabile ai cittadini degli Stati Uniti, ma solo agli stranieri!

Sitting Bull ed il suo popolo rifiutarono di abbandonare la loro terra. In marzo, quando tre colonne di truppe federali mossero verso l’area, Sitting Bull convocò Lakota, Cheyenne ed  Arapaho nel suo campo a Rosebud Creek nel Montana. Fu eseguita la danza rituale del Sole e fu invocato il Grande Spirito, Wakan Tanka. Il capo dei Lakota Oglala, Crazy Horse con 500 guerrieri attaccò battaglia con le truppe federali guidate dal generale Crooke e le costrinse al ritiro. Per celebrare la vittoria i Lakota spostarono il campo nella valle del Little Bighorne River. Qui furono attaccati il 25 giugno dal settimo Cavalleria al comando del generale Custer le cui truppe furono distrutte.

Custer era un ufficiale impetuoso, non particolarmente brillante per tattica militare: all’ accademia di West Point aveva rischiato l’ espulsione per le tante note di demerito. Spesso avventato, era noto per condurre cariche di cavalleria  senza curarsi troppo delle proprie perdite: durante la guerra civile a Gettysburg la brigata comandata da Custer ebbe 500 caduti su una forza complessiva di 1700 unità; a Wilderness cadde oltre un terzo degli effettivi, mentre alla battaglia di Appomattox, l’ultima della guerra di secessione, solo la sua brigata subì gravissime perdite. Fu invece  particolarmente abile nello gestire le pubbliche relazioni e dopo la sua morte la stessa abilità mostrò la moglie che scrisse dei libri e contribuì alla crescita della fama del marito. I giornali dell’epoca si “appropriarono” della figura di George Armstrong Custer, facendone l’eroe per eccellenza.

Nel 1867 Custer partecipò alla campagna del generale  Winfield Hancock  contro i Cheyenne. Si trattò, di una campagna insensata ed inutile giacché i nativi americani erano in pace e l’intera spedizione non portò a nessun risultato concreto; anzi scatenò i Cheyenne sul «sentiero di guerra». Tutti i reparti impegnati vennero sottoposti a massacranti turni di servizio, che generarono malcontento nella truppa. In molti reparti, e tra essi anche nel 7° Cavalleggeri, furono registrate decine e  centinaia di diserzioni. Benché non fosse prevista dall’ordinamento militare, Custer applicò ai disertori la pena di morte. A causa del suo comportamento, al termine della campagna, fu accusato dal Comando supremo di:

  • abbandono del posto di comando (era di fatto andato a trovare la moglie abbandonando il reparto in pieno territorio “nemico”);
  • crudeltà verso i propri soldati (tra l’altro aveva fatto colpire alcuni soldati che stavano per disertare, vietando ai medici poi di curarli);
  • abbandono di due suoi soldati feriti nelle mani dei nativi americani;
  • mancato intervento in difesa di una postazione attaccata dai nativi americani.

La Corte Marziale, che si riunì il 16 settembre 1867 a Fort Leavenworth, giudicò Custer

colpevole di tutti i reati ascrittigli ma, grazie alle amicizie altolocate e politiche che intanto aveva coltivato ed alla fama ottenuta durante la guerra di secessione, la pena si limitò alla sospensione dal grado e dall’attività militare per un anno. Custer tornò quindi a combattere gli indiani, questa volta sotto il comando del generale Sheridan.
Nel novembre del 1868 il 7° Cavalleggeri al comando di Custer attaccò il villaggio indiano del capo cheyenne Black Kettle (battaglia del Washita River). Nello scontro che seguì i cavalleggeri riuscirono inizialmente ad occupare ed a mettere a ferro e fuoco il villaggio, ma poi, a seguito della reazione degli indiani, furono costretti a ritirarsi precipitosamente. I soldati persero 21 uomini, la maggior parte dei quali appartenenti ad un gruppo guidato dal maggiore Joe Elliot, che nel corso dello scontro si ritrovò separato dagli altri. Il maggiore Elliot perse la vita; la repentina ritirata di Custer, senza essersi accertato del destino del gruppo di Elliot, fu un’ ulteriore ombra sul comportamento di Custer e causò risentimento anche in seno allo stesso 7° Cavalleggeri.

Nel 1877 Crazy Horse si arrese, poco dopo fu ucciso dai federali. Nel 1881 anche Sitting Bull si arrese e fu imprigionato per due anni. Sitting Bull fu ucciso il 15 dicembre 1890 per mano della polizia indiana (ovviamente appartenente ad una tribù storicamente ostile ai Lakota) che lavorava per il governo USA. Il 29 dicembre la tribù di Big Foot che, alla notizia della morte di Sitting Bull, tentava di raggiungere la riserva di Red Cloud, fu massacrata a Wounded Knee Creek. Sitting Bull è ricordato tra i Lakota come un capo carismatico ed un coraggioso guerriero, ma anche come un padre affettuoso un uomo sempre affabile ed amichevole e dalla grande religiosità.

Un gruppo di indiani che alla notizia della morte di Sitting Bull  cercavano di raggiungere la riserva di Red Cloud viene massacrato ad opera del Settimo Cavalleria il 29 dicembre 1890. a Wounded knee. I cavalleggeri aprirono il fuoco dopo che gli indiani ebbero consegnate le armi. Morirono circa 350 indiani per la massima parte donne e bambini. Poiché incominciò a soffiare il blizzard i morti furono lasciati insepolti sul posto. Dopo  la tempesta i corpi dei caduti erano gelati in forme contorte.

A seguito della sconfitta dei Lakota e dei loro alleati Cheyenne e Arapaho nel 1876, gli Stati Uniti “comprarono” la regione delle Black Hills dai  Lakota in violazione del Trattato di Fort Laramie.

I Lakota non hanno mai accettato la validità di questa “compravendita” e l’ area è tuttora rivendicata dagli indiani.

In 1980, the Supreme Court of the United States ruled that the Black Hills were illegally taken and that remuneration of the initial offering price plus interest — over $100 million — be paid. The Lakota refused the settlement, as they wanted the return of their land instead. The Lakota Nation still demands the return of the Black Hills to this day; with the help of former Senator Bill Bradley of New Jersey, a bill was introduced in Congress for the return of a portion of the Black Hills.

IL MASSACRO DI BALANGIGA
(FILIPPINE)

Tra il 1899 ed il 1902 l’ America represse nel sangue il tentativo dei Filippini di difendere la loro, appena conquistata,  indipendenza. Nell’ intento di stroncare il movimento indipendentista gli statunitensi adottarono tutte le forme di rappresaglia contro la popolazione: dalla distruzione dei raccolti, alla segregazione in massa della popolazione in campi di concentramento (dove i filippini erano falcidiati da inedia e malattie), alle fucilazioni indiscriminate di civili come atto di mera rappresaglia per i caduti americani.

Nel 1902 il presidente della breve repubblica indipendente filippina, Emilio Aguinaldo, catturato con un espediente dagli americani, si vide costretto a proclamare la resa per porre fine al martirio della sua popolazione.

Il numero esatto delle vittime civili è naturalmente sconosciuto, ma tutti gli storici sono concordi nel ritenere che debbano essere state tra 250.000 ed 1.000.000.

Gruppi armati irriducibili continuarono a combattere fino al 1913.

 Il trattato di Parigi del 1898 pose fine alla breve guerra ispano-americana. In forza del trattato la Spagna abbandonava l’ isola di Cuba (che acquistava una formale indipendenza, ma che, in pratica, diveniva un protettorato degli Stati Uniti); inoltre cedeva Filippine, Guam e Porto Rico agli Stati Uniti in cambio di 20 milioni di dollari.

La guerra ispano-americana sanciva così la scomparsa della Spagna dal novero delle grandi potenze ed il prepotente ingresso degli Stati Uniti tra le potenze coloniali  e con aspirazioni egemoni.

Le aspirazioni “imperialistiche” degli Stati Uniti incontravano una certa resistenza interna anche nel mondo politico e culturale americano (una delle figure di spicco della “Lega anti-imperialista Americana” era, ad esempio, Mark Twain), ma il presidente in carica William McKinley dipinse la sua decisione di impossessarsi delle Filippine con un fervore tra il mistico-religioso ed il moralistico con sapienti accenni alla convenienza economico commerciale dell’ impresa:

When I next realized that the Philippines had dropped into our laps I confess I did not know what to do with them. I sought counsel from all sides—Democrats as well as Republicans—but got little help. I thought first we would take only Manila; then Luzon; then other islands perhaps also. I walked the floor of the White House night after night until midnight; and I am not ashamed to tell you, gentlemen, that I went down on my knees and prayed Almighty God for light and guidance more than one night. And one night late it came to me this way—I don’t know how it was, but it came:
(1) That we could not give them back to Spain—that would be cowardly and dishonourable;
(2) that we could not turn them over to France and Germany—our commercial rivals in the Orient—that would be bad business and discreditable;
(3) that we could not leave them to themselves—they were unfit for self-government—and they would soon have anarchy and misrule over there worse than Spain’s was; and
(4) that there was nothing left for us to do but to take them all, and to educate the Filipinos, and uplift and civilize and Christianize them, and by God’s grace do the very best we could by them, as our fellow-men for whom Christ also died.
(General James Rusling, “Interview with President William McKinley,” The Christian Advocate 22 January 1903)

E’ degno di rilievo che a più di 100 anni di distanza da questo discorso il linguaggio dei presidenti USA non sembra molto diverso: anche quando sono sul punto di invadere un paese straniero gli USA si considerano missionari portatori di valori superiori, obbligati protagonisti di un’ impresa “trascendente”. Poco importa se il compito di “educare i filippini innalzarli, civilizzarli e cristianizzarli” era in realtà rivolto ad un popolo che era in gran parte cattolico da tre secoli ed aveva una sua letteratura di notevole spessore (il poeta patriottico José Rizal) .

Negli ultimi anni del secolo era già attivo nelle Filippine un movimento indipendentista il “Katipunan” che combatteva gli Spagnoli: fintanto che le Filippine erano in mano alla Spagna gli americani mostrarono di appoggiare gli indipendentisti, ma quando le Filippine finirono nell’orbita americana la musica cambiò drasticamente.

Nel maggio del 1898 durante la guerra ispano-americana, gli americani facilitarono il ritorno in patria  del giovane leader degli indipendentisti filippini, il giovane generale Emilio Aguinaldo, che era in esilio ad Hong Kong. L’intenzione degli americani era evidentemente di riaccendere la rivolta dei filippini contro gli spagnoli al fine di indebolire ancora di più la Spagna. Infatti in pochi mesi l’esercito indipendentista filippino liberò praticamente tutto il territorio nazionale ad esclusione di Manila dove ancora resisteva la guarnigione spagnola completamente circondata dall’ esercito di Aguinaldo.

Nella campagna i filippini fecero prigionieri 15.000 spagnoli che poi consegnarono agli americani. Sul mare, nel frattempo la flotta americana aveva battuto quella spagnola nella battaglia della Baia di Manila.

Il 12 giugno 1898 Aguinaldo dichiarò l’ indipendenza delle Filippine nella città di Cavite El Viejo.

In agosto gli spagnoli della guarnigione di Manila si arresero, ma con un accordo segreto con gli americani, pattuirono di arrendersi non ai filippini che li circondavano, bensì proprio agli americani: poiché sulla terra fino a quel momento non vi era stato nessuno scontro tra spagnoli ed americani, il governatore spagnolo Fermin Jaudenes ed i comandanti americani (il generale Wesley Merrit e l’ ammiraglio George Dewey) organizzarono un finto scontro che permettesse loro di salvare la faccia.

Appena s’impossessarono di Manila gli americani telegrafarono al neopresidente Aguinaldo intimandogli di non entrare in Manila:

“Do not let your troops enter Manila without the permission of the American commander. On this side of the Pasig River you will be under fire” (Agoncillo, Teodoro 1960 (Eighth edition 1990). History of the Filipino People. ISBN 971-1024-15-2).

La dichiarazione d’ indipendenza delle Filippine del 12 giugno non fu dunque riconosciuta da Spagna ed America ed anzi gli americani,  nel trattato di Parigi del dicembre del 1898, pretesero la cessione delle Filippine.

Nel gennaio 1899 il presidente McKinley emise un proclama che sotto il nome di “Benevolent Assimilation Proclamation” dichiarava chiaramente che le forze americane di occupazione, a seguito del trattato di Parigi, subentravano agli spagnoli nel governo delle Filippine e che quindi:

In the fulfillment of the rights of sovereignity thus acquired and the responsible obligations of government thus assumed, the actual occupation and administration of the entire group of the Philippine Islands becomes immediately necessary ( da American Occupation of the Philippines 1898/1912 di James A. Blount)

Nel contempo con malcelata ipocrisia McKinley aggiungeva che le forze americane di occupazione non dovevano essere considerate come invasori o colonizzatori, ma come amici che avevano l’ intenzione di proteggere i nativi, le loro case, i loro affari, i loro diritti personali e religiosi e che gli USA avrebbero esercitato la loro autorità nell’ interesse dei governati.

Naturalmente ai Filippini che avevano da poco dichiarato la propria indipendenza dopo la lunga, sanguinosa ma (come vedremo) leale guerra di liberazione contro gli Spagnoli le parole del presidente americano ed i successivi proclami del governatore militare che, ricordiamo, in quel momento aveva il controllo solo della città di Manila, dovettero sembrare inique ed aberranti. Aguinaldo rispose con parole che sembrano avere una validità anche ai nostri giorni:

“My government cannot remain indifferent in view of such a violent and aggressive seizure of a portion of its territory by a nation which has arrogated to itself the title, ‘champion of oppressed nations.’ Thus it is that my government is ready to open hostilities if the American troops attempt to take forcible possession of the Visayan Islands. I announce these rights before the world, in order that the conscience of mankind may pronounce its infallible verdict as to who are the true oppressors of nations and the tormentors of human kind.
“Upon their heads be all the blood which may be shed.”
(Proclama di Aguinaldo del 5 gennaio 1899 da The Philippines: Past and Present (vol. 1 of 2), di Dean C. Worcester)

Nel frattempo i Filippini procedevano nel loro percorso di perfezionamento dell’ identità nazionale: il primo gennaio 1899 Aguinaldo fu dichiarato Presidente delle Filippine, mentre la Constituciòn Politica de la Repùblica Filipina fu votata da un’ Assemblea Costituente il 21 gennaio 1899.

LA GUERRA

L’ evento che diede materialmente il via alla guerra filippino-americana si verificò il 4 febbraio 1899 lungo il ponte di San Juan vicino Manila quando i militari americani spararono su una pattuglia di soldati filippini. La battaglia di Manila che ne seguì fu la prima e più sanguinosa battaglia dell’intera guerra. Gli americani forti dell’ appoggio dell’artiglieria e delle navi riuscirono a scacciare le truppe filippine dai dintorni di Manila. Alla fine della battaglia tra i filippini si contarono  2.000 perdite tra morti, feriti e catturati. Le truppe americane contarono circa 270 perdite tra morti e feriti.

La guerra si estese a tutte le Filippine. All’ inizio gli americani avevano un contingente di 40.000 uomini, ma fu necessario far giungere rinforzi per tenere testa alle forze Filippine. Due anni più tardi le truppe americane nelle Filippine contavano 126.000 uomini: praticamente i due terzi dell’intero esercito americano dell’epoca erano impegnati nella lotta contro i filippini. Dall’altra parte l’esercito regolare filippino contava 80.000 – 100.000 regolari più alcune decine di migliaia di ausiliari ed ovviamente godeva dell’ appoggio di gran parte della popolazione.

La giovane repubblica filippina era impegnata in una doppia impresa: da una parte la lotta contro l’esercito invasore, dall’altra cercare di coagulare tutte le forze del paese, intellettuali, proprietari, contadini per lo più frammentati etnicamente e geograficamente, nell’ ideale unitario e nella lotta per la difesa della sovranità dello stato. Tutti e due gli obiettivi furono raggiunti per quanto possibile. Lo scopo dei filippini non poteva essere quello di sconfiggere sul campo l’ esercito statunitense, bensì, come descrisse il generale filippino Francisco Makabulos, quello di stancare l’ opinione pubblica americana che vedeva crescere il numero delle perdite tra i propri soldati e quindi sperare nell’elezione di un nuovo presidente, al posto di McKinley, che cambiasse politica nei confronti della guerra nelle Filippine. Tuttavia nelle elezioni presidenziali del 1900 McKinley uscì nuovamente vincitore.

Per tutto l’ anno 1899 l’ esercito filippino contrastò sul campo aperto in battaglie condotte in maniera convenzionale la maggiore potenza di fuoco dell’esercito americano. Il valore e la determinazione dei nativi non riuscì ad impedire che gli americani conseguissero alcuni successi sul campo. Nella battaglia del Tirad Pass il Brigadier General Gregorio del Pilar resistette con 60 uomini fino al sacrificio per proteggere la ritirata del presidente Aguinaldo che rischiava di essere catturato dagli americani. Non solo i filippini ricordano con commozione il sacrificio di Gregorio del Pilar, ma anche gli americani furono colpiti dall’eroica morte del “ragazzo generale”  e scrittori americani contemporanei paragonarono lo scontro del Tirad Pass alle Termopili.

Tuttavia la perdita sui campi di battaglia di del Pilar e di altri generali indebolì la capacità  dell’esercito filippino di combattere una guerra convenzionale. Si aprì così una nuova fase: i Filippini rinunciarono a confrontarsi con le loro truppe schierate in campo aperto ed adottarono metodi da guerriglia con rapide imboscate ed azioni da “attacco e fuga”.

La nuova tattica creò iniziali forti difficoltà agli americani che furono maggiormente determinati nelle loro azioni di rappresaglia contro la popolazione civile. In America l’opinione pubblica veniva lentamente a conoscere le atrocità che le truppe americane commettevano contro civili e militari filippini. Infatti varie lettere di soldati al fronte o parti di esse furono pubblicate e divulgate dalle associazioni antiimperialistiche che negli USA criticavano l’ intervento nelle Filippine. Le descrizioni dei soldati erano così eloquenti e disastrose per l’immagine degli USA e della guerra che il Dipartimento della Guerra ed il generale Elwell Stephen Otis, che aveva preso il posto di Merritt come governatore militare delle Filippine, fecero pressione perché gli autori scrivessero delle ritrattazioni del contenuto delle lettere.

Il soldato   Charles Brenner del Kansas Regiment resistette alle pressioni, e confermò che i superiori davano l’ ordine di non fare prigionieri: come conseguenza rischiò la corte marziale, alla fine Otis rinunciò a porre sotto processo il soldato per timore che la cosa avrebbe suscitato uno scalpore ancora maggiore.

Per contrastare la cattiva immagine che l’occupazione americana aveva presso la stampa, il generale Otis iniziò una campagna volta a conquistare con favori la benevolenza della stampa ed al tempo stesso ad accusare i Filippini di torturare i prigionieri americani e di commettere atrocità. Da parte americana si giunse ad accusare i Filippini di mutilare i propri morti, uccidere donne e bambini per poi far ricadere la colpa sui soldati americani.

Verso la fine del 1899 Emilio Aguinaldo, per confutare le illazioni americane, suggerì che testimoni neutrali (giornalisti stranieri o rappresentanti della Croce Rossa) sorvegliassero le operazioni militari. Otis rifiutò, ma Aguinaldo riuscì a far giungere nelle Filippine quattro reporter, due inglesi, un canadese ed un giapponese. I quattro giornalisti, tornati a Manila, dichiararono che i prigionieri americani in mano ai Filippini erano trattati più come ospiti che come prigionieri( “ treated more like guests than prisoners”), che erano nutriti con quanto di meglio offrisse il paese e che veniva fatta ogni cosa per assicurare il loro benessere. I quattro reporter furono immediatamente espulsi dagli americani non appena le loro storie furono pubblicate. Emilio Aguinaldo rilasciò alcuni americani perché essi potessero raccontare le loro storie. In un articolo sul Boston Globe dal titolo “With the Goo Goo’s”, Paul Spillane descrisse il trattamento equo cui, da prigioniero, fu sottoposto. Spillane raccontò anche come Aguinaldo avesse invitato  i prigionieri americani al battesimo del figlio e come avesse regalato ad ognuno di loro quattro dollari. L’ ufficiale di marina J. C. Gilmore, la cui liberazione avvenne durante l’inseguimento di Aguinaldo tra le montagne ad opera della cavalleria americana, insisté che aveva ricevuto un trattamento di riguardo e come non avesse dovuto patire la fame più di quanto fosse toccato ai suoi stessi carcerieri. Otis rispose a questi due articoli ordinando l’arresto  dei due autori e che fossero indagati per slealtà.

Quando F. A. Blake della Croce Rossa Internazionale arrivò nelle Filippine su richiesta di Aguinaldo, Otis lo tenne confinato in Manila dove lo staff del generale americano gli illustrava con zelo tutte le supposte violazioni da parte filippina del modo classico di fare la guerra. Blake provò a sottrarsi alla sua scorta per andare a vedere di persona cosa accadeva sul campo. Blake non riuscì mai a passare le linee americane, ma anche così riuscì comunque a vedere villaggi bruciati e corpi di filippini orrendamente mutilati con ventri aperti e teste mozzate (“horribly mutilated bodies, with stomachs slit open and occasionally decapitated”). Blake aspettò di essere tornato a San Francisco per stilare il suo resoconto:  “American soldiers are determined to kill every Filipino in sight.”

Aguinaldo fu poi catturato dagli americani solo grazie ad un complicato inganno messo a segno il 23 marzo 1901, in Palanan, Isabela Province. L’ inganno fu ordito dal brigadiere generale Frederick Funston. Degli scouts filippini (Macabebe) che fiancheggiavano gli americani si fecero credere dei rinforzi che erano diretti verso l’ accampamento di Aguinaldo. I Macabebe collaborazionisti avevano con sé anche  un piccolo gruppo di americani che fingevano di essere prigionieri. Colte di sorpresa la guardie di Aguinaldo furono facilmente sopraffatte dopo un breve scontro.  Aguinaldo fu arrestato dal generale Funston ed imprigionato a Manila. Alcuni mesi dopo Aguinaldo si convinse che era inutile proseguire la lotta e con un proclama invitò i suoi a deporre le armi. Ma buona parte dei generali e delle truppe Filippine continuò la lotta nonostante il proclama del presidente.

BALANGIGA

L’ episodio di Balangiga ebbe luogo il 28 settembre 1901 nella città di Balangiga nell’ isola di Samar. Per i Filippini l’attacco è considerato uno degli episodi più valorosi della guerra, per gli americani una sconfitta che fu descritta la peggiore dalla battaglia di Little Big Horn del 1876. La successiva rappresaglia degli americani causò migliaia (decine di migliaia ?) di vittime civili.

Balangiga era una dei principali centri dell’ isola di Samar; all’ interno dell’ isola trovavano rifugio le forze filippine del brigadiere generale Vincent Lukban, un irriducibile che continuava a combattere anche dopo la cattura del presidente Aguinaldo. Per  aver ragione della resistenza dei Filippini, gli americani decisero di occupare i porti lungo la costa per impedire che rifornimenti giungessero alle truppe di Lukban.

Un contingente di 78 militari americani occupò Balangiga, un grosso villaggio di circa quattrocento piccole case. Il generale Lukban si ritirò a difesa verso l’interno dando istruzione agli abitanti di non opporre per il momento alcuna resistenza. Le relazioni tra il contingente americano e la popolazione furono piuttosto tese: gli americani, ispirati da ideali puritani, diedero ordine che le donne non indossassero il sarong, inoltre ottanta uomini abili furono obbligati forzatamente a lavorare per gli americani e furono anche costretti per giorni in detenzione. Inoltre gli abitanti temevano che gli americani avrebbero presto requisito tutte le vettovaglie serbate per l’approssimarsi della cattiva stagione.

Il 28 settembre guidati dal capo della polizia Valeriano Abanador i nativi fecero la loro mossa. Non disponendo di armi poiché non  avevano più reali contatti con la resistenza asserragliata all’interno dell’ isola, approfittarono del momento del pranzo in cui vi erano solo poche sentinelle armate. Circa 200 cittadini armati di machete si slanciarono contemporaneamente contro gli americani. La maggior parte degli americani fu sopraffatta, altri, guadagnate le armi, riuscirono a tenere indietro gli assalitori ed a fuggire verso le barche.

Nell’attacco perirono 48 americani e 25 nativi (alcune fonti riportano erroneamente che i caduti filippini furono 200, ma questa cifra invece era riferita al numero degli attaccanti). Gli abitanti catturarono anche 100 fucili e 25.000 pallottole una merce importante per le truppe della resistenza che fin dall’inizio avevano sempre sofferto della mancanza di armi moderne e di munizioni.

Ancora oggi quando si parla del “massacro di Balangiga” gli americani si riferiscono alla morte dei loro 48 soldati, ma il vero massacro doveva ancora avvenire.

Il giorno dopo lo scontro gli americani sbarcarono a Balangiga, ma trovarono il villaggio deserto. La rappresaglia (retaliation) coinvolse praticamente tutti gli abitanti dell’ isola di Samar. Il generale Smith istruì il maggiore Littleton Waller, ufficiale comandante a capo dei marines incaricati di ripulire l’ isola di Samar, sui metodi che voleva fossero adottati:

“Non voglio prigionieri, voglio che uccidiate e bruciate; più ucciderete e brucerete e più mi farete contento. Voglio che siano uccise tutte le persone che sono capaci di portare armi…” (“I want no prisoners. I wish you to kill and burn, the more you kill and burn the better it will please me. I want all persons killed who are capable of bearing arms.”) e poiché il maggiore Littleton Waller chiedeva quale fosse il limite di età al di sopra del quale un filippino dovesse essere considerato capace di usare armi, il generale rispose: “Dieci anni”

“Ten years,” Smith said.
“Persons of ten years and older are those designated as being capable of bearing arms?”
“Yes.” Smith confirmed his instructions a second time.

Benevolent Assimilation: The American Conquest of the Philippines, 1899-1903, Stuart Creighton Miller, (Yale University Press, 1982). p. 220

Ciò che seguì fu una completa e generalizzata strage di civili Filippini. Le tattiche adottate furono poche e semplici. Fu tagliata ogni possibilità di contatti e di scambi (e quindi rifornimenti di viveri) tra l’ isola ed il resto delle Filippine, le truppe penetrarono nell’interno distruggendo case, sparando alla gente, requisendo gli animali.

Dopo aver ricevuto gli ordini verbalmente dal generale Smith, il maggiore Waller emise ordini scritti ai suoi uomini istruendoli su cosa dovessero distruggere e cosa sequestrare e così via. Verso la fine del suo ordine, egli scrisse:  We have also to avenge our late comrades in North China, the murdered men of the Ninth U.S. Infantry. Ciò ovviamente aggiunse ancora più rabbia ed odio nelle azioni dei soldati. I Cinesi (era l’ epoca della rivolta dei Boxer) ed i Filippini erano, a quanto pare, della stessa natura: non c’ erano differenza tra gli “asiatici” (Victor Nebrida, Philippine History Group of Los Angeles (1997): The Balangiga Massacre: Getting Even).

Verso la fine di marzo 1902 le notizie dei massacri compiuti dagli americani (non solo a Balangiga, ma in varie parti delle Filippine) cominciarono a circolare negli USA. L’ opinione pubblica americana fu colpita dai resoconti che giungevano dalle Filippine. Furono istituiti dei processi per indagare sulle azioni commesse, dapprima fu indagato il maggiore Waller. Nel processo contro Waller fu chiamato come  testimone il generale Smith che inizialmente negò di aver dato verbalmente ordini speciali al maggiore, ma che fu confutato da altri ufficiali che confermarono che il generale aveva dato ordine di non fare prigionieri e di considerare nemici tutti i Filippini maschi al di sopra di dieci anni.

Il 5 maggio 1902 sul New York Journal fu pubblicata questa vignetta con un plotone di esecuzione che passa per le armi dei ragazzini filippini e con un avvoltoio al posto dell’ aquila simbolo degli Stati Uniti.
Il commento riportava: “Criminals because they were born ten years before we took the Philippines”

Il tribunale con decisione non unanime decise di prosciogliere il maggiore Waller. Durante il processo i giornali americani inclusi quelli di Philadelphia, città natale del maggiore, soprannominarono Waller  the “Butcher of Samar”.

In maggio fu la volta del generale Smith a rispondere alla corte marziale. Ma Smith non fu imputato di omicidio o crimini di guerra bensì per “conduct to the prejudice of good order and military discipline”. La corte marziale trovò Smith colpevole e la sentenza fu che fosse ammonito… “to be admonished by the reviewing authority.” (nota del curatore del sito: Confrontare l’esito di questo processo con gli esiti dei processi a John Chivington “the butcher of Sand Creek”, al sergente Horace T. West per l’ omicidio di  37 italiani, al Tenente William Calley per MyLai).

Per evitare possibili ulteriori ripercussioni nell’opinione pubblica, il “Secretary of War” Elihu Root (il cui comportamento durante tutta la guerra non è certo scevro da critiche) raccomandò che Smith fosse forzato a dimettersi. Il presidente Theodore Roosevelt accettò questa raccomandazione e forzò Smith a ritirarsi dal servizio senza ulteriori punizioni.

La statua del capitano della polizia Valeriano Abanador che guidò la rivolta degli abitanti di Balangiga occupa oggi il posto centrale nella piazza del Municipio del paese.

Il presidente Emilio Aguinaldo ebbe una lunghissima vita che gli diede anche delle soddisfazioni. Nel 1942 quando i giapponesi invasero le Filippine e scacciarono momentaneamente gli americani,  Aguinaldo con discorsi ed interventi alla radio, sposò la causa giapponese. Al ritorno degli americani fu da questi nuovamente imprigionato con l’ accusa di collaborazionismo, e fu detenuto per molti mesi nella prigione di Bilibid.

Ma il 4 luglio 1946 gli Stati Uniti concessero la piena sovranità e  indipendenza alle Filippine. Aguinaldo fu liberato. Nel 1962 quando gli Stati Uniti rigettarono le richieste dei Filippini di indennizzo per i danni causati dalle forze americane nella II Guerra Mondiale, il presidente Diosdado Macapagal spostò la celebrazione dell’ indipendenza delle filippine dal 4 luglio al 12 giugno, la data in cui nel 1898 Aguinaldo aveva dichiarato l’ indipendenza della prima repubblica Filippina. Aguinaldo novantatreenne guidò le celebrazioni per l’indipendenza sventolando la stessa bandiera che egli aveva innalzato il giorno dell’indipendenza 64 anni prima.

Aguinaldo morì nel 1964, la bandiera delle Filippine è quella da lui disegnata.

Ma c’ è ancora qualcosa da dire: Nel 1904 gli americani avevano requisito le campane della chiesa di Balangiga che furono spedite negli Stati Uniti perché fossero mostrate come trofeo di guerra. Le campane sono ancora oggi esposte nella base dell’ USAF di F. E. Warren a Cheyenne  nel Wyoming. Il governo delle Filippine ha ripetutamente richiesto il ritorno delle campane in patria, ma, fino ad oggi, nonostante le petizioni popolari e le richieste ufficiali, le campane sono ancora nel Wyoming.

Al contrario quali sono i sentimenti tra Filippini e  Spagnoli riguardo il periodo dell’ insurrezione e della lotta d’indipendenza che li vide combattere su fronti opposti? A Baler nell’ isola di Luzon c’è un monumento eretto non dagli Spagnoli, ma dai Filippini. Il monumento ricorda l’eroica resistenza di 50 soldati Spagnoli che asserragliati nella chiesa di Baler resistettero per un anno, dal 28 giugno 1898 al 2 giugno 1899, all’assedio delle truppe Filippine. Il comandante spagnolo, Saturnino Martin Cerezo, non sapeva e non volle credere che la guerra tra Filippini e Spagnoli era finita da mesi e che i nativi ora non combattevano più gli Spagnoli, ma un nemico nuovo, più potente e forse più brutale. Finalmente nel maggio 1899 giunse in delegazione un ufficiale spagnolo per comunicare a Cerezo che la guerra era finita. Anche così il comandante spagnolo non voleva inizialmente credere alle parole del compatriota, che non conosceva, fino a quando non gli furono mostrati giornali spagnoli che riportavano notizie che certamente i Filippini non potevano conoscere. Quando gli Spagnoli finalmente si arresero, il presidente Aguinaldo li onorò come eroi emanando il 30 giugno un decreto che inneggiava al valore dei 36 soldati spagnoli sopravvissuti e fornendoli di documenti per un pronto ritorno in patria. Fu un immediato e primo gesto di riconciliazione tra le due nazioni. La regina di Spagna rispose insignendo il presidente Aguinaldo, ex nemico, di un’alta onorificenza per la sua condotta da avversario leale nella guerra d’ insurrezione e per il comportamento nei confronti dei prigionieri spagnoli.

ALLA CONQUISTA DEL MONDO

 1900-1973

I BOMBARDAMENTI SULLA GERMANIA

Nell’estate del 1943 la Royal Air Force, con il supporto dell’VIII flotta aerea statunitense, cominciò una serie di incursioni su Amburgo. L’operazione era denominata in codice “Gomorra”. Aveva lo scopo di distruggere completamente la città tedesca, ritenuta dagli Alleati un obiettivo di alto valore strategico. Nella sola notte del 28 luglio, furono sganciate su Amburgo più di 2.300 tonnellate di bombe dirompenti e incendiarie. La metodologia era già collaudata: prima bombe dirompenti per scardinare finestre e ingressi degli edifici, poi contemporaneamente spezzoni e bombe incendiarie al fosforo per bruciare i tetti e appiccare il fuoco penetrando fin negli scantinati. Si generarono effetti particolari in quanto la grande quantità di bombe incendiarie provocò una forte corrente ascensionale di aria calda mentre l’aria più fredda dalla periferia si riversava verso l’interno della zona in fiamme; in breve le migliaia di incendi si fusero in un’unica “tempesta di fuoco” che raggiunse temperature elevatissime:

“Si scatenò una tempesta di fuoco così intensa che nessuno mai fino a quel giorno l’avrebbe creduta possibile. Il fuoco, levandosi in cielo in vampe alte fino a duemila metri, attirava a sé l’ossigeno con una violenza tale che le correnti d’aria raggiunsero la forza di uragani…simili ad una mareggiata, lingue di fuoco alte come palazzi si riversavano nelle strade ad una velocità di oltre 150 chilometri all’ora…in alcuni canali ardeva anche l’acqua…ovunque corpi orribilmente dilaniati. (Il giorno dopo) su alcuni corpi orrendamente dilaniati guizzavano ancora le fiammelle azzurre del fosforo.”

(W.G. Sebald, Storia Naturale della distruzione, Adelphi editore).

Il piano di bombardamenti su larga scala della Germania fu ideato nel 1940 e cominciò a diventare operativo nel 1942. L’affinamento della tecniche di incursione aerea, anche con l’impiego di agenti chimici come il fosforo bianco, dispiegò i suoi devastanti effetti sulla Germania nazista fino a culminare negli attacchi  ad Amburgo del 1943 ed a Dresda del febbraio 1945, in cui furono volutamente perseguite tattiche per far registrare un altissimo numero di perdite umane.

Di seguito si ripercorrono le tappe di tre anni di bombardamenti sulla Germania:

1942: i primi bombardamenti a tappeto e l’ Operazione Millennium.

Il Maresciallo dell’ Aria A. T. Harris fu il più tenace propugnatore del bombardamento “a tappeto” come arma per colpire il morale (e le vite) della popolazione civile ed in particolare degli operai dell’industria. La tecnica del bombardamento strategico mirato ad uccidere il maggior numero di civili si avvalse di alcune innovazioni tecniche e tattiche. Nel bombardamento di Lubecca del 28/03/1942 fu usato per la prima volta un nuovo radar di navigazione il Gee, inoltre nel corso del 1942 venne progressivamente aumentato il numero di bombardieri partecipanti ad ogni attacco e vennero studiate tattiche per concentrare sull’ obiettivo il maggior numero di velivoli nel più breve tempo possibile in modo da soverchiare le difese (antiaeree e le possibilità operative dei vigili del fuoco).

Il bombardamento di Colonia, che ebbe luogo a fine maggio, fu uno dei più pesanti. L’ azione fu battezzata “Operazione Millennium” in quanto per la prima volta  il Bomber Command della RAF riuscì a portare sull’obiettivo più di 1000 velivoli, una forza a quell’epoca senza precedenti. Benché due terzi delle 1455 tonnellate di bombe fossero incendiarie, non si generò il fenomeno della tempesta di fuoco e ciò essenzialmente grazie all’azione dei vigili del fuoco ed alla larghezza delle strade della città. Nonostante ciò i danni furono comunque pesanti (3000 case distrutte, 45.000 senzatetto) anche se probabilmente non tanto gravi quanto sperato dal Bomber Command. Altri attacchi cui parteciparono circa 1000 velivoli furono sferrati contro Essen (salvata da uno strato di nuvole basse) e Brema.

Nella seguente tabella le principali operazioni del 1942

data città aerei impiegati tempesta di fuoco US/GB vittime accertate
28 marzo 1942 Lubecca 234 GB 320
24/27 aprile 1942 Rostok 468 GB
5 maggio 1942 Essen 422 GB
31 maggio 1942 Colonia 1046 GB 474
1/2 giugno 1942 Essen + altre 956 GB 165

1943: la battaglia della Ruhr.

Il periodo che va dal marzo al luglio 1943 è noto come “battaglia della Ruhr” in quanto la maggior parte degli obiettivi era costituita da città e cittadine di questa regione industriale. Uno dei bombardamenti più pesanti fu quello portato sulla città di Essen, tra quelle più frequentemente colpite durante tutto l’arco della guerra. La tabella seguente mostra gli attacchi principali:

data città aerei impiegati tempesta di fuoco US/GB vittime accertate
5 marzo 1943 Essen 442 GB
8 marzo 1943 Norimberga 335 GB
4/5 maggio 1943 Dortmund 596 GB
23 maggio 1943 Dortmund 826 GB
29/30 maggio ’43 Wuppertale 719     (*) GB 6.000
24/25 giugno ’43 Wuppertale 630 GB
28/29 giugno ’43 Colonia 608 GB 4.500

Al bombardamento di Essen parteciparono 442 velivoli. Bombardieri Halifax nella prima ondata, Wellingtons e Stirlings nella seconda, Lancasters nella terza ed ultima ondata. Due terzi delle bombe adoperate erano incendiarie. Nell’ attacco ad Essen del 5 marzo furono abbattuti 14 velivoli pari ad una percentuale del 3,8 %. Tale percentuale era considerata accettabile e, sopratutto nelle prime fasi della battaglia, l’ offensiva aerea poté considerarsi un successo: i danni arrecati alle città e cittadine della regione furono pesanti, per esempio in poche ore durante il bombardamento di   Dortmund nella notte tra il 4 ed il 5 maggio  1943 fu distrutto praticamente l’intero centro storico della città con i suoi monumenti storici. In questo stesso primo bombardamento di Dortmund la percentuale dei velivoli abbattuti salì comunque al 5,3 % un valore già al limite della tollerabilità per i comandi della RAF.

L’ attacco a Wuppertale di maggio fu probabilmente il più sanguinoso della campagna della Ruhr. I velivoli “pathfinder” che avevano il compito di illuminare l’ obiettivo furono particolarmente precisi, di conseguenza, i bombardieri ebbero modo di concentrare  il loro carico bellico su un’ area più stretta. Per di più, essendo un sabato notte, i ranghi degli addetti ai servizi antincendio non erano al completo: scoppiarono incendi furiosi, tanto che, secondo alcuni storici, nell’attacco si generò per la prima volta il fenomeno che più tardi venne definito “tempesta di fuoco”.

Le vittime civili nel corso dell’ intera campagna tra marzo e luglio 1943 furono più di 15.000. I pur pesanti danni all’industria degli armamenti inflitti nel corso della battaglia della Ruhr furono comunque riparati in breve tempo e la produzione tornò normale già in autunno. Anche l’aviazione inglese ebbe a lamentare molte perdite: oltre 5.000 morti durante i citati cinque mesi in cui si svolse la battaglia.

Mentre la battaglia della Ruhr andava volgendo al termine, nell’ estate del 1943, appariva chiaro che le difese tedesche andavano diventando sempre più agguerrite. Durante l’ultimo periodo della battaglia la percentuale di velivoli che rientravano senza raggiungere l’ obiettivo, mese dopo mese era andata aumentando. Tale valore costituiva un indicatore del morale degli equipaggi. Spesso i motivi addotti per giustificare il rientro erano piuttosto inconsistenti. Per sbloccare la situazione e capovolgere l’andamento della guerra aerea, l’ alto comando britannico decise di ricorrere all’uso dei “windows”, chiamati “chaff” dagli americani, cioè a sottili striscioline di metallo lunghe 27 centimetri che sparpagliate dai velivoli avrebbero accecato il sistema di rilevamento radar tedesco. L’ espediente era del resto noto anche ai tedeschi che però avevano rinunciato ad adoperarlo per non rivelarlo agli angloamericani i quali avrebbero tratto un vantaggio maggiore dall’ uso degli “chaff” disponendo di una più potente forza aerea da bombardamento. Fu deciso che nella prevista successiva campagna di bombardamento su Amburgo, sarebbe stata adoperata la nuova tattica.

1943: la battaglia di Amburgo.

La fine dell’ estate 1943 vide quella che prese il nome di battaglia di Amburgo. La città tedesca fu sottoposta ad un bombardamento pressoché ininterrotto per 8 giorni: gli americani dell’ 8th Air Force bombardavano di giorno mentre gli inglesi agivano durante la notte.

Le condizioni meteo non avrebbero potuto essere più propizie  per gli attaccanti. Le temperature per tutto il mese di luglio erano state notevolmente alte, le precipitazioni quasi assenti, l’umidità molto ridotta: il 27 luglio fu registrato il valore più basso di umidità relativa di tutto il mese: meno del 50%. Non casualmente proprio quella notte si sarebbe sviluppata per la prima volta la tempesta di fuoco.

La battaglia di Amburgo iniziò nella notte tra il 24 ed il 25 luglio. Intorno la mezzanotte la difesa aerea tedesca diramò agli ospedali ed ai complessi industriali della città i primi allarmi di un attacco imminente. La prima ondata di bombardieri volava ancora lontano, sul mare, ma già le stazioni radar di Cuxhaven e Wangerooge l’ avevano avvistata. Trentatré minuti dopo la mezzanotte furono fatte suonare le sirene d’allarme per avvertire la restante popolazione.

Come sempre i primi bombardieri avevano il compito d’ “illuminare” la zona dell’ obiettivo. Erano i “pathfinder” il cui compito era di sganciare sulla città, individuata facendo unicamente uso del radar H2S di bordo, delle potenti candele (flares) illuminanti che continuavano a bruciare al suolo inondando di luce gialla una vasta area. Ad essi seguivano altri pathfinder che, alla  luce dei segnali luminosi lasciati dalla prima ondata, avevano il compito di individuare con più precisione il bersaglio e marcarlo con flares di colore rosso. Man mano che i bombardieri arrivavano in prossimità dell’obiettivo venivano sganciati anche gli “chaff”, per la prima volta utilizzati proprio durante la battaglia di Amburgo. Progressivamente il cielo sopra Amburgo si andò riempiendo di nuvole di striscioline metalliche e la reazione della contraerea si fece man mano più caotica mentre i radar tedeschi erano accecati.

La prima notte i 728 bombardieri giunti sul bersaglio sganciarono all’inizio dell’ attacco 1350 tonnellate di bombe ad alto esplosivo con lo scopo di creare distruzione e produrre macerie che avrebbero costituito il combustile per le successive 932 tonnellate di bombe incendiare sganciate nella seconda parte dell’ attacco.  Subito scoppiarono vasti incendi alcuni dei quali non erano stati domati neanche 24 ore dopo l’ attacco. Grazie alla tattica degli “chaff” gli attaccanti persero solo 12 velivoli. Quella prima notte ad Amburgo perirono più di 1500 persone.

La notte successiva, tra il 25 ed il 26 luglio, fu attaccata pesantemente la città di Essen, soli pochi bombardieri leggeri furono mandati su Amburgo per tenere sulla corda le difese della città e snervare la popolazione.

La notte tra il 27 ed il 28 luglio di nuovo le sirene di Amburgo suonarono l’ allarme. I tedeschi si aspettavano l’attacco ma ciò che avvenne fu al di là di ogni previsione. Alle 0,45 del 28 i pathfinders sganciarono i flares gialli, per le 2,40, quando le sirene suonarono il cessato allarme, i bombardieri britannici avevano sganciato 2382 tonnellate di bombe di cui ben 969 erano costituite da bombe incendiarie. Le favorevoli condizioni meteo, la tattica degli chaff, la concentrazione e precisione dell’ attacco, il citato espediente di alternare bombe esplosive ed incendiarie, la presenza di numerosi depositi di carburante in città, accumulati in previsione dell’ inverno, tutte queste ragioni, volute e pianificate proprio per arrecare il massimo danno, generarono le condizioni per le quali per la prima volta si sviluppò il fenomeno della “tempesta di fuoco”.  L’ area devastata dalla tempesta di fuoco comprendeva i quartieri di Rothenburgsort, Hammerbrook, Borgfelde e South Hamm, in questi quartieri la percentuale delle vittime fu altissima oscillante tra il 38% a South Hamm ed il 16% di Borgfelde. Il giorno seguente Goebbels ordinò che tutte le persone non addette ai servizi essenziali abbandonassero la città.

La notte tra il 28 ed il 29 la città fu ancora bombardata da una forza praticamente identica di bombardieri, stavolta però gli effetti furono minori certo grazie all’ordine di evacuazione, ma anche in virtù di una maggiore reazione della caccia tedesca che, proprio in quell’occasione, sperimentò nuove tecniche di difesa coordinando il fuoco della contraerea con l’utilizzo di caccia: la contraerea avrebbe aperto il fuoco sugli obiettivi fino a 7000 metri, al di sopra di quella quota avrebbero operato i caccia. Furono utilizzati anche caccia diurni quali i Me 109 ed i FW 190  che avrebbero attaccato a vista al di sopra della città illuminata dagli incendi e dai potenti riflettori dell’antiaerea.

Un quarto ed ultimo attacco massiccio fu portato la notte tra il 2 ed il 3 agosto, ma le avverse condizioni del tempo non resero  possibile il ripetersi delle distruzioni registrate nei giorni precedenti.

Complessivamente in pochi giorni su Amburgo vennero sganciate più di 9000 tonnellate di bombe: il generarsi della “tempesta di fuoco” e gli effetti di questo bombardamento sono stati descritti in testa alla presente pagina. Oltre alle 55.000 vittime 1.000.000 furono i senzatetto sfollati ed oltre la metà delle case di Amburgo fu distrutta. Quando si rese conto di ciò che era accaduto, Speer esclamò che altri sei attacchi come quello avrebbero posto fine alla guerra.

Alla fine dell’estate ed inizio autunno del 1943 l’offensiva proseguì su altre città della Germania. In questi attacchi diventava progressivamente sempre più importante la partecipazione americana man mano che si completava lo spiegamento dell’ 8th Air Force nelle basi in Inghilterra prima e poi anche in Italia. Gli angloamericani inoltre studiarono a fondo gli effetti verificatisi nel bombardamento di Amburgo per cercare di ripetere l’innesco della “tempesta di fuoco”. Ci riuscirono sulla cittadina di Kassel che ebbe un elevatissimo numero di vittime in rapporto agli abitanti.

Di seguito come sempre la tabella riassume solo i principali attacchi in questa fase della offensiva aerea angloamericana:

data città aerei impiegati tempesta di fuoco  US/GB vittime accertate
25 luglio 3 agosto 1943 Amburgo 3095 * GB-US 55.000
10/11 agosto 1943 Norimberga 653 GB
23/24 agosto 1943 Berlino 727 GB
22/28 settembre 1943 Hannover 1388 GB-US
8/9 ottobre 1943 Hannover 504 GB
22 ottobre 1943 Kassel 569 * GB 8.000

1944: la battaglia di Berlino.

Nella primavera del 1944 gli angloamericani pianificarono una serie di pesantissimi attacchi contro Berlino con l’intenzione di sferrare un colpo mortale alla città. Harris pensava che l’offensiva aerea sulla capitale avrebbe avuto un costo pesante in termini di velivolo abbattuti (stimava tra 400 e 500) ma che le devastazioni avrebbero portato la Germania alla resa. Gli attacchi su Berlino ebbero inizio nel tardo autunno del 1943.  Le condizioni climatiche, la distanza della città dalle basi britanniche, l’ efficacia della caccia tedesca, protessero parzialmente la città. Il bombardamento più pesante fu quello della notte tra il 22 ed il 23 novembre in cui ci furono 2.000 morti e 175.000 senzatetto e si generarono delle parziali tempeste di fuoco di ridotte dimensioni. 

Nonostante le devastazioni la battaglia di Berlino non fu un successo per gli angloamericani. Le perdite di velivoli furono costantemente alte, con punte anche del 10% rispetto gli aerei impiegati, la produzione industriale tedesca continuò ad aumentare fino all’ estate 1944 ed ovviamente la guerra continuò. Berlino non aveva un centro storico antico, i suoi viali erano larghi e le case erano spesso dotate di pareti tagliafuoco; inoltre la città era potentemente difesa dalla contraerea e i suoi servizi antincendio erano oltremodo efficienti; non si ebbero quindi gli effetti registrati ad Amburgo, né la percentuale di vittime sulla popolazione urbana fu paragonabile a quella di Amburgo o  Dresda. In totale si stima che tutta l’offensiva provocò un totale di 25.000 vittime nella città.

All’ ultima parte della battaglia di Berlino gli americani parteciparono in forze. Le formazioni americane operavano di giorno fidando nel pesante armamento difensivo dei B17; inoltre i bombardieri erano appoggiati e difesi da squadriglie di caccia che ingaggiavano i velivoli intercettori tedeschi.

data città aerei impiegati tempesta di fuoco US/GB vittime accertate
18 novembre 1943 Berlino 444 GB
22/23 novembre 1943 Berlino 764 (*) GB 2.000
2/3 dicembre 1943 Berlino 458 GB  20.000
29/30 dicembre 1943 Berlino 712 GB
21/26  febbraio 1944 Berlino
6 marzo 1944 Berlino 600 US
8 marzo 1944 Berlino 500 US
24/25 marzo 1944 Berlino 810 GB
30 marzo 1944 Norimberga 795

Nel corso della battaglia, gli attacchi principali portati su Berlino furono 16. Altri attacchi furono portati su Francoforte, Stoccarda, Lipsia, Norimberga ed altre città. L’ incursione su Norimberga del 30 marzo 1944 fu sicuramente il più grave e pesante smacco angloamericano nella intera campagna di bombardamenti ed al tempo stesso il più grande, ma anche l’ultimo, successo  tedesco nella lotta per la difesa dei cieli delle città della Germania.

1944: il raid su Norimberga.

La notte tra il 30 ed il 31 marzo 1944 avrebbe dovuto essere una delle notti di inattività per i bombardieri inglesi a causa delle sfavorevoli condizioni di luce dovute alle fasi lunari, tuttavia l’azione su Norimberga fu comunque pianificata sulla base di indicazioni meteo che prevedevano la presenza di nuvolosità in quota lungo la rotta di andata (quando la luna sarebbe stata alta) ed assenza di nuvolosità sull’obiettivo. Un Mosquito inviato in ricognizione meteorologica riportò che la copertura nuvolosa sarebbe stata probabilmente assente mentre le condizioni di visibilità sull’obiettivo stavano peggiorando. Nonostante il rapporto aggiornato la missione non fu annullata. Si levarono in volo 795 velivoli: 572 Lancaster 214 Halifax e 9 Mosquitos. Una sessantina di bombardieri dovettero comunque rientrare per problemi vari, 728 velivoli raggiunsero e superarono le coste del Belgio.

Norimberga con la stessa Berlino e con Stoccarda erano gli obiettivi più lontani dagli aeroporti britannici. I bombardieri dovevano effettuare un volo di oltre otto ore per giungere sulla città. Una gran parte del volo doveva essere fatto senza la protezione della caccia. Agli equipaggi fu detto che l’obiettivo erano le fabbriche MAN di carri armati Panther, le fabbriche della Siemens ed una caserma di SS; in realtà il centro dell’attacco era fissato su un’area residenziale dove erano maggiori le possibilità di innescare gli incendi.

Subito dopo mezzanotte la Flak attestata nei pressi di Liegi abbatté il primo bombardiere. Nonostante i diversivi, il comando tedesco correttamente ricostruì che Norimberga doveva essere l’obiettivo delle formazioni che si stavano avvicinando. Due radiofari guidarono le formazioni di caccia tedeschi lungo la rotta per Norimberga. Nella luce della luna i primi caccia giunsero sulle formazioni di bombardieri in prossimità del confine con il Belgio. Per oltre un’ora i caccia impegnarono le formazioni in avvicinamento.  82 bombardieri furono abbattuti lungo il percorso di andata ed in prossimità dell’obiettivo. Solitamente i bombardieri non lasciano scie di vapore volando al di sotto degli 8000 metri, per questa ragione i velivoli volavano al di sotto di questa quota e molti al di sotto dei 5.500 metri; nonostante questo, per qualche ragione meteorologica, quella notte  si formarono le scie chiaramente indicando alla caccia tedesca dove fossero i velivoli nemici. I caccia notturni tedeschi ebbero una grande notte: oltre 30 bombardieri furono abbattuti da soli otto equipaggi. L’ Oberleutnant Martin Becker con il suo caccia notturno tra le 0,20 e le 0,50 abbatté 6 quadrimotori. Sulla via del ritorno incontrò di nuovo i bombardieri che rientravano ed alle 3,15 del 31 marzo abbatté il settimo bombardiere in un’unica azione. Quella notte un altro tenente della Luftwaffe abbatté a sua volta 6 aerei inglesi. Gli equipaggi inglesi vedevano i loro commilitoni cadere uno dopo l’ altro in fiamme.

L’ azione della caccia tedesca si affievolì lungo il percorso di ritorno dovendo molti caccia atterrare per l’esaurimento del carburante. In tutto 95 quadrimotori furono abbattuti (64 Lancaster e 31 Halifax), inoltre 12 bombardieri furono totalmente distrutti nell’atterraggio o dovettero comunque essere demoliti e 59 riuscirono ad atterrare pur danneggiati. La percentuale di perdite fu dunque dell’ 11.9 % della forza inviata e la percentuale di veicoli abbattuti o danneggiati fu del 20%.

Dal punto di vista dei risultati, soprattutto a confronto con le pesanti perdite subite, l’ attacco fu un insuccesso. Norimberga era coperta da un pesante strato di nuvole ed un forte vento trasversale fece sì che molti dei veicoli pathfinders sganciarono le loro bombe di segnalazione troppo ad est dell’obiettivo prefissato.  Nella città 60 civili tedeschi perirono sotto il bombardamento incluse 24 donne ed 8 bambini.  Per di più 110 bombardieri e due pathfinders sbagliarono obiettivo e bombardarono Schweinfurt dove causarono la morte di una donna ed un bambino. I tedeschi perdettero 9 velivoli e 19 uomini della Luftwaffe.  Gli attaccanti perdettero 545 uomini di cui 150 ufficiali (in una sola notte perdettero tanti aviatori quanti ne avevano persi in tutta la Battaglia d’ Inghilterra) ed altri 152 (molti gravemente feriti) furono catturati.

Nella battaglia di Berlino, di cui il raid su Norimberga fu l’epilogo, il Bomber Command raggiunse un livello di perdite inaccettabile. Il morale degli equipaggi crollò decisamente e molti furono espulsi con disonore per LMF (mancanza di fibra morale). Divenne comune per molti equipaggi liberarsi del loro “cookie” (la bomba da 4000 libbre) sul mar del Nord nel tentativo di guadagnare sufficiente quota da volare al di sopra della gittata utile degli 88 della contraerea tedesca. Un’altra pratica comune era quella di liberarsi comunque anticipatamente del carico bellico (il vice Maresciallo dell’ Aria D.C.T. Bennet chiamò questi equipaggi “fringe merchants”).

In totale 1047 bombardieri furono abbattuti nei 4 mesi e mezzo di battaglia: più del doppio di quanto il Maresciallo Harris si aspettasse e, cosa ben più importante, gli effetti per quanto disastrosi per la popolazione civile tedesca, furono ben lontani dall’ essere decisivi.

1945: le distruzioni finali.

Con lo sbarco in Normandia (e la conseguente possibilità di operare da basi sul continente) ed inoltre con l’apparizione di nuovi modelli di caccia americani a grande autonomia, principalmente il P51 Mustang, la Germania perse progressivamente il dominio dell’aria anche nei cieli delle proprie città. I bombardieri americani che operavano di giorno potevano godere dell’appoggio praticamente continuo dei nuovi caccia. Gli intercettori diurni tedeschi dovevano ingaggiare violenti combattimenti con i caccia e, di giorno, la maggior parte delle perdite di bombardieri era dovuta solo all’azione della contraerea. Durante la notte i bombardieri inglesi continuarono ad avere pesanti perdite ad opera della caccia notturna.

Negli ultimi mesi del 1944, i bombardamenti sulle città tedesche continuarono sopratutto sulla Ruhr, per colpire gli impianti industriali, e sulle città che ospitavano impianti di carburante. Ovviamente e fortunatamente per le città tedesche una parte considerevole delle azioni di bombardamento era destinata in appoggio alle truppe terrestri.

Proprio quando sembrava che la fine fosse ormai imminente, gli angloamericani pianificarono due tra gli attacchi più sanguinosi di tutta la guerra: su Berlino ad opera degli americani e su Dresda ad opera di forze congiunte inglesi ed americane.

data città aerei impiegati tempesta di fuoco US/GB vittime stimate
3 febbraio 1945 Berlino 1000 US 20.000
13/14 febbraio 1945 Dresda 1260 * GB-US 235.000 (?)

Su Dresda furono provocate distruzioni terribili. La città non aveva alcun interesse militare né alcun interesse strategico: era priva di impianti industriali. Era inoltre una delle città più belle della Germania e tra l’altro stava per essere investita direttamente dall’avanzata russa. Era quindi affollata di profughi che provenivano dai territori ormai invasi dall’armata rossa. Anche per questo non è mai stato possibile quantificare con esattezza le vittime. Come ad Amburgo due anni prima anche a Dresda si produsse una tempesta di fuoco.

“Le decine di migliaia di incendi si fusero in una sola gigantesca fiammata; dalla periferia un vento artificiale, sempre più violento, puntò verso il centro, infuocandosi e raggiungendo una velocità  di 300 chilometri all’ora; chi si trovava all’aperto, sparì trascinato nel cielo; a terra, intanto, tutto bruciava con tale violenza che venne meno l’ossigeno necessario alla respirazione” (da Mario Silvestri (fisico), La decadenza dell’Europa occidentale – Einaudi).

Uno spettatore involontario dell’olocausto di Dresda fu lo scrittore americano Kurt Vonnegut, che era stato fatto prigioniero durante la battaglia delle Ardenne ed era in prigionia a Dresda. Vonnegut, che rimase traumatizzato da ciò che aveva visto, si salvò poiché rinchiuso in una grotta ricavata sotto il mattatoio della città, normalmente utilizzata per l’immagazzinamento della carne. Questo episodio, anni dopo, verrà ripercorso  nel suo romanzo più famoso, Mattatoio 5, ma a più riprese nelle sue opere si possono trovare accenni a quell’esperienza che lo avrebbe segnato per tutta la vita.

Anche quei prigionieri americani all’indomani dei bombardamenti furono impegnati nell’opera di rimozione dei cadaveri. In “Armageddon in Retrospect”, apparso postumo, e che raccoglie vari scritti, Vonnegut torna a lungo sull’ argomento:

…it is with some regret that I here besmirch the nobility of our airmen, but, boys, you killed an appalling lot of women and children. The shelter I have described and innumerable others like it were filled with them. We had to exhume their bodies and carry them to mass funeral pyres in the parks, so I know. The funeral pyre technique was abandoned when it became apparent how great was the toll. There was not enough labour to do it nicely, so a man with a flamethrower was sent down instead, and he cremated them where they lay. Burnt alive, suffocated, crushed – men, women, and children indiscriminately killed….
The occupying Russians, when they discovered that we were Americans, embraced us and congratulated us on the complete desolation our planes had wrought. We accepted their congratulations with good grace and proper modesty, but I felt then as I feel now, that I would have given my life to save Dresden for the world’s generations to come. That is how everyone should feel about every city on earth.
(K.V.)

Il bombardamento di Dresda.

Dresda viveva in una specie di limbo. Non era mai stata toccata seriamente dalla guerra, sia per la posizione geografica sia perché non aveva né industrie né impianti militari rilevanti. Un solo bombardamento, nell’ottobre dell’anno precedente, aveva causato poco più di 400 morti, una cifra quasi irrisoria nella tragica contabilità bellica.
Nonostante l’affollamento di profughi, Dresda riusciva ad avere quantità di cibo abbastanza soddisfacenti. E molti profughi si dirigevano verso quella città proprio perché era ormai convinzione generale che fosse il posto più tranquillo in cui attendere la fine della guerra. Purtroppo gli abitanti di Dresda non potevano sapere che il tempo delle considerazioni umanitarie, ma anche di quelle logiche, era passato. Diversi fattori concomitanti portarono al bombardamento della città capitale della Sassonia.

La resistenza della Germania, che aveva dell’incredibile, unita alla lunghissima durata della guerra, aveva di certo ormai portato ad una nausea psicologica anche i militari e i politici più ligi alle regole minime da rispettare anche in guerra. E infatti fin dall’estate dell’anno precedente RAF e USAAF avevano elaborato il piano Thunderclap (colpo di tuono), il cui scopo dichiarato era quello di portare il massimo del caos in Germania, con bombardamenti indiscriminati sulle città, in particolare approfittando dei problemi che già avevano le autorità tedesche per controllare le fiumane di profughi da Est, creando nuovi e irresolubili problemi di approvvigionamento e di ordine pubblico.

A questa visione distruttiva, si aggiungeva un’esigenza di cinica politica di potenza tra alleati. Inglesi e americani erano uniti in una innaturale alleanza con i sovietici, e la diffidenza reciproca si palesava sempre di più, ora che l’Armata Rossa avanzava sul territorio del Reich. I Russi dovevano vedere, bene e senza equivoci, quale fosse la potenza militare occidentale: quello che oggi poteva toccare a Berlino o a Dresda, domani poteva toccare a Mosca.

In questo dialogo insensato tra nemici che erano alleati solo perché c’era un nemico comune da distruggere, i cittadini di Dresda avrebbero presto pagato un conto che non era di loro competenza.

E l’avallo alla politica del massacro fu data dallo stesso primo ministro inglese Churchill, in una nota scritta al ministro per l’Aviazione, Sir Archibald Sinclair. Gli americani furono presto contagiati da questo clima, e l’Ottava Armata Aerea americana bombardò a tappeto Berlino il 3 febbraio: 937 fortezze volanti, scortate da 613 caccia, causarono 25.000 morti in una città dove c’era da stupirsi che ci fossero ancora dei vivi da uccidere.

Alle ore 22.08 di martedì grasso (13 febbraio 1945) le sirene di allarme aereo vennero a interrompere i clown che si stavano esibendo nel carosello finale allo spettacolo carnevalesco del Circo Sarassini. Gli spettatori si allontanarono in ordine e quasi svogliatamente: era così ferma la convinzione che Dresda fosse esente da pericoli, che tutti credevano ad un eccesso di zelo dei funzionari del partito incaricati della protezione della città. Del resto, non c’era praticamente contraerea a Dresda; gli ultimi cannoni da 88, il miglior pezzo di artiglieria tedesco, erano stati trasferiti da diverse settimane a est, per essere usati in funzione controcarro contro l’armata sovietica.

Ma non era un eccesso di zelo. Due soli minuti dopo il cielo incominciava ad affollarsi: i primi quadrimotori Lancaster dell’83° squadriglia inglese lasciavano cadere grappoli di bengala che illuminavano a giorno la città, poi seguirono pochi Mosquitos, agili cacciabombardieri il cui compito era quello di individuare con bombe segnaletiche rosse l’epicentro del bombardamento, lo stadio sportivo. I Mosquitos fecero egregiamente il loro compito: nel centro esatto dello stadio si levava ora una luminosissima colonna rossa. I bombardieri avevano il loro bersaglio.

Dalle 22.13 alle 22.30 i Lancaster scaricano sulla città le terribili bombe dirompenti da 1.800 e 3.600 libbre. Poi si allontanano in direzione di Strasburgo, volando bassi per sfuggire ai radar tedeschi. I soccorsi iniziano ad affluire dalle città vicine, mentre gli abitanti escono lentamente dai rifugi. Erano quello che attendevano gli alleati: far uscire la gente, far arrivare i soccorsi, e tornare a colpire.

 

La “Tecnica del massacro”.

Ore 1.28 del 14 febbraio. La seconda ondata arriva, indisturbata come la prima. Altri 529 Lancaster portano nelle stive 650.000 bombe: per lo più sono tutti ordigni incendiari. E’ l’inizio dell’inferno. Bombardando a destra e a sinistra delle zone già colpite dal primo attacco gli inglesi riescono a provocare la tempesta di fuoco. Dalle case già sventrate dalle bombe dirompenti viene aspirato ogni oggetto e ogni persona che si trovi nel primo chilometro dall’immane incendio. Si ripete Amburgo, ma questa volta scientificamente e con effetti enormemente superiori. Il vento a 300 km/ora trascina nella fornace ogni cosa, persona, animale. Persino vagoni ferroviari, distanti più di tre chilometri, vengono rovesciati. Il pilota di un Lancaster rimasto indietro racconterà: “C’era un mare di fuoco che secondo i miei calcoli copriva almeno un centinaio di chilometri quadrati. Il calore era tale che si sentiva fin nella carlinga; eravamo come soggiogati di fronte al terrificante incendio, pensando all’orrore che c’era là sotto… “

Chi non ha il coraggio di uscire dai rifugi dopo il primo attacco, non per questo si salva. Molti faranno la fine dei topi, soffocati nei rifugi, privi di ossigeno, divorati dall’immane rogo.
Nell’anno precedente nei rifugi antiaerei di Dresda era stata presa la precauzione di rendere abbattibile le pareti tra rifugio e rifugio, in modo da poter facilmente creare una sorta di galleria sotterranea, che permettesse una via di fuga se lo stabile sopra il rifugio in cui ci si trovava era crollato. Questa precauzione sarebbe stata efficace con un bombardamento ordinario, ma all’inferno di fuoco scatenato su Dresda non era opponibile nulla, se non il trovarsi a una distanza sufficiente per non essere trascinato dal vento e divorato dalle fiamme o per non morire asfissiato per mancanza di ossigeno.

Il bagliore della colonna di fuoco di Dresda era visibile a oltre trecento chilometri.
All’alba del 14 febbraio finalmente la tempesta di fuoco andava acquietandosi, mentre una colonna di fumo alta oltre cinque chilometri sovrastava la città. I sopravvissuti iniziavano ad aggirarsi inebetiti, ma il martirio non era ancora finito. Gli americani non potevano essere da meno degli inglesi: alle ore 12 di quel giorno 311 Fortezze Volanti B17 si presentarono nel cielo di Dresda, sganciando altre 771 tonnellate di bombe. Il nodo ferroviario era l’obiettivo ufficiale, ma di fatto il bombardamento fu eseguito a casaccio e causò pochi danni, perché ormai era rimasto poco da distruggere.

In totale su Dresda erano state sganciate 2.702 tonnellate di bombe. Un quantitativo non enorme, se confrontato con quello lanciato su altre città tedesche. Ma la preferenza data alle bombe incendiarie, che rappresentarono circa il 70% degli ordigni lanciati, causò la più spaventosa tragedia della guerra: i morti accertati furono 135.000, ma il conto più accreditato fa salire a oltre 200.000 il numero delle vittime. Bisogna tener conto del fatto che non era possibile alcuna opera di identificazione per le vittime di molti rifugi antiaerei che, per ragioni igieniche, vennero spianati con le ruspe e ricoperti di calce e cemento, così come non fu possibile accertare il numero preciso delle vittime aspirate dalla tempesta di fuoco nella zona centrale dell’incendio, perché di loro non restò assolutamente nulla. Nella zona intermedia, dove la temperatura aveva raggiunto i livelli da forno (200 – 300 gradi) molti corpi si erano fusi con l’asfalto delle strade. Dresda era anche sovrappopolata per il grande afflusso di profughi, moltissimi dei quali non ancora censiti.

Gli incendi proseguirono per altri cinque giorni, poi si spensero da soli. Non esisteva la possibilità di fare alcuna opera di spegnimento, essendo distrutte le reti idriche e quelle elettriche.
Per tre giorni le autorità chiusero il centro di Dresda e bruciarono i cadaveri che ancora non erano stati sepolti o interrati con calce e cemento. Il rischio di epidemie era troppo grande per dare spazio alla pietà per i defunti.
Questo fu Dresda: un orribile massacro, che non trovò alcuna giustificazione dal punto di vista militare. Fu il macabro record di disumanità, non eguagliato neanche dai bombardamenti atomici sul Giappone, che causarono “solo” 150.000 morti.

E per coprire queste immani porcherie, e tutti gli altri crimini commessi nel corso della guerra, hanno poi inventato (e persino realizzato) i campi di sterminio, le camere a gas e i forni crematori e la favola dei sei milioni di ebrei morti in essi, trovando puntualmente milioni di imbecilli pronti a crederci. Il che ha permesso loro di utilizzare tali favole fino ad oggi per giustificare la politica criminale perseguita dallo Stato di Israele ed incondizionatamente sostenuta dagli Stati Uniti.

SICILIA 1943

Il 23 e il 24 giugno 2004 Gianluca Di Feo scrive due articoli  sul Corriere della Sera che per la prima volta, almeno in Italia, squarciano un velo di omertà durato 60 anni: nel luglio 1943 soldati americani appartenenti alla 45esima Divisione dell’ armata comandata dal generale George Smith Patton, appena sbarcati in Sicilia, uccisero a sangue freddo diverse decine di soldati italiani (ed anche alcuni soldati tedeschi) che si erano arresi. Gli episodi citati dal giornalista sono diversi, di due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio.

I primi giorni dello sbarco in Sicilia videro aspri combattimenti nella piana intorno Gela. Lo sbarco ebbe inizio intorno  le 2:30 della  mattina del 10 luglio: i reparti del 429° battaglione costiero, schierato lungo le casematte a difesa della spiaggia e dell’ abitato, comandato dal maggiore Arnaldo Rabellino, subiscono il primo urto americano ma tengono finché possibile, causando pesanti perdite negli attaccanti e permettendo di guadagnare tempo. Alla fine il battaglione lascerà sul campo 17 ufficiali e 180 soldati pari a poco meno del 50% degli effettivi disponibili. Solo intorno le 8,00 del mattino gli americani riescono infine ad entrare in Gela, ma intanto  cominciano ad affluire dalle retrovie i reparti  italiani della divisione Livorno, quelli tedeschi della Herman Goering ed un gruppo mobile di carri leggeri italiani. Il contrattacco delle forze italotedesche è tanto disperato quanto  determinato, per le intere giornate del 10 e dell’11 i reparti italiani contrattaccano, riuscendo più volte a raggiungere le case di Gela ed a respingere gli americani verso il centro del paese ed in direzione della spiaggia. Alla fine sotto l’incessante tiro delle artiglierie della flotta d’invasione e sotto l’azione dell’ aviazione  americana, l’impeto della Livorno si esaurisce. La maggior parte dei caduti italiani sono ascrivibili proprio al fuoco delle navi. Gli italiani iniziano a ritirarsi incalzati dalle fanterie americane. Il 13 cade Niscemi ed il 14 Biscari.  Nei pressi dell’ aeroporto di Biscari si svolse in due momenti successivi e distinti il tragico massacro di prigionieri italiani di cui ormai si conoscono tutti i dettagli.

Scrive Di Feo:

«Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole partecipare all’ esecuzione?”. Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani».

«Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò tutti»…

Probabilmente i due episodi avvenuti a Biscari sarebbero passati inosservati ed impuniti come chissà quanti altri episodi simili se non fosse stato per il verificarsi di una serie di circostanze fortuite e per l’onesto, civile  e coraggioso  comportamento del cappellano tenente colonnello William King.

Nel suo libro The Day of Battle: The War in Sicily and Italy, 1943-1944,  Rick Atkinson così descrive la scoperta fatta dal cappellano King:

Il mattino successivo (quindi il 15 luglio) alle 10:30 il tenente colonnello William E. King guidava la sua jeep verso l’ aeroporto di Biscari da poco conquistato. Durante la prima guerra mondiale King era stato  ferito ed aveva temporaneamente perso la vista. Questa esperienza drammatica lo aveva spinto a diventare ministro della chiesa battista. Ora, diventato cappellano della 45a Divisione,  serviva contemporaneamente il Signore ed il suo paese, apprezzato per la sua generosità e per la brevità dei suoi sermoni. La sua attenzione fu catturata da una pila di corpi in prossimità di un oliveto ed egli fermò la jeep e scese a bocca aperta ad investigare. “La maggior parte giacevano a testa in giù, alcuni faccia in su” – raccontò King più tardi – “tutti quelli che giacevano supini mostravano  un  colpo d’ arma da fuoco proprio sulla parte sinistra, nella zona del cuore“. La maggior parte anche mostrava ferite alla testa; bruciature sui capelli e tracce di polvere indicavano che i colpi erano stati sparati a distanza ravvicinata. Alcuni soldati  che si riposavano nei dintorni raggiunsero il cappellano protestando che essi “avevano preso le armi proprio per combattere quel genere di cose” – disse King – “Essi si vergognavano dei loro stessi  connazionali“. Il cappellano tornò in fretta verso il comando della divisione per raccontare la crudele scoperta.

The next day at 10:30 a.m., Lieutenant Colonel William E. King drove his jeep up the Biscari road toward the now secure airfield. It was said that King had been temporarily blinded during World War I, and the ordeal had propelled him into the ministry as a Baptist preacher. He now served God and country as the 45th Division chaplain, admired for his generosity and the brevity of his sermons. A dark mound near and olive grove caught his eye, and he stopped the jeep, mouth agape, to investigate. ‘Most were lying face down, a few face up,’ King later recalled. ‘Everybody face up has one bullet hole just to the left of the spine in the region of the heart.’ A majority also had head wounds; singed hair and powder burns implied the fatal shots had come at close range. A few soldiers loitering nearby joined the chaplain, protesting that ‘they has come into the war to fight against that sort of thing,’ King said. ‘They felt ashamed of their countrymen.’ The chaplain hurried back to the division command post to report the fell vision.
(The Day of Battle: The War in Sicily and Italy, 1943-1944. By Rick Atkinson)

Una circostanza che pure permise al caso di venire a galla fu il contrasto caratteriale tra il generale Omar N. Bradley comandante del 2° corpo della  7a armata americana ed il suo superiore  generale Patton a comando dell’ intera 7a armata. Riflessivo e metodico il primo, irruento ed impulsivo il secondo, tra i due non poteva correre buon sangue. Il cappellano King riferì a Bradley gli episodi di cui era venuto a conoscenza. Bradley aveva avuto già notizia del massacro e si portò a Gela ove era il comando d’ armata per riferire a Patton che da 50 a 70 prigionieri erano stati assassinati  ‘in cold blood and also in ranks.’.

Patton riportò la propria reazione nel suo diario:

“E’ venuto da me Bradley un uomo fin troppo corretto, molto nervoso per dirmi che un capitano ha preso sul serio il mio ordine di uccidere chi continuava a sparare anche quando eravamo a meno di 200 metri. Il capitano ha ammazzato quasi 50 prigionieri a sangue freddo e raggruppandoli, cosa che costituisce un errore ancora più grande. Gli ho risposto che probabilmente era una notizia esagerata. Ma in ogni caso di dire al capitano di dichiarare che quegli uomini erano dei cecchini o avevano tentato di fuggire perché c’è il rischio che finisca tutto sui giornali ed i civili diventino furiosi. Comunque sia andata, sono morti e non c’è più nulla da fare”.

‘I told Bradley that it was probably an exaggeration, but in any case to tell the officer to certify that the dead men were snipers or had attempted to escape or something, as it would make a stink in the press and also would make the civilians mad. Anyhow, they are dead, so nothing can be done about it.’

Il 9 agosto Bradley chiese di nuovo a Patton di arrestare i protagonisti dei due episodi, i summenzionati  sergente West e capitano Compton. Pochi giorni dopo, di fronte l’ inattività del superiore Bradley ordina personalmente l’arresto dei fucilatori di Biscari.

Cosa in realtà pensasse Patton riguardo i prigionieri lo si deduce dalle sue stesse parole:

“Adesso alcuni ragazzi con i capelli ben pettinati stanno tentando di dire che ho ammazzato troppi prigionieri. Ma quelle stesse persone gioiscono per stragi di giapponesi ben più grandi. Ebbene più nemici ho eliminato, meno uomini  ho perso, ma essi non si curano di ciò” .

“Some fair-haired boys are trying to say that I kill too many prisoners. Yet the same people cheer at the far greater killings of Japs. Well the more I killed, the fewer men I lost, but they don’t think of that”.

Dalle parole di Patton si coglie non solo la sua personale indifferenza nei confronti di alcune fondamentali regole di guerra, ma anche è da rilevare l’esplicita accusa di ipocrisia nei riguardi dei suoi detrattori in quanto a suo dire, e noi ne siamo convinti quanto lui, gli americani facevano ben di peggio nel teatro del Pacifico.

A seguito della denunzia operata dal cappellano colonnello William King, furono  celebrati, nel massimo segreto, nell’autunno 43 due processi: la corte marziale USA accusò il sergente Horace T. West dell’ omicidio di  37 italiani, il plotone d’ esecuzione del capitano John C. Compton di almeno 36.

Il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini emanati da Patton subito prima dello sbarco in Sicilia:

When we land against the enemy, don’t forget to hit him and hit him hard. When we meet the enemy we will kill him. We will show him no mercy. He has killed thousands of your comrades and he must die. If you company officers in leading your men against the enemy find him shooting at you and when you get within two hundred yards of him he wishes to surrender – oh no! That bastard will die! You will kill him. Stick him between the third and fourth ribs. You will tell your men that. They must have the killer instinct. Tell them to stick him. Stick him in the liver. We will get the name of killers and killers are immortal. When word reaches him that he is being faced by a killer battalion he will fight less. We must build up that name as killers
(Botting, Douglas & Sayer, Ian: Hitler’s Last General: The case against Wilhelm Mohnke. Bantam Books, London, 1989, pag. 354-9).

La corte condannò il sergente West all’ergastolo. Ovviamente la pena  non venne mai eseguita.   West fu dapprima trattenuto  agli arresti in una base del Nord Africa. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleato di Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Inoltre potrebbe scuotere una parte dell’ opinione pubblica dei nostri cittadini che sono così lontani dal campo di battaglia e potrebbero non capire la ferocia che è insita nella guerra…”(“that no publicity be given to this case because to do so would give aid and comfort to the enemy and would arouse a segment of our own citizens who are so distant from combat that they do not understand the savagery that is war.”).

Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Le notizie riguardo il suo destino sono contraddittorie, ma secondo alcuni degli autori che si sono occupati del caso, è probabile sia sopravvissuto alla guerra ed abbia vissuto fino a tarda età.

Solo dopo che con l’ uscita degli articoli e degli scritti di Di Feo,  Bartolone e Ciriacono il caso era diventato di dominio pubblico, furono intraprese iniziative ufficiali riguardo la strage.

Nel giugno del 2004 il deputato Gennaro Malgieri presenta un’ interrogazione al Presidente del Consiglio per conoscere quali passi Egli intenda compiere presso gli USA a seguito delle rivelazioni sulle stragi.

Nel riquadro è inoltre riportato un  comunicato dell’ ANSA che informa delle tardive iniziative della procura militare.

ansa – 2007
SICILIA, STRAGE USA DEL 43. E’ VIVO L’ACCUSATO?
da ANSA
PALERMO – Ci sono voluti quasi 64 anni. E alla fine l’inchiesta su una strage  dimenticata, compiuta dalle truppe americane in Sicilia nell’estate del 1943, si chiude con un solo accusato che oggi, se fosse ancora in vita, dovrebbe avere 98 anni. La Procura militare di Palermo ha cercato inutilmente di rintracciarlo e ora vuole processarlo come unico responsabile dell’eccidio di 36 soldati italiani presi prigionieri durante la battaglia attorno all’aeroporto di Biscari. Il procuratore militare Enrico Buttitta ha chiesto di portare in giudizio il sergente Horace T. West, che imbracciò il mitra e sparò all’impazzata contro la colonna di prigionieri inermi in cammino verso un punto di raccolta.
Morirono quasi tutti: alla sventagliata dei colpi sopravvissero solo alcuni e due di loro, creduti morti, hanno rassegnato ai magistrati testimonianze sofferte e drammatiche.

Al contrario il capitano John Compton fu assolto: la corte marziale riconobbe che aveva agito per seguire gli ordini superiori, ma nessun procedimento venne certamente avviato nei confronti di Patton né egli venne interrogato come testimone. E così Patton, tanto criticato ed oggetto di uno scandalo unanime perché in Sicilia in un ospedale aveva schiaffeggiato un soldato ricoverato per shock (che Patton riteneva si trattasse di codardia), non fu oggetto di nessuna critica o appunto  per aver dato ordini che esplicitamente invitavano a non avere alcuna pietà per i nemici che si volessero arrendere. 

Il massacro di Biscari fu tenuto segreto così bene che pochissimi soldati nella stessa divisione ne ebbero mai notizia alcuna.

 Ma il giornalista Di Feo enumera i luoghi e le circostanze anche di altre stragi:

Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’ aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. (Gianluca Di Feo – Corriere della Sera – 23 giugno 2004).

Successivamente agli articoli di Di Feo, sono andati in stampa nel 2005 due libri sullo stesso argomento. Nel libro di Giovanni Bartolone “Le altre Stragi” l’ autore  documenta varie stragi di civili e militari operate in Sicilia dagli americani. Oltre alla strage di Biscari veniamo così a conoscere altri nomi dimenticati: le stragi di Piano Stella, di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra…

Sempre nel 2005 Gianfranco Ciriacono pubblica “Le stragi dimenticate – Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella” per i tipi di una piccola casa editrice di Ragusa, Cooperativa Cdb.  A raccontare cosa accadde quel 13 luglio 1943 a Piano Stella è  Giuseppe Ciriacono, nonno dell’ autore, unico sopravvissuto.

«Verso il pomeriggio tardi sentimmo qualcuno che chiamava dall’esterno del rifugio: “uscite fuori, uscite fuori”, la voce gridava. Così uscimmo fuori e trovammo u soldato che parlava bene l’italiano e ci chiese di entrare a casa per vedere se vi erano soldati tedeschi. Mio padre si apprestò a fare perlustrare la casa, ma quando arrivammo davanti alla porta ci accorgemmo che già i soldati avevano sfondato la porta ed erano entrati. Dopo qualche ora arrivarono altri soldati… ormai era l’imbrunire. Ci fecero segno di uscire, ma nessuno parlava italiano. eravamo in sei persone e ci fecero segno di seguirli verso Acate. Il nostro podere confinava con il territorio della provincia di Ragusa e, dopo aver camminato un po’, giungemmo presso una casa che apparteneva a un certo Puzzo… Gli americani ci portarono in questa casetta, il terreno circostante era piantato a vigneto e lì ci fecero segno di sederci… Poi i soldati imbracciarono delle armi, dei fucili mitragliatori, e si misero ad angolo, uno da un lato e l’altro dall’altro. Ricordo che quando assunsero questa posizione il signor Curciullo, che era accanto a me, disse: “compari Pippinu haiu ‘mprissioni che ci vogliono uccidere” . A questo punto, mentre parlavano, mi sentii prendere da qualcuno per il bavero della camicia e tirarmi su… allora ero ragazzino, andavo ancora alle elementari e sentivo i racconti dei fratelli Bandiera e cose del genere e pensai che il primo ad essere ucciso sarei stato proprio io. Quando mi sentii tirare per il bavero, girandomi vidi questo americano che aveva il fucile abbrancato, con la mano sinistra teneva un’anguria e con la destra mi tirava. Appena mi girai a guardarlo disse delle frasi che a mio parere volevano dire di allontanarmi. Non appena mi allontanai 20, 30 passi circa sentii una raffica di mitra e le urla di mio padre, del mio amico e degli altri».

Concludiamo con le parole che ebbe a dire Gianfranco Ciriacono in un’ intervista a Oggi 7 rilasciata nel 2005: ”Che la storia la scrivano i vincitori è fatto arcinoto e ciò può trovare una spiegazione, seppure perversa ed inaccettabile, laddove si tratti di storici appartenenti alla Nazione vincitrice, ma nel nostro caso ciò che ripugna è il silenzio degli storici di casa nostra, di quelli che per più di 60 anni non hanno ritenuto importante studiare, indagare, informarsi ed informare sugli accadimenti di quei giorni.”. Ed ancora…”L’icona del soldato americano rappresentava la libertà, dolciumi, sigarette e razioni.  L’America aveva mandato la crema della sua gioventù in tutto il mondo, non a conquistare ma a liberare, non a terrorizzare ma ad aiutare. Grazie alla martellante e danarosa propaganda che ha bombardato il mondo per sessant’anni, l’opinione pubblica ha, in linea di massima, recepito e fatta propria, come verità di fede, questa oleografia storico-militare, tanto che nessuno ha mai pensato di sottoporre a verifica il comportamento reale degli arcangeli della libertà e della democrazia.”

I BOMBARDAMENTI SUL GIAPPONE

Nel 2003 l’ anziano Robert McNamara ex segretario alla difesa USA negli anni 1961-1968, nel lungo film-intervista “Fog of War: 11 Lezioni di vita da Robert McNamara” curato da Errol Morris, nel rievocare i bombardamenti americani sul Giappone alla cui pianificazione aveva direttamente partecipato, espresse  il suo tormento interiore per aver commesso quegli atti, ma anche e forse soprattutto l’ angoscia per la consapevolezza che l’uomo  può arrivare a commettere azioni che vanno ben al di là di ogni ragionevole condotta e che nella loro ingiustificata spietatezza diventano inumane.

Per un pubblico abituato a pensare agli Stati Uniti come al paese campione dei diritti, portatore della libertà e fustigatore dell’altrui ferocia, fu quasi uno shock.

Mentre McNamara parlava dei bombardamenti incendiari portati sulle città del Giappone, le immagini mostravano i nomi delle città giapponesi bombardate, la percentuale di città distrutta e, a titolo esemplificativo, veniva indicato il nome di una città statunitense di pari dimensioni della città giapponese colpita. L’elenco riportava i nomi di 67 città.

A parte il raid Doolittle, che ebbe un significato solo di immagine, i bombardamenti pesanti sul Giappone iniziarono solo tra la fine del 1944 e l’ inizio del 1945, quando l’ avanzata americana giunse ad occupare isole (Guam soprattutto) sufficientemente vicine al Giappone da permettere ai B29 di effettuare incursioni con un rilevante carico di bombe. Seppure ebbe quindi una durata di soli pochi mesi, la campagna di bombardamenti incendiari orchestrata dal generale USAF LeMay causò un numero elevatissimo di vittime civili in quanto era principalmente rivolta proprio contro la popolazione civile e le città giapponesi.

Dati precisi non sono disponibili, ma  i bombardamenti incendiari  organizzati da LeMay tra il marzo 1945 e la resa del Giappone nell’agosto 1945 sicuramente uccisero ben più di un milione di civili giapponesi, creando 10 milioni di senza tetto e distruggendo 2,5 milioni di costruzioni

Per ottenere il maggior effetto ai danni della popolazione civile, LeMay decise di far operare i bombardieri a quote medio basse, di notte e con un carico bellico prevalentemente incendiario. A quel tempo infatti le città giapponesi erano largamente costruite con materiale altamente combustibile: legno e carta. Inoltre la difesa aerea giapponese era inefficace contro i B29 che volavano a velocità pari a quelle dei caccia giapponesi ed inoltre erano pesantemente armati e corazzati: praticamente irraggiungibili dalla caccia giapponese i cui aerei, tra l’ altro, erano dotati di un armamento insufficiente ad impegnare con efficacia le superfortezze volanti.  Era tale la superiorità aerea americana che addirittura Le May ordinò venissero smontate le mitragliatici dei B29 affinché i bombardieri potessero portare un maggior carico di bombe.

L’effetto cercato dagli americani era quello di innescare le terribili tempeste di fuoco che tante vittime avevano già fatto registrare ad Amburgo ed in altre città della Germania.

Nel bombardamento incendiario del 9 e 10 marzo 1945 su Tokyo vennero impiegati 325 B29. Su di essi  vennero caricati bombe incendiarie a cluster, bombe al magnesio, bombe al fosforo bianco antesignane del napalm.

Robert Guillain, un giornalista francese che viveva a Tokio e che fu testimone dell’attacco, lo descrisse in questi termini:

“Iniziarono a bombardare nuovamente, seminando il cielo di tracce di fuoco. Scoppi di luce balenarono dappertutto nell’oscurità come alberi di Natale, alzando le fiamma alte nella notte per poi precipitare di nuovo a terra in una tempesta di scintille. Tre quarti d’ora dopo le prime incursioni, il fuoco, frustato dal vento cominciò a far divampare quella città di legno come un falò. Le scintille precipitando lungo i tetti come una rugiada in fiamme, appiccavano il fuoco a tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Era la prima comparsa del napalm. Crollarono, sotto l’impatto delle bombe, le fragili case fatte di legno e di carta, illuminate dall’interno come lanterne colorate.”

In 3 ore il 10 marzo 1945 i bombardieri statunitensi sganciarono 1.665 tonnellate di bombe incendiarie uccidendo più di 100.000 civili (“scorched, boiled and baked to death,” come disse lo stesso LeMay con malcelato orgoglio) e distruggendo 250.000 costruzioni ed un’area di 16 miglia quadrate della città. Gli equipaggi dei bombardieri in coda alla formazione riportarono che l’odore della carne bruciata aveva invaso le fusoliere dei B29: Il pilota Chester Marshall volava sopra la distruzione, ma non abbastanza:

“A 5.000 piedi potevi sentire l’odore della carne bruciata” disse più tardi “non ho potuto mangiare niente per due o tre giorni, era nauseante. Dicevamo: “Che cos’è questo odore?” era un odore dolciastro e qualcuno rispose “Deve essere carne che brucia”.

Anche i corsi d’ acqua che attraversavano la città non offrivano via di scampo dalla tempesta di fuoco: in quanto la miscela incendiaria antesignana del napalm che riempiva le bombe non smetteva di bruciare anche sull’acqua: “I canali bollivano, il metallo si fondeva e le costruzioni di legno ed i corpi prendevano fuoco spontaneamente per l’ alta temperatura, le persone che si buttarono nell’ acqua per trovare salvezza, per l’ intenso calore bollirono fino a morire.

Name of Japanese
city firebombed
Percentage of the
city destroyed
Equivalent in size to
the following American city
Yokohama 58 Cleveland
Tokyo 51 New York
Toyama 99 Chattanooga
Nagoya 40 Los Angeles
Osaka 35.1 Chicago
Nishinomiya 11.9 Cambridge
Siumonoseki 37.6 San Diego
Kure 41.9 Toledo
Kobe 55.7 Baltimore
Omuta 35.8 Miami
Wakayama 50 Salt Lake City
Kawasaki 36.2 Portland
Okayama 68.9 Long Beach
Yawata 21.2 San Antonio
Kagoshima 63.4 Richmond
Amagasaki 18.9 Jacksonville
Sasebo 41.4 Nashville
Moh 23.3 Spokane
Miyakonoio 26.5 Greensboro
Nobeoka 25.2 Augusta
Miyazaki 26.1 Davenport
Hbe 20.7 Utica
Saga 44.2 Waterloo
Imabari 63.9 Stockton
Matsuyama 64 Duluth
Fukui 86 Evansville
Tokushima 85.2 Ft. Wayne
Sakai 48.2 Forth Worth
Hachioji 65 Galveston
Kumamoto 31.2 Grand Rapids
Isezaki 56.7 Sioux Falls
Takamatsu 67.5 Knoxville
Akashi 50.2 Lexington
Fukuyama 80.9 Macon
Aomori 30 Montgomery
Okazaki 32.2 Lincoln
Oita 28.2 Saint Joseph
Hiratsuka 48.4 Battle Creek
Tokuyama 48.3 Butte
Yokkichi 33.6 Charlotte
Uhyamada 41.3 Columbus
Ogaki 39.5 Corpus Christi
Gifu 63.6 Des Moines
Shizuoka 66.1 Oklahoma City
Himeji 49.4 Peoria
Fukuoka 24.1 Rochester
Kochi 55.2 Sacramento
Shimizu 42 San Jose
Omura 33.1 Sante Fe
Chiba 41 Savannah
Ichinomiya 56.3 Sprinfield
Nara 69.3 Boston
Tsu 69.3 Topeka
Kuwana 75 Tucson
Toyohashi 61.9 Tulsa
Numazu 42.3 Waco
Chosi 44.2 Wheeling
Kofu 78.6 South Bend
Utsunomiya 43.7 Sioux City
Mito 68.9 Pontiac
Sendai 21.9 Omaha
Tsuruga 65.1 Middleton
Nagaoka 64.9 Madison
Hitachi 72 Little Rock
Kumagaya 55.1 Kenosha
Hamamatsu 60.3 Hartford
Maebashi 64.2 Wheeling

A tutta questa serie di bombardamenti su obiettivi strettamente civili, si aggiungono i più famosi bombardamenti atomici di Hiroshima e, solo tre giorni dopo, Nagasaki che causarono 90.000 morti nel momento del bombardamento e circa 200.000 successivamente per le radiazioni assorbite.
Riguardo Nagasaki, molti storici hanno avanzato l’ipotesi che, essendo la seconda atomica di tipo diverso (al plutonio), l’interesse era di “testarla” anch’essa su di un bersaglio reale (la primissima arma nucleare, detonata ad Alamogordo, era in effetti al plutonio) prima che i giapponesi si arrendessero.
Quel che è certo, è che a quel punto non esisteva più nessun motivo di natura militare per avere tale premura.

In “Fox of War” McNamara confessò:

“LeMay mi disse: – “Se avessimo perso  saremmo stati perseguiti come criminali di guerra” – Penso avesse ragione e vorrei dire noi ci stavamo comportando da criminali di guerra. LeMay riconosceva che quello che stava facendo sarebbe stato considerato immorale se la sua parte avesse perso. Ma che cosa rende un’azione non immorale se vinci ed immorale solo se perdi?”.

I PRIGIONIERI DI GUERRA TEDESCHI

Other Losses, ovvero quanto è difficile per uno storico fare accettare una verità non ufficiale. Quella che non si trova sui libri di storia. Criticato aspramente negli Stati Uniti e in Francia, oggetto di pesanti accuse anche a livello accademico, James Bacque non si è perso d’animo. Il suo Other Losses, best-seller in Canada, tradotto in francese, in tedesco e presto in italiano (Gli altri lager, i prigionieri tedeschi nei paesi alleati, Mursia) ha scatenato un putiferio. Bacque è stato accusato di revisionismo da Stephen Ambrose, professore all’università di New Orleans, di nazismo o di apologia del nazismo da più di un giornalista… ( Daniela Cavallari –  Articolo pubblicato su L’Italia settimanale del 5 maggio 1993).

Il libro del canadese James Bacque fu stampato per la prima volta nel 1989 in Canada: fu subito il sasso nello stagno. La sua colpa? aver detto per la prima volta quello che era stato fino a quel momento solo sussurrato e cioè che alla fine della guerra nei campi alleati i prigionieri di guerra tedeschi erano trattati in condizioni non diverse da quelle dei Gulag.

Bacque giunge a calcolare che tra il 1945 e il 1946 almeno ottocentomila soldati tedeschi (ma non solo soldati e non solo tedeschi, ci tiene a precisare Bacque: in mezzo c’erano anche italiani) morirono di fame, sete, malattie.

Cosa diede a Bacque lo spunto per incominciare ad investigare ed a ricercare le testimonianze riguardo a questo tentativo di “genocidio”? Una  semplice operazione aritmetica. I dati ed i registri relativi ai prigionieri di guerra detenuti dagli americani sono velocemente “andati distrutti” impedendo di fare calcoli precisi,  non così i dati dell’Unione Sovietica che riportano come nei campi sovietici (dove gli ex soldati tedeschi erano sì trattati in condizioni miserrime ma dove almeno conservarono lo status di prigionieri di guerra) morirono 450.600 soldati tedeschi. Poiché nei registri tedeschi è accertato che tra tutti i tedeschi fatti prigionieri alla fine della guerra, 1,4 milioni non tornarono e quindi morirono in prigionia, è evidente che la differenza è a carico degli angloamericani. Da notare comunque che mentre i prigionieri tedeschi in mano sovietica furono in discreto numero sin dall’ inizio del conflitto tra la Germania e l’ URSS ed in particolare furono numerosi sin dalla fine del 1942, la stragrande maggioranza di prigionieri tedeschi caddero in mano alleate solo ad incominciare dalla fine del 1944 e quindi la “strage” di prigionieri in mano americana si compì in soli pochi mesi e comunque a partire solo dopo la fine delle ostilità.

Il libro di Bacque è zeppo di testimonianze personali sia da parte dei tedeschi sopravvissuti che di parte americana, tuttavia ciò che ha maggiore importanza, è che il libro dimostra come queste violenze siano derivate da decisioni prese al più alto livello militare e politico a riprova che si è trattato  di un’ azione deliberata e pianificata,  volta letteralmente a sopprimere quante più vite possibile ed a punire un intero popolo.

Di chi le responsabilità? Dei militari, di chi dirigeva i campi di prigionia, o anche del corpo politico?  Bacque denuncia che Eisenhower, comandante dello Shaef (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Forces, Supremo Quartier Generale delle Forze di Spedizione Alleate), poi dell’Usfet (United State Forces European Theatre, Forze americane sulla scena europea), e futuro presidente degli Stati Uniti, appoggiava, e favoriva le azioni contro i tedeschi.

Con un artificio gli Stati Uniti cambiarono lo “status” dei prigionieri tedeschi che da POWs (Prisoners of War, prigionieri di guerra, come definiti dalla Convenzione di Ginevra) furono declassificati in “DEFs” (Disarmed Enemy Forces, Forze nemiche disarmate). Il cambiamento fu sostanziale. Mentre come POW i prigionieri erano protetti dalla convenzione di Ginevra, i “DEF” non godevano della protezione stabilita dal trattato ginevrino, e quindi potevano essere affamati, maltrattati, esposti a malattie mortali. E così fu:

  • ai prigionieri tedeschi per moltissimo tempo (vedi più avanti in questa pagina) non fu permessa l’assistenza da parte della Croce Rossa Internazionale;
  • i prigionieri furono lasciati in campi all’aperto senza la costruzione di nessun riparo e quindi esposti (giorno e notte) alle intemperie;
  • mentre i “POWs” per la convenzione ginevrina avevano diritto a razioni alimentari confrontabili con quelle dei militari del paese che li deteneva, tali privilegi non esistevano per i “DEFs” e quindi ai tedeschi furono concesse razioni  insufficienti e spesso anche l’acqua scarseggiava;
  • in espressa violazione della Convenzione di Ginevra un gran numero di prigionieri tedeschi furono trasferiti ad altre nazioni. Gli Stati  Uniti trasferirono 765.000 prigionieri tedeschi alla Francia, 76.000 alle nazioni del Benelux e 200.000 all’ Unione Sovietica. Inoltre gli U.S. si rifiutarono di accettare la resa di soldati tedeschi in Sassonia e Boemia i quali furono consegnati all’ Unione Sovietica.

Non solo Eisenhower agì nella deliberata consapevolezza di danneggiare quanto più possibile i prigionieri tedeschi,  Ike anche mentì, dice Bacque:

Mentre i prigionieri di guerra in mano degli americani morivano di fame e di stenti a Parigi egli dichiarò, nel febbraio del ’45, che “gli Stati Uniti rispettano pienamente la Convenzione di Ginevra, come è sempre stato nella tradizione militare americana“. Eisenhower andò anche oltre: impedì ai “buoni americani”, mossi a pietà, di aiutare i tedeschi dopo la guerra.

Nel libro di Bacque, sono riportate le testimonianze di coloro che videro i camion carichi di cadaveri  che ogni giorno lasciavano gli accampamenti e delle donne civili  che furono arrestate  mentre provavano a gettare il pane sopra la recinzione dell’accampamento. Il fatto che agli ispettori della croce rossa fu impedito l’accesso ai campi, e che gli aiuti alimentari della croce rossa furono rispediti indietro, la proibizione di costruire  ripari,  l’adozione di razioni ridotte è visto da Bacque come “metodi da genocidio„

Abiettamente lo stato giuridico di  POWs fu  cambiato quando la guerra con la Germania era finita. Quando le razioni furono ridotte nei campi di prigionia negli USA, Canada, and Gran Bretagna, molti tedeschi conclusero che gli angloamericani stavano esercitando una sorta di “vendetta del vincitore”.  E’ probabile che non avessero torto: ora che la guerra in Europa era finita gli alleati non avevano alcun motivo per trattare bene i prigionieri tedeschi: non c’era più timore che, per ritorsione, anche i tedeschi potessero trattare i loro POWs non in linea con la convenzione di Ginevra.

Il libro di Bacque fu accolto molto negativamente negli USA e molto criticato da tutta la stampa. Molti detrattori insorsero, ma non potendo contraddire dati di fatto come l’artificio di declassificare i prigionieri di guerra in “DEFs”, cercarono di dimostrare che ciò era dovuto ad una drastica crisi nei rifornimenti e che comunque le cifre indicate da Bacque dovessero essere nettamente ridimensionate.

E’ facile argomentare che se fosse così non si spiegherebbe perché per ordine di Eisenhower fu fatto divieto (pena la morte) a  che i civili portassero cibo ai prigionieri e perché venissero respinti al mittente gli aiuti della Croce Rossa:

“…Under no circumstances may food supplies be assembled among the local inhabitants in order to deliver them to prisoners of war. Those who violate this command and nevertheless try to circumvent this blockade to allow something to come to the prisoners place themselves in danger of being shot…”

Quello sopra è il contenuto della  lettera che Eisenhower stesso mandò con corriere urgente speciale a tutti i sindaci di tutte le città tedesche il 9 maggio 1945, cioè il giorno dopo il Victory in Europe Day che sanciva la fine della guerra in Europa. Come si vede in questo documento, tuttora conservato negli archivi civici di molte città tedesche, Eisenhower proibiva tassativamente di fornire cibo ai prigionieri di guerra, pena la fucilazione, cosa che effettivamente avvenne in molte occasioni, quando alcune donne che portavano cibo agli uomini affamati vennero passate per le armi.

Dunque il libro di James Bacque ha fatto rumore nel mondo, ma vi è da dire che in passato molte altre voci avevano comunque avuto il coraggio di denunziare il comportamento degli americani in Germania.

L’ imprenditore e politico americano Homer Earl Capehart fu fortemente critico con le politiche di Truman e di Eisenhower nei confronti della Germania subito dopo la guerra e li accusò del tentativo di far morire di fame ciò che rimaneva della nazione tedesca.

Konrad Adenauer, che sarebbe diventato il Cancelliere della Germania ricostruita, in un discorso tenuto in Svizzera nel 1949, fece ufficialmente riferimento alla morte, causata dagli alleati, di milioni di prigionieri tedeschi.

La Croce Rossa Internazionale ad oggi non ha avuto il coraggio di ammettere esplicitamente  la strage di soldati tedeschi nei lager americani, tuttavia, implicitamente qualche cosa fa velatamente capire. Leggiamo infatti dal sito ufficiale della Croce Rossa:

The surrender of Germany on 8 May 1945 led to the capture of millions of German soldiers who could no longer count on the assistance of their government nor on that of their families, themselves in a situation of dire poverty. On the victorious side, public opinion held that the Germans were only getting what they deserved, and the ICRC found itself virtually alone in interceding on their behalf.

The ICRC made approaches to the authorities of the four occupation zones and, in the autumn of 1945, it received authorization to send both relief and delegates into the French and British zones. On 4 February 1946, the ICRC was allowed to send relief into the American zone, and on 13 April 1946 it obtained permission to extend this activity to the Soviet zone.

The quantities received by the ICRC for these captives remained very small, however. During their visits, the delegates observed that German prisoners of war were often detained in appalling conditions. They drew the attention of the authorities to this fact, and gradually succeeded in getting some improvements made.

E dunque si ammette che alla Croce Rossa fu vietato per molti mesi di accedere ai campi in cui erano detenuti i soldati tedeschi, che fra le nazioni occidentali gli americani furono gli ultimi a permettere alla Croce Rossa di raggiungere i prigionieri e  che anche quando ciò fu permesso si poté farlo solo in  piccolissima parte. Inoltre l’ ammissione che i prigionieri erano detenuti (quasi un anno dopo la fine della guerra) in “appalling conditions”.

I BOMBARDAMENTI   SULL’ ITALIA

 Anno 1942

Le incursioni sulle città italiane furono compiute prevalentemente dopo l’8 settembre 1943 e cioè quando l’Italia era virtualmente “alleata” con gli anglo-americani.

I primi attacchi leggeri si ebbero sul meridione d’Italia per opera della R.A.F. con base sull’isola di Malta.

Le prime dure incursioni su Napoli furono effettuate dall’U.S.A.A. F. il 4 e l’11 dicembre: si trattò anche delle prime incursioni dei bombardieri americani sull’Italia. Le città maggiormente colpite furono Torino, Milano e Genova: attacchi pesanti, ma non come quelli dell’agosto dell’anno dopo. I bombardamenti sul “triangolo industriale” furono organizzati dal “Bomber Command” della R.A. F. durante la cosiddetta “offensiva di autunno”. Milano subì un solo bombardamento fra il 24 ed il 25 ottobre: 470 furono gli edifici distrutti.

Fra l’ottobre/novembre Genova fu colpita 6 volte: 1.250 edifici di vario genere furono distrutti. Fra il novembre/dicembre Torino subì 7 bombardamenti: 142 ettari distrutti di superficie edificate (70 fabbriche, 24 edifici pubblici, e circa 1.950 abitazioni). L’incursione più violenta fu quella della sera del 9 dicembre su Torino: 196 apparecchi scaricarono sulla città 147 tonnellate di bombe e 256 tonnellate di spezzoni incendiari.

Gli inglesi impiegarono complessivamente 1.811 aerei di cui 1.477 attaccarono le città italiane scaricandovi circa 2.740 tonnellate di bombe e perdendo 31 aerei. Le vittime furono circa 1.300.

Anno 1943

La caduta di Mussolini in seguito agli avvenimenti del 25 luglio aveva generato in molti italiani l’illusione che anche la guerra dovesse cessare, risparmiando ulteriori lutti e distruzioni. Illusione svanita subito nella notte fra il 7 e l’8 agosto 1943 quando, Milano, Torino e Genova, subirono il contemporaneo e duro attacco della R.A.F. In quella notte, 201 tonnellate di bombe esplosive e spezzoni incendiari si riversarono su Milano, 195 tonnellate su Torino e 169 su Genova.Queste incursioni non dovevano rappresentare che un “assaggio” di quanto sarebbe successo nei mesi successivi.

L’11 agosto un massiccio bombardamento devastò la città di Terni seppellendo sotto le macerie centinaia di vittime. Il 13 agosto anche Roma, appena dichiarata “città aperta”, fu violata da circa 500 tonnellate di bombe americane che provocarono circa 2.000 morti e notevoli danni.

La notte del 13 agosto su Torino caddero 244 tonnellate di bombe e, la notte del 17 agosto, altre 248 tonnellate. Milano, 12 / 16 agosto 1943: Il più feroce attacco che mai avesse subito, sino a quel momento, una città italiana fu quello su Milano nella notte fra il 12 e il 13 agosto: 504 bombardieri inglesi rovesciarono sulla città 1.252 tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Due giorni dopo, nella notte del 15 agosto, 140 bombardieri inglesi scaricarono altre 415 tonnellate di esplosivi. Non era ancora finita: nella notte del 16 agosto si presentarono nel cielo della città 199 bombardieri che scaricarono altre 601 tonnellate di ordigni mortali. In quattro giorni Milano fu martirizzata da 2.268 tonnellate di bombe sganciate da 843 aerei della R.A.F. inglese. Il bilancio finale fu drammatico: 239 industrie colpite, distrutte o gravemente danneggiate, 11.700 edifici abbattuti, più di 15.000 quelli danneggiati, le centrali elettriche irreparabilmente bloccate, la rete di trasporti e di comunicazioni quasi totalmente inservibili, centinaia i morti.

In quella prima metà di agosto 1943 caddero dunque sui centri principali dell’Italia settentrionale 3.325 tonnellate di esplosivo. Il 28 agosto furono poi bombardate Taranto, Cosenza e, a seguire, Novara, Foggia, Salerno, Crotone, Viterbo, Avellino, Lecce, Bari, Orte, Cagliari, Carbonia, Civitavecchia, Benevento.Frascati fu rasa al suolo e migliaia furono i morti. Il 1 settembre 1943 fu distrutta Pescara, città completamente priva di difesa antiaerea.

Il “Bomber Command” della R.A.F. ed i bombardamenti sull’Italia

Nel 1973 il “Public Record Office” di Londra rese pubblici i documenti relativi ai bombardamenti inglesi sull’Italia. Queste notizie, attestate in modo incontestabile dalle autorità inglesi, portarono a conoscenza di un piano a lunga scadenza, elaborato nei minimi particolari, che avrebbe previsto un diluvio di fuoco sull’Italia. Secondo tale progetto, gli anglo-americani avrebbero dovuto scaricare sull’Italia del nord, in un periodo compreso fra il settembre 1943 e il febbraio 1944 qualcosa come 45.000 tonnellate di esplosivo! Nella serie di tali documenti, corredati da numerose mappe raffiguranti gli obiettivi principali, fa spicco un eloquente messaggio inviato dal direttore delle “Operazioni di bombardamento”, Commodoro Bufton, al direttore dei “Piani di bombardamento”, Commodoro Elliot. Nello scritto, che reca la data del 29 luglio 1943, si legge anche: “Stabilita l’opportunità di attaccare l’Italia, ci proponiamo di trasportare sugli obiettivi del Nord circa 3.000 tonnellate di bombe nel mese di agosto, 8.000 tonnellate nei mesi di settembre e di ottobre e 6.500 tonnellate in ciascuno dei mesi invernali, se le condizioni atmosferiche saranno favorevoli…”. I bombardamenti dell’agosto 1943 non furono quindi solo “avvertimenti” o “pungoli” per accelerare la firma di una resa, ma rientravano in un piano programmato che, come per numerose città tedesche, prevedeva la totale distruzione dei centri vitali della nazione mediante il sistema dei cosiddetti bombardamenti “a tappeto”.

Negli ultimi tre mesi del 1943 i bombardamenti terroristici anglo-americani provocarono 6.500 morti e circa 11.000 feriti, distruggendo e danneggiando migliaia di edifici.

Anno 1944

Furono migliaia e non risparmiarono nessuna città. Solo nel 1944, gli anglo-americani effettuarono sull’Italia centro-settentrionale, territorio della RSI, 4.541 incursioni, uccidendo 22.000 civili e ferendone oltre 36.000. Ci fu una vera e propria “escalation” di terrificanti incursioni che non risparmiarono nessuna città e che raggiunsero una frequenza quasi quotidiana. Firenze, per esempio, subì 7 bombardamenti (di cui 5 massicci) che causarono oltre 700 morti, migliaia di feriti e la distruzione di migliaia di case, oltre che danni gravissimi al patrimonio artistico della città. Molte furono le incursioni anglo-americane particolarmente odiose e criminali. Bisognerebbe ricordarle tutte ma, a titolo di esempio, valgano queste:

 Il martirio di Treviso: La città fu selvaggiamente aggredita il giorno di Venerdì Santo e fu distrutta da un violento bombardamento che costò la vita a 4.000 abitanti.

I “liberatori” sul Lago Maggiore: Il 25 settembre, due aerei inglesi sganciarono un grappolo di bombe su un gruppo di case di Intra provocando 11 morti e numerosi feriti. Poco dopo, gli stessi aerei mitragliarono il battello “Genova” di fronte a Baveno sul Lago Maggiore. Il battello colpito, che aveva a bordo solo civili (in prevalenza donne e bambini), prese fuoco: molti furono i morti ed i feriti.

 Il 26 settembre, aerei inglesi (probabilmente gli stessi del giorno prima) attaccarono il battello “Milano” carico di sfollati che si erano imbarcati a Laveno per raggiungere la sponda piemontese del lago. A bordo c’era anche un reparto del battaglione “M” Venezia Giulia che stava tornando alla scuola di Varese della G.N.R.: dieci di loro perirono nell’attacco.

L’ecatombe dell’Impruneta: il 27 luglio, aerei della Quinta squadriglia del 239° stormo, appartenenti alla “Desert Air Force” (Daf), bombardarono “a tappeto” l’Impruneta. Il paese era affollato soltanto da civili inermi che speravano di aver trovato un rifugio sicuro dalle incursioni alleate. La maggior parte dei rifugiati morì sotto le bombe dei “liberatori”, mentre i superstiti furono falciati dalle mitragliatrici dei “Kittyhawks” sudafricani. Il 28 luglio, un’altra incursione si scatenò contro la basilica del paese: si salvò solo il ritratto della Madonna.

 

La strage degli innocenti. 

Il 20 ottobre sul rione popolare di Gorla (Milano) una bomba americana centrò in pieno una scuola: i bambini uccisi furono oltre 200. Accurati studi di storici militari hanno dimostrato con certezza che non si trattò di un errore. Per questo crimine immondo il governo americano non ha neppure chiesto scusa.

Erano le 11,24 quando una formazione di circa 96 quadrimotori angloamericani si portò sulla città per colpire gli insediamenti industriali dove si temeva celassero produzioni belliche (BREDA, FALCK, PIRELLI, ALFA ROMEO e altri).
Delle tre squadre che componevano il gruppo d’attacco la prima venne messa fuori gioco per un inconveniente tecnico, la seconda fu la sola che riuscì a colpire la BREDA mentre la terza, non si sa per quale motivo si trovò fuori rotta di 22 gradi; il comandante, resosi conto troppo tardi, aveva solo due possibilità: o proseguire in quella direzione liberandosi del carico in aperta campagna, oppure sganciare immediatamente sulla città il carico di morte, anche se sotto di lui non c’erano obiettivi militari ma solo abitazioni civili. Decise per la seconda soluzione, che era già cinica come scelta, e il destino volle che un grappolo di  bombe centrasse in pieno una scuola elementare dove si stavano svolgendo le normali lezioni, e che già al primo allarme le avevano appena interrotte per recarsi ai rifugi.

Nel quartiere di Gorla quel giorno si contarono circa 703 vittime, tra questi 200 bambini dai 6 agli 11 anni, dalla prima alla quinta elementare, unitamente ai loro maestri, e alcune mamme che, dopo il primo allarme, erano accorse, con in braccio altri bambini, per condurli nei rifugi.

 I NOMI DEI PICCOLI MARTIRI
( una strage di bambini e di maestri )

ABBONDANTI Ernesta, di anni 7
ALQUA’ Dolores, di anni 9
ANDREONI Edvige, di anni 6
ANDREONI Franco, di anni 6
ANDENA Vanda, di anni 7
ANDENA Giorgio, di anni 9
ANGIOLINI Cesarina, di anni 10
ASSANDRI Marisa, di anni 10
AVANZI Lucia, di anni 8
BACCINI Luciana, di anni 10
BACILIERI Giancarlo, di anni 11
BALDO Bruno, di anni 7
BALUCI Teresa, di anni 7
BALUCI Concetta, di anni 9
BANDIERA Valter, di anni 9
BECCARI Vilma, di anni 10
BECCARI Stefania, di anni 8
BELLUSSI Ambrogio, di anni 8
BENZI Bice, di anni 6
BERETTA Giuseppe, di anni 6
BERNAREGGI Tullio, di anni 8
BERSANETTI Loredana, di anni 6
BERTOLENI Vincenzo, di anni 7
BERTOLESI Piera, di anni 7
BERTONI Valter, di anni 9
BIANCHET Chiara, di anni 10
BIFFI Pierluigi, di anni 6
BOERCHI Silvano, di anni 8
BOLZONI Gianfranca, di anni 6
BOMBELLI Giuseppe, di anni 9
BONFIGLIO Celestina, di anni 8
BORACCHI Vilma, di anni 6
BORGATTI Elena, di anni 9
BREMBATI Giovanna Elisabetta, di anni 8
BREMMI Maria, di anni 11
BRIOSCHI Paolo, di anni 9
BRIOSCHI Gianni, di anni 6
BRIVIO Giovanna, di anni 12
BURATTI Rosalba, di anni 7
CACCIATORI Ernestina, di anni 6
CALABRESE Loredana, di anni 6
CALETTI Giancarla, di anni 6
CANDA Rosangela, di anni 12
CARANZANO Margherita, di anni 7
CARRERA Carlo, di anni 11
CARRETTA Renata Teresa, di anni 9
CARRETTA Luigi, di anni 8
CARRETTA Anna, di anni 7
CASATI Giuliano, di anni 7
CASLINI Adriano, di anni 10
CASSI Giordano, di anni 9
CASSUTTI Ida Santina, di anni 10
CASTELLI Lorenzo Omobono, di anni 6
CASTELLINO Claudia, di anni 9
CASTOLDI Rolando, di anni 7
CATTANEO Carlo, di anni 5
CAVAGNOLI Giuliana Maria, di anni 6
CAZZANIGA Antonio, di anni 9
CELIO Anna, di anni 7
CERUTI Giancarlo, di anni 7
CINQUETTI Felice, di anni 10
COLOMBANI Adriano, di anni 9
COLOMBANI Rosanna, di anni 7
COLOMBO Annamaria, di anni 7
COLOMBO Maria, di anni 10
COMPITI Agostino, di anni 9
CONCARDI Giancarlo, di anni 7
CONSIGLIO Riccardo, di anni 11
CONTATO Rosalia, di anni 6
CONTI Mirella, di anni 10
DALLA DEA Marina, di anni 9
DALLA DEA Vittore Paolo, di anni 7
DALL’ORA Emilia, di anni 10
DANIELI Gianna, di anni 10
DE CONCA Luisa, di anni 10
DIDONI Fausta, di anni 10
DIDONI Teresina, di anni 11
DONEDA Giulia, di anni 6
DORDONI Giancarla, di anni 11
FALCO Franco, di anni 6
FARINA Gaetano, di anni 10
FARINA Mario, di anni 6
FARINELLA Giovanna, di anni 8
FERRARIO Luigi, di anni 6
FERRE’ Margherita, di anni 8
FERRI Natalina, di anni 8
FERRONI Pierino, di anni 7
FONTANA Oscar, di anni 8
FONTANA Vittoria, di anni 10
FOSSATI Adele, di anni 6
FRANCHI Dario, di anni 7
FRANZI Angelo, di anni 6
FREZZATI Rosalia, di anni 6
FRONTI Angelo, di anni 6
FUZIO Ezio, di anni 9
GALLINA Clelia, di anni 12
GARULLI Giovanni, di anni 8
GAVOLDI Antonio, di anni 9
GHELFI Pasquale, di anni 10
GILARDI Silvana, di anni 6
GIOVANNINI Villiam, di anni 7
GIULIANI Aldo, di anni 8
GOI Eleonora, di anni 11
GORETTI Edoardo, di anni 6
GRANDI Enrico, di anni 7
LAMBERTI Lamberto, di anni 9
LANDINI Peppino, di anni 8
LIBANORI Giancarlo, di anni 6
LIBRIZZI Maria, di anni 11
LOMBARDI Giuliana, di anni 3
MAESTRONI Giuliano, di anni 6
MAESTRONI Luigi, di anni 12
MAJO Giuliano, di anni 9
MAJO Santino, di anni 7
MAROLI Ruggiero, di anni 8
MARZORATI Roberto, di anni 8
MASCHERONI Nella, di anni 9
MASIERO Gianfranco, di anni 8
MASSARO Antonio, di anni 9
MASSAZZA Natale, di anni 10
MEREGALLI Mirella, di anni 6
MERONI Adriano, di anni 9
MIGLIORINI Maria, di anni 9
MINGUZZI Graziano, di anni 10
MOCCIA Carmela, di anni 6
MODESTI Giancarlo, di anni 6
MOIOLI Umberto, di anni 6
MONFRINI Bruno, di anni 6
MORETTI Licia, di anni 6
MUTTI Giuseppina, di anni 10
NASI Cesarino , di anni 8
ORLANDI Graziella Maddalena, di anni 7
PAGANINI Giorgio, di anni 6
PAGLIOLI Guido, di anni 9
PAGOT Francesca, di anni 5
PANIZZA Armida, di anni 6
PANIZZA Maria, di anni 13
PANNACCESE Antonio, di anni 8
PAVAN Gualtiero, di anni 6
PAVANELLI Maria Luisa, di anni 10
PEDUZZI Rosa Rachele, di anni 8
PETROZZI Sergio, di anni 7
PIAZZA Mario Adolfo, di anni 6
PIERIN Giuseppe, di anni 9
PIOLTELLI Anna, di anni 6
PIROTTA Annunziata Ornella, di anni 6
PIROVANO Adele, di anni 6
PONTI Abele, di anni 6
PORRO Emilio, di anni 6
POZZI Elisa, di anni 6
PUTELLI Anna, di anni 6
PUTELLI Pierina, di anni 7
RAVANELLI Pierluigi, di anni 6
REDAELLI Franco, di anni 9
RELLANDINI Franco, di anni 8
RESTELLI Rosanna, di anni 6
RHO Pierangelo, di anni 6
RIZZOLI Gerardo, di anni 6
ROMANDINI Maria Gabriella Federica, di anni 6
RUMI Rinaldo, di anni 8
RUMI Gabriella, di anni 6
RUSCELLI Marisa, di anni 6
SALA Maria, di anni 7
SALETTI Giancarla, di anni 6
SCOTTI Luigia, di anni 10
SIRONI Luigi, di anni 10
SIRONI Ambrogio, di anni 7
SONCINI Antonietta, di anni 9
STOCCHIERO Armando, di anni 9
STOCCHIERO Rinaldo, di anni 6
STRANIERI Erminia, di anni 7
TAMIAZZO Gianfranco, di anni 6
TENCA Teresa, di anni 8
TERMINE Giannina, di anni 7
TROYER Giuseppe, di anni 12
VALLI Antonio, di anni 7
VELATI Giuliano, di anni 10
VELATI Maria, di anni 7
VERDERIO Ennio, di anni 6
VERGANI Giovanni, di anni 12
VICENTIN Mario, di anni 10
VIGANO’ Ernestina, di anni 7
VIGENTINI Alberto, di anni 10
VILLA Lidia, di anni 6
VOLPIN Mina, di anni 7
ZAMBONI Andrea Lorenzo, di anni 9
ZANABONI Lidia, di anni 11
ZANELLATI Rosa Maria, di anni 6
ZELI Italo, di anni 7
ZUCCHETTI Luigi, di anni 8
ZUCCHETTI Giovanni, di anni 10
La Direttrice:

TAGLIABUE Isabella
I Maestri/e  e le mamme dei più piccoli:

COLOMBO Bianca
CONSONNI Giulia
CONSONNI Silvio
CONTRERAS Aurora ARMANI
FIOCCHI Alicia
FOLLI Piera MERATI
GAZZINA Norma
LISSANDRINI Ester BENEDETTI
MAGNOLFI Giovanna LUZI
NOSETTO Piera Maddalena
PERONE Eugenio
PISTONE Teresa PEZZOTTA
POZZOLI Luisa
REDAELLI Maddalena
SANGALLI Maddalena BIRAGHI
VALZELLI Ida
VERGANI Cesare
ZACCHIA Dorotea QUARANTELLI
ZAMBONI Sara
Altri piccoli morti nello stesso bombardamento.
Le mamme erano accorse con loro in braccio:

AMBROSINI Marisa Vanda, di mesi 16
BACILIERI Silvano, di anni 2
BALLADORI Annamaria, di mesi 15
BAZZANELLA Giancarlo, di mesi 18
BECCARI Lilia, di anni 2
BIRAGO Silvana Adele, di anni 4
BONATI Carlo, di mesi 12
CAVALLI Ornella, di anni 2
CLAPES Franca, di mesi 12
CONTE Vittoria, di anni 4
FRANCO Domenico, di anni 3
GALBIATI Rosa, di anni 3
GALBIATI Rolando, di mesi 11
PEREGO Maria Grazia, di mesi 22
SIFARELLI Biagio, di anni 4
SORMANI Isabella Paola, di anni 4
SORRAVIA Alberto Salvatore, di anni 5
VILLA Franca, di anni 4

IL POETA IN GABBIA

In una di queste gabbie all’ aperto, nel 1945, fu detenuto per  settimane sotto l’accusa di tradimento,  il poeta statunitense Ezra Pound.

Le gabbie all’ aperto di Guantanamo sono diventate il simbolo della politica di  violazione della legalità internazionale da parte dell’ amministrazione Bush. La gabbia come volontà di umiliare l’ avversario, negargli la sua umanità, distruggerne la personalità. La gabbia è anche la compiaciuta arroganza  di chi si fa beffe dei diritti umani, l’ inosservanza dell’ habeas corpus, delle convenzioni e degli accordi internazionali come la convenzione di Ginevra. 

Le gabbie di Guantanamo hanno numerosi precedenti nella storia degli Stati Uniti. Un esempio sono  le gabbie a Grenada di cui testimonia  un articolo di Jonathan Steele sul Guardian, ma le gabbie riprese nella fotografia in testa a questo articolo sono ancora precedenti, più vicine a noi e, forse, più inquietanti: sono le gabbie all’ aperto in cui nel 1945 fu detenuto per tre settimane Ezra Pound. 

 

Arrestato per aver appoggiato il regime fascista, il grande poeta venne imprigionato in un  campo militare statunitense vicino Pisa, costretto giorno e notte in una gabbia di 1,80 x 1,90 con sbarre su tutti i lati  un tetto di lamiera ed il pavimento in cemento,  esposta alle intemperie ed illuminata costantemente durante la notte. Il poeta aveva, all’ epoca, 60 anni.

Nei pressi di Pisa, oltre al campo di punizione per militari statunitensi, in località Metato (denominato dagli americani PWE 335), vi erano anche il campo di San Rossore ed i campi di concentramento di Coltano. Quest’ ultimo era gigantesco, costituito da tre campi in uno : il PWE 336 ed il 337 per prigionieri  tedeschi e le formazioni di volontari russi loro alleati, il PWE 338 per i militari della RSI.

Il  campo di  Coltano vide la reclusione di circa 35.000 ex militari  della Repubblica di Salò, in condizioni durissime, e fu affidato, tra il maggio ed il settembre 1945, alla Novantaduesima Divisione Buffalo della V Armata USA.

Due le punizioni per chi si era reso colpevole di trasgredire le regole del campo: “il palo” e la “gabbia”. Il primo consisteva nel legare, per alcuni giorni consecutivi, il prigioniero ad un palo. Esposto alle intemperie, senza acqua né cibo, il condannato vi rimaneva dall’alba al tramonto. La seconda punizione era riservata a chi compiva atti di “grave insubordinazione”. La gabbia era di rete metallica, nel pavimento aveva cementati ciottoli aguzzi e spugnosi. Il condannato, per tutta la durata della punizione poteva tenere con sé una coperta, per ripararsi dagli agenti atmosferici e dal sole o per stendersi sui sassi. Il cibo del condannato consisteva in una fetta di pancarré al giorno. Chiunque si fosse avvicinato ai puniti avrebbe subito la stessa sorte. (Pietro Ciabattini, Coltano 1945 un campo di concentramento dimenticato, Mursia, Milano 1995).

Questo il ricordo del citato Ciabattini relativo “all’incubo” delle punizioni inflitte dagli americani ai prigionieri:

“Potevamo essere legati al palo, esposti ai raggi del sole anche per dieci ore, senza bere ne mangiare, oppure finire nella terribile gabbia o “letto del fachiro” per giorni e giorni. Per andare al palo era sufficiente non alzarsi quando un caporale o un sergente americano entravano in baracca, non rispondere loro rispettosamente anche se provocati, ma era sufficiente anche essere sorpreso seduto in latrina senza che se ne avesse necessità. La gabbia era riservata a chi veniva colto a far cenni alle prigioniere, a cantare inni militari italiani, o per gravi insubordinazioni collettive. Un ragazzo di Montespertoli rimase 3 giorni in gabbia per aver appeso la foto del Duce alla parete della baracca”.

I crimini commessi dai carcerieri in questo campo di prigionia – sui quali ci furono anche indagini piuttosto recenti da parte della magistratura, – spaziano da violenze generalizzate, alle esecuzioni illegali mediante fucilazione, ed alle violazioni sulle norme dei prigionieri di guerra contenute nella Convenzione dell’Aja del 1907.

Tra gli internati vi furono anche personaggi pubblici come  gli attori Walter Chiari, Enrico Maria Salerno, Raimondo Vianello, l’olimpionico di podismo Pino Dordoni, il giornalista Enrico Ameri, il regista Luciano Salce, il deputato di AN Mirko Tremaglia, il senatore di AN Giuseppe Turini.

Pound rimase all’aperto, nella gabbia del campo di punizione per tre settimane. Alla fine le sue condizioni erano tali che con urgenza dovette essere ricoverato in infermeria. Le sue condizioni di detenzione migliorarono leggermente e così le su condizioni fisiche. Il poeta poté trascorrere i restanti mesi nel campo di prigionia componendo gli undici Canti pisani (dal 74 all’84) e traducendo Confucio. La detenzione nella gabbia di Coltano provò duramente lo spirito del poeta che successivamente chiamò la sua cella “La gabbia del gorilla“.

A fine novembre fu trasferito in aereo in  America  per essere sottoposto a processo. In realtà per l’ amministrazione americana Pound era diventato un prigioniero scomodo: per le sue simpatie per il regime fascista e per le sue critiche pubbliche al governo degli Stati Uniti (critiche che aveva espresso in una serie di trasmissioni radio) l’intenzione era di accusarlo per alto tradimento. Tale accusa lo avrebbe probabilmente portato alla pena di morte. Ma l’ intervento di varie personalità del mondo culturale e letterario anglosassone ed ancora di più il timore del prolungato clamore che avrebbero potuto suscitare le proteste una volta che fosse stato avviato il processo, fecero cambiare idea ai politici USA. Pound fu così dichiarato infermo di mente e internato nell’ospedale criminale federale di St. Elizabeths di Washington.

Al St. Elizabeths Hospital di Washington continuò a lavorare traducendo opere della letteratura cinese (furono poi pubblicate dalla Harvard University Press nel 1954), e proseguendo nella scrittura dei “Canti”. Poeti e letterati andarono a trovarlo, tra essi i vecchi amici Eliot, Cummings, William Carlos Williams, Marianne Moore, e,  tra i giovani: Robert Lowell, James Laughlin (che, con “New Directions”, fu suo editore), Sheri Martinelli, e molti altri. Trovò anche proseliti per le sue idee sociali e ispirò la pubblicazione di opere rare di Louis Agassiz, Alexander Del Mar, Edward Coke, ecc.

Nel 1948 i Canti pisani ottennero il Premio Bollingen per la poesia della Library of Congress provocando non poche polemiche visto che Pound era nel contempo ospite involontario del governo americano in un manicomio criminale. Della giuria facevano parte T.S. Eliot e W.H. Auden, che in questo modo pensavano di attirare l’attenzione sulla pietosa situazione del non più giovane poeta. Ma la polemica finì più per nuocere che giovare e per molti anni del caso Pound non si parlò più. Verso metà degli anni 50 varie personalità appartenenti al mondo della letteratura inglese diedero luogo ad una campagna di opinione per ottenere la liberazione del poeta, tra di essi molto attivo era il poeta Robert Frost, anch’egli vecchio amico di Pound ed anzi, come molti dei nomi sopra citati, beneficiato da Pound che in gioventù lo aveva aiutato a pubblicare i suoi lavori. Nel 1958 dopo 13 anni di internamento in manicomio, Pound fu rilasciato. Il 30 giugno di quello stesso anno Pound si imbarcò per l’Italia ove si ritirò a vivere tra Rapallo e Venezia assieme alla sua compagna Olga Rudge, violinista americana, che nel 1925 gli aveva  dato la figlia Mary.

Morì a Venezia il 1° novembre 1972. E’ sepolto nel  cimitero dell’isola di San Michele, con accanto Olga Rudge, compagna di una vita e che gli sopravvisse per parecchi anni.

Il principale atto di accusa contro Pound furono le trasmissioni radiofoniche (circa 120) che il poeta tenne dalla radio italiana durante la guerra tra il 1941 ed il 1943, in lingua inglese, per il pubblico inglese ed americano. Più che propaganda di guerra, le trasmissioni erano delle esortazioni al pubblico americano perché si rendesse conto delle vere ragioni della guerra:

“To send boys from Omaha to Singapore to die for British monopoly  and brutality is not the act of an American patriot…This war did not begin in 1939. It is not a unique result of the infamous Versailles Treaty. It is impossible to understand it without knowing at least a few precedent historic events, which mark the cycle of combat…This war is part of the age-old struggle between the usurer and the rest of mankind: between the usurer and peasant, the usurer and producer, and finally between the usurer and the merchant, between usurocracy and the mercantilist system …The present war dates at least from the founding of the Bank of England at the end of the 17th century, 1694….The nomadic parasites will shift out of London and into Manhattan. And this will be presented under a camouflage of national slogans. It will be represented as an American victory. It will not be an American victory…Gold. Nothing else uniting the three governments, England,   Russia, United States of America. That is the interest gold, usury, debt,   monopoly, class interest, and possibly gross indifference and contempt for humanity”.

“Non è un atto da patriota Americano mandare ragazzi da Omaha (cittadina al centro degli USA – NdT) a Singapore a morire per il monopolio e la brutalità inglesi… Questa guerra non ha avuto inizio nel 1939. Non è il risultato del nefando trattato di Versailles. E’ impossibile capire questo senza conoscere almeno alcuni dei precedenti storici che marcano una lunga serie di scontri… Questa guerra è un episodio della antica lotta tra l’usuraio ed il resto dell’umanità, tra l’usuraio ed il contadino, tra l’usuraio ed il produttore ed anche tra l’usuraio ed il mercante, tra il sistema dell’ usurocrazia ed il sistema mercantile…. La presente lotta risale per lo meno fino all’epoca della fondazione della Banca d’ Inghilterra nel 1694…. I parassiti erranti si sposteranno da Londra per giungere a Manhattan. La cosa sarà presentata adoperando il camuffamento di slogans nazionalistici; sarà presentata come una vittoria americana, ma non sarà una vittoria americana…  L’ oro nient’altro unisce i tre governi Inghilterra, Russia, Stati Uniti. Questo è il motivo: oro, usura, debito, monopolio, interesse di classe ed una grande indifferenza e disprezzo per l’umanità”.

Imperdonabile… ed infatti ancora oggi non vi è perdono per Pound.

IL COLPO DI STATO IN GUATEMALA

Gli anni 1953-1954 videro l’avvio da parte dell’ amministrazione statunitense della politica delle operazioni sotterranee svolte dalla CIA miranti a destabilizzare i governi dei paesi considerati non favorevoli a Washington ed il tentativo di instaurare al loro posto regimi compiacenti che favorissero la penetrazione economica delle imprese americane ed offrissero appoggio e collaborazione militare in funzione antisovietica. Dapprima in Iran e successivamente in Guatemala le operazioni di creazione di dissenso interno, destabilizzazione dei governi e pianificazione di colpi di stato ebbero successo.  Artefice  delle operazioni segrete  condotte in ossequio alla politica di Dwight David Eisenhower e di John Foster Dulles fu la CIA di Allen Welsh Dulles. A seguito dell’uscita di scena di Eisenhower e dopo lo smacco dello sbarco nella Baia dei Porci, la credibilità della CIA, subì un duro colpo e i regimi filo-americani ed impopolari, frutto dell’ attività di Dulles, in Iran, e in Guatemala, vennero visti nella loro realtà come brutali e corrotti. Allen Dulles venne infine silurato da Kennedy.

Il Guatemala prima dell’ intervento americano.

Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale il Guatemala, sotto la presidenza autoritaria di Jorge Ubico, da una parte conobbe un periodo di riorganizzazione e modernizzazione dell’ amministrazione, di lavori pubblici e di apertura ai capitali esteri, dall’altra, lo sviluppo economico derivato dalla parziale modernizzazione  procurò vantaggi soprattutto per la classe dei grandi proprietari terrieri, suscitando il malcontento nella classe media.
Alcune  azioni di governo del presidente Ubico mirarono comunque a migliorare le condizioni di vita degli indios e delle classi più modeste della popolazione: ad esempio fu abolita  la pratica della riduzione in schiavitù per debiti, fu resa possibile la libera circolazione degli indios e migliorarono le strutture sanitarie del paese.

Per risollevare il Guatemala dalla depressione economica Ubico aprì il paese al capitale statunitense e, sotto il suo regime, la United Fruit Company divenne la compagnia più importante del Guatemala: la compagnia ricevette particolari facilitazioni dal governo (esenzioni dalle tasse sulla proprietà e sulle esportazioni ed in pratica controllava buona parte delle attività produttive del paese comprese linee ferroviarie e centrali elettriche nonché le strutture portuali di Puerto Barrios sulla costa atlantica).
Ubico, comunque, era noto anche per gli atteggiamenti pittoreschi e stravaganti: era un grande ammiratore di Bonaparte e, avendo combattuto con successo nelle fila dell’ esercito guatemalteco nella guerra contro il Salvador, diede grande importanza e potere ai militari esaltando la “missione educatrice delle caserme”.
Negli ultimi anni il governo fu completamente incapace di rinnovarsi, nonostante le esigenze di cambiamento; Ubico rimase caparbiamente aggrappato al potere e contemporaneamente  crebbe l’ossessione verso la sicurezza. Alla fine nel 1944 un colpo di stato congiunto tra militari progressisti e forze d’opposizione lo detronizzò.  Il potere fu brevemente amministrato da una giunta militare che immediatamente organizzò delle libere elezioni. Con l’ 85% dei voti fu eletto il professor Juan Jose Arévalo, che, all’ inizio del 1945, assunse il titolo di 24° presidente del Guatemala.

Arevalo era un educatore ed un saggista. Durante i 14 anni della dittatura ubichista  aveva vissuto in esilio in Argentina , insegnando filosofia all’università di Tucumán, ma era già molto noto in patria per il successo dei suoi libri di pedagogia, di politica e di filosofia. Certamente riformista, ma fermamente contrario al comunismo ed al marxismo, la sua politica fu di stampo socialdemocratico: la sua visione politica è stata chiamata Socialismo Espiritual. I diritti civili furono indubbiamente visti come essenziali per lo sviluppo del cittadino, ma, al tempo stesso, le libertà individuali dovevano comunque essere esercitate nei limiti necessari per un corretto sviluppo ed ordine sociale. Dunque per Arevalo la democrazia richiedeva la preminenza della sicurezza nazionale e sociale sui diritti civili e le libertà personali. In questo senso la visione socialdemocratica di Arevalo era in opposizione dell’individualismo delle democrazie liberali occidentali. Fu questa la ragione per cui settori conservatori della società e, ovviamente, gli Stati Uniti, accusavano il presidente di cripto comunismo. In realtà, come detto, l’azione di Arevalo fu sempre contraria al comunismo che egli considerava contrario alla natura umana. Il presidente esiliò diversi attivisti comunisti, rifiutò di legalizzare il Partito Comunista di Guatemala rimosse funzionari di governo che avevano legami con la stampa comunista e chiuse l’ istituto di istruzione marxista Escuela Claridad. Il nuovo governo si occupò dei più urgenti problemi sociali e del lavoro e nell’ottobre del 1946 creò l’instituto guatemalteco de seguridad social. L’ IGSS cominciò a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori dapprima su scala ridotta regionale e poi espandendosi. Contemporaneamente nacquero liberi sindacati e migliorarono le condizioni della classe media e dei meno abbienti. I miglioramenti furono più sensibili nelle città, nelle aree rurali il governo non ebbe la forza e la possibilità di effettuare una completa riforma agraria e gli sforzi per migliorare le condizioni dei contadini ottennero poco successo in mancanza di una efficace lotta al latifondo e redistribuzione delle terre.

Nelle elezioni del  1951, proprio sulla base di una piattaforma elettorale che contemplava anche la riforma agraria, fu eletto presidente Jacobo Arbenz Guzman che era stato uno dei militari che avevano organizzato la rivoluzione dell’ottobre 1944 contro il regime di Ubico ed aveva ricoperto il ruolo di ministro della difesa sotto il governo democratico di Arevalo rimanendo fedele al presidente durante un tentativo di colpo di stato portato avanti nel luglio del 1949 da settori conservatori alleati con esponenti dell’esercito. Arbenz Guzman fu dunque il secondo presidente democraticamente eletto nella storia del Guatemala e per la prima volta vi era stato un passaggio di poteri svoltosi a seguito di libere elezioni.

Il governo di Guzman continuò il piano di riforme già messo in atto da Arevalo ed in particolare intraprese la non più differibile riforma agraria. Nel 1945 il 2% della popolazione possedeva il  70% di tutta la terra fertile e però ne coltivava solo il 12%. Il decreto 900 prevedeva che venissero espropriate le terre, di proprietà di privati,  risultanti non effettivamente coltivate, e che tali terreni fossero poi riassegnati a contadini e braccianti. Era ovviamente previsto l’indennizzo dei proprietari, ma tale indennizzo era computato in base al valore del terreno che il proprietario aveva dichiarato ai fini fiscali, valore che naturalmente i grossi proprietari avevano fino a quel momento dichiarato il più basso possibile. Ovviamente la più colpita dalla nuova legge (denominata “Decreto 900”) fu la United Fruit Company: a seguito dell’applicazione del  “Decreto 900”, il governo del Guatemala espropria quasi 156.000 ettari di terra alla sola compagnia United Fruit, pari al 64% del totale della terra di sua proprietà, distribuendola a circa 138.000 famiglie povere alle quali viene assicurata assistenza tecnica e accesso al credito bancario.

La UNITED FRUIT COMPANY

L’ U.F.C. nacque nel 1899 a Boston dalla fusione di due società precedentemente in concorrenza tra loro. I due soci fondatori Andrew W. Preston e  Minor Cooper Keith divennero rispettivamente presidente e vicepresidente. La società  nella prima metà del 900 giunse a essere la “compagnia bananiera” più grande del mondo, con piantagioni in Colombia, Costa Rica, Cuba, Honduras, Giamaica, Nicaragua, Panama e Santo Domingo. In poco tempo Keith divenne proprietario del 10% del territorio costaricano e si fece conoscere come “il re senza corona dell’America centrale. Oltre alle piantagioni la società possedeva una propria flotta di navi e interessi e proprietà nelle ferrovie di tutta l’ America Centrale governando quindi tutte le fasi di coltivazione, spedizione e commercializzazione del prodotto (tipicamente banane ed ananas).
Nel 1930 inizia la scalata alla UFC Sam Zemurray figlio di un contadino ebreo della Bessarabia (Russia) ed  arrivato negli USA nel 1892, a 15 anni. Zemurray non sapeva nemmeno parlare molto bene l’ inglese, ma in poco tempo riesce a farsi strada negli affari. Nel 1930 vende la sua società alla UFC in cambio di 300.000 azioni. E’ il primo passo per impossessarsi della società. Nel 1933 Zemurray riesce ad impadronirsi del controllo dell’ intera UFC e diviene “Sam the Banana Man”. Occuperà la presidenza o comunque posizioni di rilievo all’ interno della società praticamente fin quasi alla sua morte avvenuta nel 1961.

Anche altre riforme del governo Arbenz vanno a collidere con gli interessi americani nella regione. Non c’ è intervento statale in campo ferroviario, ma la costruzione di strade è vista come concorrente rispetto l’attività della compagnia statunitense che controlla le ferrovie. Nel campo energetico Arbenz propone la costituzione di un’impresa guatemalteca per la produzione dell’energia elettrica: anche qui non c’è espropriazione ma concorrenza alla compagnia statunitense che controlla le centrali elettriche del paese. Nel campo politico vengono definitivamente liberalizzati tutti i partiti ed i sindacati compreso quindi anche il partito comunista.
Le  iniziative del governo di J. Arbenz Guzman, fecero gridare allo scandalo l’ amministrazione americana che cominciò ad accusare il Guatemala di comunismo e collateralismo con la Russia sovietica, il paese fu definito da Allen W. Dulles come “la testa di ponte sovietica nell’ emisfero occidentale“. Ma non si trattava solo delle paranoie tipiche dell’era maccarthystica: la riforma agraria di Arbenz Guzman andava a collidere con gli interessi della United Fruit Company e sia Allen Dulles che suo fratello erano azionisti della società.

Il colpo di stato.

Già sotto l’amministrazione Truman vi erano stati tentativi da parte americana di fare pressione economica e militare nei confronti del governo di Arbenz e di finanziare e dirigere gruppi ostili al governo che erano stati contattati dalla CIA. Il Dipartimento di Stato nell’aprile 1952 invitò il presidente nicaraguegno Anastasio Somoza a Washington per una visita ufficiale negli USA: il dittatore Somoza poteva essere un buon alleato degli Stati Uniti nella lotta contro il governo del Guatemala. Somoza si dichiarò pronto a fare la sua parte appoggiando ed accogliendo eventuali gruppi antigovernativi in esilio (7 – pp. 16-18). Il 9 settembre 1952 la CIA ed il Dipartimento di Stato (all’epoca, sotto l’ amministrazione Truman, dirette rispettivamente dal generale Walter Bedell  Smith e da Dean Acheson), ufficialmente diedero il via all’ Operazione PBFORTUNE che prevedeva di fornire armi agli esponenti militari guatemaltechi in esilio (coloro che nel 1949 e nel 1950 avevano già tentato di abbattere il governo di Juan Josè Arevalo) e prevedeva una serie di assassinii  di 58 esponenti politici guatemaltechi. Una fuga di notizie impedì che l’operazione potesse raggiungere una fase di effettiva realizzazione, inoltre approssimandosi la fine del mandato presidenziale, Truman non voleva impegnarsi troppo apertamente in  un’ operazione politicamente rischiosa il cui eventuale insuccesso  poteva segnare negativamente i suoi ultimi mesi di presidenza.

L’ operazione era solo rimandata: si aspettava l’insediamento del nuovo presidente USA.

Gli omicidi politici progettati dalla CIA in Guatemala

Nel maggio 1997 la CIA declassificò e rese pubblici vari documenti riguardanti il coinvolgimento della stessa agenzia nel colpo di stato del 1954 in Guatemala
I documenti furono resi pubblici per marcare la fine della guerra fredda e, nello stesso tempo, compiere un atto che, auspicabilmente, potesse migliorare  l’ immagine pubblica della CIA.
Tra i documenti resi pubblici i più importanti sono:
uno studio del giugno 1995 a firma di Gerald K Haines del CIA History Staff Analysis dal titolo “CIA AND GUATEMALA ASSASSINATION PROPOSALS 1952-1954” in cui l’ autore segue cronologicamente l’ evolversi dei piani sviluppati dalla CIA per assassinare una serie di esponenti politici Guatemaltechi.  I piani iniziarono ad essere redatti a partire dal febbraio 1952 quindi prima ed all’ interno dell’ operazione PBFORTUNE (quindi sotto l’ amministrazione TRUMAN) e continuarono ad essere sviluppati all’ interno di PBSUCCESS (amministrazione Eisenhower). Secondo l’ autore i piani non ebbero occasione di essere portati a termine, ma, fino all’ ultimo, non vennero mai accantonati, solo non si verificarono le condizioni per la loro realizzazione. Tuttavia nei documenti declassificati sono stati cancellati  i nomi delle personalità che erano gli obiettivi dei sicari della CIA: di essi si conosce solo il numero complessivo (58) rendendo impossibile verificare la loro effettiva sorte.
Un manuale dal significativo titolo  “STUDY OF ASSASSINATION” una guida per insegnare l’ arte dell’ omicidio politico: le 19 pagine del manuale offrono descrizioni dettagliate delle modalità, degli strumenti per la realizzazione di un assassinio. Il manuale è disseminato di saggi e pratici consigli come: “The simplest local tools are often much the most efficient means of assassination,” oppure “puncture wounds of the body cavity may not be reliable unless the heart is reached….Absolute reliability is obtained by severing the spinal cord in the cervical region.” etc
La  dettagliata descrizione delle varie fasi dell’ operazione PBFORTUNE e PBSUCCESS compresi antefatti e conseguenze: uno studio di oltre 100 pagine curato da Nicholas Cullather che si avvale di tutta la documentazione degli archivi CIA e dal titolo “Operation PBSUCCESS: The United States and Guatemala, 1952- 1954

L’ amministrazione Eisenhower mostrò subito interesse verso lo sviluppo di un nuovo piano di destabilizzazione del Guatemala, inoltre un nuovo impulso venne dal fatto che Eisenhower pose i fratelli Dulles rispettivamente a capo del Dipartimento di Stato e della CIA rendendo possibile una maggiore sinergia tra i due organismi.

Nel progetto di colpo di stato ordito dalla nuova amministrazione americana (denominato operazione PBSUCCESS), di centrale importanza era l’aspetto della guerra psicologica. La CIA, forte dell’ esperienza accumulata  nel colpo di stato in Iran, pianificò l’uso in grande scala di pubblicazioni (volantini, manifesti, pamphlet) e sopratutto l’uso intensivo di trasmissioni radio. La radio si era già dimostrata il mezzo per sbloccare la situazione ed invertire il senso della corrente nel colpo di stato architettato dalla CIA e dai servizi inglesi in Iran. Sebbene relativamente pochi in Guatemala possedessero una radio, la radio era considerata una fonte autorevole (7 – pag 27) e la CIA sperava che, tramite successivi contatti di persona in persona, i messaggi trasmessi via etere potessero raggiungere un’audience ancora più grande di quella che effettivamente ascoltava la radio. La  stazione radio utilizzata dalla CIA per diffondere i messaggi contro il governo (dall’altisonante  nome “La Voz de la Liberacion), aveva in realtà la sede principale a Miami, in Florida, dove le trasmissioni venivano registrate, i nastri venivano poi inviati con un ponte aereo in una località dell’America Centrale in prossimità del Guatemala (probabilmente in Panama, ma il nome della località è stato cancellato dai documenti rilasciati dalla CIA). Nelle trasmissioni gli annunciatori affermavano di operare “dal profondo della giungla” del Guatemala e la radio trasmetteva un mix di musica popolare e propaganda antigovernativa. Al contempo le trasmissioni blandivano i militari in quanto la CIA si rendeva conto che ogni colpo di stato era destinato a fallire senza l’ appoggio o quanto meno il non intervento dell’esercito. Subito dopo l’inizio delle trasmissioni, la CIA ebbe anche un insperato colpo di fortuna: per una precedentemente  programmata sostituzione dell’antenna, la TGW, la radio di stato guatemalteca sospese le trasmissioni radio per oltre due settimane. Fu così che nel mese di maggio, in un momento critico per le sorti del paese la CIA ebbe praticamente il monopolio dell’ informazione radio (7 – pag 57).

Poiché gli analisti dell’agenzia consideravano l’economia del Guatemala vulnerabile a pressioni economiche, essi pianificarono di ostacolare le forniture di carburante, il trasporto delle merci, l’esportazione di caffè. Ad un “already cleared group of top-ranking American businessmen in New York City” (7 – pag. 27) sarebbe stato affidato il compito di esercitare nascostamente pressioni economiche sul Guatemala creando una riduzione delle importazioni vitali ed assottigliando i guadagni ricavabili con le esportazioni. Nelle intenzioni americane il programma sarebbe stato potenziato da azioni sviluppate multilateralmente da altre nazioni all’interno dell’ Organizzazione degli Stati Americani (OAS). Il Segretario di Stato Foster Dulles si adoperò per far tenere in Venezuela una sessione speciale dell’OAS per discutere sulla situazione in Guatemala; fallì invece  il progetto di orchestrare un embargo nei confronti delle esportazioni di caffè dal Guatemala: le conseguenze sul prezzo del caffè sarebbero state pesanti anche per gli USA (7 – pag.36). Maggior successo ebbe invece l’ embargo sulla vendita di armi al Guatemala. Già nel 1951 gli USA avevano ridotto la vendita di armi al Guatemala, nel corso del 1953 la diplomazia USA riuscì ad impedire che il piccolo stato riuscisse ad acquistare armi da nazioni come il Canada, la Germania e la Rodesia: la penuria di armi e di munizioni penalizzava fortemente la capacità dell’esercito guatemalteco di assolvere i suoi compiti. Il governo Arbenz riuscì alla fine a rifornire l’esercito acquistando armi in Cecoslovacchia; d’altra parte il fatto che le armi fossero state acquistate da un paese oltrecortina fu prontamente sfruttato, dall’organizzazione propagandistica messa su dalla CIA, per accusare il governo di connivenza con l’Unione Sovietica.

All’ interno del paese agenti e gruppi sotto il controllo e le dirette istruzioni della CIA facevano attività di provocazione e di propaganda antigovernativa in vari  modi: stampando libelli antigovernativi, affiggendo manifesti od addirittura scatenando una “guerra di nervi” contro dirigenti e funzionari governativi, ad esempio spedendo bare alle loro case o scrivendo sui muri in prossimità delle loro abitazioni slogans come “qui abita un comunista” oppure “qui abita una spia” od ancora “ti sono rimasti 5 giorni di vita” (6 – pag 5). Altre forme di provocazione e propaganda consistevano nel dare ai giornali locali false notizie della morte dei leaders di governo, dipingere il numero 32 su bus e muri di tutto il paese (dall’ articolo 32 della costituzione che proibiva partiti politici internazionalisti con evidente riferimento al partito comunista che il governo, all’ interno della liberalizzazione politico-sindacale,  aveva dichiarato legale). Queste  attività di disturbo e provocazione ebbero l’ovvio risultato che il governo fu costretto a prendere misure aspre contro i gruppi manovrati dall’esterno arrestandone i membri e intimando alla stampa di ignorare le loro attività. Queste misure erano proprio ciò che serviva alla propaganda americana per dipingere un governo liberamente eletto e che si era distinto per la liberalizzazione politica, come un regime repressivo e violento.

Nel marzo 1954 la conferenza dell’OAS a Caracas, che gli USA avevano fortemente voluto per far votare, in funzione anti Guatemala, una risoluzione che condannava ogni ingerenza comunista, fu solo un parziale successo per la diplomazia statunitense. Gli USA riuscirono a far votare la desiderata risoluzione di condanna per le presunte attività comuniste finalizzate ad interferire nei paesi latino-americani, ma l’energico ministro degli esteri guatemalteco, Toriello, in un applauditissimo intervento denunciò pubblicamente i tentativi americani di destabilizzare il governo legittimo del Guatemala e fece allegare agli atti una dichiarazione denunziando che sotto il pretesto di combattere il comunismo si interveniva  negli affari interni di altri paesi e si voleva limitare lo sviluppo dei popoli e che il Guatemala si sarebbe opposto, anche appellandosi alle Nazioni Unite, ad ogni forma di interferenza, da qualunque parte  fosse giunta.

Una nuova operazione di propaganda fu architettata dalla CIA tra  aprile e maggio: approfittando dell’eco che aveva avuto l’arrivo delle armi cecoslovacche in Guatemala, si voleva spingere ancora più sul preteso coinvolgimento dell’ URSS. Fu così messa in giro la voce che alcuni pescatori nicaraguegni avevano visto un sommergibile russo, fu realizzato un fotomontaggio che riguardava un vero sommergibile russo e la notizia e le “prove” dell’avvistamento furono date il 28 aprile alla stampa nicaraguegna. Lungo una spiaggia un gruppo di agenti CIA aveva provveduto intanto a seppellire una cassa con 40 fucili fabbricati in Unione Sovietica; il 7 maggio Somoza convocò la stampa ed il corpo diplomatico per far constatare il carico d’armi sovietiche che i suoi uomini avevano “scoperto”. L’ operazione, denominata WASHTUB, fu un successo e persino l’ ambasciatore americano in Nicaragua, che nulla sapeva del piano CIA, si convinse che realmente i russi clandestinamente armavano agenti comunisti anche in altri stati dell’ America Centrale.

Naturalmente le operazioni di disturbo e provocazione non bastavano. La CIA aveva armato e addestrato nel confinante Honduras, un gruppo di circa 400 cospiratori a capo dei quali pose Castillo Armas. Costui,  un militare ex collega di Arbenz Guzman,  nel 1950 aveva tentato senza successo di rovesciare il governo di Juan José Arévalo ed era poi fuggito all’estero. Castillo Armas aveva solidi legami con gli USA dove aveva studiato in accademia militare. Il 18 giugno del 1954 i cospiratori al comando di Castillo Armas penetrarono in Guatemala procedendo in 4 gruppi dalle basi apprestate dalla CIA in Honduras e Salvador. I pochi assalitori erano stati suddivisi per dare l’impressione di un’invasione più massiccia e per minimizzare il rischio che in uno scontro con l’esercito fossero tutti immediatamente sconfitti e respinti. In effetti agli assalitori erano state date precise istruzioni di evitare per quanto possibile ogni scontro con l’esercito che, benché composto da poche migliaia di uomini, non era certamente alla portata dei 400 mercenari raccogliticci. In effetti le cose andarono precisamente come temuto. Addirittura un gruppo di ribelli che doveva penetrare dal Salvador ebbe problemi con la polizia salvadoregna che ne arrestò alcuni e confiscò molte armi. Il gruppo di 122 ribelli che avevano l’ obiettivo di impadronirsi della città di Zacapa furono severamente battuti nei pressi della cittadina di Gualàn da un piccolo contingente di 30 soldati guatemaltechi guidati dal giovane tenente Cesar Augusto Silva Giròn. Senza attendere rinforzi dal grosso delle truppe attestate a Zacapa, Giròn impegnò i ribelli in un combattimento durato 36 ore e li costrinse a ripiegare in disordine; solo 28 ribelli scamparono alla morte od alla cattura, una volta in salvo, i sopravvissuti comunicarono a Castillo Armas che erano stati “schiacciati da preponderanti forze nemiche”. Un’ analoga sorte toccò al gruppo che marciava contro la città portuale di Puerto Barrios. Avvedutosi dell’ arrivo dei ribelli il capo della polizia locale distribuì le armi ai lavoratori del porto: in capo a poche ore la gran parte dei 170 assalitori erano stati catturati od uccisi ed i sopravvissuti in disordinata ritirata verso l’ Honduras. Per alleggerire la situazione che andava facendosi pesante, la CIA giocò la carta dell’attacco dall’aria sperando che un bombardamento della capitale creasse scompiglio e rotta tra le fila governative. La CIA infatti aveva fornito ai ribelli alcuni aerei, ma anche il loro effetto fu risibile con un unico aereo che riuscì ad incendiare un piccolo deposito di carburante, incendio domato in venti minuti.

Un’altra lotta si andava inoltre accendendo nei salotti diplomatici e tra i mass media che governavano l’opinione pubblica mondiale. Il già citato ministro degli esteri guatemalteco Guillermo Toriello, il 18 giugno, cioè lo stesso primo giorno dell’ invasione, chiese all’ ONU di intervenire per fermare l’aggressione contro il suo paese, indicando come aggressori il Nicaragua, l’ Honduras e la United Fruit Company. Il 20 giugno il Consiglio di Sicurezza approvò una mozione presentata dalla Francia che impegnava tutte le nazioni a non appoggiare gli invasori: John Foster Dulles era furioso, ma, per salvare le apparenze dovette votare per la mozione. C’era il rischio che le Nazioni Unite mandassero sul posto una missione per indagare sugli avvenimenti. Eisenhower era pronto ad usare il diritto di veto: gli Stati uniti fino a quel momento non avevano mai usato il loro diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza (ben diversa come noto la situazione attuale…) ed il farlo era visto come una sconfitta d’immagine. Inoltre in quello scorcio di 1954 c’erano aspettative per un allentamento della tensione tra le due superpotenze: Stalin era morto ormai da un anno e la nuova amministrazione Sovietica pareva più accomodante, la politica aggressiva dell’amministrazione Eisenhower anche per l’affaire Guatemala (gran parte della stampa aveva correttamente identificato che dietro l’ invasione c’ erano gli Stati Uniti), era vista come ingiustificata ed un’occasione perduta per la pace.

Nonostante le evidenti sconfitte sul campo, il piano americano, grazie alle operazioni di propaganda, ebbe il suo successo. Infatti il governo di Arbenz Guzman era in effetti da una parte paralizzato dal timore di un intervento americano diretto, magari scatenato proprio dalla necessità di appoggiare i ribelli invasori filoamericani in evidente difficoltà, dall’altra era paralizzato dal timore che l’esercito potesse passare dalla parte degli insorti. In effetti c’erano stati contatti diretti tra la CIA e alti quadri militari, ma questi contatti non avevano portato a niente di conclusivo. D’altra parte i rinforzi militari che andavano affluendo verso le zone dove erano penetrati i ribelli, erano anch’essi paralizzati dal terrore di un intervento militare americano ed erano restii ad intervenire con decisione nel disperdere definitivamente gli invasori. Il giorno 23 giugno, al presidente Arbenz Guzman furono riferiti i primi dubbi sull’ affidabilità di alcuni reparti dell’esercito. Ufficiali fedeli al governo contattarono alcuni capi militari a Zacapa e ricevettero da questi l’invito al governo a dimettersi per evitare l’intervento americano. La paura del voltafaccia dei militari era inoltre amplificata dall’azione delle già citate trasmissioni radio di propaganda, manovrate dalla CIA, che trasmettevano false notizie di massicce defezioni nell’esercito, sperando di indurre effettivamente la cosa ad avverarsi. Fu così che quando la guarnigione di Chiquimola, composta  di 150 uomini si arrese, senza sparare un colpo,  ai  ribelli di  Armas, il presidente Arbenz Guzman, convinto che l’esercito fosse in procinto di passare al nemico, annunziò le sue dimissioni passando il potere a Carlos Enrique Díaz, capo delle forze armate. In pochi giorni, dopo alcune trattative con le successive giunte che succedono ad Arbenz Guzman,  nonostante la forte opposizione delle popolazioni cittadine e dei contadini che avevano beneficiato della riforma agraria, il potere viene ceduto al capo dei ribelli Castillo Armas.

Proprio in conseguenza del fatto che in pratica non erano stati i ribelli a conquistare il paese, ma era stato il governo, convinto che un probabile voltafaccia militare  non lasciasse altre alternative, a cadere, il presidente Arbenz Guzman e tutti coloro che avevano partecipato con funzioni importanti al governo e molti intellettuali ebbero il tempo e la possibilità di andare in esilio all’estero. I contadini senza terra beneficiati dal decreto 900 e la povera gente che aveva solo appoggiato il governo, non avendo la possibilità di fuggire in esilio, subiranno una feroce repressione con numerosissimi assassinii.

Appena assunte le funzioni, Castillo Armas tolse il diritto di voto a più di metà della popolazione guatemalteca, proibendo agli analfabeti di votare. Nel luglio del 1954 cancellò la legge di riforma agraria, costringendo i contadini a lasciare le terre appena acquistate. Nello stesso anno, su richiesta della CIA, formò un Comitato nazionale di difesa contro il comunismo, responsabile di molti omicidi politici nel Guatemala degli anni 50. Le crescenti tensioni interne sfociano nell’insurrezione armata del 1960 guidata da un consistente numero di ufficiali rimasti fedeli ad Arbenz Guzman. La rivolta viene soffocata dall’esercito ma alcuni degli ufficiali ribelli rifugiatisi all’estero radicalizzano le loro posizioni e creano i primi gruppi guerriglieri pronti ad operare clandestinamente nel paese.

Il conflitto armato tra regime militare e guerriglieri e la repressione contro gli indios, con fasi alterne, si protrasse per trentasei anni procurando per lo meno 150.000 vittime. Solo nella seconda metà degli anni 90 dopo vari sforzi dell’ ONU il paese ha visto il termine della guerra civile e l’avvio di un periodo di stabilizzazione democratica.

Il presidente Jacobo Arbenz Guzman morì nel 1971 in esilio a Città del Messico in circostanze tuttora misteriose, solo molto tempo dopo le sue spoglie poterono rimpatriare  in Guatemala, per ordine del presidente Ramiro de León Carpio, il 19  ottobre del 1995.

L’ operazione PBSUCCESS adottò un modus operandi e sviluppò idee e metodi, quali l’uso martellante della propaganda e le provocazioni interne ed esterne, che erano completamente nuovi per l’epoca. Nonostante le novità adottate abbiamo visto come l’operazione sfiorasse l’insuccesso: l’abilità di Allen Dulles fu anche quella di tenere nascoste le numerose pecche nell’organizzazione e nello svolgimento dell’ operazione: uno studio del 1994 commissionato dalla stessa CIA mostrò come Dulles abbia persino mentito riguardo al numero delle perdite subite dai mercenari di Castillo Armas.   I metodi sperimentati in PBSUCCESS divennero comunque di fatto il modello adottato dagli americani per le operazioni di destabilizzazione dei governi considerati nemici. Molto evidenti sono le similarità con la fallita invasione della Baia dei Porci, ma anche operazioni recentissime, come quelle contro l’Iraq o l’Iran, mostrano evidenti analogie: basta sostituire alla parola comunismo di volta in volta le parole “al-Qaeda”, “armi di distruzione di massa, “governo teocratico”; sostituire alla radio ed ai volantini Internet e Twitter e così via…

LA STRAGE DI MY LAI

Il generale William Westmoreland, Commander of American Forces in Vietnam, aveva scritto: “So sympathetic were some of the people to the VC that the only way to establish control…among the people was to remove the people and destroy the village.”

Il 16 marzo 1968 nel villaggio di My Lay nel Vietnam del Sud, la compagnia Charlie del primo Battaglione, 11ma Brigata,  ventitreesima divisione di fanteria (detta “Americal Division” dalla contrazione di America e Caledonia) dell’esercito americano, sotto il comando del tenente William Calley,  massacrò alcune centinaia di civili vietnamiti disarmati.  Ai soldati della compagnia Charlie era stato detto dai superiori che il villaggio ospitava combattenti Viet Cong, e che avrebbero dovuto distruggerlo. In realtà quando i soldati dell’11ma brigata arrivarono sul posto non trovarono Viet Cong e nessuna resistenza.

I soldati convinti che i civili fossero una minaccia incominciarono ad ammassarli nei fossi ed a sparare con le armi automatiche. Uno dei soldati,  Varnado Simpson,  subito dopo i fatti disse: “I killed about 8 people that day. I shot a couple of old men who were running away. I also shot some women and children. I would shoot them as they ran out of huts or tried to hide“. Ma qualche tempo dopo, raccontò: non dovevi cercare la gente per ucciderla: erano proprio lì. Tagliai le loro gole, le loro mani, le loro lingue, li scotennai. Io feci questo. Molti di noi facevano questo ed io feci come gli altri. Avevo del tutto perso il senso della direzione.

You didn’t have to look for people to kill, they were just there. I cut their throats, cut off their hands, cut out their tongues, scalped them. I did it. A lot of people were doing it and I just followed. I just lost all sense of direction.

Il caporale Jay Roberts, ricorda che gli scatenati G.I.s non erano esclusivamente interessati ad ammazzare… sebbene senza dubbio ammazzare fosse di gran lunga la loro principale occupazione… Sempre LIFE infatti riporta le parole di Roberts:

“Le truppe accostarono un gruppo di donne, inclusa una adolescente. Un GI afferrò la ragazza e con l’aiuto degli altri cominciò a svestirla. “Vediamo come è fatta”, disse uno. “Viet-cong bum bum”, disse un altro, dicendo alla ragazzina che era una prostituta dei viet-cong. “Ho voglia”, disse un terzo. Mentre spogliavano la ragazzina, con cadaveri e capanne bruciate tutt’attorno, la mamma della ragazza cercò di salvarla. Un soldato le diede un calcio, un altro la schiaffeggiò. Ron Haeberle (il fotografo dell’esercito) si precipitò a fare una fotografia al gruppo di donne. La foto, mostra una tredicenne che si nasconde dietro sua madre, cercando di chiudere il bottone del suo pigiama. Quando si accorsero di Ron, lasciarono perdere e si voltarono come se tutto fosse normale. Poi un soldato chiese: “Beh, che ne facciamo, di loro?” “Uccidile”, rispose un altro. Sentii partire un M60, e quando ci voltammo erano tutte morte, compresi i bambini che avevano con loro”.

Il massacro fu interrotto solo a seguito dell’ intervento dell’ equipaggio di un elicottero dell’esercito USA in ricognizione, che atterrò frapponendosi tra i soldati americani e i superstiti vietnamiti. Il pilota, Sottufficiale Hugh Thompson Jr., affrontò i soldati americani e disse che avrebbe aperto il fuoco su di loro se non si fossero fermati. In un fosso, Thompson trovò un bimbo di tre anni ricoperto di sangue ma illeso. Subito chiamò altri elicotteri in aiuto e fece rapporto ai suoi comandanti su ciò che aveva visto.

Immediatamente iniziò un’ azione di depistaggio ed insabbiamento per evitare che l’ intervento di Thompson potesse evolvere in ulteriori indagini.  I rapporti ufficiali da My Lai dicevano che era stato una splendida vittoria contro una postazione Viet Cong fortemente difesa.  Stars and Stripes, il giornale dell’esercito pubblicò un servizio che applaudiva al coraggio dei soldati che avevano rischiato le loro vite. Anche il generale  William Westmoreland mandò le sue congratulazioni personali alla compagnia  Charlie.

L'”investigazione” iniziale su My Lai venne svolta dal comandante dell’11a Brigata, Col. Oran Henderson, su ordine dell’assistente comandante della Divisione Americal, BG Young.

Henderson interrogò diversi soldati coinvolti nell’incidente e quindi scrisse un rapporto (nell’aprile di quell’anno) in cui dichiarava che 22 civili erano stati inavvertitamente uccisi in scontri con il nemico: l’esercito a quel momento descriveva l’accaduto come una vittoria militare in cui erano stati uccisi 128 combattenti nemici.

Sei mesi dopo un giovane soldato dell’11a (La “Brigata dei macellai”) di nome Tom Glen, scrisse una lettera accusando la Divisione Americal (e altre intere unità dell’esercito USA, non facendo accuse a singoli individui) di ordinaria brutalità nei confronti dei civili vietnamiti; la lettera era dettagliata, le sue accuse terrificanti, e il suo contenuto riecheggiava lamentele ricevute da altri soldati. Colin Powell, all’epoca un giovane maggiore dell’esercito, venne incaricato delle investigazioni sul massacro. Powell scrisse: “A diretta refutazione di quanto ritratto, c’è il fatto che le relazioni tra soldati americani e popolazione vietnamita sono eccellenti”. In seguito, la confutazione di Powell sarebbe stata chiamata un atto di “white-washing” (candeggiatura) delle notizie del massacro, e la questione avrebbe continuato a restare celata al pubblico.

Il caso sarebbe rimasto insabbiato se non fosse intervenuto un altro soldato, Ron Ridenhour, che, avendo appreso degli eventi di My Lai parlando con dei membri della Compagnia Charlie, indipendentemente da Glen, mandò una lettera al presidente Nixon, al Pentagono, al Dipartimento di Stato ed a numerosi membri del Congresso. Le copie di queste lettere furono spedite nel marzo 1969 a più di un anno dagli avvenimenti. La maggior parte dei destinatari ignorò la lettera di Ridenhour con l’unica eccezione del rappresentante alla Camera il democratico  Morris Udall.

Alla fine il tenente Calley fu accusato di assassinio premeditato nel settembre 1969 e altri 25 ufficiali e soldati furono accusati di crimini connessi. Ci vollero altri due mesi prima che il pubblico americano apprendesse del massacro. Nel novembre del 69 il massacro fu la “Cover Story” sia su TIME che su NEWSWEEK. La CBS mandò in onda  un’ intervista con Paul Meadlo, Life Magazine pubblicò le fotografie di Haerberle.

Le reazioni alle notizie del massacro furono varie: alcuni politici continuarono ad affermare che non vi era stato alcun massacro e che i resoconti di stampa erano macchinazioni per boicottare la guerra in Vietnam, altri invocarono l’apertura di un’ inchiesta indipendente, l’amministrazione scelse una via di mezzo optando per una commissione del Pentagono a porte chiuse e a capo della commissione fu nominato il generale a 3 stelle William Peers.

Per 4 mesi la commissione  Peers interrogò 398 testimoni, dal generale Koster, comandante della divisione “Americal” fino ai soldati semplici della compagnia  Charlie.  Furono raccolte oltre 20.000 pagine di testimonianze. Il rapporto Peers criticò il comportamento sia di ufficiali che di soldati. Peers raccomandò di prendere provvedimenti contro dozzine di uomini per stupro, assassinio o partecipazione al depistaggio.

Il rapporto Peers

Il rapporto fu completo ed approfondito non omettendo alcunchè. Lo stesso Hugh Thompson, il pilota di elicottero che era intervenuto per fermare il massacro ebbe a dire:
“Il Generale Peers condusse un’ inchiesta veramente approfondita: non piacque per niente al congresso perché fu onesta e completa e, nelle conclusioni Peers raccomandò la corte marziale per, credo, 34 persone, non solo per gli assassinii, ma anche per il tentativo di occultare la vicenda. In verità l’ occultamento operato a vari livelli fu probabilmente vergognoso quanto il massacro stesso, in effetti il generale raccomandò la corte marziale per molti ufficiale di rango elevato”.

L’ Army’s Criminal Investigation Division continuò l’iter investigativo. Molte delle persone indicate nel rapporto Peers come colpevoli di crimini di guerra non erano più nell’esercito e quindi non potevano essere giudicate da una corte marziale. Una sentenza del 1955 della Corte Suprema,  Toth vs Quarles, stabiliva infatti che i tribunali militari non potessero sottoporre a processo personale non più in servizio, indipendentemente da quanto gravi fossero le accuse. Si stabilì, quindi, di procedere contro un totale di 25 fra ufficiali e soldati, tra cui il generale Koster, il colonnello Oran Henderson, il capitano Medina. Alla fine, comunque, soli pochi furono effettivamente processati e di questi solo uno, William Calley, fu dichiarato colpevole. Nei confronti del generale Samuel Koster, l’ufficiale più alto in grado, tra quelli contro cui si procedette, che aveva mancato di riportare nei suoi rapporti il fatto che vi erano state numerose vittime civili ed aveva condotto un’inchiesta chiaramente inadeguata, furono ritirate le accuse e se la cavò solo con una lettera di censura e con una riduzione di grado. Il colonnello Henderson fu dichiarato non colpevole dalla corte marziale. Peers a questo riguardo espresse il suo disappunto scrivendo:

“I cannot agree with the verdict.  If his actions are judged as acceptable standards for an officer in his position, the Army is indeed in deep trouble.”.

Il Tenente William Calley ovviamente venne dichiarato colpevole nel 1971 di omicidio premeditato per aver ordinato di sparare e venne condannato all’ergastolo, altrettanto ovviamente 2 giorni dopo, il Presidente Richard Nixon ordinò il suo rilascio dalla prigione. Calley scontò 3 anni e mezzo di arresti domiciliari in caserma a Fort Benning (Georgia) e venne mandato libero da un giudice federale. (confrontare con quanto accaduto a seguito del massacro dei Cheyenne a Sand Creek),

Il soldato Varnado Simpson non riuscì mai a liberarsi dei fantasmi scatenati da quel giorno a My Lai: quando nel 1977 il figlio di 10 anni fu accidentalmente ucciso da un colpo sparato da un ragazzo, Simpson disse: “Questa è la mia punizione per aver ucciso tutte quelle persone”. Infine a 48 anni Simpson si sparò un colpo in testa.

La testimonianza resa al Time da Do Thi Chuc, anziana vietnamita, scampata al massacro che ebbe uccisa una figlia di 24 anni ed un nipotino di 4 anni: “Non ricordo altro che gente ammazzata. C’era sangue dappertutto. Sia gli americani bianchi che gli americani neri ammazzavano. Spaccavano le teste in due e molti americani avevano addosso pezzi di carne. “

All I remember was people being killed. There was blood all over. White Americans and black Americans both did the killing. Heads were broken open, and there were pieces of flesh over everyone.

Il soldato semplice Richard Pendleton arrivò sul luogo dopo che la gran parte della strage era ormai stata compiuta. Riporta il Time le parole di Pendleton: “Ma i ragazzi stavano ancora sparando alla gente,  ai superstiti che correvano attorno al villaggio. Cadaveri si ammucchiavano lungo i sentieri, nei fossati, ovunque.” – E Pendleton continua raccontando di aver visto un bambino che se ne stava in piedi sui corpi di quindici adulti. – “C’era solo questo piccolo bambino, e il capitano Medina [comandante della compagnia] gli sparò. Non so perché gli sparò, eccetto che c’era quel gruppo di cadaveri e tra essi suppongo ci fosse anche la mamma del bambino.

But some guys were still shooting people who were running around the village. There were big groups of bodies lying on the ground, in gullies and in the paddies.” He said he saw a boy standing among the bodies of 15 adults. “There was just this little kid there, this little boy, and I looked over and saw Medina [the company commander] shoot him. I don’t know why he did it, except that there was a bunch of bodies there — and I guess the boy’s mother was one of them.

Oggi il monumento alla memoria dei caduti nel villaggio di My Lai riporta 504 nomi di cui 182 donne (17 delle quali incinte), 176 bambini (56 dei quali infanti), 60 vecchi di oltre 60 anni. Non un colpo era stato sparato contro i fanti americani.

LE GUERRE DI AGGRESSIONE TRA LA FINE DEL XX E L’INIZIO DEL XXI SECOLO

1974-2003

L’INVASIONE DI GRENADA

Il 25 ottobre 1983 le truppe americane iniziavano l’invasione della piccola isola caraibica di Grenada. Il presidente Ronald Reagan con quest’atto dava il via al ritorno ad una politica estera basata sull’aggressione, dopo la pausa imposta dalla cocente sconfitta in Vietnam.

Nella prima parte di  questa pagina riportiamo  la traduzione di un’ articolo del 2006 di Malcom Lagauche,  ad essa segue una completa ricostruzione storica degli avvenimenti

Tutto ebbe inizio con Grenada – di Malcom Lagauche.

“Dove diavolo è Grenada? ” si chiesero molti americani nell’ottobre 1983 quando lessero o sentirono alla televisione che gli Stati Uniti avevano invaso il paese caraibico. Quando molti tentarono di trovare dove fosse quel paese o perché gli USA l’avessero invaso, essi non ebbero risposta. Per qualche giorno vedemmo il nome sui giornali, poi in fretta scomparve.

L’unica risposta coerente, benché vaga, data alle domande dell’opinione pubblica era che l’invasione fosse necessaria per fermare i “Rossi” (quelli di Mosca non la squadra di Cincinnati)  dall’infiltrarsi nel territorio USA. Era sufficiente per gran parte del pubblico americano. Non furono poste altre domande.

Nonostante le limitate dimensioni di Grenada e le scarne discussioni circa l’ argomento dell’ invasione, le implicazioni sono sconcertanti. Si era all’inizio di una politica estera americana basata sull’aggressione che, di fatto, è ancora oggi in atto. Il governo USA conduceva esperimenti in falsità ed essi funzionavano. Per esempio sotto la scusa della “sicurezza nazionale” non fu permesso alla stampa di seguire gli avvenimenti. I media si lamentarono, ma l’incidente fu subito dimenticato. Questo test fu fatto per vedere se ci sarebbe stato scandalo da parte dei media, ma non ci fu reazione.

Venne introdotta la prassi di utilizzare  una forza d’attacco in grado di assicurare una superiorità schiacciante. Fu infatti impiegata una forza militare molto maggiore di quella che era necessaria. Adoperare massicci quantitativi di armamenti più o meno obsoleti, inoltre, prepara  la strada per future invasioni  in quanto si generano le condizioni perché le industrie fornitrici di equipaggiamenti militari possano ricevere un gran numero di nuove ordinazioni per armamenti di più recente  generazione, rafforzando il peso del complesso militare-industriale nell’economia americana

Abbondarono le bugie propagandate dal governo. All’opinione pubblica fu detto che l’ isola di Grenada era sul punto di essere usata dai comunisti sovietici come base per l’ invasione di altre nazioni dell’emisfero occidentale e, eventualmente, anche degli stessi Stati Uniti. Come giustificazione il governo statunitense indicò la presenza delle truppe cubane sull’isola e la costruzione di un aeroporto. In realtà c’erano circa 50 tecnici cubani che collaboravano alla costruzione di un aeroporto turistico.

Un’altra ragione addotta a giustificare l’intervento riguardava la necessità di assicurare la sicurezza di alcune centinaia di studenti americani che frequentavano l’ università in Grenada. Questo fragile argomento fu ben presto abbandonato quando il primo gruppo di studenti discese dai velivoli che li avevano riportati negli Stati Uniti. La stampa era presente in forze all’aeroporto ad attenderli, e quando la prima persona scese dall’aereo gli fu subito chiesto “Avete temuto per la vostra vita?” Il giornalista intendeva alludere che il governo di Grenada avesse in programma di attentare in qualche modo alla sicurezza dei suoi ospiti stranieri. Un perplesso studente rispose: “L’unico momento in cui ho pensato che la mia vita fosse in pericolo è stato quando sono incominciate a cadere le prime bombe americane.” Quella intervista non fu più ritrasmessa.

Le somiglianze tra l’invasione di Grenada e quella dell’Iraq sono allarmanti. Come se l’una fosse la prova generale dell’altra. Il giornalista Jonathan Steele si occupò dell’ invasione di Grenada non appena alla stampa fu permesso di entrare nel paese, dopo che per cinque giorni le truppe americane avevano impedito ogni sorta di comunicazione con quel paese. L’11 ottobre 2003 apparve sul giornale britannico The Guardian un articolo di Steele nel quale il giornalista ricordava la sua esperienza in occasione dell’invasione di Grenada e la metteva a confronto con l’ invasione dell’ Iraq nel 2003. Secondo Steele:

Reporters who covered Grenada in that distant autumn of 1983 saw the same abuse of human rights, the same postwar incompetence, the same primitive failure to understand a foreign culture which the US “war on terror” was later to produce. None of us was allowed into Point Salines, the airport which the US took over as its occupation headquarters. But looking across rows of barbed wire we caught glimpses of detainees being herded into wooden crates. The entrances to these boxes were less than three feet high and prisoners had to undergo the humiliation of having to crouch on all fours to get in. A single tiny window in each crate gave the luckless prisoners a view of armed guards in sandbagged watchtowers. It was the prototype of Guantanamo Bay’s Camp X-Ray.

ovvero:

i giornalisti  che si recarono a Grenada in quel lontano autunno del 1983 videro gli stessi  abusi dei diritti umani, la stessa incompetenza a gestire il dopoguerra e la stessa incapacità a comprendere una cultura straniera che poi si registrò successivamente in occasione della “Guerra al Terrore”. A nessuno di noi fu permesso accedere a Point Salines, l’ aeroporto che le truppe USA avevano requisito per farne il quartier generale delle forze di occupazione. Ma guardando attraverso il filo spinato potemmo riuscire a scorgere detenuti in cassoni di legno. Un’ unica stretta finestra in ogni cassone dava agli  sfortunati prigionieri la visione di sentinelle armate in posti di guardia rivestiti di sacchetti di sabbia. Era l’antesignano del campo della baia di Guantanamo.

Né sono cambiati i comportamenti degradanti delle truppe USA. In Fallujah, parecchio tempo prima che la città divenisse famosa per la sua resistenza alle truppe d’occupazione, si verificarono degli incidenti che prepararono il terreno per la successiva famosa resistenza della città. Subito dopo l’invasione USA del marzo 2003, un edificio scolastico fu devastato dalle truppe americane. Quando gli iracheni rientrarono nell’edificio manomesso, videro scritte denigratorie e razziste sulle lavagne. Tra le scritte vi erano frasi del tipo: “Ci piace la carne di maiale”  e l’immagine di un cammello con la scritta “Compagnia di taxi di Baghdad”. Sulla porta del preside erano disegnati simboli fallici. Ritornato nella scuola il preside non poté far altro che piangere.

Grenada non fu differente. Dopo l’ invasione  il portone dell’ambasciata cubana era ornato dalla scritta ben illuminata: “Eat shit, Commie faggot.” Le lettere AA comparivano a firma della frase. La firma  sta per “All American” ed era l’ autografo comunemente usato nelle scritte ad opera della 82a Divisione.

Poco dopo l’invasione di Grenada un moderatore della Public Broadcasting Service (PBS) chiese ad un giornalista africano cosa pensasse dell’invasione.  Il giornalista rispose: “If killing an ant with a sledgehammer is honorable, so be it.” . Queste poche parole furono più  sinistramente infauste di quanto l’autore avrebbe mai potuto pensare. Da quando furono pronunciate, gli Stati Uniti hanno brutalmente attaccato varie altre nazioni del “Terzo Mondo” nel loro tentativo di dominazione del mondo: Libia, Panama, Iraq, Somalia, Serbia e Afghanistan. In più sono arrivati vicino all’ uso della forza militare contro le nazioni di Cuba, Iran, North Korea, Haiti, Siria e Sudan.

LA DISTRUZIONE DELLA JUGOSLAVIA

Tra il 1990 ed il 1998 gli Stati Uniti perseguirono ed attuarono una politica tesa a innescare e favorire la dissoluzione della Jugoslavia. La frammentazione della repubblica Jugoslava e gli anni di caos e di violenze che ne seguirono furono dunque   opera, voluta, perseguita ed attuata negli anni  dell’ amministrazione di George H. W. Bush (senior) dapprima e di Bill Clinton successivamente. Infine nel 1999 sotto la seconda presidenza Clinton fu perpetrato l’ attacco militare della NATO alla Serbia ed i bombardamenti che misero in ginocchio il piccolo stato balcanico (ciò che rimaneva della repubblica Jugoslava). Dunque repubblicani e democratici perseguirono la stessa politica mirata alla distruzione, dapprima politica ed alla fine anche fisica, della Jugoslavia.

Riportiamo la traduzione (parziale) di un lungo saggio – denuncia scritto da  Ramsey Clark ex ministro della Giustizia USA sotto la presidenza Johnson, successivamente fondatore dell’International Action Center ed in tale veste sempre alla testa delle battaglie contro ogni  forma di militarismo ed oppressione. Il saggio è del novembre  2003 e ripercorre tutte le fasi della distruzione della Repubblica socialista federale della Jugoslavia ad opera e per volontà americana.

“Divide et impera”: Breve esame della distruzione violenta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia da parte degli Stati Uniti e della Nato.

di Ramsey Clark:

(…) Con il collasso economico della URSS e del blocco delle nazioni dell’est, gli Stati Uniti e diverse nazioni dell’ Europa occidentale intervengono negli affari interni della Jugoslavia e supportano i movimenti secessionisti di alcune delle repubbliche che compongono la federazione.

Nel novembre del 1990 il Congresso USA varò una legge, sponsorizzata dall’amministrazione Bush (senior) che stabiliva che tutte le forme di credito e finanziamento da parte degli USA alla Jugoslavia dovessero cessare qualora nei sei mesi successivi ognuna delle sei repubbliche che costituivano la federazione non avesse tenuto elezioni separate. Lo scopo evidente era di disgregare la Jugoslavia creando un immediato incentivo per la secessione da parte di Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia. Sotto l’inganno di un comportamento democratico, gli USA agivano direttamente negli affari interni della Federazione.

Questa era una tecnica, finalizzata ad ottenere un cambio di regime, che gli USA avevano già sperimentato in precedenza e che adottarono anche successivamente: per esempio recentemente nel 2003 in Liberia ed in Venezuela dove insistettero perché venissero indette nuove elezioni in violazione della costituzione nazionale ed in spregio della certificazione da parte di osservatori internazionali che le elezioni che precedenti fossero state imparziali.

La storia dei tentativi e dei successi USA nell’ottenere dei cambi di regime è anche la storia di vere tragedie per le nazioni coinvolte. Si considerino solo l’Iran nel 1953, il Guatemala nel 1954, la Repubblica Democratica del Congo nel 1962, il Sud Vietnam nel 1963, il Cile nel 1970, Haiti e molte altre nazioni. Gli USA intervennero in Nicaragua ripetutamente negli anni 80 e 90, di fatto sottraendo il paese ai Sandinisti per mezzo di un uso combinato di guerra economica, finanziamenti all’insurrezione militare dei Contras, finanziamenti ai politici dell’opposizione. In Angola gli Stati Uniti pretesero elezioni e la drastica riduzione di un terzo dell’esercito Angolano per prevenire intimidazioni sugli elettori. Dopo che il presidente Dos Santos, che era osteggiato dagli USA, vinse le rielezioni con una straripante maggioranza, le forze ostili dell’UNITA, guidate da Jonas Savimbi, invasero la maggior parte dell’Angola prima di essere fermate. Il costo in vite umane e in devastazioni fu enorme. (…)

Nel momento stesso in cui gli USA legiferarono per indurre le elezioni separate in ognuno dei sei stati della Jugoslavia, essi fornirono anche aiuto ed assistenza a Slovenia, Croazia, Macedonia, a mussulmani e Croati di Bosnia, al fine di supportare la secessione e per fornirsi di armi per realizzarla.

La legge varata negli USA e riguardante la Jugoslavia, prevedeva anche che ogni repubblica che avesse tenuto elezioni indipendenti avrebbe ricevuto aiuto economico direttamente dagli USA, bypassando quindi il governo federale di Belgrado, inducendo un forte incentivo alla separazione. Il supporto economico era specificamente autorizzato per le organizzazioni “democratiche” all’ interno delle repubbliche per “emergenza umanitaria e protezione dei diritti umani”.

Questo è un mezzo usato dagli USA per creare opposizione interna e destabilizzare i governi non compiacenti, come avviene normalmente per Cuba e per molti altri paesi. E’ usato soprattutto contro governi democratici. La strategia, se finalizzata ad ottenere un cambio di regime,  supporta coloro che vogliono sovvertire il governo, altrimenti, in  situazioni opposte, è finalizzata a supportare i governi esistenti messi in difficoltà da partiti o leader ostili agli USA. Un’ agenzia governativa americana the National Endowment for Democracy (NED) eroga milioni di dollari per frustrare l’autodeterminazione in paesi dove gli USA hanno interessi nei risultati elettorali.

Questi interventi unilaterali sono distruttivi della sovranità, indipendenza, autodeterminazione e della pace. Tali interventi dovrebbero essere soggetti a sanzioni internazionali in quanto criminali. I finanziamenti  USA specificamente e apertamente erano usati contro la Repubblica della Jugoslavia, per sostenere movimenti secessionisti in Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia.

Gli USA usarono la loro influenza perché legislazioni simili fossero adottate nelle organizzazioni finanziarie e di commercio internazionale come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale. Questo fece sì che anche  l’enorme potere economico della finanza internazionale si schierasse al servizio delle politiche USA di sovversione politica ed economica e scoraggiò  investimenti e commerci esteri nei confronti della Repubblica di Belgrado.

Seguendo le direttive USA, Germania, Italia, Gran Bretagna, Olanda ed altre nazioni europee parimenti minacciarono la Jugoslavia di isolamento economico se non si fossero prontamente tenute elezioni in ognuna delle repubbliche costituenti la federazione.

Furono inviate armi a Slovenia, Croazia e Bosnia dalle nazioni europee. Finanziamenti pubblici e privati furono destinati alle repubbliche di Slovenia e Croazia per armi, rifornimenti ed addestramenti finalizzati a realizzare la secessione. Il 5 marzo 1991 una base dell’esercito federale a Gospic in Croazia fu attaccata. (…)

Le Nazioni Unite non furono capaci di incanalare i loro sforzi verso una riforma della federazione jugoslava. Il loro fallimento permise agli USA di proseguire nella loro strada con il risultato che agli USA fu permesso di creare un precedente per la loro politica dell’unilateralismo: tale precedente  portò successivamente l’ONU nuovamente al fallimento  nell’opposizione all’ invasione dell’Iraq nel 2003.

Il presidente Milosevic si sforzò con tutta la sua abilità di salvare la Repubblica Federale. Era il suo dovere istituzionale. (…)

Il 25 giugno  1991 Croazia e Slovenia annunziarono la loro indipendenza. Il secondo smembramento della Jugoslavia (dopo quello del 1941 N.d.T.) era iniziato. Gli USA fornirono direttamente forniture militari ed addestramento per gli eserciti Sloveno, Croato e Bosniaco. Nell’ ottobre del 1991 Croazia e Slovenia proclamarono ufficialmente l’ indipendenza. La Germania subito riconobbe le due nuove nazioni, gli USA e le altre nazioni europee seguirono agli inizi del 1992.

Nel settembre del 1991 la Comunità Europea si era sforzata di avviare un accordo politico in Jugoslavia tenendo una conferenza a Hague presieduta da Lord Carrington ex segretario di stato sotto Margaret Thatcher. In novembre l’ONU continuò gli sforzi per arrivare ad una pace stabile nominando Cyrus Vance ex segretario di Stato sotto la Presidenza Carter suo inviato speciale. (…)

Al di là degli inadeguati, talvolta dannosi sforzi portati avanti da ONU, Comunità Europea ed altri Stati, la leadership degli Stati della ex Jugoslavia cercò di prevenire la guerra. In uno sforzo degno di nota, i leaders bosniaci, musulmani, croati e serbi in un meeting a Lisbona si accordarono il 19 marzo 1992 per una unica, multietnica e pacifica Bosnia. Ma Alija Izetbegovic, capo dell’ala destra del Muslim Party for Democratic Action in Bosnia, supportato dagli USA, proclamò un governo bosniaco sotto la sua presidenza, escludendo altri partiti politici ed i leaders croato-bosniaci e serbo-bosniaci. Scoppiò così la guerra civile che sconvolse la Bosnia per tre anni e mezzo.

Il comportamento USA era coerente con l’enorme appoggio dato ai musulmani nella loro lotta per scacciare l’URSS dall’Afganistan e dato ai separatisti musulmani nelle repubbliche sovietiche a maggioranza musulmana. La violenza ed il conflitto tra i popoli slavi  ed i musulmani ha eroso il potere dei due più grandi ostacoli al dominio del mondo da parte degli Stati Uniti sino dalla seconda guerra mondiale. La guerra in Bosnia come la guerra in Afganistan portò i musulmani da tutto il mondo a combattere gli slavi. Nel processo messo in moto dagli USA è stata ingenerata l’idea che l’ Islam fosse sotto attacco e ed è stata promossa la nascita di una resistenza militare musulmana. La politica USA ha nutrito l’estremismo sia all’interno della popolazione slava che musulmana contribuendo così all’innesco di instabilità e violenze in tutto il mondo.

Sotto la pressione degli USA, il consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1992 impose sanzioni contro la Repubblica Federale complementari alle sanzioni unilaterali già applicate dagli USA, dichiarandola responsabile per la guerra civile nel suo territorio.

Il 27 aprile 1992 (prendendo atto della secessione avvenuta N. d. T. ), gli ultimi Stati rimasti nella Federazione e cioè  Serbia e Montenegro (più le regioni autonome di Vojvodina e Kosovo) vararono una nuova costituzione creando una nuova Jugoslavia fortemente ridimensionata ed arroccata. L’esercito della Repubblica Federale di Jugoslavia cessò le operazioni e si ritirò all’ interno dei confini della nuova federazione.

Nel maggio del 1992 Slovenia e Croazia divennero membri dell’Assemblea Generale dell’ONU. Il 22 settembre 1992 l’Assembra sospese la Repubblica Federale di Jugoslavia dai lavori. Anche la Macedonia, intanto si staccò dalla Jugoslavia e fu riconosciuta dall’ONU nell’aprile 1993.

Come conseguenza della secessione e dei conflitti che ne derivarono ebbe luogo un processo di “balcanizzazione” superiore a qualunque altro i Balcani abbiano mai registrato nella loro storia. Dilagò la “pulizia etnica” ed i rifugiati tra Musulmani, Ortodossi, Cristiani, Cattolici, Sloveni, Croati, Serbi, Macedoni, Montenegrini, Rom, si riversarono verso la sensazione di sicurezza offerta all’interno del proprio gruppo o popolazione di  appartenenza.

Per la fine del 1995 più di 500.000 serbi furono scacciati dalla Croazia, in pratica il 12% dell’intera popolazione. La maggior parte lasciò la Krajina, un’area della Croazia nella quale i loro avi si erano rifugiati secoli prima per sfuggire agli Ottomani. Rifugiati da tutte le aree della ex Repubblica Federale di Jugoslavia, per sfuggire alle violenze, in cerca di un posto sicuro o per riunirsi  alle proprie famiglie crearono l’area più strettamente confinata al mondo. In totale nel 1998 la Serbia stava sopportando il peso di più di un milione di rifugiati, il che si traduceva in un enorme impatto sulla sua economia depressa.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sotto la pressione degli Stati Uniti, impose, il 30 maggio 1992, severe sanzioni alla Serbia bloccando importazioni ed esportazioni e la vitale navigazione sul Danubio, danneggiando tutte le nazioni dei Balcani, inclusa Grecia e molti altri Stati europei. L’effetto combinato delle sanzioni USA ed ONU è avvertito ancora oggi (2003 N.d.T.), e la navigazione sul Danubio solo recentemente torna lentamente a riprendersi.

Durante il 1992 l’ economia di tutte le sei repubbliche collassò. La produzione industriale crollò del 25% rispetto al 1990. In Serbia il reddito procapite precipitò dai 3.000 dollari del 1990 ai 700 del 1991. Prima del 1990 il 90% di tutto il commercio della federazione era destinato all’interno delle sei repubbliche e solo il 10% era rivolto verso l’estero. Ma i commerci tra le repubbliche ex Jugoslave dal momento del di smembramento della federazione, crollarono radicalmente.

Un documento del Pentagono, filtrato nelle mani del NY Times e pubblicato l’8 marzo 1992 è un preavviso per chi  vuole intendere:

E’ di fondamentale importanza preservare la NATO come lo strumento principale della difesa dell’ occidente, nonché come il canale per l’influenza e la partecipazione degli USA nella politica di sicurezza dell’ Europa… Noi dobbiamo cercare di ostacolare la nascita di un accordo sulla sicurezza solo europeo in quanto minerebbe la NATO.

Il documento proclamava che il fondamento più importante della politica USA dovesse essere la percezione che l’ordine mondiale sia in definitiva sostenuto dagli Stati Uniti… Gli Stati Uniti dovrebbero predisporsi ad agire unilateralmente quando le azioni collettive non possano essere intraprese.

E’ istruttivo che Dick Cheney, ora Vice Presidente  fosse in quel momento Segretario alla Difesa. Paul Wolfowitz, ora sottosegretario alla Difesa era l’ autore del documento (N.d.T. l’ articolo è datato novembre 2003 e Dick Cheney era già vicepresidente sotto la prima amministrazione di Bush junior, Wolfowitz, come noto, fu sottosegretario alla difesa nella prima amministrazione di Bush junior, poi dal 2005 Presidente della Banca Mondiale, carica da cui ha recentemente dovuto dimettersi a seguito di scandali)

Un pezzo pubblicato sul N.Y. Times il 29 novembre 1992 diede più chiara evidenza delle intenzioni USA. Il pezzo era titolato “Operation Balkan Storm”: “Una vittoria nei Balcani determinerebbe la leadership mondiale degli USA nell’era del dopo guerra fredda in un modo persino più definitivo di quanto abbia fatto l’Operazione “Desert Storm”.

L’ autore, il generale a riposo Michael J. Dugan era il capo di stato maggiore dell’USAF nel settembre del 1990 quando gli USA stavano pianificando l’operazione Desert Storm. Il generale fu rimosso dal suo posto dopo un’intervista del settembre 1990 in cui egli elencò obiettivi civili in Iraq affermando che “l’obiettivo dovrebbe essere Bagdad”. La sua perdurante influenza è dimostrata da ciò che accadde su Bagdad nel 1991 ed ancora nel 2003 e, nel mezzo, da ciò che accadde a Belgrado nel 1999.

A seguito della secessione degli stati ex Jugoslavia dilagò la violenza. Ci furono brevi scontri militari in Slovenia, combattimenti e violenze si protrassero più a lungo in Croazia, mentre scontri feroci, violenze e pulizia etniche si protrassero in Bosnia per un periodo di più di tre anni sopratutto tra Serbi, Croati e Musulmani.

Gli Stati Uniti cercando di creare l’ apparenza di un’azione internazionale, si servirono della NATO, da loro controllata, e senza un’approvazione del Consiglio di Sicurezza incominciarono una guerra di aggressione contro la Jugoslavia cominciando con sporadici bombardamenti in Bosnia dal 1993 al 1995.

Sotto la protezione dei bombardamenti USA dell’agosto 1995, l’esercito croato, con l’assistenza militare degli USA e sotto la guida dell’Ambasciata e di alti dirigenti Statunitensi,  ripulirono etnicamente la regione croata della Krajina da più di 300.000 serbi, uccidendone migliaia. Gli attacchi aerei NATO durante l’operazione contarono più di 4000 sortite.

Alla guida dell’aggressione croata era il Generale Agim Cheku, che più tardi avrebbe comandato l’Esercito di Liberazione del Kosovo (KLA-UCK) durante i massicci attacchi aerei USA/NATO sulla Serbia, compreso il Kosovo.
Nel 1995 gli USA presero parte ai negoziati di pace in Bosnia, sostituendosi all’ONU e all’Unione Europea, procurando comunque un’ulteriore frammentazione della regione. Gli incontri avvennero nella base aerea dell’Air Force USA di Dayton, Ohio, con la presenza del Presidente Milosevic, e gli Stati Uniti imponevano il riconoscimento di una Costituzione per una Bosnia indipendente che prevedeva la divisione della Bosnia, area già ristretta e quindi economicamente impraticabile, in due parti caratterizzate da discriminazione razziale. L’accordo firmato nel novembre 1995 prevedeva la presenza in Bosnia di 60.000 uomini della NATO, come truppa di occupazione.

La violenza si espandeva dalla Bosnia al Kosovo. L’UCK, con l’appoggio degli USA, guidava una sommossa contro il governo serbo e una guerriglia terroristica sempre più intensa contro la popolazione serba e i cittadini di tutte le etnie leali con il governo di Belgrado. La Serbia rinforzava le forze di polizia in Kosovo per provvedere alla sicurezza e prevenire gli assalti dell’UCK.
Con l’escalation della violenza, l’esercito serbo attaccava l’UCK per restaurare l’ordine.

L’ AGGRESSIONE NATO ALLA SERBIA

Il 24 marzo 1999, gli Stati Uniti e la NATO dettero inizio agli assalti aerei sulla Serbia, che continuarono per 78 giorni, fino al 10 giugno, infliggendo danni per miliardi di dollari, distruggendo le strutture industriali e dei servizi essenziali della nazione, e causando la morte di  migliaia di civili.

L’attacco fu preceduto e seguito da un’imponente campagna mediatica volta a demonizzare la Serbia ed a far credere all’opinione pubblica mondiale che i Serbi stessero ponendo in atto, scientemente e con premeditazione, una persecuzione ed un tentativo di genocidio ai danni della popolazione kosovara di etnia albanese. La demonizzazione dell’avversario, la costruzione di prove fasulle, la manipolazione della stampa e dei media in genere per ottenere il consenso nei confronti della politica aggressiva e imperialista, sono una costante nel comportamento degli Stati Uniti.

Gli antefatti in Croazia e Bosnia

Alla fine del 1995 il processo di smembramento e di dissoluzione della ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia era praticamente concluso. Sotto la regia USA, Slovenia, Croazia, Bosnia si erano già separate dal governo federale ed avevano formato stati indipendenti. Questo processo, se era stato abbastanza indolore per la Slovenia, più etnicamente compatta, era invece stato tragico e doloroso per le altre repubbliche. In Croazia infatti più del 12% della popolazione era di etnìa serba ed in particolare in Krajina, regione che amministrativamente faceva parte della Croazia, i serbi erano la stragrande maggioranza. Tra il 1993 ed il 1995 i croati diedero l’ assalto alla regione della Krajina e per la fine del 1995 più di 500.000 serbi si erano visti costretti a lasciare la regione. Ci furono una serie di crimini e di episodi di pulizia etnica e di violazioni del diritto internazionale perpetrati dai croati dei generali Janko Bobetko e Ante Gotovina contro i serbi di Krajina. Contemporaneamente scontri sanguinosi dilaniavano la Bosnia in cui la maggioranza bosniaco musulmana conviveva con le forti minoranze serba e croata: tutti i gruppi etnici organizzarono  proprie formazioni militari, le città di Mostar e di Sarajevo furono assediate, Mostar originariamente in mano musulmana si arrese ai croato-bosniaci nel 1993, dopo la distruzione dello storico vecchio ponte che divenne il simbolo della guerra. A sua volta Sarajevo fu assediata dai serbo-bosniaci per 43 mesi: l’assedio durò dal maggio del 1992 fino alla stipula degli accordi di Dayton del novembre-dicembre 1995. Ciascuno dei tre gruppi etnici si rese protagonista di crimini di guerra e di operazioni di pulizia etnica.

L’ accordo di Dayton prevedeva la creazione di due entità interne allo stato di Bosnia Erzegovina: la federazione croato-musulmana  (51% del territorio nazionale) e la repubblica serba (49% del territorio). Le due entità create sono dotate di poteri autonomi in vasti settori, ma sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla Presidenza collegiale del Paese (che ricalca il modello della vecchia Jugoslavia del dopo Tito) siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente.

Il Kosovo.

Dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, l’epicentro delle violenze si sposta in Kosovo.  Il Kosovo era una provincia autonoma della Serbia ed era popolata da una maggioranza di cittadini di etnìa albanese e quindi di religione musulmana. Fino al 1989 il Kosovo aveva goduto di una certa autonomia all’ interno della repubblica Serba: la lingua albanese-kosovara godeva dello status di lingua ufficiale nella provincia, alla pari del serbo; vi erano scuole autonome. Ma con gli eventi che portarono alla disgregazione della Jugoslavia, nacquero e si rafforzarono in breve tempo formazioni armate (sovente guidate da veterani di quella guerra) con dichiarati intenti indipendentisti.

La guerra del Kosovo si può dividere in tre fasi distinte:

  1. 1996-1999:  i separatisti albanesi dell’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës o KLA, Kosovo Liberation Army, “Esercito di liberazione del Kosovo”) iniziano le ostilità con attentati terroristici ed uccisioni ai danni di cittadini serbi e non albanesi. Nel contempo inizia la demonizzazione della Serbia e di Milosevic ad opera dei media occidentali;
  2. marzo 1999: la trappola dei negoziati di Rambouillet e Parigi: le condizioni che si voleva imporre alla Serbia erano così mortificanti e lesive dell’autorità e indipendenza nazionale che qualsiasi stato di diritto le avrebbe respinte; in questo modo gli USA e la NATO avrebbero avuto un’ulteriore occasione per accusare la Serbia e giustificare l’ intervento militare
  3. 24 marzo 1999: ha inizio la campagna militare della NATO contro la Serbia.

  1. La guerriglia in Kosovo tra il 1996 ed il 1999.

Tra il 1996 ed il 1999 i separatisti albanesi dell’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës o KLA, Kosovo Liberation Army, “Esercito di liberazione del Kosovo”), finanziati dai traffici di armi e stupefacenti e con l’appoggio politico degli Stati Uniti, diedero il via ad una campagna di attentati terroristici ed uccisioni ai danni di cittadini serbi o comunque  non albanesi, nonché contro le loro proprietà e contro le entità statali. Come conseguenza ci fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e, più tardi, da parte di forze paramilitari ispirate da estremisti serbi. Per tutto il 1998, mentre la guerriglia sul terreno si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva via via più pesante, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo Serbo guidato da Slobodan Milošević.

Intanto veniva orchestrata una pesante campagna mediatica: dalla fine del 1989, la CNN e altre Tv occidentali, mandavano in onda con frequenza filmati di presunte stragi di civili attuate dai serbi. Venivano trasmesse diverse parti del filmato, che mostravano cadaveri accatastati. Le parti sempre diverse dello stesso filmato davano l’idea che i serbi stessero attuando un genocidio e inducevano a credere che la Nato dovesse intervenire per impedirlo.

I giornalisti occidentali ripetevano acriticamente le notizie che arrivavano dalle agenzie. Il nuovo Hitler era Slobodan Milosevic, e le autorità dei paesi NATO ergendosi a difensori e paladini dell’umanità e dell’ altruismo, criticavano il comportamento del governo serbo. Giornali come il Wall Street Journal e il New York Times scrivevano che “il regime di Milosevic stava tentando di sradicare un intero popolo”.

  1.   I negoziati di Rambouillet – marzo 1999

Esercitando forti pressioni, la NATO e i governi europei ottennero l’avvio dei negoziati di Rambouillet. Dapprima i rappresentanti dell’ UÇK furono restii a firmare un documento nel quale era formalmente garantita l’autonomia del Kosovo, ma non la sua piena indipendenza. Gli USA s’imposero e, forti della loro politica di sostegno delle ambizioni indipendentiste dei Kosovari, ottennero l’assenso dell’ UÇK  al documento.

Pochi giorni dopo la conclusione di Rambouillet avrebbe dovuto tenersi a Parigi una sessione non politica finalizzata a stabilire gli aspetti attuativi e organizzativi dell’accordo, ma la delegazione serba sin dall’inizio abbandonò le sedute rimettendo in discussione gli esiti di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I Serbi si sentivano presi in giro e provocati. Che cosa era successo? La parte Serba fu di fatto costretta ad abbandonare il negoziato a seguito di due elementi-chiave introdotti, su input degli Stati Uniti, alla vigilia della firma dell’accordo. In primo luogo, il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright, si impegnò, verso la parte kosovara, a garantire, entro tre anni, il distacco del Kosovo dalla Federazione; in secondo luogo, fu introdotta un’appendice (Appendice o Annex B) alla parte militare dell’Accordo che prevedeva, di fatto, l’occupazione militare dell’intera Federazione Serbia da parte della NATO. L’ articolo 8 dell’ Annesso B infatti recitava:

NATO personnel shall enjoy, together with their vehicles, vessels, aircraft, and equipment, free and unrestricted passage and unimpeded access throughout the FRY [Federal Republic of Yugoslavia] including associated airspace and territorial waters. This shall include, but not be limited to, the right of bivouac, maneuver, billet, and utilization of any areas or facilities as required for support, training, and operations.” (dal testo in inglese)

Le personnel de l’OTAN aura, de même que ses véhicules, navires, aéronefs et équipements, toute liberté d’accès et de passage sur l’ensemble du territoire de la RFY, y compris son espace aérien et ses eaux territoriales. Cette faculté comprendra, de manière non limitative, le droit de bivouaquer, de manœuvrer, de se loger, et d’utiliser toute zone ou toute installation pour des besoins logistiques, d’entraînement ou opérationnels“. (dal testo originale francese).

Tali misure, inaccettabili per qualsiasi stato sovrano, erano tanto più irricevibili, in quanto la Costituzione Federale iugoslava vietava, sin dai primi anni ’70, lo stazionamento di truppe straniere sul territorio iugoslavo. Si imponeva di fatto l’occupazione militare della Nato sulla Federazione Serba. Lo stesso Henry Kissinger dichiarò che: “Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe Nato in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma”.

“The Rambouillet text, which called on Serbia to admit NATO troops throughout Yugoslavia, was a provocation, an excuse to start bombing. Rambouillet is not a document that an angelic Serb could have accepted. It was a terrible diplomatic document that should never have been presented in that form” – (Henry Kissinger al Daily Telegraph, 28 giugno 1999)

Molto interessante anche il contenuto della Quarta Relazione del Comitato Ristretto per gli Affari esteri del Parlamento Britannico, che si occupa della crisi del Kosovo. Molto significative sono le note e le testimonianze relative agli sviluppi che portarono al fallimento dell’Accordo di Rambouillet, che confermano come numerosi osservatori – anche autorevoli ed estranei rispetto al conflitto serbo-albanese – abbiano individuato nelle promesse della Albright di tenere un referendum per l’indipendenza del Kosovo e nell’ “Annesso Militare B” aggiunto all’ ultimo momento agli accordi, le ragioni che resero impossibile la firma alla parte serba. Nel documento del Parlamento Britannico si legge tra l’ altro:

Professor Roberts told us that the Military Annex was:
on one level a complete scandal, and it shows an absence of any understanding whatever of Serbian society, because to write into a military agreement that the Yugoslav Government had to accept NATO troop rights, not merely in transit but manoeuvre and goodness knows what else, was outrageous, bearing in mind that Yugoslavia is a country where it had been a constitutional offence, under the Tito constitution, and since 1971 actually, to accept the presence of foreign forces on Yugoslav soil. And it is not correct to say, as has been commonly done, including still today by Wes Clark, that the military agreement was simply a carbon copy of the Dayton Agreement in respect of Yugoslavia. There are provisions in there that were not in the Dayton Agreement.

Lo stesso documento conclude dichiarando quelle che erano le aspettative della NATO:

“…unless Milosevic could be blamed for the collapse of the talks, it would be difficult to justify the use of force against him, and—in NATO’s eyes—without the start of a military campaign, attacks on the Kosovo Albanians could continue unhindered. The next best outcome was therefore that the Kosovo Albanians would sign and Milosevic would not. If neither side signed, the killing would continue, and it would have been difficult for NATO to do anything about it. It was therefore necessary to tilt in favour of the Kosovo Albanians—and as we discuss above, the USA was prepared to tilt further than the United Kingdom-French co-chairs”.
Ovvero: ” A meno che Milosevic non avesse potuto essere accusato del fallimento dei colloqui, sarebbe stato difficile giustificare l’uso della forza contro di lui e, secondo la visione della NATO, senza l’avvio di una campagna militare (contro la Serbia), gli attacchi contro gli Albanesi Kosovari avrebbero potuto continuare indisturbati. La conclusione migliore era quindi che i kosovari albanesi firmassero e Milosevic invece non firmasse. Se nessuna delle due parti avesse sottoscritto gli accordi le uccisioni (tra le opposte fazioni in Kosovo) sarebbero proseguite e sarebbe stato difficile per la NATO fare qualunque cosa. Era dunque necessario pendere a favore degli albanesi e, come abbiamo detto in precedenza, gli USA erano pronti a prendere le parti degli albanesi più degli altri partecipanti Gran Bretagna e Francia”.

Dunque Rambouillet si configurò come una vera e propria “trappola” in cui volutamente gli americani (la NATO) posero ai serbi condizioni così punitive proprio per ottenere il loro rifiuto a sottoscrivere gli accordi ed avere il pretesto per attaccare.

In effetti  non era mai esistita alcuna “negoziazione”:  il governo U.S.A. ed in particolare il Segretario di Stato Madeleine Albright, avevano in pratica presentato al Governo Iugoslavo un diktat, prendere o lasciare:

  1. al Kosovo doveva essere garantita l’autonomia;
  2. per difendere questa autonomia, la NATO doveva stanziare sue truppe di terra in Yugoslavia;
  3. entro tre anni, si doveva tenere un referendum sull’indipendenza del Kosovo dalla Yugoslavia (direttamente pilotato dalla NATO).

Il governo iugoslavo aveva accettato la parte dell’accordo che riguardava l’autonomia, ma non poteva non rifiutare le altre in quanto evidentemente lesive dell’autonomia, sovranità ed indipendenza nazionale. Ma gli  aspetti chiave dell’accordo furono praticamente occultati dai media.

Il giornalista inglese Robert Fisk (corrispondente del Time e dell’Independent) in un articolo del 26 novembre 1999 sull’Independent testimonia la sorpresa della delegazione serba di fronte a questi ultimatum posti all’ultimo minuto dei negoziati ed a quanto pare all’ insaputa persino degli alleati degli americani:

“The Serbs say they denounced it at their last Paris press conference – an ill-attended gathering at the Yugoslav Embassy at 11pm on 18 March”. Serb dissidents who took part in the negotiations allege that they were given these conditions on the last day of the Paris talks and that the Russians did not know about them. These provisions were not made available to the British House of Commons until 1 April, the first day of the Parliamentary recess, a week after the bombing started (The Independent 26 novembre 1999).

Tra l’altro nei negoziati che seguirono agli attacchi ed al bombardamento della Serbia queste condizioni impossibili da accettare non furono più imposte alla Serbia e non vi fu più menzione di esse nel trattato di pace finale. Per cui si deve registrare l’ assurdità che le condizioni che furono imposte alla Serbia prima dell’ attacco NATO – americano erano molto più pesanti di quelle che dopo i bombardamenti furono imposte ad una Serbia semidistrutta e vinta. Con ragione Fisk si chiede:

“What was the real purpose of NATO’s last minute demand? Was it a Trojan horse? To save the peace? Or to sabotage it?”.

 3.  24 marzo 1999 iniziano i bombardamenti.

La NATO iniziò quindi una escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi (operazione Allied Force). I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. Il governo Dalema autorizzò l’uso delle basi italiane ed allo schieramento partecipò anche una squadra navale italiana comprendente l’ammiraglia, incrociatore portaerei Giuseppe Garibaldi ed il suo gruppo aereo. In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. L’ intervento non colpì solo obiettivi militari, ma furono effettuati anche interventi “dissuasivi” ed intimidatori nei confronti della popolazione allo scopo di esercitare una pressione su Milošević; tra questi il bombardamento delle centrali elettriche (soprattutto con bombe alla grafite, ad effetto “psicologico”, che non provocano danni permanenti, ma prolungati blackout),  il bombardamento della sede della televisione serba a Belgrado, il bombardamento di colonne di profughi, anche di etnìa kosovara, il bombardamento di industrie chimiche con successive pesanti ricadute ambientali. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è ancora oggi conosciuto con esattezza, ma è presumibile sia dell’ordine di qualche migliaio. Lo stesso presidente francese Jacques Chirac rivolgerà un messaggio sarcastico al generale americano: “bisogna ringraziarlo (Clark) per il fatto che sul Danubio c’è ancora un ponte integro”

Un rapporto di Amnesty International un anno dopo la fine dei bombardamenti della NATO sulla Repubblica Federale della Jugoslavia riconosceva: “La NATO ha in più occasioni violato i principi umanitari da applicare in ogni conflitto armato”.

Il treno sul ponte di Grdelicka.

Tra i tanti episodi si riporta  quello relativo al bombardamento del ponte ferroviario vicino il villaggio serbo di Grdelicka, episodio in cui morirono almeno 14 persone. L’ attacco fu portato il 12 aprile 1999 quando un bombardiere della US Airforce attaccò un ponte ferroviario vicino il villaggio serbo di Grdelicka proprio mentre un treno passeggeri stava attraversando il ponte.

Dopo un primo attacco il pilota effettuò un secondo passaggio sul ponte che bruciava e sganciò una bomba su un vagone che non era stato colpito nel primo passaggio.

Il treno era carico di pendolari. La NATO definì  il bombardamento come un tragico incidente e fu organizzata una conferenza stampa con la proiezione di un video, ripreso dallo stesso aereo, per dimostrare all’opinione pubblica che si era trattato di una fatalità. Ma la presentazione, si scoprì quasi subito, era basata su un filmato manipolato ed una falsa descrizione di ciò che era accaduto a bordo dell’aereo.

I giorno dopo l’attacco, nel tentativo di dimostrare che l’attacco stesso fosse un ennesimo, involontario caso di “danni collaterali”, il generale Wesley Clark, il capo delle forze NATO, indisse una conferenza stampa e mostrò due video registrati dalle telecamere alloggiate nell’ogiva delle bombe teleguidate che avevano colpito il treno. Secondo Clark le immagini mostravano che il treno passeggeri stesse procedendo verso la zona del ponte dove erano dirette le bombe, ad una velocità troppo alta per permettere al pilota, che oltretutto era impegnato nel difficile compito di guidare la traiettoria delle bombe stesse, di accorgersi dell’arrivo del treno e reagire. Il pilota aveva “meno di un secondo” per far abortire l’attacco, asserì Clark.

Naturalmente questa versione dell’accaduto non spiega perché l’aeroplano fosse tornato indietro e avesse sganciato una seconda bomba, ma la versione ufficiale NATO data da Clark era fuorviante per due ulteriori aspetti

Innanzitutto il filmato mostrato da Clark era accelerato almeno del triplo rispetto la velocità reale dell’azione. In secondo luogo il cacciabombardiere usato nell’ attacco era un F15 che aveva un equipaggio di due persone, un pilota ed un addetto ad i sistemi d’arma. Il pilota non aveva alcun ruolo nel dirigere le bombe e quindi non avrebbe potuto essere impegnato nel “difficile compito” di dirigerne la traiettoria. In quel tipo di velivolo le bombe si dirigono automaticamente sull’obiettivo non appena l’ufficiale addetto al puntamento dei sistemi d’arma setta le coordinate dell’ obiettivo, questi può comunque intervenire per deviare o far abortire le bombe.

Festerling, il giornalista del Frankfurter Rundschau che in un articolo del 6 gennaio 2000 svelò la macchinazione, puntualizzò inoltre che le informazioni tecniche sempre riportate a margine dei filmati tra cui un orologio che ne indica la velocità, furono omesse nei video mostrati alla stampa da Clark. Festerling spiegò:

“According to the video 2.3 seconds elapse from the time the train clearly enters the field of vision to the time the bomb strikes home. This implies the train was travelling at 300 kilometres per hour. If one assumes, for the purpose of making calculations, that the train was actually travelling at 100 kilometres per hour (a figure which is probably far too high, bearing in mind the antiquated state of the Serbian rail system) the video [shown by Clarke] is running at least three times faster than real time. This means the weapons systems officer had at least 6.9 seconds to react, instead of 2.3 seconds—which Clark, in his presentation, had reduced to ‘less than a second’.

“NATO therefore showed a film which was totally unreliable with regard to the crucial question of when the attack took place. On the basis of these unreliable videos and a misleading choice of words, the NATO Supreme commander in Europe led the public to believe that the attack on the train was unavoidable because of time pressure.”

Attualmente la NATO ha di fatto ammesso che in effetti ciò è quello che è realmente successo.

Festerling ha riportato la dichiarazione di un ufficiale del comando NATO in Europa che ammise: “Yes, the video ran considerably faster.” Il comando della US Air Force in Europa, nella città di Ramstein, in Germania, pure ha confermato quanto accaduto, ma attribuendone la causa ad un deplorevole errore hardware della Sun Microsystems.

Secondo la loro interpretazione, l’accelerazione della velocità del filmato avvenne durante la conversione del filmato in formato mpeg e non fu rilevata. La causa principale sarebbe stata la fretta con la quale si voleva rendere il materiale pronto per la divulgazione al pubblico e quindi fu tralasciato di effettuare una più rigorosa e si supponeva complicata conversione. Inoltre, sempre secondo le spiegazioni del comando NATO,  alcune informazioni tecniche non apparivano nel filmato in quanto, per qualche ragione non resa nota, il filmato proveniva dal velivolo d’appoggio e non da quello che aveva effettuato l’ attacco. Il video dell’aereo che aveva realmente effettuato l’attacco non era più disponibile.

L’intera ricostruzione appare estremamente dubbia. Si può ragionevolmente assumere che persone che avevano un’esperienza continua di questo tipo di tecnologia avrebbero dovuto immediatamente accorgersi dell’accelerazione della velocità del filmato (del triplo!). Inoltre la tecnologia necessaria per effettuare la conversione del video in formato mpeg non appare certo particolarmente sofisticata e nel 1999 era già perfettamente disponibile su PC per coloro che manipolavano video.

IL DISASTRO DI BHOPAL

La notte tra il due e il tre dicembre 1984, da uno stabilimento chimico della Union Carbide nella città di Bhopal in India, fuoriuscirono 27 tonnellate di isocianato di metile (MIC), gas mortale. Nessuno dei sei sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto impedire l’eventualità di perdite era in funzione: il gas poté spandersi sulla città di Bhopal. Mezzo milione di persone rimasero esposte al gas: ad oggi sono morte 20.000 persone per malattie collegate, di cui 4.000 morirono immediatamente. Più di 120.000 persone ancora soffrono per malattie connesse all’ incidente.  Secondo molti esperti, dopo Chernobil, Bhopal è considerato il più grave disastro industriale mai verificatosi.

La Union Carbide, azienda multinazionale americana, aveva costruito lo stabilimento industriale di Bhopal negli anni 70 nell’ intento di produrre pesticidi per l’immenso mercato indiano; la produzione iniziò nel 1980, ma le vendite non corrisposero alle aspettative della compagnia. La fabbrica non raggiunse mai la piena produzione. Nell’estate del 1983, la Union Carbide, consapevole del fallimento, sospese la produzione, in attesa della definitiva chiusura dell’impianto. Una notevole quantità di materiale e di semilavorati rimasero come scorta in serbatoi sotterranei: in particolare in tre serbatoi erano stoccate oltre 60 tonnellate di isocianato di metile (MIC), un prodotto intermedio della produzione del pesticida Sevin.

Nell’autunno del 1983 gli impianti di sicurezza vennero disattivati: essendo sospesa la produzione, per la direzione della Union Carbide non aveva senso spendere denaro per mantenere in esercizio i sistemi d’allarme e intervento. Il personale fu drasticamente ridotto, i manuali di sicurezza furono riscritti per permettere l’ esclusione di alcuni sistemi di sicurezza. La refrigerazione delle vasche del MIC fu interrotta, la manutenzione ordinaria fu ridotta,  la fiamma pilota della torre di combustione, ultimo sistema di sicurezza per bloccare eventuali fughe di gas contaminante, fu spenta. In totale erano previsti sei sistemi di sicurezza per impedire la fuoriuscita del MIC: nessuno di essi funzionava. Le sirene di allarme erano disattivate.

Il MIC produce una reazione violenta al contatto con l’acqua. La notte del due dicembre, durante le operazioni di pulitura dei tubi,  per una non corretta interpretazione degli ordini, o meglio a causa del degrado dell’impianto, le tubature non bene isolate causano la fuoriuscita dell’acqua che scorre verso la cisterna  # 610 piena di MIC. Verso le 23.30 gli operai di turno avvertono l’odore dell’isocianato di metile allo stato gassoso: è un odore simile a quello del cavolo lesso, gli occhi cominciano a lacrimare ed a bruciare. L’acqua è arrivata nella cisterna e provoca una reazione di calore che rapidamente trasforma l’isocianato liquido in un vortice gassoso. Il gas sale nella torre di decontaminazione, ma i sistemi di sicurezza che dovrebbero neutralizzarlo sono spenti: le valvole saltano, il MIC si disperde in direzione della città.

Ricorda Aziza Sultan, una sopravvissuta: “Fui svegliata dal suono della tosse del mio bambino. Vidi che la stanza era piena di una nuvola bianca di gas; si sentivano molte persone gridare… gridavano “correte correte”. Quindi cominciai a tossire anch’io ed ad ogni respiro avevo l’impressione di respirare fuoco. Gli occhi mi bruciavano”.

Un altro sopravvissuto, Champa Devi Shukla, ricorda che: “Era come se qualcuno avesse cosparso il mio corpo con pepe rosso, i miei occhi lacrimavano,  muco colava dal naso  ed avevo la schiuma alla bocca. La tosse era così forte che la gente era preda del panico. La gente correva in tutte le direzioni, tutti erano solo preoccupati di raggiungere qualche posto sicuro e così correvano. Quelli che cadevano non erano aiutati da nessuno, ma erano calpestati dagli altri. La persone si arrampicavano e si urtavano gli uni con gli altri nel tentativo di salvarsi, anche le mucche correvano in tutte le direzioni e nella corsa travolgevano la gente“.

In quegli istanti drammatici nessuno capiva cosa succedesse. La gente semplicemente cominciò a morire nei modi più orrendi. Alcuni vomitavano in maniera incontrollata, furono presi da convulsioni e caddero morti. Altri soffocarono nei loro stessi rigurgiti. Molti morirono nella fuga precipitosa tra gli stretti canali dove le lampade stradali bruciavano una nebbia marrone tra nuvole di gas. L’impeto del fiume di gente strappò i bambini dalle mani dei genitori.

La nuvola di gas velenoso era così densa e bruciante che la gente era praticamente ridotta alla cecità. Mentre ansimavano nel tentativo di respirare, l’effetto soffocante del gas aumentava. Il gas bruciava occhi e polmoni e attaccava il loro sistema nervoso. La gente perse il controllo del proprio corpo: urina e feci scorrevano sulle gambe e donne abortirono mentre correvano.

Ma, secondo Rashida Bi, un sopravvissuto che perse per cancro cinque familiari che erano stati  esposti al  gas, “quelli che scamparono furono gli sfortunati: i fortunati sono quelli che morirono in quella notte“.

Gli ospedali locali furono subito sopraffatti dal numero di avvelenati, ad aggravare ancor più la crisi fu la mancata conoscenza di quali gas avessero colpito la popolazione e quali fossero gli effetti attesi.

Ancora oggi 50.000 abitanti di Bhopal sono inabili al lavoro a causa di varie infermità ed alcuni hanno perso la mobilità, i sopravvissuti fortunati hanno parenti che si possono occupare di loro, molti quella notte hanno perduto tutta la loro famiglia.

La compagnia non fornì mai informazioni esaurienti sull’esatta mistura chimica dei gas rilasciati, ma le autopsie delle vittime mostravano i segni caratteristici dell’ avvelenamento acuto da cianuro. Una serie di studi compiuti cinque anni più tardi mostrò che molti dei sopravvissuti ancora soffrivano per una o più delle seguenti affezioni: cecità completa o parziale, persistenti problemi respiratori, disordine gastrointestinale, sistema immunitario compromesso, disordini da stress post-traumatico e, nelle donne, problemi mestruali. Fu anche notato un aumento  degli aborti spontanei della mortalità alla nascita ed un aumento dei difetti genetici nei nuovi nati. Inoltre un’inchiesta della BBC del novembre 2004 ha confermato che la contaminazione è ancora presente nell’acqua per uso potabile e nell’area dello stabilimento industriale.

Nei giorni immediatamente successivi cominciò una lunga battaglia legale che praticamente dura ancora oggi. La battaglia legale fu intrapresa sia sul fronte penale che sul civile.

Il 7 Dicembre, durante un’ispezione all’impianto, la polizia indiana arresta nove persone, tra gli altri, il presidente della Union Carbide, Warren Anderson . Questi è rilasciato su cauzione di 2.000 dollari e abbandona subito il paese. La Union Carbide nel 1991 viene incriminata dal governo regionale di Bhopal con l’accusa di omicidio colposo. Successivamente, nell’ aprile del 1992, Anderson è dichiarato contumace per non essersi presentato in giudizio nel procedimento penale a suo carico in India. Per anni Anderson è stato considerato irrintracciabile dalle autorità americane.

Il 28 agosto 2002,  nonostante la pressione del Governo indiano, l’accusa di omicidio colposo viene ribadita contro Warren Anderson dal tribunale di Bhopal.

Il 29 agosto 2002 un giornale britannico scopre che Warren Anderson conduce una vita di lusso nello stato di New York, negli USA. Nonostante sia ricercato dall’India e dall’Interpol, le autorità statunitensi non si erano impegnate per estradare Anderson, dichiarando di non essere in grado di trovarlo. Il giornale lo ha rintracciato in due settimane. Il tribunale indiano richiede la sua immediata estradizione agli Stati Uniti.

Il 13 luglio 2004 il governo statunitense rigetta la richiesta di estradizione di Warren Anderson; tecnicamente il motivo del rigetto viene indicato in difetti formali nell’ inquadramento delle accuse.

Sul piano civile le vittime, patrocinate dal governo indiano, ricorsero contro la società anche presso i tribunali degli Stati Uniti. Fu solo nel 1989 che la Union Carbide, con un parziale accordo con il governo indiano, consentì a pagare un risarcimento cumulativo di 470 milioni di dollari contro i 3,3 miliardi originariamente richiesti dai ricorrenti. Le azioni della Union Carbide immediatamente risalirono non appena il mercato realizzò che la compagnia ne era uscita senza grosse perdite.

Le vittime non erano state consultate nelle discussioni che avevano preceduto l’ accordo tra il governo indiano e l’ Union Carbide e molti si sentirono truffati per l’ esiguità delle somme spettanti: oltre alle 20.000 persone decedute c’ erano da risarcire alcune centinaia di migliaia di persone (alla fine risultarono più di 560.000) che avevano avuto infermità di vario tipo.

Nel novembre 1999 numerose vittime del disastro di Bhopal citano in giudizio la Union Carbide  ed il suo ex amministratore delegato, Warren Anderson, presso il tribunale federale di New York, accusando la Carbide di violazione della legge internazionale sui diritti umani, del diritto ambientale e del diritto penale internazionale.

L’ Union Carbide si fonde con la Dow Chemical facendo nascere la più grossa compagnia chimica del mondo. La Dow Chemical subito sostiene di non essere responsabile e quindi di non dover rispondere delle pendenze legali della Union Carbide. Gli anni 2002-2004 vedono forti manifestazioni di protesta da parte delle organizzazioni dei sopravvissuti di Bhopal nei confronti della Dow Chemical

Scrive Daniela Condorelli su Repubblica del 20 novembre 2004:

L’ultimo atto della querelle legale è dello scorso 29 ottobre, quando la Corte suprema dell’India ha finalmente dato il via ai pagamenti 327 milioni di dollari da distribuire tra le 570 mila vittime del disastro. L’approvazione risale in realtà allo scorso luglio, ma solo oggi le vittime hanno avuto la meglio sugli ultimi cavilli legali e burocratici. Quei soldi, circa 580 dollari a testa, sono quel che resta dei 470 milioni di dollari stanziati nell’89 dalla Union Carbide per risarcire le vittime. Una cifra molto contestata: l’azienda era riuscita a patteggiare con il governo indiano un risarcimento di ben sette volte inferiore a quello richiesto dai rappresentanti delle vittime. Tra il 1995 e il ’96 poco più di mezzo milione di persone ha ricevuto 400 dollari a testa. Quanto bastava per curarsi per 5 anni. Briciole se paragonate ai 30 miliardi di fatturato annuo della Dow Chemicals o ai 10 milioni di dollari pagati dalla Dow alla famiglia di Joshua Herbs che ebbe un danno cerebrale causato dall’esposizione ad un pesticida prodotto dall’azienda (il Dursban). Come se il cervello di un bimbo americano valesse 10 milioni di dollari e quello di un bimbo indiano 500 dollari.

Membri del congresso e movimenti d’opinione negli stati Uniti si esprimono perché la Dow Chemical si faccia carico delle pendenze legali della U.C. nei confronti delle vittime e si faccia carico della decontaminazione del sito.

Un articolo apparso l’8 ottobre del 2003 sul Journal of the American Medical Association, mostra come gli effetti tossici del gas respirato quella notte si riflettano anche sulla seconda generazione che presenta forti ritardi di crescita. “Decine di migliaia di adolescenti sono marchiati dai veleni della Union Carbide”, ha dichiarato uno degli autori dello studio.

Intanto la falda idrica inquinata continua a tutt’ oggi a mietere vittime.

IL MASSACRO DI AL-AMIRYA

Ore 4.20 antimeridiane del 13 febbraio 1991. Ora di Bagdad. Un’ ora che migliaia di iracheni non potranno mai dimenticare. In quell’ istante gli aerei americani centrarono il loro obiettivo: il rifugio antiaereo n. 25 nel quartiere di Al-Amirya a Bagdad. Nel rifugio vi erano circa 1000 persone, quasi tutte donne, bambini e vecchi. Almeno 408 di loro furono ridotti in cenere.

L’operazione Desert Storm ebbe inizio il 16 gennaio 1991 quando circa un milione di uomini, di cui 543.000 americani, appoggiati da 8 portaerei, 2 corazzate, 2430 aerei da combattimento, 3318 carri armati pesanti (Abrams, Challenger ed M60) iniziarono l’offensiva contro l’Irak di Saddam Hussein.

Il Congresso degli Stati Uniti aveva appena autorizzato, con la votazione tenuta il 12 gennaio, l’uso della forza. La risoluzione di autorizzazione alla guerra era passata con una maggioranza molto ristretta: al Senato vi furono 52 favorevoli contro 47 contrari, anche alla Camera dei Rappresentanti la risoluzione fu approvata con una ristretta maggioranza. Nella pur lunga storia degli interventi militari degli Stati Uniti fu la votazione che registrò il minor distacco tra favorevoli e contrari alla entrata in guerra. (Da notare che Bush figlio fece evidentemente tesoro dell’esperienza del padre e preferì aggirare l’ostacolo di un’esplicita votazione sull’intervento armato del 2003: l’ autorizzazione che si fece votare dal congresso fu infatti molto più generica tanto che ci furono dei ricorsi in quanto la formula adottata non autorizzava esplicitamente, ma demandava  al presidente, la decisione dell’ intervento, la qual cosa, si obiettò, era incostituzionale).

La prima parte di Desert Storm fu quasi esclusivamente una campagna aerea: approfittando della incontrastata superiorità nei cieli e della superiorità tecnologica le forze aeree della coalizione guidata dagli USA effettuarono oltre 100.000 sortite, sganciando 88.500 tonnellate di bombe e distruggendo infrastrutture civili e militari.

Una di queste azioni è passata alla storia come “il massacro del rifugio di Al Amiriya” (Al-Amiriya shelter massacre). La distruzione del rifugio antiaereo di Amiriya fu un atto deliberato, non un evento casuale. Il rifugio era notoriamente segnalato come una struttura per la difesa civile e della sua destinazione civile gli americani erano ben a conoscenza. La distruzione dl rifugio ebbe enorme eco in tutto il mondo e sembrò per l’ennesima volta contraddire la ricorrente pretesa americana di spacciare le proprie guerre come giuste, umane, eticamente superiori, attente alle sofferenze delle popolazioni civili. Gli americani si difesero dichiarando che avevano avuto “segnali” che il rifugio fosse usato come centro di comando militare: in altre parole che vi si nascondessero alti vertici iracheni ed in particolare Saddam. Nonostante l’evidenza dei fatti e le testimonianze dei giornalisti occidentali immediatamente accorsi a testimoniare il massacro di civili, gli USA non si sono mai scusati della deliberata distruzione del rifugio antiaereo.

La prima parte di quest’articolo è  tratta dal famoso Blog “Bagdad Burning” la cui anonima autrice si firma con lo pseudonimo di “Riverbend”. Riverbend è uno dei molti blogger iracheni (tra cui diverse donne) che durante l’occupazione USA hanno continuato a scrivere contro l’occupazione, contro la distruzione del loro paese, contro  l’invasione che ha portato l’Irak nel caos e nella guerra civile. Nel maggio 2006 Riverbend ha ricevuto il “Bloggie award for Best Middle East and Africa blog”, la sua identità è sempre rimasta sconosciuta e dall’ ottobre 2007 il suo sito è inattivo…

Nella seconda parte del presente articolo vengono richiamate e commentate le conclusioni del rapporto di Human Rights Watch sul bombardamento e sulle pretese americane di aver agito correttamente, sulla base delle informazioni in quel momento disponibili,  nel prendere la decisione di effettuare il bombardamento: la perenne ipocrisia, di chi, pur commettendo crimini, è sempre pronto a trovare ragioni per autoassolversi…

Dedicato alla memoria di L.A.S.

dal Blog “Bagdad Burning”, domenica 15 febbraio 2004 – di Riverbend

Il 12 febbraio nel mondo arabo è la festa di fine Ramadan:  l’ ‘Eid Al-Fitr’. La festa si celebra con visite a famiglie e amici, banchetti speciali e atti di carità. In molti luoghi si organizzano pranzi e banchetti per i poveri.  L’Eid al-Fitr è anche occasione di incontro e scambio di auguri fra cristiani e musulmani. Il Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso prepara ogni anno un messaggio ufficiale per la fine del Ramadan.

Il 12 febbraio 1991 Bagdad era sotto bombardamenti continui, sopratutto notturni, da ormai quasi un mese.  Naturalmente non c’era né l’ atmosfera tipica delle feste né lo stato d’ animo per fare festa. La maggior parte delle famiglie rimaneva in casa perché non c’era nemmeno la benzina per poter muoversi da una zona all’altra della città. I quartieri più fortunati avevano rifugi antiaerei costruiti secondo criteri moderni e la gente dalle zone vicine si ritrovava assieme all’interno del rifugio durante i bombardamenti notturni. Anche quell’anno avrebbero potuto festeggiare l’ ‘Eid Al-Fitr’ all’interno dei rifugi insieme ai vicini ed agli amici.

Gli iracheni si recavano ai rifugi più per ragioni sociali che per questioni di sicurezza. Nei rifugi, costruiti secondo gli standard più moderni, c’era acqua elettricità ed una sensazione di sicurezza e di serenità data tanto dalla solidità della struttura quanto dalla presenza di amici e famiglie sorridenti. In guerra essere in compagnia di un largo gruppo di persone aiuta a rendere le cose più semplici, è come se il coraggio e la capacità di resistenza si trasferiscano da una persona all’altra ed aumentino esponenzialmente con l’aumentare del numero delle persone. Così  le famiglie nel quartiere di Amiriya decisero che si sarebbero riunite all’interno del rifugio per la cena della festività di ‘Eid Al-Fitr’ dopo di che gli uomini ed i ragazzi al di sopra dei 15 anni sarebbero andati via per lasciare che donne e bambini potessero festeggiare tra di loro in tutta libertà. Gli uomini non potevano immaginare, mentre andavano via che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero visto le loro mogli, figlie, bambini, fidanzate, sorelle….

Posso immaginare la scena dopo che gli uomini, intorno la mezzanotte, ebbero lasciato il rifugio: le donne sedute intorno che versano il tè bollente nelle tazzine di vetro, passandosi l’un l’altra pasticcini e cioccolata. I bambini a correre in lungo ed in largo all’interno del vasto rifugio gridando e ridendo come fossero i padroni del vasto campo di gioco sotterraneo. Ragazze che siedono in circolo parlando di ragazzi o vestiti o musica o le ultime chiacchiere su Sara o Lina o Fatima. Gli odori che si mescolano tè, arrosto, riso. Odori confortanti che danno l’impressione di stare realmente a casa.

Le sirene incominciano a dare l’ allarme, le donne ed i bambini  interrompono gli assaggi o le sgridate, dicono una breve preghiera preoccupandosi per i loro cari che sono andati fuori dal rifugio per lasciare più libertà a mogli e figli.

Le bombe cadono crudeli e veloci poco dopo le 4.00 della notte. La prima ‘smart bomb’ colpisce  in corrispondenza del sistema di ventilazione attraversando il primo piano del rifugio dove crea una grande voragine, giungendo fino al piano inferiore del rifugio dove sono i serbatoi d’ acqua e di propano per riscaldare acqua e cibi. Il secondo missile segue immediatamente il primo e ne finisce il lavoro. Le porte  del moderno rifugio si chiudono automaticamente imprigionando le oltre 400 persone che sono all’ interno.

Il rifugio si trasforma in un inferno; le esplosioni ed il fuoco salgono dal livello inferiore fino al livello dove sono le donne ed i bambini e l’acqua raggiunge l’ ebollizione e sale anch’essa. Quelli che non muoiono immediatamente carbonizzati dal fuoco o dilaniati dalle esplosioni  muoiono a causa dell’acqua bollente o carbonizzati dal calore che arriva fino a più di 500° C).

Ci svegliammo al mattino vedendo gli orrori riportati nei notiziari televisivi. Guardavamo i soccorritori iracheni entrare nel rifugio ed uscire piangendo ed urlando, trasportando all’aperto corpi carbonizzati ad un livello tale da non sembrare nemmeno umani. Vedemmo la gente che abitava nella zona, uomini, donne e bambini aggrappati al recinto che circonda il rifugio, urlanti con terrore in preda al panico, chiamare nome dopo nome, cercando un viso familiare nel mezzo dell’orrore.

I corpi vennero allineati uno accanto all’altro, tutti delle stesse dimensioni, rimpiccioliti a causa del calore e carbonizzati tanto da non poter essere riconosciuti. Alcuni erano in posizione fetale, curvi come se cercassero di scappare richiudendosi in se stessi. Altri erano allungati e rigidi come se stessero cercando di stendere una mano per salvare una persona amata o a raggiungere un riparo. La maggior parte rimase irriconoscibile per i familiari, solo la taglia ed i frammenti di abiti o di gioielli indicano il sesso e l’ età approssimativa.

Amiriya è un quartiere abitato da insegnanti di scuola, professori di college, dottori e comuni impiegati, un quartiere della classe media con case basse, gente amichevole ed una crescente popolazione mercantile. Era un miscuglio di sunniti e sciiti e cristiani, tutti conviventi pacificamente e felicemente. Dopo il 13 febbraio diventò un’ area da tutti evitata. Per settimane e settimane sull’intera zona aleggiò un lezzo di carne bruciata e l’aria era pesante e grigia di cenere. Le case stuccate beige furono improvvisamente ricoperte con neri pezzi di stoffa decorati dei nomi dei cari perduti: “Ali Jabbar piange la perdita di sua moglie, della figlia e di due figli…“; “Muna Rahim piange la perdita di sua madre, delle sorelle dei fratelli e del figlio…

(…….) La mia prima visita al rifugio risale a diversi anni dopo il bombardamento. Eravamo nel quartiere in visita ad un amica di mia madre, un’insegnante che si era ritirata in pensione dopo il bombardamento di Amiriyah. Non aveva intenzione di andare in pensione, ma quando le scuole si riaprirono nell’aprile del 1991 e si recò  il primo giorno di scuola a dare il benvenuto ai suoi alunni, entrò in classe e trovò solo 11 dei 23 studenti. “Pensavo che avessero deciso di non venire…”, ricordo che raccontava a mia madre con voce sommessa, “…ma quando cominciai a prendere le presenze, i ragazzi mi dissero che gli  altri erano morti nel rifugio…“.

Subito dopo l’amica di mia madre lasciò il lavoro perché, disse, quel giorno il cuore le si era spezzato e non poteva più guardare i bambini senza ricordare la tragedia.

Decisi così di rendere omaggio al rifugio ed alle vittime. Era ottobre e chiesi alla professoressa in pensione se il rifugio fosse aperto (sperando nel profondo del mio cuore che mi rispondesse negativamente). Ella fece segno di sì con la testa e disse che era aperto, che invero era sempre aperto….

Camminammo brevemente fino al rifugio che era nel mezzo delle case, separato solo da un’ampia strada. C’erano bambini che giocavano per la via, ne fermammo uno che giocava a pallone. “C’è qualcuno nel rifugio?” chiedemmo. Il piccolo fece un cenno affermativo con la testa e rispose che sì,  il rifugio era “maskoon” (“abitato”). Ora la parola “maskoon” può significare due differenti cose in arabo, può voler dire “presenziato”, ma anche “infestato, abitato da fantasmi”. La mia immaginazione mi portò a pensare che il bambino alludesse al secondo significato. Non sono certo una persona che crede nei fantasmi o nei mostri. Il mostro peggiore è l’uomo e se tu sei sopravvissuto alla guerra e alle bombe, i fantasmi sono nulla al confronto… Nonostante ciò qualcosa dentro di me sapeva che un posto dove più di 400 persone avevano perso la vita (ed in maniera così orribile ed improvvisa!) dovesse in qualche maniera conservare ancora una qualche presenza delle loro anime…

Entrammo. Il posto era oscuro e freddo nonostante il tiepido tempo di ottobre. L’ unica luce proveniva dallo squarcio aperto nel tetto del rifugio, laddove i missili americani avevano colpito. Desiderai trattenere il respiro timorosa di sentire qualche odore che non volevo assolutamente percepire… ma non puoi trattenere il respiro così a lungo: l’ aria non era affatto viziata, aveva un sentore di tristezza, così come il vento che attraversava il rifugio aveva un qualche cosa di doloroso. Gli angoli lontani del rifugio erano immersi nell’oscurità, era facile immaginare che ci fossero persone rannicchiate nel buio.

Le pareti erano coperte di fotografie. Centinaia di foto di donne e bimbi dai larghi sorrisi e con gli occhi di gazzella ed i morbidi sorrisi dei più piccoli. Un viso dopo l’ altro ci fissavano dal cupo grigiore delle pareti in un’atmosfera immobile e senza speranza. Mi chiedevo cosa fosse accaduto alle loro famiglie o piuttosto a ciò che era rimasto delle loro famiglie all’indomani della catastrofe. Conoscevamo un uomo che era impazzito dopo aver perso sua moglie e i suoi figli all’interno del rifugio. Mi chiedevo quanti altri avevano incontrato lo stesso fato… e mi chiedevo quanto valga la vita  una volta che hai perduto le persone a te più care.

In fondo al rifugio sentimmo delle voci. Tesi le orecchie per ascoltare e scoprimmo 4 o 5 turisti giapponesi ed una donna piccola e minuta che si rivolgeva loro in uno stentato inglese. Stava cercando di spiegare come le bombe avevano colpito il rifugio e come la gente era morta. Per aiutarsi nella spiegazione faceva ampi gesti con le mani ed i turisti giapponesi annuivano con la testa, scattavano fotografie e  mormoravano in cenno di assenso.

Chi è quella donna?” Chiesi all’ amica di mia madre.

Si prende cura del posto…“,  mi rispose a bassa voce.

Perché non mettono qualcuno che parli meglio l’ inglese: è frustrante da vedere…” le sussurrai di rimando guardando i giapponesi che stringevano la mano alla donna prima di andarsene.

La professoressa scosse la testa tristemente, “Hanno provato, ma lei rifiuta di andarsene. E’ rimasta qui a prendersi cura del rifugio fin dal momento in cui le squadre di soccorso ebbero finito il loro lavoro …. ha perso 8 figli qui…“. Rimasi  scioccata da quelle parole, mentre la donna si avvicinava a noi. Il suo viso era severo benché gentile, come quello del preside di una scuola o… come quello di una madre di 8 figli. Ci strinse la mano e ci portò in giro per il bunker: “Qui è dove stavamo… Qui è dove il missile è penetrato… Qui è da dove l’acqua bollente è risalita… Qui è dove la gente è rimasta attaccata al muro.

Nel parlare in arabo la sua voce era forte e ferma. Non sapevamo cosa dirle. Ella continuava a raccontarci di come fosse andata nel rifugio con 8 dei suoi nove figli e come l’avesse momentaneamente lasciato, pochi minuti prima dell’ arrivo dei missili,  per andare a prendere del cibo ed un ricambio di abiti per uno dei bimbi più piccoli. Stava a casa quando le smart bombs esplosero e il suo primo pensiero fu “Grazie a Dio i bambini sono nel rifugio…” Quando ritornò correndo verso il  rifugio si accorse  che era stato colpito e l’orrore cominciò… Rimase a guardare i corpi che venivano portati via per giorni e giorni e per mesi rifiutò di credere di averli persi. Da allora non ha lasciato il rifugio: è diventato la sua casa.

Indicò le vaghe orme dei corpi impresse dal calore sulle pareti di cemento e sul pavimento e la più impressionante era quella di una madre che stringeva un bimbo al suo seno come se tentasse di proteggerlo o di salvarlo. “Quella avrei dovuto essere io …” disse la madre che aveva perduto i suoi figli e noi non sapemmo cosa dirle.

Fu allora che mi resi conto che il posto era effettivamente “maskoon” o infestato… a partire da quel 13 febbraio 1991 era stato infestato da fantasmi: i fantasmi erano  coloro  che avevano avuto la maledizione di sopravvivere.

LA TRAGEDIA DELLA FUNIVIA DEL CERMIS

Il giorno 3 febbraio ’98 alle ore 14.13  un velivolo EA6B del VMAQ-2 del Corpo dei Marines degli Usa schierato sulla base di Aviano in supporto all’operazione DELIBERATE GUARD,  impattava i cavi della funivia che dall’abitato di Cavalese porta al monte Cermis e che in quel punto si trovavano ad un’altezza da fondo valle stimata tra i 100 ed i 130 metri.

Il velivolo trancia i cavi della funivia a circa 50 metri di distanza dalla cabina, a valle della stessa. L’impatto provocava l’istantanea rottura dei cavi portante e traente del segmento occidentale compreso fra la stazione a valle dell’impianto ed il primo pilone di sostegno. La cabina precipitava al suolo e tutte le venti persone trasportate perdevano la vita.

Il tragico evento non fu  una fatalità, ma come le indagini successive dimostrarono, la conseguenza di una serie di atti omissivi e trasgressivi da parte dei piloti e delle autorità militari americani della base di Aviano.

Nonostante ciò in forza di un’ interpretazione dei trattati che regolano le missioni americane e NATO che operano da basi italiane,  i militari americani che causarono la strage non furono processati dalle autorità italiane ma da quelle americane. La corte americana riconobbe  il maggiore imputato, il pilota capitano Ashby,  colpevole non di omicidio colposo bensì solo di reati minori.

L’ equipaggio del Prowler al ritorno alla base con l’aereo danneggiato non fa alcuna menzione della funivia, benché, avendo sfiorato la grossa cabina per di più dipinta in giallo, è evidente che dovesse essersi reso ben conto di aver causato la sciagura.

Nonostante il puerile tentativo di negare la responsabilità,  le testimonianze, nonché gli stessi notevoli danni all’aereo rendono evidente cosa sia successo. La procura della repubblica di Trento avvia un’immediata indagine.

La Procura dopo gli accertamenti di rito, interroga i piloti americani che però si rifiutano di rispondere, mentre altri militari, ascoltati in qualità di persone informate sui fatti, in particolare i membri dell’equipaggio che su quel medesimo aereo avevano volato lo stesso giorno di mattina, rendono palese quale fosse la strategia difensiva americana: ipotizzare un cattivo funzionamento del radar altimetro dell’ aereo.

L’ inchiesta del dottor Franco Antonio Granero, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento e del dottor Bruno Giardina, sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento permette di acclarare  i seguenti punti:

L’equipaggio del velivolo aveva sotto più profili violato il piano di volo perché:
a) pur rispettando il sorvolo nei punti di riferimento, si era però discostato dai limiti di tolleranza nei tratti compresi fra di essi, soprattutto nel tratto Riva del Garda – funivia del Cermis (scostamento di ben 8 miglia);
b) aveva sorvolato un centro abitato (Cavalese) a distanza inferiore a quella di sicurezza (un miglio marino);
c) aveva tenuto quote di volo inferiori alle minime previste ed una velocità superiore al consentito, tanto che al momento dell’impatto con la cabina della funivia stava procedendo a circa 110 m. di altezza dal suolo e a circa 540 nodi, pari a 1000 Km/h, mentre la velocità permessa sul territorio italiano a quote inferiori ai 2.000 ft. è di 450 nodi; fra l’altro, davanti alla commissione d’inchiesta americana il Ten. col. Muegge ed il Magg. Shawhan hanno riferito che per le missioni addestrative nessun equipaggio era autorizzato a volare ad una quota inferiore a quella consentita di 1.000 ft, come previsto dal manuale T&R (Training and readiness) del Marine Corps;
d) l’equipaggio aveva commesso le predette infrazioni per libera scelta e non per cattivo funzionamento degli apparati di bordo, dal momento che questi ultimi erano risultati tutti perfettamente funzionanti, altimetro compreso. La tesi difensiva  del malfunzionamento dell’altimetro risulta immediatamente insostenibile oltre che in base alla perizia eseguita in via di incidente probatorio e dalla relazione tecnica effettuata per conto della Commissione d’indagine dell’Aeronautica Militare italiana, anche a seguito delle testimonianze di altri piloti, dalla ricostruzione della tenuta dei registri di manutenzione dell’aereo e dalle audizioni dei meccanici e di altre persone. D’altro canto, non solo era agevolmente verificabile a vista che si stava volando a bassissima quota, ma il manuale BOAT pubblicato dallo SMA che disciplina i voli BBQ prevedeva che in caso di anomalia di funzionamento del radar altimetro bisognasse immediatamente sospendere la missione e tornare a volare ad almeno 2000 ft.

Le condizioni meteorologiche e di visibilità erano, durante il volo e al momento dell’impatto, ottimali e con il sole alle spalle e visibilità di oltre 10 km. Anche nelle dichiarazioni de relato degli addetti alla torre di controllo di Aviano era emerso che il pilota del Prowler aveva ammesso di aver notato la cabina gialla della funivia pochi attimi prima dell’urto.

In breve, ad avviso della Procura di Trento, l’equipaggio – in vero e proprio disprezzo della consegna – aveva ampiamente violato traiettoria, quota e velocità rispetto a quanto previsto dal piano di volo, dalle norme tecniche di sicurezza e dalle comuni regole di diligenza, prudenza e perizia.

Ma responsabilità erano emerse anche a riguardo della catena di comando americana. Infatti l’EA6B Prowler non faceva parte della NATO, bensì era dislocato ad Aviano per partecipare all’operazione DELIBERATE GUARD in Bosnia; gli accordi relativi agli aerei rischierati per le operazioni in Bosnia e precisamente quello del 21 aprile 1997 (SMA/175), prevedevano il divieto totale di voli a bassa quota sul territorio italiano, anche per via del fatto che le operazioni in Bosnia si facevano sempre ad un’altezza non inferiore a cinque mila piedi, ed il  Prowler, rischierato espressamente ed esclusivamente per compiere operazioni in Bosnia era, quindi, soggetto a tale divieto. Forse proprio per aggirare tale ostacolo la richiesta di autorizzazione del volo in questione fu inoltrata, si ritiene consapevolmente, se non dolosamente, in un piano di volo giornaliero che conteneva tutti i voli del 31o FW, quello dell’Aeronautica Militare americana di stanza ad Aviano, i cui voli (ambito NATO) vengono sottoposti alla procedura di approvazione tramite il COA/COM di Martina Franca, che procede in maniera pressoché automatica e ha compiti di semplice deconflittazione dei voli. Viceversa, i voli delle forze rischierate per l’operazione Bosnia avrebbero dovuto subire un’altra procedura ed essere trasmessi e autorizzati dalla V ATAF di Vicenza. Ma tale organo era appunto quello che aveva emanato il divieto dei voli a bassissima quota per i velivoli impiegati per l’operazione in Bosnia, e quindi, con ogni probabilità, non avrebbe mai autorizzato tale volo.

Le indagini della Procura della Repubblica di Trento accertarono, inoltre, numerosi analoghi precedenti di voli a bassissima quota che avevano suscitato le proteste della popolazione locale. Da ciò gli inquirenti  ritennero di poter  desumere che la catena di comando fosse a conoscenza delle consuete violazioni operate dai piloti e che fosse abituata a tollerarle, infatti, non di rado gli equipaggi amavano riprendere immagini o scattare foto dalla cabina dell’aereo durante il volo. Non diversamente era accaduto nel volo EASY 01, dal momento che fra i reperti trovati a bordo del velivolo vi erano anche una videocamera (il cui nastro era, però, ancora vergine), una cinepresa a 35 mm. ed una macchina fotografica.  Ciò suggeriva al PM una possibile chiave di lettura dell’atteggiamento psicologico dell’equipaggio, che evidentemente poteva volontariamente aver spinto le condizioni di volo al massimo grado di rischio per poter filmare e fotografare gli esiti della loro “bravata”. Questa circostanza fu  trascurata dalla concomitante Commissione d’inchiesta americana, che l’ha giudicata irrilevante, ma come vedremo non fu trascurata dalla successiva indagine della corte marziale USA.

I procuratori di Trento si trovarono però ad affrontare il problema della giurisdizione sui reati compiuti dal personale militare americano. I rapporti all’interno della NATO  sono regolati dalla Convenzione di Londra del 19.06.1951, stipulata fra gli Stati aderenti al Trattato Nord Atlantico. La Convenzione prevede i  seguenti casi:

* giurisdizione esclusiva di uno dei due Stati – quello di soggiorno o quello di origine – per i fatti puniti come reato soltanto da uno dei due ordinamenti giuridici (articolo VII, par. 2o), con particolare riferimento a quelli che attentano alla sicurezza dello Stato di soggiorno ma che non sono puniti dalla legislazione dello Stato d’origine;
* giurisdizione concorrente per i fatti puniti come reato da entrambi gli ordinamenti.
* In quest’ultima ipotesi viene attribuita priorità:
* alla giurisdizione dello Stato d’origine in caso di condotte che ledano esclusivamente i suoi interessi (articolo VII, par. 3o, lett. a, sub i) o per reati commessi nell’esecuzione d’un servizio (articolo VII, par. 3o, lett. a, sub ii);
* allo Stato di soggiorno (alias Stato ospitante) per tutti gli altri reati estranei all’esecuzione d’un servizio (par. 3o lett. b).

Secondo il PM di Trento, la Convenzione di Londra – e con essa la relativa previsione di deroga alla giurisdizione italiana – non sarebbe stata applicabile perché,  come varie volte sopra riportato, il volo EASY 01 era un volo USA nell’ ambito della missione in Bosnia e non NATO, quindi estraneo alla Convenzione suddetta.

In subordine, uno dei reati per cui il PM richiedeva l’incriminazione non era contemplato nella legislazione americana. Tale reato era quello di attentato alla sicurezza dei trasporti. In base alla Convenzione di Londra come si legge al primo dei punti sopra riportati, la giurisdizione era esclusiva di uno dei due Stati (indifferentemente quello di soggiorno o quello di origine) qualora i fatti fossero puniti come reato soltanto da uno dei due ordinamenti giuridici.

In questo senso sembravano esserci tutti i presupposti per lo svolgimento del processo in Italia e quindi il PM richiedeva al GIP il rinvio a giudizio  per l’ equipaggio dell’ aereo (Cap. Ashby Richard, il Cap. Schweitzer Joseph, il Cap. Raney William, il cap. Seagraves Chandler) e per  il ten. col. Muegge Richard A., il col. Rogers Marc e il gen. Peppe Timothy.

Inopinatamente il G.I.P.  presso il Tribunale di Trento, dr. Carlo Ancona, al termine dell’udienza preliminare, dichiara  il 13.7.98 il difetto di giurisdizione del giudice italiano: gli indagati non possono essere processati in Italia.

IL PROCESSO NEGLI STATI UNITI

Dopo i risultati di una prima commissione amministrativa militare americana, Il 27 marzo 1998 il Comandante dei Marines per l’Atlantico, gen. Peter Pace,  nominò il ten. col. Ronald L. Rodgers ufficiale investigativo sulla tragedia del Cermis.
Le udienze iniziarono  il 20 aprile 1998 alla presenza dei difensori degli indagati. In quella sede l’ufficiale investigatore differenziò le posizioni degli altri due membri dell’equipaggio, i capitani William Raney e Chandler Seagraves da quelle del pilota e del navigatore dell’ aereo: i cap. Richard Ashby e Joseph Schweitzer.

Nel corso delle audizioni dei capp. Raney e Seagraves emerse l’ipotesi di manomissione del video di bordo – essendosi rinvenuta una pellicola non grigia, come quelle nuove, ma nera: segno di cancellazione.

Il 30 giugno 1998 l’ufficiale investigativo incaricato concluse il suo mandato, proponendo di rinviare alla Corte marziale il cap. Ashby ed il cap. Schweitzer, e prosciogliendo gli altri due membri dell’equipaggio da ogni accusa.

Il 10 luglio 1998 il Capo dei Marines per l’Atlantico, gen. Pace, accogliendo le conclusioni dell’inchiesta preliminare,  archiviò il caso per quel che riguarda i cap. Seagraves e Raney e rinviò alla Corte Marziale sia il cap. Ashby che il cap. Schweitzer respingendo invece, l’ipotesi, sostenuta dagli avvocati della difesa dei piloti, di responsabilità nella catena di comando.
Il 30 agosto 1998 i cap. Ashby e Schweitzer furono  incriminati per aver depistato le indagini, « rimozione di videocassetta dalla cabina di pilotaggio », e complottato per evitare il ritrovamento delle prove, « impedimento di indagine mediante la soppressione di prove ». L’ipotesi fu quella che i due ufficiali avessero cancellato un video girato durante il volo del 3 febbraio.

Secondo l’accusa, sostenuta dal Proc. maggiore gen. Daugherty, il cap. Ashby aveva il pieno controllo del suo aereo quando alla velocità di 540 nodi, quella massima consentita a quell’aereo, ha imboccato la Val di Fiemme, pochi istanti prima di impattare nella funivia del Cermis. E` lui ad impostare la manovra spericolata che lo ha portato a 360 piedi sopra il terreno, in spregio alla regola « scritta con il sangue » che impone una quota minima di 1000 piedi. Riportiamo le parole dell’ accusa:

«E` il Capitano Ashby ad aver deciso il modo in cui dovevano essere fornite le indicazioni e in cui doveva svolgersi la programmazione. Il Capitano Ashby ha deciso l’altitudine alla quale doveva volare il suo aereo. Il Capitano Ashby ha deciso di non tenere conto del fattore tempo durante il volo. Il Capitano Ashby ha deciso la velocità alla quale doveva manovrare il suo aereo, e alla quale doveva volare il suo aereo. Il Capitano Ashby ha deciso quali regole, disposizioni e procedure operative doveva seguire. Lui non ha discrezionalità in decisioni di questo genere. E` vincolato ai NATOPS e al suo SOP….Ma il Capitano Ashby non sapeva quale fosse il contenuto di tutto questo. Non sapeva quale era il contenuto dei manuali di assistenza ai piloti. Non conosceva la semplice limitazione della velocità che vi era contenuta. (…)

Il Capitano Ashby è incorso in pericoli ingiustificabili quando ha manovrato quel velivolo a 540 nodi dentro alla Valle Cavalese. Dopo 20 – 23 secondi da quando è entrato in quella valle, inizia a manovrare il suo aereo. A quel punto, si è messo in una situazione dalla quale non può uscire, perché adesso sta procedendo alla massima velocità , alla minima altitudine, e sta manovrando. Non c’e` più niente che possa fare quell’aeroplano. Si trova su un missile che sta slittando proprio in quella direzione, e invece di rialzarsi, egli imposta i 2400 piedi al minuto di discesa, e si inclina sulla sua destra, e si inclina sulla sua sinistra. »

L’accusa si sofferma, poi, sulle registrazioni effettuate durante il volo e poi cancellate e sostituite, per affermare che tale condotta era l’ulteriore prova della colpevolezza del pilota. Egli non voleva che si avesse la prova della sua condotta di volo: se davvero si è trovato inconsapevolmente e suo malgrado in una situazione di pericolo, quale prova migliore della registrazione video ?

« Il Capitano Ashby e il Capitano Schweitzer sono rimasti seduti dentro al velivolo danneggiato, hanno preso questa videocamera e, mentre l’equipaggio di salvataggio stava correndo verso di loro per assicurarsi che le loro vite fossero salve, hanno tolto il nastro ed hanno lasciato questo per voi signori – ha detto Daugherty alla giuria -. Un nastro vuoto. Sanno che si svolgerà un’indagine. Hanno appena rovinato un aereo da 60 milioni di dollari. Sanno che hanno colpito una funivia. Sanno che hanno tagliato dei cavi. Hanno contattato Aviano, dicendo che avevano sofferto un danno strutturale, che stavano tornando con dei problemi. Dov’è la chiamata via radio in cui dicevano che avevano appena visto una funivia, che avevano colpito dei cavi, che qualcuno doveva chiamare i servizi di emergenza in quella vallata? Hanno scambiato i nastri perché non vogliono che voi sappiate quello che e` successo su quell’aeroplano ».

Al contrario, Secondo la difesa, la tragedia del Cermis: «è stato un terribile incidente che è avvenuto durante l’addestramento e niente di più. (…) Alla fine si tratta di un periodo da sei a otto secondi. Se si considera il tempo trascorso da Ashby nella valle dell’incidente prima che colpisse il cavo, i dati dell’accusa dimostrano che Ashby non ha fatto nulla di male.(…); è possibile che il cap. Ashby, in un periodo da sei a otto secondo sia stato portato a scendere di più di quanto non credesse ed abbia colpito quei cavi».

Il 4 marzo 1999, dopo sette ore e mezza di camera di consiglio (contro la settimana prevista), la giuria assolse Ashby, provocando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana ed europea. Conseguentemente caddero anche  le accuse di omicidio colposo nei confronti di Schweitzer.

“Non c’è giustizia a questo mondo”: così reagirono i familiari delle vittime tedesche del Cermis. “Se Ashby non è colpevole, allora vorremmo proprio sapere chi è il responsabile della tragedia”.

“Il ruolo di poliziotti del mondo preteso dagli Stati Uniti si concretizza in una giustizia da caserma”: questo è il commento  dell’avvocato Beppe Pontrelli, esponente del Comitato “Tre Febbraio per la giustizia”. Che  aggiunge: “Questa sentenza deprecabile sia di lezione per quanti hanno tifato per la giustizia, rapidità e severità della magistratura militare americana. Venti vittime inutili, condannate a una morte senza giustizia, come da mesi avevamo ampiamente previsto. Per questo il Comitato si era lungamente battuto per lo svolgimento del processo in Italia”.

L’allora presidente del Consiglio D’Alema, durante una visita negli Usa, ai giornalisti che gli chiedevano un giudizio sulla decisione della Corte militare statunitense, oppose un vergognoso “Non commento una sentenza in Italia, figuriamoci negli Stati Uniti” (salvo poi, resosi conto della gaffe, definire la sentenza “sconcertante”).

Quasi come a dare un contentino all’opinione pubblica europea (il lutto riguardava turisti provenienti da molti paesi europei) i  due militari furono nuovamente giudicati dalla corte marziale USA per intralcio alla giustizia per aver distrutto il nastro video registrato durante il volo nel giorno della tragedia. Per tale capo d’accusa furono riconosciuti colpevoli nel maggio del 1999. Il copilota Schweitzer parzialmente ammise la responsabilità nella distruzione del nastro, evitando così il carcere. Entrambi furono degradati e rimossi dal servizio. Ashby, il pilota, fu inoltre condannato a sei mesi di detenzione, ma fu rilasciato dopo quattro mesi e mezzo per buona condotta.

Come conseguenza della sentenza gli Stati Uniti inizialmente neanche risarcirono i parenti delle vittime. Ma nel dicembre del 1999 il Parlamento Italiano  approvò una legge (497/99) che prevedeva un indennizzo per i familiari dei deceduti pari a 3,8 miliardi di lire per ogni vittima. Un miliardo e 500 milioni vengono riconosciuti all’ unico sopravvissuto alla tragedia, il manovratore Marino Costa,  che, come riportano gli Atti Parlamentari della Camera dei Deputati “restò gravemente compromesso a livello psichico e impossibilitato a condurre una vita normale … rimasto cinquanta minuti nel vuoto, prima dell’arrivo dei soccorsi..

In conseguenza di tali provvedimenti delle autorità italiane, ed in ottemperanza ai trattati NATO (vedi sotto il testo del paragrafo della convenzione di Londra che tratta dei risarcimenti), il governo degli Stati Uniti ha dovuto risarcire allo stato Italiano il 75% delle somme complessivamente erogate.

Il testo dell’art. VIII, paragrafo 5, della Convenzione tra gli Stati partecipanti al Trattato Nord-Atlantico sullo statuto delle Forze armate, firmata a Londra il 19 giugno 1951 e resa esecutiva ai sensi della legge 30 novembre 1955, n. 1335

Les demandes d’indemnités (autres que celles résultant de l’application d’un contrat et que celles auxquelles les paragraphes 6 ou 7 du présent article sont applicables) du chef d’actes ou de négligences dont un membre d’une force ou un élément civil est responsable dans l’exécution du service ou du chef de tout autre acte, négligence ou incident dont une force ou un élément civil est légalement responsable et qui ont causé sur le territoire de l’Etat de séjour des dommages à un tiers autre que l’une des parties contractantes, seront réglées par l’Etat de séjour conformément aux dispositions suivantes:

  1. Les demandes d’indemnités sont introduites. instruites et les décisions prises, conformément aux lois et règlements de l’Etat de séjour applicables en la matière à ses propres forces armées;
  2. L’Etat de séjour peut statuer sur ces dommages; il procède au paiement des indemnités alloues dans sa propre monnaie;
  3. Ce paiement, qu’il résulte du règlement direct de l’affaire ou d’une décision de la juridiction compétente de l’Etat de séjour, ou de la décision de la même juridiction déboutant le demandeur, lie définitivement les parties contractantes;
  4. Toute indemnité payée par l’Etat de séjour sera portée à la connaissance des Etats d’origine intressés qui recevront en même temps un rapport circonstancié et une proposition de répartition établie conformément aux alinéas e., (i), (ii) et (iii) ci-dessous. A défaut de réponse dans les deux mois, la proposition sera considérée comme acceptée;
  5. La charge des indemnités versées pour la réparation des dommages visés aux alinéas précédents et au paragraphe 2 du présent article sera répartie entre les parties contractantes dans les conditions suivantes:
    1. Quand un seul Etat d’origine est responsable, le montant de l’indemnité est reparti à concurrence de 25 % pour 1’Etat de séjour et 75 % pour l’Etat d’origine;
    2. Quand la responsabilité est encourue par plus d’un Etat, le montant de l’indemnité est reparti entre eux par parts égales; toutefois, si l’Etat de séjour n’est pas un des Etats responsables, sa part sera la moitié de celle de chacun des Etats d’origine;
    3. Si le dommage est causé par les forces armées des parties contractantes sans qu’il soit possible de l’attribuer d’une manière précise à l’une ou plusieurs de ces forces armées, le montant de l’indemnité sera réparti également entre les parties contractantes intéressées; toutefois, si l’Etat de séjour n’est pas un des Etats dont les forces armées ont causé le dommage, sa part sera la moitié de celle de chacun des Etats d’origine;
    4. Semestriellement, un état des sommes payées par l’Etat de séjour au cours du semestre précédent pour les affaires pour lesquelles une répartition en pourcentage a été admise, sera adressé aux Etats d’origine intressés accompagné d’une demande de remboursement. Le remboursement sera fait dans les plus brefs délais, dans la monnaie de l’Etat de séjour;
  6. Dans le cas où, par suite de l’application des dispositions des alinéas b. et e. ci-dessus, une partie contractante se verrait imposer une charge qui l’affecterait trop lourdement, elle peut demander au Conseil de l’Atlantique Nord de procéder à un règlement de l’affaire sur une base différente;
  7. Aucune voie d’exécution ne peut être pratiquée sur un membre d’une force ou d’un élément civil lorsqu’un jugement a été prononcé contre lui dans l’Etat de séjour s’il s’agit d’un litige né d’un acte accompli dans l’exécution du service;
  8. Excepté dans la mesure où l’alinéa e. du présent paragraphe s’applique aux demandes d’indemnité couvertes par le paragraphe 2 du présent article, les dispositions du présent paragraphe ne s’appliquent pas dans le cas de navigation d’exploitation d’un navire, de chargement ou de déchargement ou de transport d’une cargaison, sauf s’il y a eu mort ou blessure d’une personne et que le paragraphe 4 ne soit pas applicable.

Nel febbraio 2008  i due piloti, hanno impugnato la sentenza e richiesto la revoca della radiazione con disonore,  affermando che all’epoca del processo, accusa e difesa si erano segretamente accordate per far cadere l’accusa principale di omicidio colposo plurimo, ma che,  per soddisfare “le pressioni che venivano dall’Italia” avevano convenuto di tener viva l’accusa minore cioè dell’occultamento delle prove.

Le Vittime:

Trentino

Marcello Vanzo (56)

Alto Adige

Maria Steiner-Stampfl (61, Bressanone)
Edeltraud Zanon-Werth (56, Bressanone)

Austria

Anton Volgsgang (35, Wien),
Sonja Weinhofer (22, Wien)

Germania

Jürgen Wunderlich (44)
Uwe Renkewitz (47)
Annelie Urban (41)
Harald Urban (41)
Marina Mandy Renkewitz (24)
Michael Pötschke (28)
Dieter Frank Blumenfeld (47);

Polonia

Ewa Strzelczyk (37)
Philip Strzelczyk (14)

Belgio

Stefaan Vermander (27)
Rose-Marie Eyskens (24)
Sebastian Van den Heede (27)
Stefan Bekaert (28)
Hadewich Antonissen (24)

Olanda

Danielle Groenleer (20, Apeldoorn)

IL MASSACRO DI DASHT-E LEILI

Sette anni di lavaggio mentale mediatico ci hanno indotto a pensare ai Talebani come ad una banda di  fanatici e semianalfabeti  legati ad al-Qaeda e agIi attentati dell’ 11 settembre. In realtà, per la travagliata popolazione afgana, i talebani rappresentano coloro che finalmente, dopo 20 anni di guerre civili e di lotta contro l’occupazione sovietica, seppero regalare al paese l’unico periodo di stabilità e pace, interrotto clamorosamente ed ingiustificatamente dall’aggressione americana e NATO.

Nel novembre del 2001, durante l’ invasione americana dell’Afghanistan, varie migliaia di Talebani bersagliati dai bombardieri americani ed accerchiati dalle truppe dei “Signori della Guerra” dell’Alleanza del Nord, loro rivali storici che combattevano al fianco degli americani, si arresero alle truppe di Rashid Dostum, leader degli Uzbeki, temuto Signore della Guerra, che successivamente sarebbe diventato vice-ministro della difesa del governo Karzai. Dostum era assistito dagli uomini del 595 A-team delle Forze Speciali USA, da personale dell’ esercito americano e della CIA. Dai 3000 ai 5000 prigionieri Talebani furono uccisi o fatti lentamente morire dopo la resa.

Trent’ anni di lotte.

Nel 1973 un colpo di stato rovesciò la monarchia afgana e costrinse il re Zahir Shah all’esilio. Iniziò un periodo travagliato per il paese. Nel 1978 conquistò il potere il Partito Democratico Popolare Afgano (partito socialista filo-comunista), il governo comunista fu però incapace di assicurare la stabilità al paese e questo non tanto e non solo per la nascente resistenza islamica, ma sopratutto per contrasti interni al partito stesso le cui fazioni contrapposte erano in lotta per il potere. Nel settembre 1979, il presidente Taraki, benvoluto dal popolo, fu ucciso a seguito di una congiura interna al partito, ordita dal vice primo ministro e capo della fazione rivale,  Hafizullah Amin.

I sovietici decisero di incrementare l’appoggio militare pur di mantenere il governo comunista, ma, si convinsero che Hafizullah Amin era ormai un fattore di destabilizzazione dell’Afghanistan.

Il 24 dicembre 1979 l ‘esercito sovietico ricevette l’ordine di invadere l’Afghanistan, tre giorni dopo le truppe entrarono nella capitale Kabul. L’Armata Rossa attaccò il palazzo presidenziale, Amin fu arrestato e successivamente giustiziato, le truppe sovietiche assunsero il controllo completo del paese.

Con l’ ingresso dei sovietici si andò però radicalizzando l’opposizione islamica abbondantemente sovvenzionata, armata, addestrata ed appoggiata dagli Stati Uniti. Dopo nove anni di guerra, dopo aver perso quasi 14.000 uomini, ma soprattutto a causa dell’avvento di Gorbaciov e del mutato quadro internazionale, l’Armata Rossa abbandonò il paese.

I mujaheddin si trovarono padroni dell’Afganistan, ma i combattimenti proseguirono, questa volta tra le differenti fazioni dei mujaheddin. Le fazioni erano divise dai personalismi dei loro capi (i “Signori della Guerra”) ma soprattutto sulla base di differenze etniche profonde. L’Afganistan è una nazione dove s’incontrano popoli diversissimi per lingua e per etnìa: Pashtun, Tagiki, Hazari, Uzbeki, Turkmeni, popoli fieri e guerrieri che parlano lingue diverse e con tradizioni diverse. La diversità e l’ ambizione dei “Signori della Guerra”, diede vita ad un periodo di incertezza, alla disgregazione del tessuto sociale, alla spartizione del controllo della nazione.

L’irruzione sulla scena afgana dei Talebani.

Nel paese devastato, i Talebani emersero come una forza in grado di portare l’ordine e di ricostruire la società, seppure sotto la rigida etica fondamentalista. Si racconta che nella primavera del 1994, venendo a conoscenza del rapimento e dello stupro di due ragazze a un posto di blocco dei mujaheddin in un villaggio, vicino Kandahar, il locale mullah, Muhammad Omar, già veterano della resistenza antisovietica, organizzasse trenta compagni in un gruppo di combattimento e con esso riuscisse a  salvare le ragazze facendo impiccare il comandante dei mujaheddin. Dopo questo incidente, sembra che gli interventi di questi religiosi-combattenti vennero sempre più richiesti dai contadini, afflitti dai soprusi dei mujaheddin.

I Talebani erano espressione del gruppo etnico Pashtun, maggioritario nel paese, ma seppero imporsi non solo con la forza ma anche stringendo alleanze con altre fazioni. S’impadronirono dapprima di Kandahar, poi di Herat infine cinsero d’assedio Kabul che, conquistata nel 1996, fu poi perduta e di nuovo conquistata nel corso della  lotta contro i Tagiki e gli Uzbeki dell’Alleanza del Nord. Finalmente nell’estate del 1998 i Talebani riuscirono a liberare la maggior parte del paese, tranne le estreme regioni nord orientali in cui si erano asserragliati gli ultimi “Signori della Guerra” della Alleanza del Nord.

L’ Emirato Islamico dell’Afghanistan venne riconosciuto da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita ed il paese poté ritrovare unità e pace dopo trent’anni di guerre.

Una volta al potere, i Talebani istituirono la sharia (legge islamica), che, come noto, prevede severissime pene per alcuni reati, come ad esempio l’amputazione di una o di entrambe le mani per il reato di furto. Inoltre, poco dopo aver conquistato il potere, i Talebani vietarono la coltivazione dei papaveri da oppio. La produzione crollò da 4000 tonnellate nel 2000 (circa il 70% del totale mondiale) a 82 tonnellate nel 2001, quasi tutte raccolte nelle parti dell’Afghanistan ancora controllate dall’Alleanza del Nord. Con l’invasione americana, alla fine del 2001, e con l’istituzione del governo fantoccio di Karzai (soprannominato il “sindaco di Kabul” per sottolinearne la scarsissima autorità e supporto popolare in gran parte del paese) la produzione di oppio è aumentata drammaticamente ed è tuttora in aumento.

L’ invasione americana dell’ ottobre 2001.

La credenza generale è che alla richiesta da parte di Bush di consegnare i leader di al Qaeda agli Stati Uniti, i Talebani abbiano opposto un netto rifiuto. In realtà le cose non andarono proprio così.

I Talebani, giudicando che le accuse non erano sufficientemente provate per concedere questa “estradizione forzata”, proposero, in risposta, di consegnare Bin Laden al Pakistan, (paese con cui avevano sempre avuto buoni rapporti anche per la presenza dell’etnìa Pashtun da tutte e due le parti del confine), affinché fosse processato in un tribunale internazionale sottoposto alle leggi della Sharia.

Il 7 ottobre, poco prima dell’inizio dell’invasione, i Talebani si dichiararono pubblicamente disposti a processare Bin Laden in Afghanistan attraverso un tribunale islamico. Gli USA rifiutarono anche questa offerta giudicandola insufficiente. Infine il 14 ottobre, una settimana dopo lo scoppio della guerra, i Talebani acconsentirono a consegnare Bin Laden a un paese terzo per un processo, ma sempre se fossero state fornite prove del coinvolgimento di Bin Laden negli eventi dell’ 11 settembre.

In realtà pare che gli Stati Uniti avessero pianificato l’invasione dell’Afghanistan ben prima dell’11 settembre. Il 18 settembre 2001 Niaz Naik, ex-Ministro degli Esteri pakistano, dichiarò che a metà luglio dello stesso anno venne informato da alcuni ufficiali superiori statunitensi che un’azione militare contro l’Afghanistan sarebbe iniziata nell’ottobre seguente. Naik dichiarò anche che, sulla base di quanto detto dagli ufficiali, gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato al loro piano persino nell’eventualità di una resa di Bin Laden da parte dei Talebani. (“… it  was doubtful that Washington would drop its plan even if Bin Laden were to be surrendered immediately by the Taleban…)

Naik affermò anche che sia l’Uzbekistan sia la Russia avrebbero partecipato all’attacco, anche se in seguito ciò non si è verificato.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non autorizzò l’uso della forza contro l’Afghanistan in nessuna risoluzione.

Dasht-E Leili.

Il 21 novembre 2001 circa 8000 tra soldati Talebani e civili di etnia Pashtun si arresero a Konduz al comandante dell’Alleanza del Nord, Abdul Rashid Dostum. La maggior parte di loro non fu vista mai più. Il fatto non passò sotto silenzio e quasi subito sulla stampa occidentale apparvero articoli che si chiedevano cosa fosse successo e, soprattutto, quanto fossero coinvolti gli americani in quello che aveva tutta l’aria di essere un massacro ed un crimine di guerra (vedi ad esempio l’ articolo sul Guardian del 2 dicembre 2001).

Il sito in cui erano stati seppelliti i corpi della gran parte dei Talebani fu sottoposto ad indagini da parte degli esperti di medicina forense dell’associazione Medici per i Diritti Umani (Physicians for Human Rights) che disseppellirono ed analizzarono alcuni corpi giungendo alla conclusione che mostravano i segni di morte per soffocamento. Physicians for Human Rights ed Amnesty International richiesero che il sito venisse preservato in modo da poter portare avanti altre indagini su quello che appariva come uno dei peggiori crimini di guerra, ma nulla accadde (a dimostrazione della doppia morale adoperata dai media, si ricorderà che il ritrovamento di 45 corpi a Racak in Kosovo causò ampi clamori sulla stampa e quindi sull’opinione pubblica e costituì un pretesto importante per gli attacchi NATO contro la Serbia). Ma  il tentativo di far cadere l’episodio nell’oblio fallì grazie al lavoro del  documentarista irlandese Jamie Doran che, inseguendo le notizie del massacro, si recò nel 2002 sul posto dove ebbe modo di intervistare testimoni, partecipanti, ufficiali, sopravvissuti, nonchè specialisti di medicina forense. Nacque così un documentario che fu trasmesso in Europa ed in altre nazioni del mondo (non negli USA) nell’estate del 2002 e che fu anche trasmesso al parlamento europeo. Inoltre il regista Jamie Doran fu autore anche di alcuni articoli sulla stampa internazionale per denunciare ciò che aveva visto e la congiura del silenzio attorno il massacro di Dasht-E Leili.

Di seguito riportiamo alcuni stralci dell’ articolo a firma di Jamie Doran che fu pubblicato nel settembre 2002 su “Le Monde Diplomatique”:

… Kabul cadde praticamente senza colpo ferire: i talebani fuggivano da Kokcha, a nord-est, e da Taloqan e Mazar verso sud, in direzione di Kunduz. Circa 15.000 uomini, tra cui molti venuti da altri paesi per combattere a fianco dei talebani, si troveranno intrappolati in questa città, presa d’assedio dagli effettivi due volte più numerosi dell’Alleanza del Nord. Alcuni riuscirono a fuggire attraverso uno stretto corridoio verso sud; molti passarono dall’altra parte, pur di salvare la pelle (un fenomeno molto comune nella guerra afghana). Quanto a quelli rimasti, la loro sorte era nelle mani dei negoziatori. Al centro delle trattative si trovava Amir Jhan, altro signore della guerra, che godeva della fiducia generale.

«I comandanti di Kunduz erano tutti miei commilitoni e amici: alcuni anni fa avevamo combattuto fianco a fianco. Perciò mi fu chiesto di mettermi in collegamento con i capi dell’Alleanza del Nord, per porre fine a tutto questo attraverso il negoziato piuttosto che con le armi. Alcuni di quei comandanti – tra cui Marzi Nasri, Agi Omer e Arbab Hasham – hanno convinto quelli di al Qaeda e vari gruppi di stranieri ad arruolarsi nelle nostre file».

La prima proposta di accordo con l’Alleanza del Nord prevedeva che i comandanti talebani consegnassero le armi alle Nazioni unite o a qualsiasi altra forza internazionale, in cambio di alcune garanzie.

«Ero presente quando i mullah (talebani) Faisal e Nori arrivarono insieme con altri a Kalai Janghi per incontrare i generali Dostum, Maqaq e Atta. C’erano anche alcuni americani e qualche inglese. Si è deciso che se avessero consegnato le armi, i combattenti afghani di Kunduz avrebbero potuto far ritorno alle loro case, mentre quelli di al Qaeda e gli stranieri sarebbero stati consegnati alle Nazioni unite».

L’immensa fortezza di Kalai Janghi, nei dintorni di Mazar, adottata come quartier generale prima dai talebani e poi da Dostum, sarà al centro dei successivi eventi. Mentre già si stava discutendo l’accordo intervenne il segretario alla difesa americano, Donald Rumsfeld. Lo preoccupava l’idea che la fine negoziata dell’assedio potesse consentire ai combattenti stranieri di andarsene liberamente.

«Sarebbe sommamente deplorevole che gli stranieri in Afghanistan – quelli di al Qaeda, i ceceni e gli altri che hanno collaborato con i talebani – fossero rilasciati, con la possibilità di recarsi in un altro paese per commettere altri atti terroristici». È stata più volte citata un’altra sua frase, pronunciata poco dopo: «Mi auguro che siano uccisi o catturati. Si tratta di persone che hanno commesso azioni terrificanti».

I comandanti dell’Alleanza del Nord non potevano permettersi di ignorare le dichiarazioni del loro principale alleato e finanziatore, e d’altra parte non erano particolarmente motivati per contestarle. La vendetta, che qui si chiama «Intiqaam», è come uno sport nazionale in Afghanistan.

C’era nell’aria la sensazione di un massacro imminente. La città era come investita una ventata sanguinaria.

Amir Jhan, consapevole dell’estrema gravità del momento, correva instancabilmente da un comando all’altro nel tentativo di fermare quello che ormai appariva come un epilogo inevitabile. Infine, il 21 novembre si arrivò a un accordo: tutte le forze talebane si sarebbero arrese all’Alleanza del Nord contro la promessa di avere salva la vita. Circa 470 talebani provenienti da altri paesi (alcuni dei quali sospettati di appartenere ad al Qaeda) saranno portati a Kalai Janghi e rinchiusi nei tunnel sotterranei di quell’immensa fortezza. Il 25 novembre 2001, due agenti della Cia arrivano sul posto per procedere agli interrogatori individuali. Nel frattempo scoppia una rivolta: alcuni talebani colgono di sorpresa le guardie, si impossessano delle loro armi e aprono il fuoco, uccidendo nel giro di pochi minuti l’agente della Cia Johnny «Mike» Spann e una trentina di soldati dell’Alleanza del Nord.

Segue uno scontro a fuoco, che si intensifica quando i talebani riescono a mettere le mani sul deposito d’armi del fortino che si trova – per quanto ciò possa sembrare assurdo – poco lontano dal luogo in cui erano rinchiusi i prigionieri. Le forze speciali di terra Usa chiedono un intervento aereo, mentre i britannici della Sas passano al contrattacco. Al terzo giorno di combattimenti, nella fortezza non c’è più un solo talebano in vita: una circostanza insolita, dato che al termine di qualsiasi operazione militare rimane sempre sul terreno qualche superstite, sia pure gravemente ferito. Gli eventi di Kalai Janghi monopolizzano l’attenzione dei giornalisti occidentali, richiamati in massa dalla resa di Kunduz. Da un complesso vicino relativamente al sicuro, o anche da postazioni più distanti, inviano servizi dai toni sensazionalisti, tanto più che tra gli 86 uomini rimasti nei tunnel sotterranei di Kalai Janghi si scopre un talebano americano, John Walker Lindh.

Sembra incredibile che in quel momento nessuno abbia avuto l’idea di chiedersi quale fosse stata la sorte degli altri soldati sconfitti a Kunduz. Soltanto dopo la proiezione di alcuni spezzoni del nostro documentario davanti al parlamento europeo di Strasburgo si sono levati appelli per un’inchiesta internazionale indipendente sulla sorte di quelle migliaia di uomini …. La loro fine lascerà sull’Alleanza del Nord, sui media occidentali, sull’Onu, sul governo Usa e sui militari americani un’ombra che non potrà scomparire mai più. 

In un’altra fortezza, mai citata dagli organi di informazione occidentale, avrà inizio la strage di circa 3.000 prigionieri.

Ascoltiamo di nuovo Amir Jhan, che aveva preso parte ai negoziati per la resa: «Li avevo contati uno per uno: erano in 8.000. Ne rimanevano 3.015. Ma tra questi 3.015 c’erano anche molti pashtun locali, di Kunduz o delle città vicine, non compresi nel conto dei prigionieri che si erano consegnati. E gli altri, che fine avevano fatto?» La risposta a questa domanda si trova, almeno in parte, sotto quella duna lunga cinquanta metri, nel deserto di Dasht Leili.

Il conto è semplice: più di 5.000 uomini mancano all’appello. Qualcuno sarà riuscito a fuggire; qualche altro potrebbe aver ottenuto la libertà in cambio di denaro, e molti sono stati forse venduti ai servizi di sicurezza dei rispettivi paesi, per subire un destino forse peggiore della morte. Ma in maggioranza quei prigionieri, secondo vari testimoni oculari che abbiamo potuto ascoltare durante i sei mesi della nostra inchiesta, sono lì, sepolti sotto la sabbia. Nessuno dei testimoni che abbiamo interrogato ha ricevuto un soldo da noi, e tutti rischiano grosso per aver accettato di collaborare al nostro film. La tragedia inizia nella fortezza di Kalai Zeini, sulla via che conduce da Mazar a Shiberghan. Questa costruzione, immensa anche a confronto di altre enormi costruzioni afghane, è stata il campo di transito delle migliaia di uomini catturati a Kunduz. Ufficialmente si trattava di trasferire i prigionieri al carcere di Shiberghan, dove sarebbero stati detenuti in attesa di essere interrogati dagli esperti americani, che dovevano selezionare quelli da trasferire a Guantanamo (Cuba).

A Kalai Zeini, i prigionieri ricevono l’ordine di sedersi per terra in un vasto campo recintato. Poco dopo arriva un convoglio di camion carichi di container metallici. I prigionieri sono costretti ad avanzare in fila indiana per andare a stiparsi nei container. Ecco il racconto di un ufficiale dell’Alleanza del Nord, che ha accettato di parlare a condizione di mantenere l’anonimato: «Noi eravamo responsabili della consegna dei prigionieri, e per il tratto da Zeini a Shiberghan abbiamo caricato 25 container. In ciascuno ne abbiamo fatti entrare circa 200.

Schiacciati come sardine in quegli scatoloni metallici senz’aria, nel buio pesto e a una temperatura di oltre 30°, i talebani gridano implorando clemenza. La risposta non tarda ad arrivare, come conferma un altro militare afghano: «Ho sparato sui container per praticare qualche foro per l’aria, e ci sono stati dei morti». Domanda: «Dunque, lei ha sparato per forare i container. Chi le ha dato quest’ordine?» Risposta: «Ce lo hanno ordinato i comandanti».

Ma dietro la sincerità di quest’uomo è facile intuire un’estrema crudeltà. Abbiamo potuto constatare che molti dei fori da pallottole si trovavano nella parte bassa o media dei container e non più in alto, come sarebbe stato logico se davvero l’intenzione fosse stata quella di far respirare i prigionieri.

Un tassista locale si era fermato a uno dei distributori di carburante improvvisati che costellano le strade principali: «Il giorno in cui i prigionieri sono stati trasportati da Kalai Zeini a Shiberghan, mi ero fermato per fare il pieno. Sentivo un odore strano, e ne chiesi la causa all’addetto.”Voltati e guarda”, mi disse. C’erano tre camion con sopra dei container. E da lì scorrevano rivoli di sangue. Mi si drizzarono i capelli per l’orrore. Volevo andarmene, ma non potevo muovermi perché uno dei camion [che sbarrava la strada] aveva un guasto; così sono stato costretto ad aspettare che lo togliessero di mezzo». L’indomani, mentre si trovava davanti alla sua abitazione a Shiberghan, fu colpito da uno spettacolo non meno orrendo: «Ho visto passare altri tre camion carichi di contenitori dai quali colava sangue».

Non tutti i container sigillati avevano beneficiato dei «fori di areazione». In alcuni, lasciati ermeticamente chiusi per quattro o cinque giorni, i prigionieri erano morti asfissiati. Quando infine furono aperti, di loro non rimaneva altro che un ammasso di corpi in decomposizione, urina, feci, vomito e sangue.

Chiunque entri nel carcere di Shiberghan non può fare a meno di chiedersi chi mai abbia potuto pensare di stipare in questa struttura, prevista per un massimo di 500 detenuti, un numero di prigionieri quindici volte maggiore. È stato veramente un caso se la maggior parte di quelli che avrebbero dovuto rimanere qui non sono mai arrivati? I container, con il loro carico di carne macellata, si fermarono in fila davanti all’edificio. Uno dei soldati che li avevano scortati era presente quando i comandanti del carcere ricevettero l’ordine di far sparire al più presto le prove di quanto era accaduto: «La maggior parte dei container erano forati dalle pallottole. In ciascuno erano stati rinchiusi circa 150 o 160 uomini. Erano morti quasi tutti, tranne qualcuno che respirava ancora. Gli americani hanno dato ordine a quelli di Shiberghan di portarli lontano da lì prima che venissero filmati dal satellite».

Questa accusa di coinvolgimento americano sarà cruciale per ogni inchiesta futura. Il diritto internazionale in materia – come del resto le leggi nazionali e le leggi di guerra – riposa in larga misura sull’accertamento della catena gerarchica degli ordini che hanno portato a commettere il crimine. In altri termini, si tratterà di sapere chi fosse alla testa dei responsabili di quanto è accaduto a Shiberghan.

Abbiamo individuato due dei camionisti, provenienti da regioni diverse: l’uno e l’altro, separatamente e in giorni diversi, ci hanno accompagnati nello stesso punto del deserto. Erano visibilmente scossi per aver partecipato in prima persona a questi fatti, e i loro resoconti del percorso da Kalai Zeini a Shiberghan e quindi a Dasht Leili sono agghiaccianti: 1° camionista: «C’erano circa 25 container. I prigionieri stavano malissimo perché lì dentro non potevano respirare; perciò hanno sparato sulle pareti. Molti di loro sono morti. A Shiberghan hanno scaricato quelli che davano chiaramente segni di vita. Ma c’erano parecchi talebani feriti e altri erano svenuti per la debolezza. Quelli, li abbiamo portati in un posto chiamato Dasht Leili, dove li hanno finiti a colpi d’arma da fuoco. Sono tornato qui tre volte, e a ogni viaggio ho trasportato 150 prigionieri. Urlavano e piangevano davanti alle armi spianate. Eravamo in dieci o quindici camionisti a fare lo stesso percorso».

Secondo camionista: «A Mazar mi hanno requisito il camion senza darmi un soldo. Hanno preso il mio camion e ci hanno caricato sopra un container, e io ho dovuto trasportare i prigionieri da Kalai Zeini a Shiberghan e poi a Dasht Leili, dove i soldati li hanno ammazzati. Alcuni erano ancora vivi, feriti o svenuti. Li hanno portati qui, gli hanno legato le mani e gli hanno sparato. Ho fatto quattro viaggi andata e ritorno per trasportare i prigionieri. In tutto ne avrò portato circa 550 o 600».

Primo camionista: «Nel carcere di Shiberghan c’erano alcuni jumbish (afghani di origine uzbeka). Non ho visto americani qui a Dasht Leili, ma li avevo visti nel carcere: può darsi che fossero dentro i camion».

Secondo camionista, (interrogato sulla presenza degli americani): «Sì, erano con noi qui a Dasht Leili» «In quanti erano?» «In parecchi; saranno stati trenta o quaranta. Ci hanno scortati le prime due volte; poi, nei due viaggi successivi, non li ho più visti».

A distanza di mesi, le tracce dei bulldozer sono ancora visibili sul luogo della strage, a Dasht Leili. I cadaveri erano stati gettati in una fossa e nascosti sotto tonnellate di sabbia. Secondo testimonianze oculari, i sopravvissuti al trasporto da Kalai Zeini al carcere di Shiberghan hanno subìto, per mano dei militari americani, una sorte non molto migliore di quella dei loro compagni d’armi sepolti sotto la sabbia. Un soldato afghano afferma di aver visto un militare americano uccidere un prigioniero dicendo che «Quando ero in servizio a Shiberghan, ho visto un soldato americano spezzare il collo a un prigioniero. Altre volte gli rovesciavano addosso dell’acido o qualcosa del genere. Gli americani facevano quello che volevano, noi non avevamo nessun potere per impedirglielo … Tutto era sotto il controllo del comandante americano».

Un generale dell’Alleanza del Nord, pure di stanza a Shiberghan in quei giorni, ha dichiarato: «Li ho visti con i miei occhi colpirli a pugnalate nelle gambe, tagliargli la barba e i capelli, mozzargli la lingua. A volte pareva che lo facessero solo per divertirsi. Portavano fuori un prigioniero, lo pestavano a volontà e poi lo ributtavano in cella. Ma a volte non li riportavano dentro. A volte i prigionieri scomparivano».

Tutte le persone intervistate nel nostro film si sono dichiarate disponibili a deporre davanti a qualsiasi istanza internazionale o Tribunale che persegua i crimini venuti alla luce grazie alla loro testimonianza; e se ne avranno l’occasione, sono anche pronte a identificare i militari americani coinvolti.

Dato il lungo tempo trascorso, sarà probabilmente difficile trovare le prove delle torture e degli omicidi perpetrati all’interno del carcere di Shiberghan. Ma a quattro chilometri da quella prigione c’è una fossa comune che contiene probabilmente i resti di migliaia di uomini uccisi. Se è vero che militari americani erano effettivamente coinvolti, o sono stati anzi all’origine della catena di comando che ha portato all’ordine di eliminare questi prigionieri, come affermano numerose testimonianze, o se hanno assistito senza intervenire all’esecuzione sommaria di centinaia di uomini, devono rispondere di crimini di guerra. 

Il massacro di My Lai, nel 1968, per il quale il tenente William Calley è stata giudicato da una corte marziale, può sembrare roba d’altri tempi; può darsi che per molti aspetti, da allora il mondo sia cambiato. Ma i capisaldi del diritto e della giustizia sono ancora gli stessi. E chi è innocente non dovrebbe temere che la verità venga a galla.

Jamie Doran – settembre 2002 – Le Monde Diplomatique

In conclusione, alcune frasi di un articolo che il prof. Edward Herman ha scritto nel 2004 sul massacro di Dasht-E Leili. L’autore è Professore Emerito alla Wharton School, University of Pennsylvania, economista e studioso analista dei media:

“The UN Security Council and Kofi Annan will never do anything that the United States opposes strongly, and there are no international bodies with investigative and punitive powers that will move against U.S. desires, and none will be established for special investigation and the pursuit of justice. With some honorable but powerless exceptions the world’s NGOs (organizzazioni non governative) will not make much noise about a U.S.-approved massacre, nor will the Western (and especially U.S.) media and “humanitarian intervention” intellectuals.  (…..) So once again we see how smoothly the system works, with power determining which massacres are worthy of attention and indignation, and that power causing everybody else to fall in line—the craven allies who remain silent; Kofi Annan and the UN adjusting nicely to the “political sensitivity” of dealing with a U.S.-sponsored massacre; the NGOs, a few calling for an investigation, but most of them quiet and channelling their benevolence in accord with funding sources and practicality; the mainstream media, as always, recognizing the unworthiness of the victims of U.S.”.

Gilgamesh58 – ottobre 2008

Inopinatamente nel luglio del 2009 un articolo su The New York Times ha riportato almeno momentaneamente l’attenzione sulla vicenda. L’articolo di James Risen, dal titolo “U.S. Inaction Seen After Taliban P.O.W.’s Died ” formula anche accuse abbastanza dirette all’ amministrazione Bush:

…Bush administration officials repeatedly discouraged efforts to investigate the episode, according to government officials and human rights organizations. American officials had been reluctant to pursue an investigation — sought by officials from the F.B.I., the State Department, the Red Cross and human rights groups — because the warlord, Gen. Abdul Rashid Dostum, was on the payroll of the C.I.A. and his militia worked closely with United States Special Forces in 2001, several officials said. They said the United States also worried about undermining the American-supported government of President Hamid Karzai, in which General Dostum had served as a defense official….”

(The New York Times – 10 luglio 2009)

“…Secondo funzionari di governo e le organizzazioni per i diritti umani, gli esponenti dell’amministrazione Bush ripetutamente scoraggiarono i tentativi per investigare sull’ episodio. I funzionari governativi statunitensi sono sempre stati riluttanti a mandare avanti una qualche indagine sull’argomento, intentata dall’ F.B.I., dal Dipartimento di Stato, dalla Croce Rossa e dai gruppi per i diritti umani, in quanto il signore della guerra gen. Abdul Rashid Dostum era a libro paga della C.I.A. e la sua milizia  nel 2001 aveva lavorato in stretta cooperazione con le Special Forces statunitensi. Le stesse fonti spiegavano come l’ amministrazione statunitense fosse anche preoccupata di indebolire il governo di Karzai, creato e sostenuto dagli americani, nel quale il generale Dostum era stato ministro della difesa…”

Il giornalista Risen si pone la domanda se l’ amministrazione Obama avrà la voglia,  la volontà, l’ interesse di avviare una seria indagine.

Tre giorni dopo il primo articolo, un editoriale sempre sul NYT rincara la dose:

Add this to the Bush administration’s sordid legacy: a refusal to investigate charges that forces commanded by a notorious Afghan warlord — and American ally…

ed inoltre a riguardo delle responsabilità dirette americane:

They say American forces accepted the surrender of prisoners jointly with General Dostum. A NATO base was near the grave site….
(The New York Times – 13 luglio 2009).

Nel frattempo l’ingombrante Dostum, signore della guerra alleato degli americani, ha fatto sapere che secondo i suoi dati solo circa 200 prigionieri talebani morirono e comunque a causa delle ferite e per malattia.

I gruppi per i diritti umani hanno espresso il documentato timore che le prove possano essere state distrutte. Nel  2008, un’ altro team di esperti di medicina forense ingaggiati dalle Nazioni Unite hanno scoperto che nella zona sono stati eseguiti grandi sbancamenti che suggeriscono che le fosse comuni erano state rimosse. Secondo Risen l’ opera di rimozione va avanti già da anni: “Satellite photos obtained by The Times show that the site was disturbed even earlier, in 2006”.

Nel frattempo, infine, il “volto nuovo”, l'”idealista” presidente Obama ha rafforzato l’ impegno militare statunitense in Afghanistan mandando altri 21000 soldati e pianificando l’invio di altre truppe a combattere la crescente resistenza…