PARTE SECONDA

Parte Seconda – Gli Stati Uniti d’America

Capitolo I – La Costituzione degli Stati Uniti

1. La nuova federazione di Stati indipendenti

Vincendo la guerra per l’indipendenza le 13 colonie erano diventate 13 Stati indipendenti. Lo erano sia nei riguardi dell’Inghilterra che l’una nei riguardi dell’altra. Avrebbero potuto continuare a rimanere tali. Non erano esattamente uguali l’una all’altra. L’economia del New England era di tipo fortemente mercantile, quella del Sud agricola in modo estensivo. Nel Nord predominavano i Puritani, che mal tolleravano la minima percentuale di Cattolici del Maryland e le altre minoranze Protestanti, in particolare i Quaccheri della Pennsylvania. Nel Sud c’era un’ampia maggioranza di ex membri della Chiesa d’Inghilterra, che avevano assunto varie denominazioni. Dal punto di vista politico le 13 colonie erano tutte delle oligarchie basate sul censo, ma si andava dall’oligarchia teocratica del Massachusetts all’oligarchia laica della Pennsylvania con tutti i gradi intermedi di commistione fra politica e Vecchio Testamento.

Al nord però, nell’attuale Canada, rimaneva la Gran Bretagna, che chiamava tale possedimento British North America (BNA), importante per le pellicce e per l’eventuale “passaggio a Nord-Ovest” (l’ultimo tentativo in merito sarà fatto da Roald Amundsen nel 1903-1905, che aveva appunto il compito di stabilirne definitivamente l’impraticabilità allo scopo di iniziare il taglio del Canale di Panama; il passaggio è ancora importante: è la rotta dei sommergibili nucleari americani e russi per portarsi a ridosso delle rispettive coste). Al sud e all’ovest c’era la Spagna. Inoltre le 13 ex colonie volevano inserirsi nella lotta per i mercati internazionali, obiettivo per il quale era necessaria una certa consistenza militare. Scattava così il meccanismo tipico americano dell’unione per l’interesse. Con una procedura iniziata nel 1777 fra le varie legislature e conclusa nel 1781 i 13 Stati si riunivano ufficialmente in una federazione, chiamata sempre gli Stati Uniti d’America e regolata dagli Articles of Confederation and Perpetual Union.

Gli Stati si resero conto ben presto che tale tipo di alleanza non funzionava. Non esisteva un governo federale centralizzato; non erano previsti né un apparato federale esecutivo né la figura di un Presidente, ma solo un Congresso federale che vigeva più da organo consultivo che deliberativo; esso non poteva né imporre tasse né intromettersi nei rapporti fra gli Stati. Mancava un esercito federale e ogni Stato aveva il proprio, che era più che altro una milizia (rimasta tutt’ora in ogni Stato col nome di Guardia Nazionale). Gli Stati, così, erano sempre in lite fra loro, generalmente per ragioni di commercio. Per esempio, gli Stati della costa del New England facevano pagare dogana alle merci dirette in altri Stati della confederazione (Pennsylvania e Connecticut arrivarono per questo a fare preparativi di guerra). Le cose non potevano andare avanti così, anche perché c’erano dei potentissimi interessi economici che lo statuto degli Articoli di Confederazione stava minacciando, come vedremo fra breve.

Così nel 1787 i 13 Stati si accordarono per modificare tale statuto e il risultato fu una solenne Costituzione redatta a Philadelphia da 55 delegati riuniti in assemblea con la presidenza di George Washington.

Tale Costituzione funzionò in modo eccellente, tanto è vero che è ancora in vigore.

Ogni tanto nel tempo vennero fatte delle modifiche, delle puntualizzazioni o degli aggiornamenti, chiamate Emendamenti, con una procedura di approvazione speciale prevista nella stessa Costituzione. Tali Emendamenti entrano a far parte integrante della Costituzione. I primi dieci, approvati in blocco nel 1791, sono chiamati il Bill of Rights. Per comprendere gli Stati Uniti, il loro meccanismo di funzionamento, occorre conoscere tale documento. Esso è quindi riprodotto interamente nel paragrafo seguente. Le parti della Costituzione originale del 1787 che non sono più valide perché eliminate o sostituite o modificate sono chiuse fra parentesi graffe. Le note dello scrivente sono fra parentesi quadre. Il resto, le parti non tra parentesi e gli Emendamenti, attualmente rappresentano la legge cui deve sottostare la federazione.

2. Testo della Costituzione e degli Emendamenti USA

LA COSTITUZIONE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA [redatta nel 1787 e adottata nel 1789]

PREAMBOLO

NOI IL POPOLO degli Stati Uniti, allo scopo di formare una più perfetta unione, stabilire giustizia, assicurare tranquillità domestica, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale, ed assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi e alla nostra posterità, decretiamo e stabiliamo questa COSTITUZIONE per gli Stati Uniti d’America.

Art.I

Sez. 1

Tutti i poteri legislativi qui garantiti sono riservati a un Congresso degli Stati Uniti che consisterà di un Senato e di una Camera dei Rappresentanti.

Sez. 2

a) La Camera dei Rappresentanti sarà composta di membri scelti ogni due anni dal popolo dei vari Stati e gli elettori in ogni Stato avranno gli stessi requisiti richiesti agli elettori della branca più numerosa della Legislatura dello Stato.

b) Non potrà essere un rappresentante chi non avrà compiuto i venticinque anni di età e non sia stato per sette anni un cittadino degli Stati Uniti, e chi non sia, quando eletto, un residente dello Stato in cui è stato scelto.

c) {Rappresentanti e tasse dirette saranno distribuiti fra i vari Stati che facciano parte di questa Unione secondo il loro rispettivo numero, che sarà determinato sommando all’intero numero delle persone libere, includendo coloro obbligati a servire per un definito numero di anni, ed escludendo indiani non tassati, i tre quinti di tutte le altre persone} [vedi Emend. XIV, sez. 2; le «altre persone» erano gli schiavi]. Il calcolo effettivo sarà fatto entro tre anni dopo la prima riunione del Congresso degli Stati Uniti, ed entro ogni successivo periodo di dieci anni, nella maniera che sarà indicata per legge. Il numero dei Rappresentanti non eccederà uno ogni trentamila, ma ogni Stato avrà almeno un Rappresentante; e finché tale calcolo non sarà fatto, la Stato del New Hampshire sarà abilitata a sceglierne tre; Massachusetts, otto; Rhode Island e Providence Plantations, uno; Connecticut, cinque; New York, sei; New Jersey; quattro; Pennsylvania, otto; Delaware, uno; Maryland, sei; Virginia, dieci; Carolina del Nord, cinque; Carolina del Sud, cinque; e Georgia, tre.

d) Quando capitano posti vacanti nella rappresentativa di un qualunque Stato, l’Autorità Esecutiva dovrà di conseguenza emanare bandi di elezione per riempire tali vuoti.

e) La Camera dei Rappresentanti sceglierà il proprio Portavoce e altri ufficiali; e avrà lei sola il potere di incriminare Ufficiali Federali [è la procedura di impeachment].

Sez. 3

a) Il Senato degli Stati Uniti sarà composto da due Senatori per ogni Stato, eletti {dalla loro rispettiva Legislatura} [vedi l’Emend. XVTI, sez. 1] per sei anni, ed ogni Senatore avrà un voto.

b) Immediatamente dopo la loro prima riunione in conseguenza della prima elezione, essi saranno divisi il più equamente passibile in tre classi. I seggi dei Senatori della prima classe saranno lasciati liberi alla fine del secondo anno, quelli della seconda classe alla fine del quarto anno, e quelli della terza classe alla fine del sesto anno, cosicché un terzo potrà essere scelto ogni due anni; {e se capitano posti vacanti per dimissioni, a altro, durante la sosta detta Legislatura di uno Stato, l’Esecutivo allora può fare nomine temporanee sino alla prossima riunione della Legislatura, la quale allora colmerà tali vuoti.} [vedi l’Emend. XVII, sez. 2].

c) Non potrà essere Senatore chi non avrà compiuto trenta anni di età e non sia stato per nove anni un cittadino degli Stati Uniti e chi non sia, quando eletto, un residente dello Stato per il quale è stato scelto.

d) Il Vice Presidente degli Stati Uniti sarà il Presidente del Senato, ma senza diritto di voto, a meno che i voti non siano in parità.

e) Il Senato sceglierà i propri ufficiali, e anche un Presidente pro tempore, nell’assenza del Vice Presidente, o quando questi sostituisca il Presidente degli Stati Uniti.

f) Solo il Senato avrà il potere di giudicare tutte le accuse a Ufficiali Federali. Quando riuniti per tale scopo, saranno sotto giuramento o solenne dichiarazione. Quando il processato è il Presidente degli Stati Uniti, presiederà il Presidente della Corte Suprema; e nessuno potrà essere condannato senza la concorrenza dei due terzi dei membri presenti.

g) La sentenza in caso di condanna di Ufficiali Federali non potrà andare oltre alla rimozione dalla carica, e alla ineligibilità a tenere e fruire qualunque carica onorifica, di fiducia o profitto negli Stati Uniti; ma il colpevole comunque sarà responsabile e soggetto a incriminazione, processo, sentenza e punizione, in accordo con la legge.

Sez. 4

a) I periodi, i luoghi e il sistema di tenere elezioni per Senatori e Rappresentanti sarà prescritto in ogni Stato dalla rispettiva Legislatura; ma il Congresso può in ogni momento per legge fare o modificare tali regolamenti, tranne che per i luoghi di scelta dei Senatori.

b) Il Congresso si riunirà almeno una volta all’anno, e tale riunione sarà {il primo lunedì in dicembre} [vedi Emend. XX, sez. 2] a meno che non stabiliscano per legge un altro giorno.

Sez. 5

a) Ogni camera sarà il giudice delle elezioni, conferme e nuove nomine dei propri membri, e una maggioranza di ognuna sarà un quorum per deliberare; ma un numero più basso può aggiornare di giorno in giorno, e può essere autorizzato a obbligare la presenza di membri assenti, in tale maniera, e con tali penalità, come ogni Camera può ritenere opportuno.

b) Ogni Camera può stabilire le sue regole di condotta, punire i suoi membri per condotta disordinata, e, con la concorrenza dei due terzi, espellere un membro.

c) Ogni Camera terrà un registro delle sue deliberazioni, e di quando in quando lo pubblicherà, eccetto in quelle parti che a loro giudizio richiedono il segreto; e i favorevoli e i contrari fra i membri di ciascuna Camera su qualunque questione saranno, su richiesta di un quinto dei presenti, riportati sul registro.

d) Nessuna Camera, quando il Congresso è riunito, potrà, senza il consenso dell’altra, aggiornarsi per più di tre giorni, né trasferirsi ad altro luogo tranne quello in cui le due Camere siano di già.

Sez. 6

a) I Senatori e Rappresentanti riceveranno un compenso per i loro servizi, da stabilire per legge, e pagato dalla Tesoreria degli Stati Uniti. Essi saranno in ogni caso, eccetto tradimento, criminalità e disturbo della quiete, esenti da arresto durante la loro presenza alla sessione della loro rispettiva Camera, e nel tragitto da e per essa; e non dovranno rendere conto in alcun altro luogo di ogni discorso o dibattito tenuto in una qualunque delle due Camere.

b) Nessun Senatore o Rappresentante potrà, nel periodo per il quale è stato eletto, essere nominato a un qualunque ufficio civile sotto l’autorità degli Stati Uniti che sia stato creato o il cui stipendio sia stato aumentato durante lo stesso periodo; e nessun titolare di una qualunque carica sotto l’autorità degli Stati Uniti potrà essere allo stesso tempo un membro di una Camera.

Sez. 7

a) Tutte le proposte di legge per aumentare le entrate dovranno originarsi nella Camera dei Rappresentanti; ma il Senato può proporre o concorrere con modifiche così come per le altre proposte di legge.

b) Ogni proposta di legge che abbia passato la Camera dei Rappresentanti e il Senato sarà, prima di diventare legge operante, sottoposta al Presidente degli Stati Uniti; se egli approva, lui firmerà la legge, altrimenti la rimanderà, con le sue obiezioni, a quella Camera in cui è stata originata, la quale registrerà le sue obiezioni minutamente sul suo giornale, e procederà a riconsiderarla. Se dopo tali riconsiderazioni i due terzi di tale Camera concorderanno a passare la legge comunque, questa sarà inviata, assieme con le sue obiezioni, all’altra Camera, dalla quale sarà riconsiderata nella stessa maniera, e se approvata dai due terzi di tale Camera, allora diverrà legge. Ma in tutti questi casi i voti di entrambe le Camere saranno ad appello nominale, e i nomi delle persone a favore e contro il progetto di legge saranno riportati sul giornale di ciascuna Camera rispettivamente. Se una proposta di legge qualunque non sarà ritornata indietro dal Presidente entro dieci giorni domeniche eccettuate dopo che gli è stata presentata, la medesima diverrà legge, così come se lui l’avesse firmata, a meno che non sia il Congresso che, aggiornandosi nel frattempo, ne abbia impedito il ritorno, nel qual caso il disegno in questione non diverrà legge.

c) Ogni ordine, risoluzione, o voto per il quale sia necessaria la concorrenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti eccetto che su una questione di aggiornamento sarà presentato al Presidente degli Stati Uniti; e prima che il medesimo abbia effetto, dovrà essere da lui approvato, o, essendo da lui disapprovato, dovrà essere riapprovato di nuovo dai due terzi del Senato e della Camera dei Rappresentanti, secondo le regole e limitazioni prescritte nel caso di una legge.

Sez. 8

Il Congresso avrà potere:

a) di imporre e raccogliere tasse, gabelle, imposte, e dazi, per pagare i debiti e provvedere per la difesa comune e il benessere generale degli Stati Uniti; ma tutte le tasse, imposte e dazi saranno uniformi in tutti gli Stati Uniti;

b) di contrarre prestiti sul credito degli Stati Uniti;

c) di regolare il commercio con nazioni forestiere, e fra i vari Stati, e con le tribù indiane;

d) di stabilire una uniforme regola di naturalizzazione, e uniformi leggi sulla bancarotta in tutti gli Stati Uniti;

e) di coniare moneta, regolandone perciò il valore rispetto a monete estere, e fissare i campioni di pesi e misure;

f) di provvedere per la punizione di falsificazioni di titoli e moneta corrente degli Stati Uniti;

g) di stabilire uffici stradali e caselli stradali;

h) di promuovere il progresso delle scienze e arti utili assicurando per tempi limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo dei loro rispettivi scritti e scoperte;

i) di istituire tribunali inferiori alla Corte Suprema;

j) di definire e punire atti di pirateria e crimini compiuti in acque internazionali e offese contro la legge delle nazioni;

k) di dichiarare guerra, garantire a privati il potere di rappresaglia navale, e destinare il bottino su terra e mare;

l) di formare e mantenere eserciti, ma nessuna destinazione di danaro per quell’uso sarà per un periodo maggiore di due anni;

m) di formare e mantenere una marina da guerra;

n) di fare norme per la· gestione e regolamentazione di forze navali e terrestri;

o) di richiamare la milizia [ora chiamata la Guardia Nazionale] per fare rispettare le leggi dell’Unione, sopprimere insurrezioni e respingere invasioni;

p) di provvedere alla organizzazione, armamento e disciplina della milizia, e di dirigere quella parte che ne sia richiamata per il servizio degli Stati Uniti, riservando agli Stati rispettivamente la nomina degli ufficiali, e l’autorità di addestramento della milizia secondo la norma prescritta dal Congresso;

q) di esercitare esclusivo potere legislativo in qualunque caso, su tale distretto non eccedente le dieci miglia quadrate che possa, per cessione di certi Stati, e per accettazione del Congresso, divenire la sede del governo degli Stati Uniti [ora è il Distretto di Columbia, dove si trova la capitale Washington] e di esercitare la medesima autorità su tutti i luoghi acquistati con il consenso della Legislatura dello Stato nel quale gli stessi si trovino, per la erezione di forti, magazzini, arsenali, darsene, e altri edifici utili;

r) di fare tutte quelle leggi che siano necessarie e adeguate per l’esecuzione dei sunnominati poteri, e di tutti gli altri poteri assegnati da questa Costituzione al Governo degli Stati Uniti, o ad ogni suo dipartimento o funzionario.

Sez. 9

a) Il trasferimento o importazione di tali persone che qualunque degli Stati ora esistenti riterrà opportuno di ammettere, non sarà proibita dal Congresso prima dell’anno 1808, ma una tassa o dogana può essere imposta su tale importazione, non eccedendo i dieci dollari per persona, [si tratta degli schiavi]

b) Il privilegio del diritto di habeas corpus non può essere sospeso, a meno che in casi di ribellione o invasione la sicurezza pubblica non lo richieda.

c) Nessuna punizione per legge retroattiva può essere promulgata.

d) {Nessuna tassa pro capite o altra tassa diretta sarà imposta agli Stati che nonsia in proporzione con la popolazione o calcolo della medesima come sopra stabilito di effettuare} [vedi Emend. XVI]

e) Nessuna tassa o dogana sarà imposta su merci esportate da qualunque Stato.

f) Nessuna preferenza sarà data da un qualunque regolamento, di commercio o di imposte, ai porti di uno Stato sopra quelli di un altro; né navi dirette da, o per, uno Stato saranno obbligate a entrare, fare dogana, o pagare dazi in un altro.

g) Non si preleverà danaro dalla Tesoreria se non in conseguenza di appropriazioni fatte per legge; e sarà pubblicato di tempo in tempo un rendiconto delle entrate e uscite di tutto il danaro pubblico.

h) Nessun titolo di nobiltà sarà rilasciato dagli Stati Uniti; e nessuno che ricopra una carica di profitto o fiducia sotto di loro potrà accettare qualsivoglia regalo, emolumento, carica, o titolo, di qualunque natura, da nessun re, principe, o Stato forestiero.

Sez.10

a) Nessuno Stato potrà entrare a fare parte di trattati, alleanze, o confederazioni; garantire a privati potere di rappresaglia navale; coniare moneta; emettere certificati di credito; eseguire pagamenti di debiti altro che con monete d’oro e d’argento; promulgare punizioni per legge retroattive, o leggi ex post facto, o leggi che diminuiscano il valore di contratti esistenti, o garantire titoli di nobiltà.

b) Nessuno Stato potrà, senza il consenso del Congresso, imporre tasse o dogane su importazioni ed esportazioni, eccetto per quello che sia assolutamente necessario per eseguire le sue leggi di ispezione; e il netto ricavo di tutte le dogane e dazi, imposti da uno Stato su importazioni o esportazioni, sarà destinato per l’uso della Tesoreria degli Stati Uniti; e tutte tali leggi saranno soggette alla revisione e controllo del Congresso.

c) Nessuno Stato imporrà, senza il consenso del Congresso, dazi in base al carico trasportato, manterrà truppe, o navi da guerra, in tempo di pace, né entrerà in un’intesa o blocco con un altro Stato o con una potenza straniera, o si impegnerà in guerra, a meno di non essere invaso, o in pericolo talmente imminente da non ammettere ritardi.

Art. II

Sez. I

a) Il potere esecutivo sarà investito in un Presidente degli Stati Uniti d’America. Egli terrà la sua carica per il periodo di quattro anni e, insieme al Vice Presidente, scelto per lo stesso, sarà eletto come segue:

b) Ogni Stato nominerà, nel modo che la sua rispettiva Legislatura indicherà, un numero di elettori, uguale all’intero numero di Senatori e Rappresentanti al quale lo stesso Stato è intitolato ad avere in Congresso; ma nessun Senatore o Rappresentante, o persona che ricopra una carica di fiducia o profitto sotto gli Stati Uniti, potrà essere un elettore. {Gli elettori si riuniranno nei loro rispettivi Stati, e voteranno per ballottaggio per due persone, almeno una delle quali non sarà un residente del loro stesso Stato. Ed essi faranno una lista di tutte le persone per le quali è stato votato, e dei voti ricevuti da ognuno; la quale lista essi firmeranno e autenticheranno, e trasmetteranno sigillata alla sede del Governo degli Stati Uniti, indirizzata al Presidente del Senato. Il Presidente del Senato, alla presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, aprirà tutte le buste, e i voti saranno in quel momento contati. La persona con il più alto numero di voti sarà eletta Presidente se tale numero rappresenta la maggioranza dell’intero numero degli elettori designati; e se ci sarà più di uno che abbia tale maggioranza, con un uguale numero di voti, allora la Camera dei Rappresentanti sceglierà per ballottaggio uno di loro come Presidente; e se nessuno a quel punto avrà una maggioranza, allora la suddetta Camera sceglierà nella stessa maniera il Presidente fra i primi cinque della lista. Ma nello scegliere il Presidente i voti saranno allora presi per Stati, la rappresentanza di ogni Stato avendo un voto; per questo scopo un quorum consisterà di un membro o membri da due terzi degli Stati, e una maggioranza di tutti gli Stati sarà necessaria per una scelta. In ogni caso, dopo la scelta del Presidente, quello che avrà il più grande numero di voti degli elettori sarà il Vice Presidente. Ma se rimarranno due o più con uno stesso numero di voti, allora il Senato sceglierà da quelli per ballottaggio il Vice Presidente.} [vedi l’Emend. XII]

c) Il Congresso può determinare il periodo della scelta degli elettori, e il giorno in cui essi stessi voteranno; il quale giorno sarà lo stesso per tutti gli Stati Uniti.

d) Solo un cittadino per nascita, o un cittadino degli Stati Uniti al tempo della adozione di questa Costituzione, potrà essere eligibile alla carica di Presidente; né sarà eligibile a detta carica chi non avrà compiuto l’età di trentacinque anni e non sia stato un residente degli Stati Uniti per almeno quattordici anni.

e) In caso di rimozione del Presidente dalla carica, o in caso di sua morte, dimissioni o inabilità a eseguire i doveri e poteri di detto ufficio, esso sarà sostituito dal Vice Presidente, e il Congresso può per legge provvedere per il caso di rimozione, morte, dimissioni, o incapacità, di entrambi il Presidente e il Vice Presidente, di nominare il funzionario che avrà i poteri di Presidente, e tale funzionario agirà come tale, sino a che l’incapacità sia rimossa, o un Presidente sia eletto.

f) Il Presidente, in tempi stabiliti, riceverà per i suoi servizi un compenso, il quale non potrà essere né aumentato né diminuito durante il periodo per il quale egli sia stato eletto, ed egli in detto periodo non potrà ricevere altro emolumento dagli Stati Uniti, o da uno di quelli.

g) Prima di assumere i poteri della sua carica, egli prenderà il seguente giuramento o dichiarazione solenne: “Io giuro o dichiaro solennemente di eseguire lealmente le funzioni di Presidente degli Stati Uniti, e al meglio delle mie capacità preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti”.

Sez. 2

a) Il Presidente sarà il comandante in capo dell’esercito e della marina da guerra degli Stati Uniti, e della milizia dei vari Stati, quando richiamata in servizio effettivo per gli Stati Uniti; egli può richiedere per iscritto l’opinione del principale funzionario di ognuno dei dipartimenti esecutivi, su ogni soggetto relativo ai doveri dei loro rispettivi uffici, ed egli avrà il potere di garantire reprimende e perdoni per offese contro gli Stati Uniti, eccetto che nei casi di incriminazione di ufficiali federali.

b) Egli avrà il potere, tramite e con il consiglio e l’assenso del Senato, di fare trattati, provvisto che concorrano i due terzi dei Senatori; egli proporrà, e, tramite e con il consiglio e l’assenso del Senato, nominerà ambasciatori, altri pubblici ufficiali e consoli, giudici della Corte Suprema, e tutti gli altri funzionari degli Stati Uniti, per le cui nomine non sia qui disposto altrimenti e provvisto per legge; ma il Congresso può per legge stabilire che le nomine per funzionari di più basso livello, come giudicato opportuno dallo stesso, siano riservate al Presidente, alle Corti di Giustizia, o ai capi dei dipartimenti.

c) Il Presidente avrà il potere di riempire vuoti che capitino nei periodi di aggiornamento del Senato, garantendo incarichi che spireranno al termine della loro successiva sessione.

Sez. 3

Egli darà di tanto in tanto informazioni al Congresso circa lo stato dell’Unione, e sottoporrà alla loro considerazione le misure che riterrà necessarie e adatte; egli può, in occasioni straordinarie, riunire entrambe le Camere, o una qualunque di esse, e in caso di disaccordo fra le stesse circa il periodo di aggiornamento, egli potrà decidere il predetto periodo come riterrà opportuno; egli riceverà ambasciatori e pubblici ufficiali; egli curerà che le leggi siano lealmente rispettate e dirigerà tutti i funzionari degli Stati Uniti.

Sez. 4

Il Presidente, Vice Presidente e tutti i funzionari civili degli Stati Uniti saranno rimossi dalla carica in seguito a incriminazione e condanna per tradimento, corruzione o altri gravi crimini e misfatti.

Art. III

Sez. 1

Il potere giudiziario degli Stati Uniti sarà rivestito da una Corte Suprema, e da tali corti inferiori così come il Congresso voglia di tanto in tanto ordinare e stabilire. I giudici, sia della Corte Suprema sia delle corti più basse, manterranno la loro carica con decoroso comportamento, e riceveranno per i loro servizi, in tempi prestabiliti, emolumenti che non potranno essere eliminati durante il loro periodo in carica.

Sez. 2

a) Il potere giudiziario avrà giurisdizione, secondo legge e giustizia, in tutti i casi riguardanti questa Costituzione, la legge degli Stati Uniti, e trattati fatti, o che saranno fatti, sotto la loro autorità; in tutti i casi riguardanti ambasciatori, altri pubblici ufficiali e consoli; in tutti i casi di dispute in acque internazionali; nelle controversie nelle quali gli Stati Uniti sono parte; in controversie fra due o più Stati; {fra uno Stato e cittadini di un altro Stato} [vedi Emend. XI] ; fra cittadini di diversi Stati; fra cittadini di uno stesso Stato che reclamino terre date in concessione da altri Stati, e fra uno Stato, o i suoi cittadini, e Stati, cittadini o soggetti esteri.

b) In tutti i casi pertinenti ambasciatori, altri pubblici ufficiali e consoli, e in tutti quei casi dove uno Stato sia parte in causa, la Corte Suprema avrà la giurisdizione d’origine. In tutti gli altri casi prima menzionati, la Corte Suprema avrà giurisdizione in appello, sia per materie di legge o di fatti, con quelle eccezioni e con tali regolamenti che il Congresso riterrà di fare.

c) La giudicazione di tutti i crimini, eccetto nei casi di messa in stato d’accusa di pubblici funzionari, sarà tramite una giuria; e tale processo sarà eseguito nello Stato dove il crimine e stato commesso; ma quando non commesso in nessuno Stato, il processo sarà tenuto in tale luogo o luoghi che il Congresso abbia stabilito per legge.

Sez. 3

a) Il tradimento verso gli Stati Uniti potrà consistere solo in fare a loro guerra, o nell’allearsi ai loro nemici, dando loro aiuto e sostegno. Nessuno sarà condannato per tradimento se non per la testimonianza di due testimoni presenti allo stesso chiaro atto o per confessione in corte in seduta pubblica.

b) Il Congresso avrà il potere di stabilire la pena per il reato di tradimento ma nessuna condanna per tradimento potrà ledere diritti civili di consanguinei del condannato, o confisca di beni eccetto che durante la vita del condannato stesso.

Art. IV

Sez.1

Piena fiducia e credito sarà dato in ogni Stato a pubblici atti, registri e procedimenti giudiziari di ogni altro Stato. E il Congresso può, con leggi generali, prescrivere la maniera in cui tali atti, registri e procedimenti saranno autenticati e quindi effettivi.

Sez. 2

a) I cittadini di ogni Stato avranno diritto a tutti i privilegi e immunità dei cittadini di tutti i vari Stati.

b) Una persona accusata in un qualunque Stato di tradimento, criminosità o altro reato, che fuggirà dalla giustizia e che sia trovato in un altro Stato sarà, su richiesta dell’autorità esecutiva dello Stato dal quale è fuggito, consegnato allo Stato avente giurisdizione sul crimine.

c) {Nessuna persona vincolata a servizio o lavoro in uno Stato, secondo le leggi del medesimo, che fugga in un altro Stato in conseguenza di qualunque legge o regolamento di quest’ultimo, potrà essere sollevata da tale servizio o lavoro, ma sarà riconsegnata, su richiesta della parte a cui tale servizio o lavoro è dovuto, alla parte medesima.} [è la proibizione di dare asilo a schiavi fuggiti da un altro Stato; vedi l’Emend. XIII]

Sez. 3

a) Nuovi Stati possono essere ammessi dal Congresso in questa Unione; ma non si formeranno nuovi Stati entro la giurisdizione di nessun altro Stato; né un nuovo Stato potrà formarsi tramite l’unione di due o più Stati, o parti di Stati, senza il consenso delle Legislature degli Stati interessati così come del Congresso.

b) Il Congresso avrà il potere di vendere, e di redigere tutte le regole e regolamenti a ciò necessari, il territorio o altra proprietà appartenente agli Stati Uniti; e nulla in questa Costituzione sarà così interpretato come a pregiudicare ogni rivendicazione degli Stati Uniti, o di qualunque particolare Stato.

Sez. 4

Gli Stati Uniti garantiscono a ogni Stato di questa Unione una forma di governo repubblicana, e proteggerà ciascuno di loro da invasioni; e, su richiesta della loro Legislatura, o del loro potere esecutivo quando la loro Legislatura non possa essere riunita , contro violenza domestica.

Art. V

Il Congresso, ogni volta che i due terzi di entrambe le Camere lo riterrà necessario, proporrà emendamenti a questa Costituzione, oppure, su richiesta delle Legislature di due terzi dei vari Stati, convocherà una assemblea per proporre modifiche, le quali in entrambi i casi saranno valide per tutti gli intenti e scopi come parte di questa Costituzione, quando ratificate dalle Legislature di tre quarti dei vari Stati oppure da assemblee in tre quarti degli Stati, a seconda di quale dei due sistemi di ratifica sia proposto dal Congresso; rimasto intatto che nessuna modifica che possa essere fatta prima dell’anno 1808 potrà in alcun modo intaccare il primo e il quarto paragrafo della nona sezione del primo articolo, e che nessuno Stato, senza il suo consenso, possa essere deprivato del suo paritetico suffragio al Senato.

Art. VI

a) Tutti i contratti e gli impegni sottoscritti prima della adozione di questa Costituzione saranno validi nei confronti degli Stati Uniti sotto questa Costituzione, così come sotto la Confederazione.

b) Questa Costituzione, e le leggi degli Stati Uniti che saranno fatte in suo adempimento; e tutti i trattati fatti, o che saranno fatti, sotto l’autorità degli Stati Uniti, saranno la legge suprema del paese; e i giudici in ogni Stato saranno ad essa vincolati, anche se qualche elemento nella Costituzione o nelle leggi di uno degli Stati sia ad essa contrario.

c) I Senatori e i Rappresentanti summenzionati, e i membri delle varie Legislature

di Stato, e tutti i funzionari esecutivi e giudiziari, sia degli Stati Uniti che dei vari Stati, saranno obbligati da giuramento o solenne dichiarazione, a sostenere questa Costituzione; ma l’appartenenza a una specifica religione non sarà mai richiesta come requisito per una qualunque carica o fiducia pubblica sotto gli Stati Uniti.

Art. VII

L’approvazione delle assemblee di nove Stati sarà sufficiente per l’instaurazione di questa Costituzione ratificando così la stessa.

Per scrivere questa Costituzione gli Stati avevano nominato 74 delegati; 10 di loro non parteciparono a nessuna sessione e furono sempre dichiarati assenti; 9 rifiutarono l’incarico, non si presentarono mai né furono mai dichiarati assenti. Dei rimanenti 55, 16 rifiutarono di firmare la Costituzione perché la ritenevano troppo intrusiva negli affari interni degli Stati; uno di loro, George Mason, perché non aboliva la schiavitù.

Thomas Jefferson era stato inviato come ambasciatore in Francia. Segue comunque l’elenco dei 55 delegati; un asterisco indica coloro che rifiutarono di firmare.

Broom, Jacob Commerciante Dela.

Clymer, George » Penn.

Fitzsimmons, Thomas » »

Gerry, Elbridge * » Mass.

Gilman, Nicholas » N. Ham.

Gorham, Nathaniel » »

Langdon John » N. Ham.

Mifflin, Thomas » Penn.

Morris, Robert » »

Pierce, William Leigh * » Geor.

Wilson, James » Penn.

Blount, William Latifondista N. Car.

Carroll, Daniel » Mary.

Jenifer, Daniel of St.Thomas » »

Lansing, George * » N. Yor.

Madison, James » Virg.

Martin, Alexander * » N. Car.

Mason, George * » Virg.

Mercer, John Francis * » Mary.

Pinkney, Charles » S. Car.

Rutledge, John » S. Car.

Spaight, Richard Dobbs sr » N. Car.

Washington, George » Virg.

Baldwin, Abraham Avvocato Geor.

Basset, Richard » Dela.

Bedford, Gunning jr » »

Blair, John » Virg.

Dayton, Jonathan » N. Jer.

Dickinson, John Avvocato Dela.

Few, William » Geor.

Hamilton, Alexander » N. Yor.

Houston, William * » Geor.

Houston, William Churchill * » N. Jer.

Johnson, William Samuel » Conn.

King, Rufus » Mass.

Ingersoll, Jared » Penn.

Livingston, William » N. Jer.

Martin, Luther * » Mary.

Morris, Gouverneur » Penn.

Paterson, William » N. Jer.

Read, George » Dela.

Wythe, George * » Virg.

Brearley, David Giudice N. Jer.

Ellsworth, Oliver * » Conn.

Sherman, Roger » Conn.

Strong, Caleb * » Mass.

Yates, Robert » N. Yor.

McClurg, James * Medico Virg.

McHenry, James » Mary.

Franklin, Benjamin Editore/scrittore Penn.

Butler, Pierce Militare S. Car.

Williamson, Hugh Pastore Presbiteriano N. Car.

EMENDAMENTO I [1791]

Il Congresso non farà alcuna legge allo scopo di istituire una religione di Stato, o di proibirne il libero esercizio; o di ridurre la libertà di parola, o della stampa; o di ridurre il diritto del popolo di riunirsi pacificamente, e di fare petizioni al governo per la correzione di ingiustizie.

EMENDAMENTO II [1791]

Dato che una ben preparata milizia è necessaria per la sicurezza di uno Stato libero, il diritto del popolo di possedere e portare armi non sarà compromesso.

EMENDAMENTO III [1791]

Nessun soldato sarà, in tempo di pace, acquartierato in una casa senza il consenso del proprietario, né in tempo di guerra, se non in maniera prescritta dalla legge.

EMENDAMENTO IV [1791]

Il diritto del popolo di essere sicuro nella propria persona, casa, documenti e proprietà nei confronti di immotivate perquisizioni e arresti non sarà compromesso, e non si spiccheranno mandati se non col conforto di causa probabile, supportato da giuramento o dichiarazione solenne, e con accurata descrizione del luogo da perquisire e delle persone o cose da catturare.

EMENDAMENTO V [1791]

Nessuna persona sarà tenuta a rispondere di reato capitale, o altrimenti infame crimine, se non su raccomandazione o accusa di una Giuria Magna [il Grand Jury], eccetto in casi sollevati nelle forze armate di terra o di mare, oppure nella milizia, quando in servizio effettivo in tempo di guerra e pericolo pubblico; né una persona, per lo stesso crimine, rischierà la vita o un arto per due volte; né sarà costretto in un caso penale a essere testimone contro se stesso, né di essere deprivato di vita, libertà, o proprietà, senza dovuto processo di legge; né proprietà privata sarà requisita per uso pubblico senza giusta compensazione.

EMENDAMENTO VI [1791]

In tutte le indagini criminali, l’accusato godrà del diritto a un rapido e pubblico processo, da parte di un’imparziale giuria dello Stato e distretto dove il crimine sia stato commesso, i quali distretti saranno stati previamente individuati per legge, e di essere informato della natura e causa dell’accusa; di essere portato a confronto con i testimoni contro di lui; di godere dell’uso di sistemi coercitivi per ottenere testimoni in suo favore, e di avere l’assistenza di un avvocato per la sua difesa.

EMENDAMENTO VII [1791]

In ricorsi per cause civili, dove il valore in controversia ecceda venti dollari, il diritto a processo con giuria sarà preservato, e nessuna materia trattata da una giuria sarà riesaminata in altra corte degli Stati Uniti se non in accordo con le regole della legge comune.

EMENDAMENTO VIII [1791]

Non si potrà richiedere eccessiva cauzione, né si potranno imporre multe eccessive, né si potranno infliggere pene crudeli e inusuali.

EMENDAMENTO IX [1791]

L’elencazione nella Costituzione di certi diritti non potrà essere interpretato per negare o svilire altri diritti mantenuti dal popolo.

EMENDAMENTO X [1791]

I poteri non delegati dalla Costituzione agli Stati Uniti, né da essa proibiti agli Stati, sono riservati rispettivamente agli Stati, o al popolo.

EMENDAMENTO XI [1798]

Il potere giudiziario degli Stati Uniti non potrà essere interpretato in modo da applicarsi a qualsivoglia ricorso di legge o di giustizia, iniziato o sollevato contro uno degli Stati Uniti da cittadini di un altro Stato, o da cittadini o soggetti di qualunque Stato estero.

EMENDAMENTO XII [1804]

Gli elettori si riuniranno nei loro rispettivi Stati, e voteranno per ballottaggio per il Presidente e il Vice Presidente, uno dei quali, almeno, non potrà essere un residente dello stesso loro Stato; essi citeranno nei loro voti la persona votata come Presidente, e, in distinte votazioni, la persona votata come Vice Presidente, ed essi faranno liste distinte di tutte le persone votate per Presidente, e di tutte quelle votate per Vice Presidente, e del numero di voti per ognuno, le quali liste essi firmeranno e autenticheranno, e trasmetteranno sigillate alla sede del governo degli Stati Uniti, dirette al Presidente del Senato; il Presidente del Senato aprirà, alla presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, tutti i certificati e i voti saranno allora contati; la persona avente il più alto numero di voti per il Presidente sarà il Presidente, se tale numero rappresenterà una maggioranza dell’intero numero di elettori nominati; e se nessuno avrà tale maggioranza, allora fra quelli, non più di tre, aventi i più alti numeri di voti nella lista di quelli votati per Presidente, la Camera dei Rappresentanti sceglierà immediatamente, per ballottaggio, il Presidente. Ma nello scegliere il Presidente, i voti saranno presi per Stati, la rappresentanza di ogni Stato avendo un voto; a questo scopo un quorum consisterà di un membro o membri dai due terzi degli Stati, e una maggioranza di tutti gli Stati sarà necessaria per una scelta. {E se la Camera dei Rappresentanti non sceglierà un Presidente per quanto ad essa spetti il diritto di scelta, prima del quarto giorno di marzo prossimo a venire, allora il Vice Presidente agirà come Presidente, come nel caso di morte o altra incapacità costituzionale del Presidente.} [vedi Emend. XX] La persona avente il più alto numero di voti per Vice Presidente, sarà il Vice Presidente, se tale numero sarà una maggioranza dell’intero numero di elettori nominati, e se nessuno avrà una maggioranza, allora, fra i due più alti numeri della lista, il Senato sceglierà il Vice Presidente; un quorum a tale scopo consisterà nei due terzi dell’intero numero dei Senatori, e una maggioranza dell’intero numero sarà necessaria per una scelta. Ma nessuna persona costituzionalmente inelegibile alla carica di Presidente potrà essere eligibile a quella di Vice Presidente degli Stati Uniti.

EMENDAMENTO XIII [1865]

Sez. 1

Né schiavitù o servizio involontario, eccetto che per un crimine del quale l’individuo sia stato debitamente condannato, potrà esistere entro gli Stati Uniti, o in qualunque luogo soggetto alla loro giurisdizione.

Sez. 2

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare questo articolo con appropriata legislazione.

EMENDAMENTO XIV [1868]

Sez. 1

Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato nel quale risiedono. Nessuno Stato farà o farà rispettare leggi che riducano i privilegi o le immunità di cittadini degli Stati Uniti; né uno Stato potrà privare una persona qualunque di vita, libertà o proprietà, senza il dovuto processo di legge; né potrà negare a qualsivoglia persona nella sua giurisdizione l’equa protezione della legge.

Sez. 2

I Rappresentanti saranno ripartiti fra i vari Stati a seconda del loro rispettivo numero, contando l’intero numero di persone in ogni Stato, escludendo indiani non tassati. Ma quando il diritto di voto a qualunque elezione per la scelta di elettori del Presidente e Vice Presidente degli Stati Uniti, di Rappresentanti in Congresso, di funzionari esecutivi e giudiziari di uno Stato, o di membri della rispettiva Legislatura, e negata a qualcuno degli abitanti maschi di tale Stato, che sia almeno di ventuno anni di età, e cittadino degli Stati Uniti, o in qualunque modo limitata, eccetto che per partecipazione a ribellione, o altro crimine, la base di rappresentanza di tale Stato sarà ridotta nella stessa proporzione che il numero di tali cittadini maschi incide sul totale dei cittadini maschi di età di almeno ventuno anni di tale Stato.

Sez.3

Non potrà essere un Senatore o Rappresentante in Congresso, o Elettore del Presidente o Vice Presidente, o ricoprire qualsiasi carica, civile o militare, sotto gli Stati Uniti, o sotto un qualunque Stato, chi, avendo in precedenza fatto giuramento, come un membro del Congresso, o come un funzionario degli Stati Uniti, o come membro di Legislatura di uno Stato, o come funzionario esecutivo o giudiziario di uno Stato, di sostenere la Costituzione degli Stati Uniti, si sia reso poi colpevole di insurrezione o ribellione contro gli stessi, o che abbia dato aiuto e assistenza ai suoi nemici. Ma il Congresso può, con il voto dei due terzi di ogni Camera, rimuovere tale proibizione.

Sez. 4

La validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato per legge, inclusi debiti per pagamento di pensioni e per servizi resi nella soppressione di insurrezioni o ribellioni, non sarà messa in dubbio. Ma né gli Stati Uniti o qualunque Stato assumerà o pagherà un debito o obbligazione originata per aiutare insurrezione o ribellione contro gli Stati Uniti, né rivendicazioni per la perdita o emancipazione di un qualunque schiavo; ma tutti questi debiti, obbligazioni o rivendicazioni saranno ritenuti illegali e annullati.

Sez. 5

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare, tramite adeguata Legislazione, le provvisioni di questo articolo.

EMENDAMENTO XV [1870]

Sez. 1

Il diritto di voto di cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o un qualunque Stato sulla base di razza, colore, o precedente condizione di schiavitù.

Sez. 2

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare questo articolo con appropriata legislazione.

EMENDAMENTO XVI [1913]

Il Congresso avrà il potere di imporre e raccogliere tasse sul reddito, da qualunque fonte derivato, senza porre quote fra i vari Stati, e senza riguardo a censo o calcolo di popolazione.

EMENDAMENTO XVII [1913]

a) Il Senato degli Stati Uniti sarà composto da due Senatori per ogni Stato, eletti dal popolo dei medesimi, per sei anni; e ogni Senatore avrà un voto. Gli elettori in ogni Stato avranno i requisiti richiesti per elettori della branca più numerosa delle Legislature di Stato.

b) Quando capitano sedi vacanti nella rappresentanza di uno Stato al Senato, l’autorità esecutiva di tale Stato pubblicherà bandi di elezione per ricoprire tali vuoti; salvo che la Legislatura dello stesso Stato può autorizzare il suo potere esecutivo a fare nomine temporanee sino a che il popolo non abbia colmato i vuoti con elezioni come la Legislatura stabilisca.

c) Questo Emendamento non sarà interpretato in modo tale da menomare l’elezione o periodo in carica di qualsivoglia Senatore eletto prima che il medesimo entri in vigore come parte della Costituzione.

EMENDAMENTO XVIII [1919]

Sez. 1

{Dopo un anno dalla ratifica di questo articolo la manifattura, vendita, o trasporto di liquori inebrianti entro gli Stati Uniti, l’importazione in questi, o l’esportazione da questi e da tutti i territori soggetti alla sua giurisdizione a scopo di bevanda, è con il presente articolo proibito} [è l’Emendamento del Proibizionismo].

Sez. 2

{Il Congresso e i vari Stati avranno il congiunto potere di applicare questo articolo tramite appropriata legislazione.}

Sez. 3

{Questo articolo sarà inoperativo a meno che non sia stato ratificato come un emendamento della Costituzione dalle Legislature dei vari Stati, come previsto dalla Costituzione, entro sette anni dalla data di questa proposta agli Stati da parte del Congresso.} [vedi l’Emend. XXI]

EMENDAMENTO XIX [1920]

Sez. 1

Il diritto di voto di cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualunque Stato sulla base del sesso.

Sez. 2

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare questo articolo tramite appropriata legislazione.

EMENDAMENTO XX [1933]

Sez. 1

I termini del Presidente e Vice Presidente spireranno alla mezzanotte del ventesimo giorno di gennaio, e i termini di Senatori e Rappresentanti alla mezzanotte del terzo giorno di gennaio, negli anni in cui sarebbero spirati se questo articolo non fosse stato ratificato; e i termini dei loro successori inizieranno in quell’istante.

Sez. 2

Il Congresso si riunirà almeno una volta all’anno, e tale sessione inizierà alla mezzanotte del terzo giorno di gennaio, a meno che lo stesso non scelga per legge un’altra data.

Sez. 3

Se, al momento prefissato per l’inizio della carica di Presidente, il Presidente eletto sarà deceduto, il Vice Presidente eletto diverrà Presidente. Se un Presidente non sarà stato eletto prima del tempo fissato per l’inizio del suo termine, o se il Presidente eletto sarà trovato inelegibile alla carica, allora il Vice Presidente eletto agirà come Presidente sino a che un Presidente sarà trovato eligibile; e il Congresso può per legge provvedere per il caso in cui né un Presidente eletto né un Vice Presidente saranno trovati eligibili, dichiarando chi allora agirà come Presidente, o la maniera in cui chi agirà come Presidente sarà selezionato, e tale persona agirà di conseguenza sino a che un Presidente o un Vice Presidente saranno trovati eligibili.

Sez. 4

Il Congresso può per legge provvedere per il caso della morte di qualunque fra le persone dalle quali la Camera dei Rappresentanti può scegliere un Presidente, in ogni caso il diritto di scelta spetterà a loro, e per il caso della morte di qualunque delle persone dalle quali il Senato può scegliere il Vice Presidente, ogni qual volta il diritto di scelta spetterà a loro.

Sez. 5

Le sezioni 1 e 2 andranno in vigore il quindicesimo giorno di ottobre seguente la ratifica di questo articolo.

Sez. 6

Questo articolo sarà inoperativo a meno che esso non sia stato ratificato come un emendamento della Costituzione dalle Legislature di tre quarti dei vari Stati entro sette anni dalla data della sua proposta.

EMENDAMENTO XXI [1933]

Sez. 1

Il diciottesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti è con il presente abolito.

Sez. 2

Il trasporto o l’importazione in uno Stato, territorio o possessione degli Stati Uniti per consegna o uso negli stessi di liquori inebrianti in violazione alle loro leggi, è qui proibito.

Sez. 3

Questo articolo sarà inoperativo a meno che non venga ratificato come un emendamento alla Costituzione da assemblee nei vari Stati, come previsto nella Costituzione, entro sette anni dalla data della proposta del medesimo agli Stati da parte del Congresso.

EMENDAMENTO XXII [1951]

Sez. 1

Nessuno potrà essere eletto alla carica di Presidente più di due volte, e nessuno che abbia ricoperto la carica di Presidente, o agito come Presidente, per più di due anni di un termine per il quale qualcun altro era stato eletto Presidente, sarà eletto alla carica di Presidente per più di una volta. Ma questo articolo non si applicherà a una persona in carica come Presidente quando questo articolo e stato proposto dal Congresso, e non impedirà a una persona che possa aver ricoperto la carica di Presidente, o agito come Presidente, durante il termine in cui questo articolo diviene operante, di continuare a tenere la carica di Presidente, o di agire come Presidente, durante il rimanente di tale termine.

Sez. 2

Questo articolo sarà inoperativo a meno che non sia stato ratificato come un emendamento alla Costituzione dalle Legislature di tre quarti dei vari Stati entro sette anni dalla data della proposta del medesimo agli Stati da parte del Congresso.

EMENDAMENTO XXIII [1961]

Sez. 1

Il Distretto costituente la sede del Governo degli Stati Uniti, nella maniera in cui il Congresso riterrà, nominerà: un numero di elettori del Presidente e del Vice Presidente pari all’intero numero dei Senatori e Rappresentanti in Congresso al quale il Distretto sarebbe intitolato se fosse uno Stato, ma in ogni caso non più dello Stato meno popoloso; essi si aggiungeranno a quelli nominati dagli Stati, ma saranno considerati, per gli scopi della elezione del Presidente e Vice Presidente, come elettori nominati da uno Stato; ed essi si riuniranno nel Distretto ed eseguiranno quei doveri previsti dall’Emendamento XII.

Sez. 2

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare questo articolo con appropriata legislazione.

EMENDAMENTO XXIV [1964]

Sez. 1

Il diritto dei cittadini degli Stati Uniti di votare in qualunque primaria od altra elezione per Presidente o Vice Presidente, o per Senatore o Rappresentante in Congresso, non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o qualunque Stato per mancato pagamento di qualsiasi tassa pro-capite o altra tassa.

Sez. 2

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare questo articolo con appropriata legislazione.

EMENDAMENTO XXV [1967]

Sez. 1

In caso di rimozione del Presidente dal suo ufficio o di sua morte o dimissioni, il Vice Presidente diverrà Presidente.

Sez. 2

Ogniqualvolta si presenti un vuoto nella carica di Vice Presidente, il Presidente nominerà un Vice Presidente che assumerà la carica previa conferma per voto di maggioranza di entrambe le Camere del Congresso.

Sez. 3

Ogniqualvolta che il Presidente invia al Presidente pro tempore del senato e al Portavoce della Camera dei Rappresentanti [lo Speaker] una dichiarazione scritta attestante che lui stesso è incapace di esercitare i poteri e doveri della sua carica, e sino a che non invia ai medesimi una dichiarazione scritta del contrario, tali poteri e doveri saranno esercitati dal Vice Presidente come Presidente facente funzioni.

Sez. 4

Ogniqualvolta che il Vice Presidente e una maggioranza dei principali funzionari del dipartimento esecutivo oppure come di altro dipartimento come il Congresso potrà per legge stabilire, invierà al Presidente pro tempore del Senato e al Portavoce della Camera dei Rappresentanti una loro dichiarazione scritta attestante che il Presidente è incapace di esercitare i poteri e doveri del suo ufficio, il Vice Presidente assumerà immediatamente i poteri e doveri della carica come Presidente facente funzioni. Dopo di che, quando il Presidente invierà al Presidente pro tempore del Senato e al Portavoce della Camera dei Rappresentanti la sua dichiarazione scritta attestante che nessuna incapacità sussiste, egli riotterrà i poteri e doveri della sua carica a meno che il Vice Presidente e una maggioranza dei principali funzionari del dipartimento esecutivo o di altro dipartimento come il Congresso potrà per legge stabilire, non invii entro quattro giorni al Presidente pro tempore del Senato e al Portavoce della camera dei Rappresentanti una loro dichiarazione scritta che il Presidente e incapace di esercitare i poteri e doveri della sua carica. Allora il Congresso deciderà l’argomento, riunendosi per quello scopo entro ventiquattro ore se non già in sessione. Se il Congresso, entro ventuno giorni dal ricevimento dell’ultima dichiarazione scritta, o, se il Congresso non è in sessione, entro ventuno giorni dopo che il Congresso è chiamato in riunione, determina con due terzi dei voti di entrambe le Camere che il Presidente è incapace di esercitare i poteri e doveri della sua carica, allora il Vice Presidente continuerà a esercitare tali poteri e doveri come Presidente facente funzioni; altrimenti il Presidente riassumerà i poteri e doveri della sua carica.

EMENDAMENTO XXVI [1971]

Il diritto di voto di cittadini degli Stati Uniti che siano almeno di diciotto anni di età non sarà negato o limitato dagli Stati Uniti o da uno Stato sulla base dell’età.

Sez. 2

Il Congresso avrà il potere di fare rispettare questo articolo con appropriata legislazione.

3. Commento alla Costituzione USA

Non bisogna mai dimenticare questo: la Costituzione degli Stati Uniti non è la Costituzione di uno Stato, ma di una federazione di Stati, ognuno dei quali ha una sua propria Costituzione. Già nel corso della Guerra di Indipendenza tutti gli Stati si erano dati una Costituzione, che era certamente in vigore al tempo dell’adozione della Costituzione federale. Anche oggi ognuno dei 50 Stati della federazione ha una sua Costituzione. L’Emendamento X del 1791 dice che i poteri non dati esplicitamente al Congresso federale e non esplicitamente proibiti agli Stati sono riservati a questi ultimi.

Al momento dell’adozione della Costituzione federale tali Stati erano tutti delle oligarchie basate sulla ricchezza, funzionanti con un sistema politico repubblicano e un sistema economico liberista. Tutti nelle loro Costituzioni prevedevano requisiti minimi di ricchezza per poter votare, che erano all’incirca quelli già visti; gli abilitati al voto andavano così dal 15% circa dei maschi bianchi e maggiorenni del teocratico Massachusetts al 30% circa della “liberale” Pennsylvania, attestandosi su una media del 25% fra tutti gli Stati. Tutti gli Stati prevedevano anche requisiti minimi di ricchezza per poter ricoprire cariche pubbliche elettive. La Costituzione del Massachusetts del 1780, per esempio, vietava l’elezione alla carica di Senatore a chi non aveva una proprietà terriera del valore di almeno 300 sterline, o capitale liquido e altri beni immobili del valore almeno di 600 sterline, mentre non poteva essere eletto Governatore (diventato l’equivalente statale del Presidente federale dopo l’indipendenza) chi non possedeva almeno mille sterline in beni di vario genere.

Ebbene, la Costituzione federale non fa altro che cristallizzare tale sistema negli Stati, impedirgli che nel futuro possa evolvere in quel senso che oggi viene chiamato “democratico” (la parola “democrazia”, perfettamente conosciuta al tempo, non è mai citata nella Costituzione, né lo era stata nella Dichiarazione di Indipendenza). Essa non interviene nei requisiti elettorali richiesti dagli Stati: ecco che le loro legislature non perderanno mai il loro vantaggio iniziale e diminuiranno sì nel tempo i requisiti di ricchezza richiesti per il voto, sino ad annullarli dopo la metà del Novecento, ma solo quando sicure che altri accorgimenti non li potranno sostituire altrettanto efficacemente. Inoltre la Costituzione federale prevede gli stessi requisiti richiesti dagli Stati per la scelta degli elettori del Presidente, Vice Presidente, Senatori e Rappresentanti federali — Art. I, Sez. 2, par. a); Art. I, Sez. 3, par. a); Art. II, Sez. 1, par. a) —. Ancora di più la Costituzione assicura in ogni Stato un sistema economico di libero mercato. L’Art. I, Sez.10 impedisce a uno Stato di proteggere la propria economia da quella degli altri Stati, magari ponendo barriere doganali all’importazione di merci prodotte in Stati dove la mano d’opera è particolarmente a buon mercato. Gli Stati sono così posti in feroce concorrenza economica fra di loro, e costretti ad allinearsi a quelli più concorrenziali, che sono quelli dove il lavoro è meno protetto, dove il capitalismo è più libero.

La possibilità del suffragio universale fu certamente esaminata e coscientemente scartata. Così è verbalizzata la dichiarazione il delegato Roger Sherman: «Dovesse [il ricco] avere più voti che il povero in relazione ai suoi più alti averi, i diritti del povero cesserebbero di essere al sicuro». Il delegato John F. Mercer: «Il popolo non può conoscere e giudicare il carattere dei candidati». Alexander Hamilton disse che «Tutte le comunità si dividono nei pochi e nei molti. I primi sono ricchi e ben nati e gli altri [sono] la massa del popolo, che raramente giudica e stabilisce giustamente»42. James Madison, chiamato The Father of the Constitution per esserne stato il massimo artefice insieme con James Wilson e Gouverneur Morris, riassunse la generale attitudine dell’Assemblea dicendo che il grande obiettivo cui dovevano dirigersi i loro sforzi era quello di proteggere i diritti della proprietà privata contro maggioranze politiche, mantenendo allo stesso tempo la parvenza di un governo “popolare”. Disse Madison: «Un aumento di popolazione aumenterà per forza la proporzione di coloro che tribolano sotto tutte le durezze della vita e che segretamente sospirano per una distribuzione più equa delle sue benedizioni. Costoro possono nel tempo sorpassare numericamente quelli che sono al di sopra dello stato di indigenza. Secondo la legge del suffragio universale il potere passerà nelle mani dei primi. Non sono ancora stati fatti tentativi di ridistribuzione agraria in questo paese, ma dei sintomi di uno spirito livellatore, come ci e sembrato di capire, sono apparsi in quantità sufficiente ad avvertirci del futuro pericolo». Gouverneur Morris è a verbale col seguente concetto: «Si è sempre detto in genere che la vita e la libertà valgono più della proprietà. Un’analisi accurata della materia, al contrario, dimostrerebbe che la proprietà è sempre stata il principale soggetto della società… Se la proprietà, allora, è il principale soggetto del governo, certamente ci dovrebbe essere una misura della influenza di quelli che saranno i più interessati dall’azione di quel governo» (43).

La Costituzione americana parla molto dell’elezione del Presidente e del Vice Presidente federale, addentrandosi in minuto dettaglio nel processo elettivo; però non parla del finanziamento delle campagne elettorali dei candidati. Ciò è dunque lasciato agli Stati e questi, oltre a richiedere che i candidati fossero di già ricchi, non prevedevano un finanziamento pubblico delle campagne, che così era lasciato ad altri ricchi. Solo negli anni Settanta una pluralità di Stati ha previsto forme di finanziamento pubblico, ma facendo in modo che potessero essere facilmente eluse. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che tuttora la classe politica dirigente del paese è espressione dell’establishment ricco, dal Presidente e dai Senatori e Rappresentanti federali, ai Governatori e Senatori e Rappresentanti statali.

Molte sono le agevolazioni per la classe mercantile messe al sicuro nella Costituzione: la proibizione di porre tasse sulle merci esportate — Art. I, Sez. 9, par. c) —; la proibizione per uno Stato di diminuire il valore dei debiti contratti — Art. I, Sez. 10, par. a) —; la proibizione di porre barriere tariffarie a merci provenienti da altri Stati — Art. I, Sez. 10, par. b) —; il divieto di porre tasse federali sul reddito, ma solo pro capite — Art. I, Sez. 9, par. d) —. Benjamin Franklin, che era anche uno scrittore e inventore, approfittò per far riconoscere all’Art. I, Sez. 8, par. h) diritti d’autore e di brevetto.

Messe al sicuro, si diceva, perché la procedura prevista per l’approvazione di un Emendamento è così macchinosa, e la maggioranza richiesta così schiacciante (il 75% delle Legislature di Stato), da essere quasi impossibile. Si pensi che in più di due secoli — e secoli che hanno visto le più straordinarie e rapide trasformazioni della Storia — sono stati approvati solo 26 Emendamenti, dei quali 10 tutti in una volta nel 1791. La proibizione di porre tasse federali sui redditi ha resistito per 126 anni, e cioè sino al 1913, quando già da decenni si erano formati colossali monopoli posseduti da una sola persona fisica (i vari Carnegie, Colgate, Rockfeller, Vanderbilt, Schiff, Morgan ecc., per gran parte della loro vita non pagarono mai un dollaro di tassa sul reddito). Ancora oggigiorno alcuni Stati non prevedono tasse statali sui redditi ma solo excise taxes, tasse indirette sul venduto (una specie di IVA; sono però basse, mediamente del 7%). Gli Stati che le hanno introdotte applicano percentuali poco progressive e che vanno in genere dal 3 al 10%; in media sono sul 5%.

Nella Costituzione la proprietà privata è protetta in negativo. Essa era già sacra nelle varie Costituzioni statali, e fra i vari poteri dati dalla Costituzione al Congresso quello di interferire con la proprietà privata non c’è. Non c’è neanche un limite a ciò che può diventare proprietà privata, anche da parte di una sola persona. Alcuni fatti inquietanti sulla proprietà privata successi in qualche Stato dopo il 1787 indussero però le legislature statali e federale a dare nel Bill of Rights una protezione anche in positivo alla medesima.

Altro cardine della filosofia Puritana è la sacralità del contratto commerciale — spesso chiamato un Covenant. La Guerra di Indipendenza aveva rovinato molte persone, che non potevano più pagare i debiti contratti. In quel periodo le carceri rigurgitavano di debitori insolventi. Nel 1786, un anno prima della stesura della Costituzione, un gruppo di più di 2.000 agricoltori, artigiani e lavoranti di Boston si era sollevato per protestare contro l’implacabilità e la rapacità dei procedimenti di bancarotta, coi loro sequestri e le loro incarcerazioni. Guidati da Daniel Shays, un veterano della Guerra di Indipendenza, avevano assalito un arsenale militare (lo Springfield Arsenal) e chiuso i tribunali dai quali piovevano le ingiunzioni. La Shays Rebellion era stata domata nel sangue da vigilantes assunti dai commercianti di Boston, ma occorreva ribadire il concetto. Inoltre la Guerra di Indipendenza aveva anche vuotato le casse di molti Stati. I relativi Titoli di Stato, acquistati da molti finanzieri e latifondisti, rischiavano di non essere pagati in pieno e avevano così perso di valore. Come scoprì nel 1913 lo storico americano Charles Beard rovistando negli archivi della Tesoreria federale, quasi tutti i Padri Fondatori, George Washington in testa, possedevano grandi quantità di quei titoli. Di qui il par. a) della Sez. 10 dell’Art. I della Costituzione: «Nessuno Stato potrà […] eseguire pagamenti di debiti altro che con monete d’oro e d’argento […] o [fare] leggi che diminuiscano il valore di contratti esistenti».

I Titoli di Stato tornarono al valore originale e si era stabilito per sempre che il governo federale non poteva interferire nei contratti commerciali fra Stati e privati e fra privati e privati: chi non pagava un debito aveva i beni sequestrati e poteva anche finire in carcere.

Il paragrafo è più importante del previsto: i “contratti di assunzione” del mondo del lavoro sono “contratti” e quindi ricadono in esso. Il Congresso federale non vi può interferire, per quanto iniqui possano essere. Il Congresso federale lo ha fatto, per esempio fissando una tariffa oraria minima (la minimum wage che ora è di 5,25 dollari) e legiferando in materia di età minima, requisiti di sicurezza e igienici, ma lo ha fatto sulla base del potere datogli dalla Costituzione di… regolare il commercio. É chiaramente una forzatura, e tutta l’attuale legislazione americana sul lavoro è incostituzionale. Ci vorrebbe un Emendamento, ma non lo si può fare perché intaccherebbe il valore del “contratto commerciale”, un pilastro del capitalismo selvaggio. Comunque anche così, vista la Costituzione che lascia la materia agli Stati, tale legislazione non può essere più di tanto. E non lo è: gli Stati Uniti sono il paese industrializzato dove il lavoro è meno protetto. In particolare qui la libertà di licenziamento, se prevista dal contratto di assunzione, come sempre avviene, è praticamente assoluta. Nel novembre 1997 la Corte Suprema della California ha ribadito che nello Stato si può anche licenziare un dipendente solo perché troppo vecchio e allora più costoso, come fatto dalla Loral con il ragioniere di 49 anni Michael Marks. Non è troppo diverso negli altri Stati.

Un altro caso plateale di forzatura della Costituzione è quello relativo all’aborto. La Costituzione, non parlandone, non dà al Congresso federale il potere di ammetterlo nell’Art. I, Sez. 8, né glielo nega nella Sez. 9, né impedisce agli Stati di legiferare in materia nella Sez. 10. Ecco che l’argomento è lasciato agli Stati. Il Congresso ha invece legiferato in materia, legalizzando l’aborto, ma lo ha potuto fare solo dopo che una Corte Suprema particolarmente “liberale” (la “famigerata Corte Warren” come dicono negli States) nel 1973 aveva fatto finta di trovare nella Costituzione una implicita garanzia al diritto alla privacy dei cittadini, facendo di nuovo finta che l’aborto rientrasse in quello. Nel 1973, 46 Stati su 50 proibivano l’aborto. Comunque tale decisione della Corte Warren è ancora (giustamente) contestata e non è detto non debba essere ribaltata.

Il dibattito sulla schiavitù fu poco più di una formalità. I delegati del Sud erano franchi in materia. Pierce Butler della Carolina del Sud: «Quello che gli Stati del Sud vogliono è che i loro negri non gli siano portati via, così come hanno voglia di fare alcuni gentiluomini di casa e fuori casa».

I gentiluomini di casa e fuori di casa erano George Mason, presente come delegato della Virginia, e Thomas Jefferson, come s’è detto, mandato in Francia. Mason è a verbale con un concetto sottile, che ora si dovrebbe poter apprezzare nella sua valenza biblico-economica. Disse Mason: «Ogni proprietario di schiavi è nato un piccolo tiranno. Lui porta il giudizio del Cielo in una nazione. Siccome i popoli non possono essere premiati o puniti nell’aldilà, lo devono essere in questo».

L’opinione prevalente fra i Puritani la chiariva Oliver Ellsworth, delegato del Connecticut: «La moralità e la saggezza della schiavitù sono considerazioni che appartengono solo ai singoli Stati. Quello che arricchisce una parte arricchisce il tutto, e gli Stati sono i migliori giudici dei loro interessi».

Nell’occasione Ellsworth espresse un concetto di importanza generale nella storia americana: l’idea che «quello che arricchisce una parte arricchisce il tutto» sarà il vero movente, anche se in genere inespresso, di molte decisioni dell’elettorato e del governo federale americano; in particolare è in base alla medesima idea, applicata a parti anche piccolissime della popolazione, che gli Stati Uniti articoleranno sempre la loro politica estera, in base alla stessa idea sempre appoggiata dalla pluralità della popolazione. Il National Interess del quale spesso parlano i presidenti federali americani altro non è che questo.

Gli Stati con molti schiavi volevano far rientrare questi nel numero usato per calcolare i Rappresentanti al Congresso federale. L’ottennero, ma in base allo stesso numero dovettero accettare di contribuire alle casse federali. L’Art. I, Sez. 2, par. c) calcola ogni schiavo come i tre quinti di un americano. Gli stessi Stati volevano anche risolvere l’annoso problema del recupero degli schiavi che di tanto in tanto trovavano rifugio nel New Englands in Pennsylvania. L’ottennero con il par. c) della sez. 2 dell’Art. IV.

L’Articolo I, alla Sez. 9, par. a), sembrerebbe una piccola vittoria degli antischiavisti. Non era così. Al riguardo l’applicazione del Teorema di Ellsworth non era chiara. Due Stati — il Maryland e la Virginia — erano sovraccarichi di schiavi e per conto loro ne avevano già proibito l’importazione di nuovi per non farne crollare il prezzo. Altri due Stati, invece — la Georgia e la Carolina del Sud —, per via dell’altissima mortalità riscontrata fra i loro schiavi mandati a lavorare negli acquitrini coltivati a risaie, non ne avevano mai abbastanza. Nelle loro fattorie modello, gli Stati del Maryland e della Virginia producevano ottimi schiavi, facendo ingravidare le femmine dai neri Mandingo provenienti dalla Costa d’Avorio — i migliori. Maryland e Virginia, così, volevano chiudere le frontiere, mentre Georgia e Carolina del Sud le volevano tenere aperte. Non era chiaro quale era la parte che arricchendosi avrebbe arricchito il tutto. Ancora una volta Oliver Ellsworth offriva all’Assemblea il ragionamento decisivo: «Dato che gli schiavi si moltiplicano così rapidamente che è più conveniente allevarli che importarli, mentre nelle malsane paludi di riso sono necessarie importazioni dall’estero, se noi non andassimo più in là di quello che si chiede, noi saremmo ingiusti nei riguardi della Georgia e della Carolina del Sud. Non pasticciamo. Come la popolazione aumenta ci sarà una tale abbondanza di lavoratori in miseria da rendere gli schiavi inutili».

Così i Padri Fondatori si accordarono per dare vent’anni di tempo perché l’aumento della popolazione bianca rendesse l’importazione di schiavi inutile, e fu scelta la data del 1808 come momento per riconsiderare la cosa. In quell’anno il Congresso, un po’ perché nel New England stava, prendendo quota la corrente antischiavista e un po’ perché effettivamente c’erano frotte di bianchi in miseria, decise di abolire l’importazione di nuovi schiavi. Ma nessuno andava nelle risaie e così dal 1808 al 1860 furono importati come minimo altri 250.000 schiavi dall’Africa, nonostante la proibizione della Costituzione.

Con tutto ciò, che per un “mondo ingenuo” è senz’altro una “verità evidente di per se stessa”, la Costituzione degli Stati Uniti sin dalla sua adozione fu incensata dalla retorica di Stato americana come ineguagliabile espressione di genuina democraticità, la prima al mondo e sempre nei tempi la migliore. Si dovette attendere il 1913 negli Stati Uniti perché un qualunque studioso mettesse in dubbio tale certezza di Stato, o osasse darla alle stampe. Si trattò niente di meno che di Charles Austin Beard (1874-1948), il più grande storico americano di tutti i tempi. Beard, autore di innumerevoli testi di storia, fra i quali nel 1927 la monumentale Nascita della civilizzazione americana, si occupò della Costituzione ai primi del Novecento. A quel tempo il sistema capitalista messo in piedi dalla Costituzione del 1787 si era evoluto secondo la sua logica interna e concordemente ai mezzi tecnologici messi a disposizione dalla Rivoluzione Industriale che, nata in Gran Bretagna sul finire del XVIII secolo, era giunta negli Stati Uniti verso la metà del XIX. Gli Stati Uniti erano diventati così una spaventosa plutocrazia, con tutti gli effetti sociali e morali del caso. L’economia era dominata da alcuni privati, titolari degli enormi monopoli formatisi negli anni a cavallo del secolo in tutti i settori tranne che in quello delle Poste, riservato dalla Costituzione al governo federale nell’Art. I, Sez. 8, par. g): nell’acciaio, nel petrolio, nei fertilizzanti agricoli, nelle carni di manzo, nei saponi, nei medicinali, nel trasporto ferroviario, in tutto. Questi uomini incredibilmente ricchi non solo non pagavano tasse sul reddito né personale né aziendale, ma governavano: facevano eleggere i loro uomini nelle amministrazioni comunali, statali e federali, e dappertutto negli Stati Uniti norme, regolamenti e leggi erano studiate e applicate per favorirli ancora di più.

La miseria, con tutte le degradazioni morali a essa collegate, era largamente diffusa in più della metà della popolazione; la disoccupazione, sempre molto sostenuta negli Stati Uniti benché occultata dalle cifre ufficiali e dai lavori sottopagati, nel 1930 colpiva un terzo della forza-lavoro, per rimanere su livelli analoghi sino alla Seconda Guerra Mondiale (e ciò nonostante il decantato New Deal del presidente Roosevelt, che non ebbe in effetti alcun risultato). Ma tutto era perfettamente in regola, tutto era “costituzionale”.

Beard pensò che valesse la pena approfondire la genesi della Costituzione del 1787. Fece così la scoperta cui si è accennato: i Founding Fathers di Philadelphia possedevano grandi quantità di quei Titoli di Stato che stavano perdendo di valore. Il Presidente dell’Assemblea costituente, il generale George Washington, era uno dei più grandi creditori dello Stato della Virginia. Da quello spunto nacque tutta una nuova interpretazione della Costituzione americana da parte di Beard, in antitesi a quella consolidata negli USA e simile a quella da me per sommi capi appena esposta.

Così, nel 1913, Beard pubblicò An economic interpretation of the Constitution of the United States, libro famoso nella cerchia intellettuale americana. Nell’introduzione all’edizione del 1935 egli scrisse:

«Una cosa comunque i miei maestri mi hanno insegnato, e cioè ad andare al di là delle pagine di storia scritte dai miei contemporanei e a leggere le “fonti”. Applicando tale metodo io ho letto le lettere, le carte, e i documenti correlati alla Costituzione scritti dagli uomini che presero parte alla sua stesura e alla sua adozione. E con mia sorpresa trovai che molti Padri della Repubblica consideravano il conflitto sulla Costituzione come derivato essenzialmente da conflitti di interessi economici, ì quali avevano una certa distribuzione geografica o settoriale. Questa scoperta, venendo in un momento in cui tali concezioni della storia erano trascurate dagli scrittori della medesima, mi procurò lo “shock” della mia vita».

Beard così sintetizzò il frutto delle sue ricerche:

«Il movimento per la Costituzione degli Stati Uniti fu originato e realizzato principalmente da quattro gruppi di interessi corporati che erano stati danneggiati dagli Articoli della Confederazione: denaro, titoli pubblici, manifatture, commercio ed armatoria navale. I primi solidi passi verso la formazione della Costituzione furono presi da un piccolo e attivo gruppo di uomini direttamente interessati tramite le loro proprietà personali nell’esito della loro opera. Nella decisione di convocare la Convenzione che stese la Costituzione non trovò posto alcun voto popolare, né direttamente né indirettamente. Una vasta massa nullatenente era, sotto l’apparenza dei requisiti comunemente richiesti per votare, esclusa sin dall’inizio dalla possibilità di partecipareattraverso rappresentanti al lavoro di progettare la Costituzione. I membri della Convenzione di Philadelphia che stesero la Costituzione erano, con poche eccezioni, immediatamente, direttamente e personalmente interessati, e traevano vantaggi economici dall’istituzione del nuovo sistema.

«La Costituzione fu essenzialmente un documento economico basato sul concetto che fondamentali diritti di proprietà privata sono precedenti al governare e moralmente al di là di maggioranze popolari. La maggioranza dei membri della Convenzione sono a verbale per riconoscere una posizione speciale e protettiva nella Costituzione alla rivendicazione di proprietà. Nel processo di ratificazione della Costituzione circa i tre quarti dei maschi adulti mancarono di votare sulla materia, essendosi astenuti dalle elezioni nelle quali vennero scelti i delegati alle convenzioni statali, o per loro indifferenza o per loro mancato raggiungimento dei requisiti di proprietà. La Costituzione fu ratificata da un voto espresso probabilmente da non più di un sesto dei maschi adulti. É materia di discussione se una maggioranza dei voti partecipanti alle elezioni per le convenzioni statali di New York, Massachusetts, New Hampshire, Virginia e Carolina del Sud approvarono davvero la ratificazione della Costituzione.

«I leader politici che supportarono la Costituzione nelle convenzioni chiamate per approvarla rappresentavano gli stessi gruppi economici dei membri della Convenzione di Philadelphia; e in un grande numero di argomenti essi erano anche direttamente e personalmente interessati nell’esito dei loro sforzi.

«Nel processo di ratificazione divenne manifesto che la linea di separazione pro e contro la Costituzione era fra sostanziali interessi corporati da una parte e piccola agricoltura e indebitamento dall’altra.

«La Costituzione non fu mai creata dall’“intero popolo” come i giuristi hanno detto; ma fu il prodotto del lavoro di un gruppo consolidato i cui interessi non conoscevano confini di Stato ed erano veramente nazionali nella loro ottica».

Charles Beard è stato l’iniziatore di quella teoria che trova la chiave di interpretazione della società americana nel dominio esercitato dal big business dei Washington e Morris alla fine del Settecento, dei Rockfeller e Carnegie dei primi del Novecento, e delle grandi multinazionali del resto del secolo. Tale teoria ha trovato un certo successo in America fra gli immancabili critici del “sistema”, e soprattutto in Europa, alle cui sinistre è ancora cara. In realtà questa teoria ha fatto più male che bene. Beard aveva ragione nel dire che la Costituzione del 1787 — che alle multinazionali diede il via — è un documento antidemocratico prodotto da qualche decina di portatori di grandi interessi corporati e di già multinazionali, ma ciò che egli non ha spiegato è la longevità, la vitalità, di tale Costituzione. Tale teoria quindi è stata da molti esclusa per il suo semplicismo, e ha fatto allora pendere la bilancia verso il suo opposto, e cioè verso l’interpretazione della stessa Costituzione come genuinamente democratica. Beard insomma non dice perché quella Costituzione, pure chiaramente congegnata per fare gli interessi del grande capitale, andava però sostanzialmente bene anche alla popolazione americana in generale. Ed è qui la chiave di interpretazione della società americana.

Comunque An economic interpretation of the Constitution of the United States infastidì l’establishment e costò a Beard la cattedra alla Columbia University nonostante la sua fama internazionale. Nel 1917 egli protestò per il licenziamento di due giovani professori della stessa università, J. McKeen Cattell e Henry W. L. Dana, motivato dal fatto che erano contrari all’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale; ciò scatenò rancori latenti nel corpo accademico ed egli fu attaccato e offeso così duramente da doversi dimettere. Trovò poi un impiego presso il comune di New York.

4. Commento al Bill of Rights

Il Bill of Rights fu dovuto alle proteste di Thomas Jefferson. Ricevuta una copia della nuova Costituzione a Parigi, si infuriò e scrisse all’amico Madison:

« Ti dirò ora quello che non mi piace. Primo, l’omissione di una carta dei diritti, che preveda chiaramente, e senza l’aiuto di sofismi, per libertà di religione, libertà di stampa, protezione contro armate di stanza, restrizione di monopoli… e processi con giuria in ogni caso che deve essere trattato dalle leggi del paese, e non dalle leggi delle nazioni. Dire, come fa Mr. Wilson, che una carta dei diritti non era necessaria, perché nel caso del governo federale tutto quello che non è dato è proibito, mentre nel caso del governo degli Stati tutto quello che non è proibito è dato, può essere andato bene per l’udienza cui quel discorso era riservato… Lasciami concludere che una carta dei diritti è quello di cui il popolo è legittimato ad avere contro qualunque governo su questa terra, generale o locale»44.

Jefferson aveva compreso appieno dove risiedesse il pericolo della nuova Costituzione: nei troppi poteri dati agli Stati. Egli conosceva gli Stati e sapeva che se non fossero stati limitati dalla Costituzione federale nessuno si sarebbe trovato al sicuro dall’ingiustizia e dall’arbitrio. Soprattutto lo spaventavano gli Stati del New England: erano delle cupe teocrazie dove si poteva essere incarcerati per aver celebrato il Natale a casa propria o per non essere andati alla funzione protestante quando conscienciously and conveniently lo si sarebbe potuto fare (la Costituzione del Massachusetts del 1780 ammetteva per la prima volta altre confessioni (congregazioni) protestanti; le restanti, in particolare la cattolica, continuavano a essere escluse; la presenza alle funzioni rimaneva obbligatoria per tutti).

Le obiezioni di Jefferson non vennero respinte dalla borghesia americana; neanche di quella sua élite che aveva congegnato e fatto quasi proditoriamente approvare la Costituzione. In fondo, a pensarci bene, l’idea di limitare un po’ i poteri degli Stati nei confronti dei cittadini poteva far comodo anche a loro. Quella borghesia era formata da un gruppo piuttosto numeroso di persone dotate di uno spirito imprenditoriale notevolissimo. Erano pieni di iniziativa e aggressività commerciale; sapevano ciò che volevano, e potevano e volevano fare da sé. C’erano enormi risorse naturali da sfruttare in America; tra loro e il Mercato dell’Oriente era rimasto un Ovest quasi disabitato e quasi indifeso, da colonizzare nel tragitto. Appena creato un nuovo regime, la prima cosa che volevano era che li si lasciasse fare. La Costituzione di due anni prima andava bene allo scopo, ma si poteva fare meglio. È vero che delegava tutti i poteri di regolare la vita dei cittadini alle legislature degli Stati, ed è vero che tali legislature non erano fatte altro che da loro stessi; c’erano però in esse anche delle variabili indipendenti che con gli affari avevano una correlazione tale da poter generare esiti imprevedibili. Prendiamo la religione, per esempio. Ad eccezione di un paio, tutti gli Stati avevano una religione ufficiale. Alcuni di quegli Stati ponevano come uno dei requisiti per votare l’appartenenza alla loro Chiesa ufficiale.

Nulla invero impediva che non potessero fare lo stesso quando si trattava di concedere licenze commerciali, o di vendere all’asta i territori. Come scrisse Beard, quella classe aveva interessi che non conoscevano confini di Stato.

Anche la proprietà privata poteva essere difesa meglio. Al riguardo erano successe cose inquietanti. Alla conclusione della Guerra di Indipendenza molti Stati avevano confiscato le proprietà di quei 100.000 americani che erano fuggiti all’estero, e anche di quei molti rimasti ed accusati di collusione col nemico. Tali confische costituivano un precedente pericoloso. Da tali considerazioni, con Jefferson da una parte e Madison dall’altra, nacque allora il Bill of Rights, materialmente scritto da James Madison.

Il significato esatto del Bill of Rights è una garanzia di carattere legale che la classe di imprenditori e proprietari che aveva creato una sua forma di governo si dava nei confronti dello stesso. Non a caso l’unica richiesta di Jefferson a non essere esaudita fu quella relativa alla limitazione dei monopoli privati (di abolizione della schiavitù Jefferson non parlava più; al suffragio universale secco era anche lui contrario).

Il Bill of Rights garantiva anche che il processo politico con cui l’establishment oligarchico dominava il tutto fosse democratico; in altre parole, che non fosse precluso a nessuno se non a causa della sua condizione economica. Perciò era necessaria la libertà di religione, di stampa e di parola, il diritto in ogni caso a un processo con giuria (il diritto a portare armi ha la sua ragion d’essere nel fatto che le compagnie mercantili, specie quelle operanti alla frontiera, tenevano alle dipendenze molti uomini in armi; anche le navi mercantili disponevano di equipaggi armati). In caso contrario sarebbe stato possibile che una parte di quella classe, formatasi in nome di un qualche interesse economico particolare, una volta raggiunta la maggioranza parlamentare danneggiasse il rimanente. L’establishment non era infatti omogeneo, ma al suo interno convivevano interessi contrastanti: gli artigiani contro gli industriali, i produttori contro i distributori, gli importatori contro gli esportatori ecc. In particolare, si stava già profilando in quel periodo il grande contrasto intestino che avrebbe portato alla Guerra di Secessione: quello fra il grande capitale liquido del Nord-Est puritano e il grande latifondismo negriero del Sud. La proprietà privata ha nel Bill of Rights un grande rilievo, come si vede dagli Emendamenti III, IV e V.

Quest’ultimo prevede la requisizione di proprietà privata per uso pubblico, ma dice che deve avvenire con “giusta compensazione”, e cioè a valore di mercato pieno. Non c’è alcun limite a ciò che può diventare proprietà privata.

L’Emendamento più importante è il X, di grande valenza politica. Il sistema politico americano non si regge sulla Costituzione del 1787, ma sui poteri che quella silenziosamente lascia alle legislature degli Stati. Dopo aver fatto uscire alcune pecore dall’ovile dei poteri degli Stati, il Decimo Emendamento chiude il cancello, e stabilisce che le pecore rimaste dentro sono dentro.

Note al Capitolo I

42 – The economic basis of politics and related writings by Charles A. Beard a cura di William Beard, Alfred A. Knopf Inc., New York, 1957, p. 141.

43 – Ivi, p. 139.

44 – The life and selected writings of Thomas Jefferson, cit., p. 436.

Capitolo II – L’espansione territoriale

1. Il mercato dell’Oriente

Diversi e concomitanti — come sempre accade per le grandi cose — erano stati i motivi che avevano portato alla Guerra di Indipendenza; ma il motivo decisivo, benché naturalmente inespresso come — di nuovo — sempre accade per le stesse grandi cose, era stato in ultima analisi il Mercato dell’Oriente negato. Se dopo la Pace di Parigi del 1763 la Gran Bretagna avesse dichiarato l’Ohio Territory colonizzabile la guerra non ci sarebbe stata. Non perché così tanti aspiranti coloni sarebbero stati accontentati, ma perché la strada per il Pacifico era aperta ai grandi commercianti e armatori del New England. Questi avrebbero continuato con i loro mugugni nei confronti della monarchia, ma non avrebbero scatenato i loro media sulla strada della sollevazione. Con gli indiani si sarebbe fatto come sempre, così come con gli schiavi.

Anche le tasse non sarebbero state un problema vitale, come del resto non lo era mai stato.

Ottenuta l’indipendenza, il Mercato dell’Oriente fu dunque subito il grande obiettivo della politica estera americana; come abbiamo visto lo fu sin dall’inizio della guerra, il cui primo atto da parte americana era stato il tentativo di prendere la zona dei Grandi Laghi.

Era chiaro che occorreva raggiungere la costa del Pacifico, una strada lunga da fare e densa di incognite di politica estera ma doverosa, e che avrebbe anche portato molti vantaggi collaterali e niente affatto trascurabili. L’Ovest, allora abitato da un numero di indiani variabile da uno a tre milioni (a seconda delle stime) e da pochi spagnoli nella parte meridionale, andava conquistato per impedire che le grandi potenze che vi erano già presenti vi mettessero radici, o che qualcun’altra vi giungesse. La Spagna, già proprietaria della parte meridionale e della vallata ad ovest del Mississippi, vantava rivendicazioni anche su tutta la costa del Pacifico, per via della dichiarazione di possesso fatta da Balboa nel 1513. Sul tratto settentrionale di tale costa, chiamato Oregon Territory, vantava rivendicazioni anche la Gran Bretagna, almeno nominalmente, per via di esplorazioni compiute prima da Francis Drake e più tardi dai capitani Cook e Vancouver. Infine c’era la Russia, il cui esploratore Vitus Bering nel 1741 aveva reclamato l’Alaska e tutta la costa sino alla Baia di San Francisco (dove in effetti i russi avrebbero tenuto un fortino sino al 1824). L’unica assente era la Francia, ma avrebbe potuto ritornare.

Quindi l’Ovest costituiva un’occasione di per sé, dal punto di vista sia economico sia di politica interna. Dal punto di vista economico si trattava di enormi estensioni a disposizione degli americani dei 13 Stati, con tutte le implicazioni macro- e microeconomiche del caso. Dal punto di vista politico le nuove colonizzazioni sarebbero servite come valvola di sfogo per le masse di disoccupati e diseredati vari che già si erano venute formando all’interno degli stessi Stati.

Durante tutto l’Ottocento, per giustificare l’espansione all’Ovest i media e i politici americani usarono lo slogan del Manifest Destiny, fecero finta di essere convinti che Dio avesse loro assegnato il destino di dominare la fascia centrale dell’America settentrionale dall’Atlantico al Pacifico. Dunque bisognava farlo davvero. Del Mercato dell’Oriente si continuava a non parlare. Nel corso dell’adempimento del Destino Manifesto furono creati 33 nuovi Stati dell’Unione; saranno tutti citati nei paragrafi seguenti, ma trascurando i dettagli della loro formazione (territori aggiunti o tolti successivamente, costituzione o meno in territorio ecc.).

2. L’Ohio Territory e la Louisiana

All’Ovest, dunque. Il primo passo fu l’apertura dell’Ohio Territory alla colonizzazione. Già per il 1780 più di 100.000 pionieri avevano valicato i monti Allegheny. Si trattava di persone di medio livello economico che acquistavano appezzamenti di terreno (circa 500-1.000 acri a testa, e anche più) dalle grandi società puritane, cui si aggregavano masse sempre maggiori di nullatenenti; provenivano in maggioranza dal New England. Nel 1787, l’anno della Costituzione, il Congresso approvò un decreto, detto Proclama del Nord-Ovest, che stabiliva che un territorio, una volta raggiunto il quorum di 60.000 abitanti, indiani esclusi, sarebbe stato ammesso nell’Unione come Stato paritetico. Il primo territorio a raggiungere il quorum fu il Kentucky nel 1792; seguirono poi il Tennessee nel 1796, l’Ohio nel 1803, l’Indiana nel 1816, il Mississippi nel 1817, l’Illinois nel 1818, l’Alabama nel 1819, il Michigan nel 1837 e il Wisconsin nel 1848.

Nel 1792, ancora prima del Kentucky, era stato ammesso come Stato dell’Unione il Vermont, un’area relativamente piccola confinante con Canada (a nord), New Hampshire, New York e Massachusetts, che si era praticamente costituito come Stato durante la Guerra di Indipendenza. I Green Mountain Boys di Ethan Allen, che all’epoca avevano battuto gli inglesi a Crown Point e preso il forte Ticonderoga, erano appunto una milizia locale, nata anni prima per scacciare i settlers che giungevano dalla colonia del New York. In realtà Ethan Allen era del New Hampshire. Nel 1777 il Vermont aveva adottato una sua Costituzione, che vietava la schiavitù e addirittura aboliva i requisiti di censo per votare. Nonostante ciò, per considerazioni strategiche nei riguardi del BNA e in cambio della sua ratifica della nuova Costituzione federale avvenuta nel gennaio del 1792, nel febbraio seguente era stato ammesso nell’Unione come quattordicesimo Stato. Sempre nell’ambito del New England nel 1820, scorporandosi dal Massachusetts, si formava lo Stato del Maine.

Un’altra scorporazione avveniva in Virginia, dove nel 1863 si formava lo Stato del West Virginia.

Nel 1802 la Spagna era stata costretta a cedere a Napoleone una buona parte dei suoi possedimenti coloniali nell’America del Nord, e precisamente la Louisiana (che all’epoca comprendeva un territorio molto più vasto della Louisiana attuale), quella parte compresa fra il fiume Mississippi a est e le Montagne Rocciose a ovest, grosso modo un triangolo rovesciato con vertice nella città di New Orleans e della dimensione pari circa a un terzo degli attuali Stati Uniti. Napoleone aveva bisogno di danaro per finanziare le guerre contro la Gran Bretagna e gli sembrò un’ottima idea vendere la Louisiana agli Stati Uniti; così con una fava avrebbe preso due piccioni: ne avrebbe ricavato del danaro e inoltre avrebbe agevolato il raggiungimento del Pacifico da parte degli americani, che smaniavano di fare concorrenza alla Gran Bretagna. L’acquisto fu concluso nel 1804 dal presidente Thomas Jefferson per una somma pari a 15 milioni di dollari. Immediatamente Jefferson ordinò una esplorazione del tratto settentrionale della Louisiana, soprattutto per valutare se da lì esistesse un facile accesso all’Oregon Territory, un’area che da alcuni anni aveva assunto un particolare significato per gli americani, come vedremo nel prossimo paragrafo. La spedizione di quaranta soldati fu comandata da due ufficiali, Meriwether Lewis e William Clark, e durò due anni, dal 1804 al 1806. Con l’aiuto determinante di una donna indiana, tale Sacajawea, la spedizione attraversò per la prima volta le Montagne Rocciose e giunse sulla costa del Pacifico appunto in corrispondenza dell’Oregon Territory. La strada era aperta e dal territorio della Louisiana — sempre con il sistema di venderlo a blocchi a compagnie finanziarie che poi li rivendevano parcellizzati ai coloni, i quali pensavano a loro volta a disinfestarli dagli indiani facendoli immediatamente decuplicare di valore — furono ricavati nel tempo, in tutto o in alcuni casi in buona parte, i seguenti Stati dell’Unione: Louisiana nel 1812; Missouri nel 1821; Arkansas nel 1836; Iowa nel 1846; Minnesota nel 1858; Kansas nel 1861; Nebraska nel 1867; Dakota del Nord, Dakota del Sud e Montana nel 1889; e infine Wyoming nel 1890.

I circa 60.000 francesi che vivevano in quei territori dai tempi di La Salle si trovarono ad affrontare le orde di coloni americani provenienti da est. Pur riconosciuti dal governo federale come cittadini americani, essi furono però messi da parte dai coloni, dei quali non condividevano del resto la mentalità predatoria, e si ritirarono sempre più a sud, sino a stabilizzarsi nell’unico luogo dove gli americani non si avventuravano, le paludi dell’odierna Louisiana. Oggigiorno i loro discendenti vivono ancora là col nome di Cajouns, pescando crowfish e cacciando di frodo gli alligatori, ottimi per la carne e la pelle. Formano una comunità a parte e parlano un dialetto di derivazione francese, e un inglese poco comprensibile. Non amano i forestieri, in primo luogo gli americani; la stessa polizia cerca di non addentrarsi nelle loro paludi.

3. La guerra delle pellicce

I viaggi commerciali verso la Cina partirono subito dopo la conclusione della pace con la Gran Bretagna, quando questa aveva garantito di non cercare di affondare i mercantili americani là diretti. Naturalmente dovevano partire dai porti del New England. Già nel 1784 il mercantile Empress of China, il cui armatore altri non era che quel Robert Morris che non per nulla diceva di vedere nella Guerra di Indipendenza ottime opportunità di «aumentare le nostre fortune», partendo da New York aveva raggiunto la Cina, tornando con un carico di tè e stoffe, la stessa merce principalmente trattata dalla East India Company. Lo stesso viaggio fu ripetuto poco dopo dal mercantile Grand Turk partito dal porto di Salem, la città delle streghe. Tali spedizioni non erano però troppo remunerative: il problema, oltre alla lunghezza del viaggio, era il costo delle pellicce, fissato in pratica dagli inglesi del BNA. Un significativo passo avanti in questo senso lo fece Robert Gray, il capitano del brigantino Columbia basato a Boston. Gray partì sì da Boston, ma fece tappa sulla costa dell’Oregon, dove passò l’inverno del 1792 barattando con gli indiani chincaglierie per pellicce, che poi scambiò in Cina con tè e stoffe. Il risultato netto dell’operazione di Gray era eccezionale: chincaglierie per le preziose merci cinesi.

Come faceva la Gran Bretagna. C’era però l’aggravio della permanenza sulla costa del Pacifico. L’Oregon Territory comunque era diventato oltremodo importante e aveva reso ancora più convincente la strategia di giungere al Pacifico via terra per costruirvi grandi porti oceanici.

I tempi però erano necessariamente lunghi. Si formò così subito, negli anni a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, una lobby di mercanti del New England che premeva per la ripresa delle ostilità con la Gran Bretagna allo scopo di strapparle una volta per tutte il controllo dei Grandi Laghi. La lobby era capeggiata da John Jacob Astor (1763-1848), un magnate del commercio delle pellicce che nel 1811 avrebbe istituto un centro per la raccolta delle medesime anche nell’Oregon Territory, diventato poi la città di Astoria. Astor era il proprietario della American Fur Company, e là egli faceva concorrenza all’inglese Hudson Bay Company, da anni in loco. Faceva produrre in serie il Wampun, una cintura di cuoio ornata con conchiglie che gli indiani usavano tra loro come moneta e così pagava le pellicce. La pressione della lobby delle pellicce condizionò la politica estera americana sino all’ottenimento dello scopo, che giunse poco dopo la presidenza Jefferson, durata dal 1801 al 1809.

In quel periodo le occasioni di portare guerra alla Gran Bretagna non erano mancate. Questa era costantemente in conflitto con la Francia, che sollecitava l’intervento americano se non altro per l’appoggio dato durante la Guerra di Indipendenza, e per il relativo trattato di alleanza firmato nel 1778, pure se scaduto nel 1800. Ma Jefferson non voleva entrare in guerra; buon conoscitore dell’Europa, riteneva la Gran Bretagna troppo forte e troppo interessata alle pellicce del BNA per cederlo agli americani. Neanche gli incidenti navali con i belligeranti cambiarono il suo atteggiamento. Gli Stati Uniti insistevano nel diritto di commerciare con entrambe le nazioni, col risultato che sia inglesi che francesi spesso affondavano i loro mercantili. La lobby delle pellicce riuscì solo a fare in modo che gli Stati Uniti protestassero ufficialmente con la Gran Bretagna. Per evitare di finire trascinato nel conflitto, nel 1807 Jefferson riuscì anche a far approvare una legge chiamata Embargo Act, che proibiva ogni traffico mercantile con i due contendenti. L’embargo naturalmente non funzionò e al Congresso continuarono le polemiche anti-inglesi. Un Rappresentante contrario alla guerra osservò che ascoltando tutti i discorsi degli esponenti della fazione interventista al Congresso, chiamati allora per la prima volta War Hawks (“falchi della guerra”, espressione rimasta nel linguaggio politico internazionale), egli in realtà non udiva altro che «una parola, come il grido dell’avvoltoio… un eterno, monotono suono: Canada, Canada, Canada!» (45).

Il nuovo presidente James Madison era più sensibile alla lobby delle pellicce. Nel 1810 il Congresso approvò un nuovo embargo navale, ma questa volta solo nei confronti dell’Inghilterra. Questa non desiderava ulteriori problemi e dopo alcuni incidenti decise di estendere il blocco navale alla Francia, cosa che fece il 16 giugno 1812. Palesemente ignaro della risoluzione, ma in realtà forzando i tempi, il Congresso dichiarava guerra alla Gran Bretagna due giorni dopo. L’alibi fu che occorreva difendere il Principio della Libertà di Navigazione. Nel 1812 ci furono alcuni scontri navali di scarso interesse e quindi, nel 1813, una serie di ponderati attacchi americani nella zona dei Grandi Laghi. Ma anche questa volta essi furono respinti, e per vendetta durante la ritirata diedero fuoco a una città — la capitale York, ora chiamata Toronto. L’anno successivo gli inglesi sbarcarono nella baia di Chesapeake e per ritorsione incendiarono il Campidoglio e la Casa Bianca, sede del Presidente. Seguirono altri scontri sporadici sino a che gli americani, consci di non poter prendere i Grandi Laghi neanche questa volta, accettarono un trattato di pace, firmato a Gand il 24 dicembre 1814 e che lasciava inalterata la situazione. Nel 1817 Stati Uniti e Gran Bretagna firmarono il Trattato Rush-Bagot che limitava la presenza militare di entrambi nella regione dei Grandi Laghi.

4. Gli Stati Uniti del Messico

Gli Stati Uniti presero la Florida quando era ancora colonia della Spagna, che a sua volta l’aveva riottenuta dalla Gran Bretagna nel 1783 dopo avergliela consegnata nel 1763. La Florida era unita al resto dei possedimenti spagnoli tramite una fascia costiera chiamata Florida Occidentale (West Florida, come oggi), la cui città più importante era, ed è, Pensacola. La Florida infastidiva i piantatori della confinante Georgia perché gli schiavi fuggitivi vi trovavano rifugio sia tra gli spagnoli, che non ammettevano la schiavitù, sia più spesso fra gli indiani Seminole, che li aggregavano volentieri alle tribù, dove trovavano moglie (diversi neri della Florida vantano una parte di sangue Seminole). Nel 1813 Andrew Jackson, che sarebbe stato presidente federale dal 1829 al 1837 e al quale era stato dato il comando della milizia del Tennessee per deportare gli indiani Creek nel territorio dell’Oklahoma, fece alcuni raid in Florida alla ricerca di schiavi fuggiti. Nel 1818, sempre con la stessa carica, invase la Florida Occidentale occupandola di fatto; prese anche Pensacola e vi fece impiccare due inglesi, tali Arbuthnot e Ambrister, provocando un incidente internazionale. La Spagna era già impegnata nella guerra di indipendenza messicana che era iniziata nel 1807, e nel 1819 girò la proprietà della Florida agli Stati Uniti in cambio dell’annullamento di un debito di 5 milioni di dollari che aveva contratto con alcuni privati americani, i quali fra l’altro stavano appunto chiedendo al loro governo il sequestro della Florida. La Florida fu organizzata come un territorio di insediamento nel 1822 e divenne uno Stato paritetico nel 1845.

Contemporaneamente si stava svolgendo nel resto dei possedimenti coloniali spagnoli in America una serie di guerre di indipendenza, che nel 1820 avrebbero praticamente portato la Spagna alla fine del suo impero coloniale nel continente.

Il Messico raggiunse l’indipendenza dalla Spagna nel 1821, dopo undici anni di guerre e guerriglie. Nel 1824 si proclamò repubblica con il nome di Stati Uniti del Messico, che è ancora oggi il suo nome ufficiale: Estados Unidos Mexicanos. Il suo territorio comprendeva tutti i possedimenti spagnoli dell’America settentrionale, quindi oltre all’attuale Messico anche tutta la parte sud-occidentale degli odierni Stati Uniti.

Nello stesso 1824 gli Stati Uniti annunciarono la loro politica ufficiale nei riguardi del continente americano, detta Monroe Doctrine (Dottrina Monroe) dal nome del presidente in carica James Monroe. La Dottrina Monroe è tuttora valida: fu sostituita con la Good Neighborhood Policy (Politica di buon vicinato) dal presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1933, ma poi fu riadottata integralmente nel 1961 dal presidente John Fitzgerald Kennedy. Essa è quindi ancora la politica ufficiale degli Stati Uniti nei confronti dell’America Latina. La Dottrina Monroe si poteva, anzi si può, condensare nei tre punti seguenti:

1) Gli Stati Uniti avrebbero considerato una provocazione a loro stessi qualunque intervento europeo in uno qualunque dei nuovi Stati che si erano formati o che si sarebbero formati nelle Americhe;

2) Gli Stati Uniti perciò si sarebbero opposti con le armi a ogni tentativo di stabilire nuove colonie europee sul suolo americano;

3) Gli Stati Uniti, in cambio, non si sarebbero immischiati negli affari europei.

Gli Stati Uniti si facevano garanti dell’indipendenza dei popoli delle Americhe emancipati dal giogo coloniale europeo; in cambio si sarebbero tenuti al di fuori delle faccende europee. Garantire l’indipendenza dei nuovi Stati delle Americhe non era altro che una nuova dichiarazione di principio, dopo quella del “Destino Manifesto”.

Ciò che la Dottrina Monroe in realtà diceva era che gli Stati Uniti avevano deciso di sostituire gli europei nello sfruttamento coloniale del continente americano, con quei metodi che avrebbero ritenuto i più proficui e i più adatti a loro. Tali metodi verranno messi a punto definitivamente nei primi decenni del Novecento.

Il primo a sperimentare la Dottrina Monroe fu, com’era naturale, il neoindipendente e confinante Messico. I suoi guai cominciarono nel 1822, quando il suo governo concluse un accordo con un imprenditore statunitense di nome Stephen Austin. Austin ottenne il permesso di emigrare con qualche centinaio di compatrioti nel vasto e poco abitato Tejas — come era chiamata dai messicani quella zona a settentrione comprendente l’attuale Texas più ampie parti degli attuali Nuovo Messico, Colorado, Oklahoma, Kansas e Wyoming. Qui il governo messicano vendette loro ampi appezzamenti di terreno lungo il fiume Brazos a prezzi stracciati (30 dollari ogni 420 ettari di terreno produttivo); in cambio chiedeva loro di conformarsi alle leggi e alla religione del paese, la cattolica. Il governo messicano tenne fede ai patti con larghezza, ma Austin e i suoi erano partiti con altre idee.

Austin voleva adottare col Tejas una tecnica simile a quella già adottata con successo nell’Ohio Territory anni prima, quando era ancora formalmente di proprietà della Francia, ma poco abitato: infiltrarsi in punta di piedi e quindi sollevarsi chiedendo l’autonomia e l’ingresso nell’Unione. Gli statunitensi non seguivano le leggi messicane; non nascondevano il loro disprezzo per la religione cui pure dicevano di essersi convertiti, e anche per i messicani stessi — non ci furono né matrimoni misti né cortesie di buon vicinato. Soprattutto, gli statunitensi si erano portati dietro alcune decine di schiavi neri. Ciò faceva inorridire sia i messicani in generale sia il loro governo, che chiese la cessazione della pratica. Gli statunitensi col loro formalismo da Vecchio Testamento dissero che non c’erano leggi scritte in Messico che vietavano la schiavitù. Allora, nel 1833, il Parlamento messicano fece una legge antischiavitù appositamente per loro. Ma gli statunitensi stipulavano accordi con i messicani come con gli indiani, senza nessuna intenzione di rispettarli.

Nonostante le tensioni il Messico non ricorse alla forza per far rispettare le leggi del paese. I coloni statunitensi, però, avevano pensato che fosse arrivato il momento giusto, anche per la disponibilità assicurata dal Congresso e dal presidente Andrew Jackson, e così il 2 marzo 1836 dichiararono il Tejas indipendente, e naturalmente schiavista. Il generale Antonio Lopez de Santa Ana, divenuto dittatore l’anno prima, portò un esercito di 3.000 uomini per domare la rivolta ed ebbe qualche successo iniziale, fra i quali la presa della missione di Alamo nella città di San Antonio, che gli statunitensi avevano trasformato in fortino.

L’episodio dell’assedio di Alamo non fu esattamente come raccontato da Hollywood. Santa Anna non era affatto un sanguinario; egli offrì ripetutamente condizioni di resa piuttosto magnanime vista la situazione, ma esse furono sempre rifiutate dagli assediati e non per vano eroismo, bensì per il calcolo rivelatosi sbagliato sui tempi di intervento del Congresso. Quando Santa Anna, dopo aver aspettato per mesi, ordinò l’assalto gli statunitensi pensarono fino all’ultimo di poterlo respingere, finché non fu troppo tardi. Nell’occasione morì anche l’esploratore del Tennessee David Crockett, un famoso massacratore di indiani assunto da Austin come mercenario. Poco dopo, però, gli statunitensi del Tejas guidati da Samuel Houston e fiancheggiati da squadroni di mercenari riuscirono a sorprendere i messicani a San Jacinto e a batterli rovinosamente. Il generale Santa Anna, fatto prigioniero, dovette accettare il fatto compiuto e ritirarsi da quello che gli statunitensi chiamavano ora Texas. Nello stesso anno 1836 il Texas si dichiarava repubblica indipendente e schiavista come gli Stati del Sud, e chiedeva l’ammissione nell’Unione. Tale richiesta fu in un primo momento rifiutata, non per sconfessione di ciò che avevano fatto i texani, ma solo perché il Texas si era appunto dichiarato schiavista e ciò avrebbe modificato l’equilibrio allora esistente in seno al Congresso, simmetricamente diviso fra schiavisti e abolizionisti. Era stata questa incertezza, fra l’altro, la causa del mancato arrivo di truppe statunitensi ad Alamo. Nel 1845, comunque, le intenzioni del presidente James Knox Polk, che voleva arrivare a tutti i costi al Pacifico, prevalsero su ogni altra considerazione e il Texas divenne il ventottesimo Stato dell’Unione.

Una volta nell’Unione, il Texas rivendicò come proprio un altro territorio messicano, e precisamente la vastissima area compresa tra il fiume Nueces a nord e il Rio Grande a sud. La rivendicazione non aveva alcun fondamento; l’unico motivo era che il Rio Grande serviva per dissetare le mandrie e per i trasporti commerciali. Già da alcuni anni, visto il successo dei texani, gruppi sempre più numerosi di statunitensi si erano insediati in altre aree del Messico nord-occidentale, quelle che grosso modo comprendono gli attuali Stati della California e del Nuovo Messico. Il governo americano pensò che il Messico avesse imparato la lezione e si offrì di acquistare in blocco tali territori, ma questi rifiutò. Immediatamente, allora, un esercito americano penetrò nel territorio del Rio Nueces. Il Messico ritenne lecito mandarvi incontro il suo esercito e così il presidente Polk si presentò al Congresso dichiarando: «Per volontà del Messico è guerra!». Il Congresso fece finta di accettare la spiegazione di Polk e nel maggio del 1846 dichiarò guerra al Messico. Immediatamente anche gli americani che si erano sistemati nell’attuale California si dichiararono indipendenti dal Messico.

I messicani non avevano speranze di vincere la guerra; non avevano accettato le proposte di acquisto degli americani perché oltremodo risentiti e offesi dai sistemi americani — quell’inconfondibile misto di ipocrisia, arroganza e violenza. Nel 1847 una forza d’urto americana — ecco i marines — sbarcava a Vera Cruz e poco dopo conquistava Città del Messico. Un centinaio di cadetti si asserragliarono nella fortezza di Chapultec e rifiutarono la prima offerta di resa, nell’intento di compiere un formale atto di resistenza. Gli statunitensi invece non aspettavano altro; assalirono la fortezza al grido di «Remember the Alamo!» e uccisero tutti i cadetti. «Alamo è vendicato!», dissero dopo.

Con il trattato di pace del 1848 il Messico doveva cedere agli Stati Uniti le sue zone settentrionali, corrispondenti alla metà di tutto il suo territorio di allora, e che furono dichiarate territori da insediamento: più tardi divennero gli Stati della California nel 1850, del Nevada nel 1864, del Colorado nel 1876, dello Utah nel 1896, dell’Oklahoma nel 1907, del Nuovo Messico e dell’Arizona nel 1912; alcune parti furono accorpate ad altri Stati o territori (per esempio il Wyoming). Affinché non si dicesse che si era trattato di un furto, gli Stati Uniti versarono al Messico la somma di 15 milioni di dollari e pagarono un debito di 3.250.000 dollari che questi aveva contratto con privati americani. Nel 1850, dunque, gli Stati Uniti erano finalmente arrivati al Pacifico.

Poco più tardi agli Stati Uniti servirà un altro pezzo di Messico, quell’area che costituisce ora la parte meridionale di Arizona e Nuovo Messico, dove era comodo far passare una ferrovia che portasse le merci alla costa meridionale della California.

Il Messico chiese se gli Stati Uniti avessero intenzione di pagare qualche cosa. Questo era l’atteggiamento che piaceva agli americani: diedero 10 milioni di dollari per un territorio che era un trentesimo di quello pagato poco prima 18,25 milioni. Le trattative furono concluse da un privato cittadino americano, un uomo d’affari chiamato James Gadsden. Nei libri di storia statunitensi i territori presi al Messico sono chiamati rispettivamente l’Annessione del Texas, la Cessione messicana e l’Acquisto di Gadsden. Nel Messico invece circola il detto «Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!», concetto ripreso anche dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini.

La California interessava, oltreché per la posizione, anche perché vi era stato trovato l’oro. Benché la Corsa all’oro in grande stile della California sia cominciata solo alla fine della guerra col Messico, nel 1849, l’esistenza di grossissime vene aurifere era nota già a partire dal 1840, quando la California faceva ancora parte del Messico. Fu il motivo delle pur rischiose infiltrazioni americane nella regione. La Corsa all’oro della California fece giustamente epoca: il paesetto di Sacramento, composto materialmente da quattro edifici, nel giro di un anno si ritrovò con 10.000 abitanti. Nei primi dieci anni della Corsa all’oro in California, fu estratto oro per un valore di 500 milioni di dollari del tempo.

5. L’Oregon Territory

Rimanevano le pellicce dell’Oregon Territory. Qui operava la Hudson Bay Company e, dal 1811 come s’è detto, la American Fur Company di Giacobbe Astor.

Astor aveva mire monopolistiche: voleva incanalare verso il Pacifico con destinazione Cina tutto il traffico di pellicce del nord America, BNA compreso. Ciò creava attriti fra le due compagnie, praticamente padrone di un immenso territorio abitato, a parte gli indiani, da pochi bianchi cacciatori di pellicce. Nel 1818 Gran Bretagna e Stati Uniti si accordarono per lo sfruttamento congiunto dell’Oregon Territory. La Spagna rinunciò spontaneamente alle sue rivendicazioni mentre la Russia, senza dare spiegazioni, nel 1824 evacuò il suo fortino di San Francisco.

Governatore facente funzioni della zona era il dottor McLoughin, un impiegato della Hudson Bay Company. Nel 1836, però, i texani avevano ribadito come fosse facile impadronirsi di territori altrui poco abitati. La Gran Bretagna non era il Messico ma valeva la pena provare, come i politici del Congresso facevano sapere. Appena Sam Houston dichiarò l’indipendenza del Texas iniziò così la Corsa all’Oregon: nei primi anni del decennio 1840-1850 diverse migliaia di americani si stabilirono nel territorio con l’intenzione di proclamare a tempo debito l’indipendenza e chiedere l’ammissione all’Unione. Percorrevano l’Oregon Trail o la Pista di Santa Fé. La Gran Bretagna interpretò facilmente gli avvenimenti e nel 1846 si accordò con gli Stati Uniti per suddividere ufficialmente il territorio; la nuova e invalicabile frontiera veniva definita prolungando sino al Pacifico quel 49o parallelo che già divideva British North America e Stati Uniti nella parte centrale. Dal territorio nacquero gli Stati dell’Unione dell’Oregon nel 1859, di Washington nel 1889 e dell’Idaho nel 1890.

6. L’Alaska e le Hawaii

La strategia americana non era di “giungere al Pacifico”, ma di aggredire il Mercato dell’Oriente.

Lo sapevano tutti gli addetti ai lavori dell’epoca. Lo sapeva anche la Russia, proprietaria dell’Alaska dal 1741. Sicura della sua inutilità allo scopo, e anzi della sua inutilità in generale, ma contando sull’interesse statunitense, nel 1867 la Russia offrì l’Alaska agli Stati Uniti. Segretario di Stato era allora William H. Seward (1801-1872), uno degli uomini politici americani più importanti in assoluto, come vedremo, e grande assertore della teoria del Manifest Destiny, e cioè del Mercato dell’Oriente.

Egli accettò subito l’offerta e si accordò per la cifra di 7,2 milioni di dollari. Non tutti i media americani capirono le motivazioni di Seward e chiamarono il nuovo acquisto la “Ghiacciaia di Seward” o la “Follia di Seward”. In un certo senso era così, e Seward peccò per eccesso di zelo; l’Alaska infatti non fu mai utile per il Mercato dell’Oriente. Ma era pur sempre un vasto territorio. In più, pochi anni dopo, sotto i ghiacci si trovò l’oro e nel 1896 iniziò la Corsa all’oro del Klondyke. Nel 1959 l’Alaska raggiunse i requisiti di popolazione e fu ammessa nell’Unione come 49° Stato.

Le Hawaii hanno una storia simile a quella del Texas. Gli americani conobbero le isole — visitate dal capitano inglese Cook nel 1778 e da lui chiamate Isole Sandwich — nel corso dei loro viaggi in Cina nel tardo Settecento. I nativi, arrivati, pare, dalla Polinesia verso l’anno 600, conducevano la nota paradisiaca vita come sudditi di una monarchia autoctona molto liberale. Dopo la visita nel 1820 dei primi missionari — i soliti neri araldi delle colonizzazioni occidentali — il re Kamehamehalil trovò interessante l’idea di una Costituzione, che promulgò senza indugio, e di un Parlamento, di cui egli stesso sollecitò la formazione. Il primo atto della nuova monarchia costituzionale fu la creazione di un sistema scolastico pubblico e gratuito.

Col tempo cominciarono a esserci nelle isole diversi stranieri, per vari motivi, non ultimo quello di godersi la vita; c’erano giapponesi, cinesi, inglesi, tedeschi. La maggioranza degli stranieri era però costituita da americani, che invece pensavano solo ai traffici; in particolare nel 1835 introdussero la coltivazione della canna da zucchero, che in breve divenne il prodotto più importante delle isole. Gli americani volevano che le Isole Sandwich entrassero a far parte dell’Unione; i guadagni erano ottimi e solo così erano al sicuro. Il governo degli Stati Uniti fece allora un accordo con l’ingenuo re: che non desse parti del suo territorio ad altre nazioni, e che riservasse il migliore dei suoi porti — Pearl Harbor — agli americani. Tutto sembrava a posto, ma evidentemente non bastava. Così nel 1894, appoggiati da marines sbarcati da una nave da guerra che era in visita amichevole, gli americani del luogo deposero la regina Liliokalami e proclamarono le isole repubblica indipendente, chiedendone nel contempo l’ingresso nell’Unione. Il primo presidente della nuova repubblica fu un certo Sanford B. Dole, commerciante. Nel 1898 le Hawaii furono organizzate come possedimento oltremare in attesa che l’annessione trovasse un ragionevole consenso tra i locali, non convinti della bontà di quella scelta.

Tramite accordi con le associazioni religiose protestanti americane, il governo degli Stati Uniti curò che fossero inviati nelle Hawaii molti pastori protestanti, ritenuti giustamente propedeutici all’instaurazione di un sistema politico-economico di tipo americano. Questo accorgimento era stato usato per la prima volta in America Centrale verso il 1850, divenendo da allora una costante sino ai giorni nostri.

L’obiettivo fu raggiunto solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’incredibile afflusso di danaro e materiali fece dimenticare il passato ai nativi. Nel 1959, con un referendum, decisero di fare parte dell’Unione, cui si aggiunsero in qualità di cinquantesimo Stato, l’ultimo.

7. La guerra dello zucchero

Come si è visto con le Hawaii, lo zucchero era diventato una materia prima che interessava il business americano. Alla fine dell’Ottocento diverse società americane possedevano vastissime piantagioni di canna da zucchero a Cuba e nelle Filippine, due residue colonie spagnole. I possedimenti spagnoli in questione interessavano agli Stati Uniti anche per motivi commerciali più strategici: le Filippine erano importanti per il Mercato dell’Oriente, essendo delle ottime basi per aggredirlo, mentre le isole dei Caraibi servivano per meglio proteggere quel canale che a partire dalla metà circa dell’Ottocento si aveva intenzione di tagliare in America Centrale, o in Nicaragua o a Panama. Questo canale era importante per i traffici marittimi fra le due coste americane e, di nuovo, per il Mercato dell’Oriente: vi sarebbe transitato il traffico dalla costa orientale e buona parte di quello europeo. Occorreva un pretesto per dichiarare una guerra alla Spagna — così come era avvenuto nel 1812 con la Gran Bretagna — allo scopo di scalzarla dai due possedimenti.

Il pretesto poteva venire da Cuba. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento si era formato a Cuba un movimento indipendentista locale, ovviamente sostenuto dai proprietari americani di piantagioni. La stampa americana — da sempre funzionale alla politica governativa come s’è detto nell’introduzione — iniziò a riportare fatti che tendevano a evidenziare la brutalità del governo spagnolo in contrapposizione alle legittime aspirazioni degli isolani, e quindi a invitare il Congresso all’applicazione della Dottrina Monroe e del Principio dell’Autodeterminazione dei Popoli contemplato nella Dichiarazione di Indipendenza. Sul finire del secolo si verificarono anche vari incidenti diplomatici con la Spagna, ma non sufficienti per offrire la sia pur minima giustificazione a una dichiarazione di guerra. Così la lobby dello zucchero, attraverso personaggi mai identificati ma sicuramente in collaborazione con funzionari governativi statunitensi, organizzò un incidente grave: il 15 febbraio 1898 riuscì a far esplodere la propria corazzata Maine che si trovava all’ancora nel porto dell’Avana, dov’era in visita, provocando la morte di 260 uomini.

Non occorre sorprendersi più di tanto né della lobby dello zucchero né della connivenza dei funzionari governativi o dello stesso governo: nell’occasione furono sacrificati molti marinai americani, e lo stesso sarebbe avvenuto nel 1915 con il piroscafo Lusitania e nel 1941 con l’attacco giapponese a Pearl Harbor, come vedremo. Emersero subito dei sospetti sulle responsabilità e il Congresso non volle rafforzarli, dichiarando immediatamente guerra alla Spagna. Il 19 aprile seguente, però, riconobbe l’indipendenza di Cuba e il 21 aprile diede inizio alle ostilità senza farle precedere da una dichiarazione di guerra, che arrivò dopo la dichiarazione di guerra della Spagna, il 24 aprile. La Spagna pensava che gli Stati Uniti fossero interessati unicamente a Cuba. L’interesse americano invece era principalmente sulle Filippine, dove infatti il primo maggio 1898 una squadra navale americana sorprendeva una ignara flotta spagnola all’ancora nella baia di Manila costringendola alla resa dopo una battaglia di sette ore. Le Filippine erano praticamente prese. Il 3 luglio 1898 fu distrutta la flotta spagnola dei Caraibi al largo della città cubana di Santiago, che venne occupata.

La Pace di Parigi dell’anno successivo stabiliva le condizioni della resa: la proprietà delle Filippine passava agli Stati Uniti per una somma di 20 milioni di dollari; gli Stati Uniti prendevano anche possesso dell’isola di Guam nel Pacifico e dell’isola di Portorico nei Caraibi, ambedue di proprietà della Spagna e che erano state occupate dagli americani nel corso della guerra; anche la Spagna riconosceva l’indipendenza di Cuba, che gli Stati Uniti si impegnavano ad abbandonare dopo tre anni di amministrazione fiduciaria.

In realtà Cuba era diventata una colonia de facto degli Stati Uniti. I tre anni di amministrazione fiduciaria servivano per creare una rete di convergenza di interessi tra le società private americane operanti nell’isola e il governo americano da una parte, e ricchi operatori, politici, media e militari locali dall’altra, allo scopo di avere sempre dei governi più sensibili al business americano che al benessere in generale della popolazione. Servivano anche per operazioni di propaganda culturale, per far accettare alla popolazione il nuovo sistema: furono inviati numerosi pastori protestanti, che fecero un’opera di proselitismo così notevole che ancora oggi il 10% della popolazione cubana si dichiara protestante. Furono anche promosse riforme legislative valide e opere socialmente molto utili, come per esempio la bonifica delle paludi dalle zanzare, utilizzando il metodo scoperto dal medico cubano Carlos Findlay di cospargerle di olio. Tuttavia iniziava lo sfruttamento economico e con esso il conseguente impoverimento della popolazione. Così il movimento indipendentista nato per lottare contro il colonialismo spagnolo combatté sin da subito contro il neocolonialismo americano, sino a raggiungere il suo scopo nel 1959 quando, alla fine di una guerriglia iniziata sei anni prima con 12 uomini nella Sierra Maestra, un certo Fidel Castro riusciva a rovesciare l’ultimo governo collaborazionista, quello del dittatore Fulgencio Batista.

Con le Filippine gli americani pensavano di costituire una colonia tradizionale, come avevano fatto gli europei. Ma mancava loro la raffinatezza europea, e un’avidità francamente eccessiva ne guidava le azioni. Abbastanza tranquilli nei riguardi degli spagnoli, benché fosse certamente presente un movimento indipendentista, i filippini si ribellarono subito ai nuovi padroni, iniziando una guerriglia che continuò ininterrottamente sino all’indipendenza concessa dagli americani il 4 luglio 1946, costellata di episodi e periodi di repressione brutali.

L’indipendenza del 1946 era naturalmente formale: le Filippine rimanevano colonie de facto, proprio così come era rimasta Cuba, e la guerra di indipendenza riprese ancora più violenta con la cosiddetta Rivolta degli Huk, durata sino alla metà degli anni ‘50 e nel corso della quale gli americani usarono metodi “vietnamiti”. In effetti il primo specialista di antiguerriglia inviato dal presidente Eisenhower in Vietnam, nel 1954, altri non era che il maggiore Edward Geary Lansdale, capo della counterinsurgency nelle Filippine. La deposizione di Marcos non ha cambiato la sostanza della situazione. Neanche il trattato di pace firmato il 2 settembre 1996 con fazioni islamiche della guerriglia, che ha riconosciuto una certa autonomia nella parte meridionale di Mindanao, ha di certo fermato la spinta all’indipendenza reale. Di tutte queste attività di guerriglia e di repressione iniziate sin dal 1899 si sa purtroppo poco in Occidente. Logico.

Ma è assai significativo ciò che disse a proposito delle Filippine il Senatore federale Albert J. Beveridge in un discorso tenuto al Congresso il 9 gennaio 1900:

«Le Filippine sono nostre per sempre, “territori appartenenti agli Stati Uniti” come li chiama la Costituzione. E appena al di là delle Filippine ci sono gli illimitati mercati della Cina… e grati a Dio Onnipotente del fatto che Egli ci ha scelto come suo popolo eletto, e perciò come leader nella rigenerazione del mondo… La potenza che controlla il Pacifico… è la potenza che controlla il mondo. E, con le Filippine, quella potenza è, e per sempre sarà, della Repubblica Americana… Loro [i filippini] non sono capaci di autogovernarsi. Come potrebbero? Loro non sono di una razza che si autogoverna. Essi sono Orientali, Malesi, tirati su da spagnoli nel loro più tardo e peggiore possedimento.

Loro non sanno niente di pratico governo se non per aver sperimentato il debole, corrotto, crudele e capriccioso governo della Spagna… Dio non ha preparato per un migliaio di anni i popoli inglesi e teutonici per niente altro che vana e oziosa autocontemplazione e autoammirazione. No! Egli ci ha creato i supremi organizzatori del mondo per stabilire ordine dove regna il Caos… E fra tutte le razze Dio ha scelto il popolo americano come sua nazione d’elezione per condurre alla finale rigenerazione del mondo. Questa è la divina missione dell’America, che tiene in serbo per noi tutto il guadagno [profit nel. testo – N.d.R.], tutta la gloria, tutta la felicità possibile all’uomo.

Noi siamo i garanti del progresso nel mondo, i guardiani della sua giusta pace» (46)

8. Le colonie

Grazie alla loro politica di avvicinamento al Mercato dell’Oriente, e di controllo del collegato canale di Panama, gli Stati Uniti si trovano a tutt’oggi proprietari di alcune colonie, naturalmente del Pacifico e dei Caraibi: sono tutte isole e isolette, il classico e immancabile complemento di un impero commerciale marinaro. Tali colonie e possedimenti oltremare sono per sommi capi i seguenti.

1) Portorico. L’isola di 9.000 chilometri quadrati e 3,8 milioni di abitanti, più 2,7 emigrati negli USA, è ancora una colonia, retta da un governatore. Dal 1952 il nome ufficiale americano è Commonwealth of Puerto Rico. Nel 1993 sia lo spagnolo sia l’inglese sono state riconosciute lingue ufficiali. Portorico ha diritto a un Rappresentante al Congresso federale, senza diritto di voto. Tutti gli abitanti hanno la cittadinanza americana ma non possono votare nelle elezioni federali. La voce più importante dell’economia è il turismo statunitense, che porta ogni anno circa 1,5 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sono impegnati a dimostrare ai vicini cubani, haitiani, dominicani e giamaicani i vantaggi del loro sistema: i portoricani sono esentati dal pagamento della tassa federale sui redditi e godono di sovvenzioni federali pari a 3 miliardi di dollari all’anno. Nonostante ciò la disoccupazione ufficialmente dichiarata è del 15%, mentre quella reale supera il 30%. Tutti conoscono la miseria di Portorico.

Così a Portorico è sempre stato presente un movimento indipendentista, attivo tuttora benché perseguitato da una capillare rete di informatori e dalla massiccia presenza militare statunitense: una base navale a Ceiba; il Forte Allen e un centro addestramento dell’US Army a Salinas; il Forte Buchanan a Guaynabo; un centro comunicazioni SECA della US Navy a Salinas e altro ancora. Nel 1950 due indipendentisti portoricani, Griselio Torresola e Oscar Collazo, tentarono di assassinare il presidente americano Harry Truman. Nel 1954 altri quattro portoricani spararono dal loggione sui rappresentanti del Congresso federale a Washington, ferendone cinque. Nel 1986 a Portorico fu incendiato il lussuoso Du Pont Plaza Hotel: il bilancio fu di 97 vittime, tutti statunitensi che si trovavano nel casinò dell’hotel.

2) Isole Vergini. Un piccolo arcipelago dei Caraibi formato da 9 isole e circa 75 isolette acquistato nel 1917 dalla Danimarca per 25 milioni di dollari allo scopo di proteggere il Canale di Panama. Dal 1927 fu data la cittadinanza statunitense agli abitanti, attualmente circa 100.000. A partire dal 1931 l’amministrazione passò dalla US Navy al Dipartimento degli interni federale. Dal 1970 gli abitanti eleggono il governatore, prima nominato dal presidente federale. C’è il diritto ad un rappresentante al Congresso federale, senza diritto di voto. Non esiste un movimento indipendentista.

3) Isola Navassa. Piccola isola dei Caraibi di cinque chilometri quadrati a circa 100 miglia a sud di Cuba in corrispondenza della Baia di Guantanamo. Dichiarata disabitata, è amministrata dalla Us Coast Guard, che vi mantiene un faro.

4) Micronesia. Comprende i gruppi delle Isole Marshall, delle Isole Marianne e delle Isole Caroline. Le isole passarono con varie modalità dalla Germania al Giappone. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1947, le Nazioni Unite le affidarono in amministrazione fiduciaria agli Stati Uniti, su loro richiesta, con la dizione di Strategic Trust Territory. L’amministrazione fiduciaria scadeva nel 1986.

Negli anni ‘70 gli Stati Uniti presero iniziative per far firmare a rappresentanti delle tre entità una dichiarazione di intenti in base alla quale, dopo il 1986, le stesse sarebbero entrate in un Compact of Free Association con gli Stati Uniti, dove la parola “Free” stava a significare che lo accettavano di loro libera volontà. In realtà affidavano così agli Stati Uniti ogni sovranità, in particolare in politica estera e affari militari; in cambio potevano ottenere su richiesta la cittadinanza statunitense. Tale dichiarazione di intenti fu firmata a Hilo nelle Hawaii il 9 aprile 1978. Ma non c’era accordo nelle isole sui termini dell’intesa: molti volevano semplicemente l’indipendenza. Quando fu chiaro che la fazione indipendentista stava diventando un’ampia maggioranza, nel 1985 il presidente Reagan diede l’assenso all’omicidio di Haruo Remeliik, presidente dell’isola autonoma di Palau nel gruppo delle Caroline e leader dell’indipendentismo. Seguì una campagna mirata a terrorizzare esponenti politici e cittadini comuni contrari al Compact, che ebbe successo. Dal 3 novembre 1986 l’ONU non ha più giurisdizione e per gli Stati Uniti vale il Compact.

5) Guam. È l’isola più grande dell’arcipelago delle Marianne (vedi sopra), ma non ne ha lo status complicato: fu presa alla Spagna nel 1899 e affidata all’amministrazione della US Navy. Nel 1941 fu presa dai giapponesi e nel 1944 riconquistata dagli americani. Dal 1950 agli abitanti, ora circa 60.000, fu concessa la cittadinanza statunitense. Dal 1970 il governatore è eletto in loco, e dal 1972 un rappresentante può sedere al Congresso federale, senza diritto di voto. La disoccupazione è del 15-20%. Non è presente alcun movimento indipendentista.

6) Isole Samoa. La maggioranza delle isolette del Pacifico divenne proprietà americana in seguito a un trattato con Germania e Gran Bretagna firmato nel 1899.

Altre isole del gruppo furono acquistate da capi tribù locali nel 1900 e 1904.

Attualmente gli abitanti sono 35.000, con 105.000 emigrati negli USA. Hanno la cittadinanza statunitense, dal 1978 eleggono il governatore e dal 1981 hanno un rappresentante al Congresso federale senza diritto di voto.

7) Isole Baker, Howland e Jarvis. A circa 1.600 miglia dalle Hawaii, furono disabitate sino al 1942, essendo state dichiarate di proprietà statunitense dal presidente Roosevelt nel 1936 in previsione della guerra contro il Giappone che si stava preparando dal 1920 circa. Nel 1974 furono affidate all’amministrazione dell’US Fish & Wildlife Service del Dipartimento dell’Interno.

8) Isole Canton e Enderbury. Le due isole si trovano 1.600 miglia a sud-ovest delle Hawaii. Sono amministrate congiuntamente da Stati Uniti e Gran Bretagna in base a un accordo firmato nel 1939. Fanno parte del gruppo Phoenix, che nel 1979 ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna assieme ai gruppi Gilbert e Line, formando la Repubblica di Kiribati. Gli Stati Uniti si opposero alla concessione dell’indipendenza anche alle isole di Canton e Enderbury. Durante la seconda guerra mondiale Canton servì come base aerea di rifornimento. Attualmente è adibita a usi missilistici non chiariti. Enderbury è dichiarata disabitata.

9) Atollo di Johnston. Sono 4 isolette coralline circa 700 miglia a sud-ovest delle Hawaii, da loro reclamate e quindi divenute di proprietà americana. Vi sono circa 1.000 americani fra militari e funzionari di agenzie governative. Viste le attività, l’amministrazione è affidata alla Defence Nuclear Agency.

10) Kingman Reef. È una scogliera corallina, circa 1.000 miglia a sud delle Hawaii, amministrata dalla US Navy, dove c’è anche una stazione spaziale; nessuna nave si può avvicinare a meno di tre miglia, gli aerei non la possono sorvolare.

11) Isole Midway. A 1.150 miglia a ovest-nordovest delle Hawaii, furono dichiarate proprietà americana nel 1867. Dal 1903 sono amministrate dalla US Navy, che vi tiene delle installazioni.

12) Isola Wake. È un atollo formato in realtà da tre isolette a metà strada fra le Midway e Guam, dichiarato loro proprietà dagli Stati Uniti nel 1899. Nel 1938 la compagnia aerea Pan-Am vi stabilì uno scalo. Dal 1972 l’isola è amministrata dalla US Air Force.

13) Atollo di Palmyra. È un atollo a circa 1.000 miglia a sud delle Hawaii, di quasi tre chilometri quadrati di superficie, posseduto da non meglio identificati privati americani, e amministrato dal Dipartimento degli Interni.

Note al Capitolo II

45 – Charles A. Beard, The Rise of American Civilization, The Macmillan Company, New York, 1964, p. 222. Prima edizione del 1927.

46 – Congressional Record del 52esimo Congresso, I Sessione, pp. 704-708.

Capitolo III – La Guerra di Secessione

1. I motivi della guerra

La fase dell’espansione territoriale americana dall’Atlantico al Pacifico non fu turbata più di tanto dalla guerra civile che coinvolse gli Stati dal 1861 al 1865, originata dal tentativo degli Stati schiavisti del Sud di secedere dall’Unione.

Fu sempre Charles Beard il primo a sostenere che la Guerra di Secessione non era stata provocata in realtà dal problema dello schiavismo che scandalizzava il Nord puritano. In The Rise of American Civilization del 1927 egli sosteneva che i motivi erano economici, seppur intrecciati con lo schiavismo. Tale interpretazione fu poi ripresa dagli studiosi di formazione marxista di tutto il mondo, e anche da altri, risultando oltremodo convincente. Non riuscì però mai a uscire dalla cerchia degli specialisti, anche a causa dell’azione intrapresa ad un certo momento dall’USIA e da Hollywood.

Aveva ragione Beard, il problema era economico.

Nella prima metà dell’Ottocento il New England aveva, assistito a un fenomenale boom economico: si trattava della Rivoluzione Industriale, arrivata negli Stati Uniti circa mezzo secolo dopo il suo inizio in Gran Bretagna. Era tutto un fiorire di nuove industrie manifatturiere, filatoi, calzaturifici, fonderie, officine, e di invenzioni e innovazioni tecnologiche. Nel 1807, a New York, Fulton costruiva il primo battello a vapore; nel 1811 aveva inizio la costruzione della Cumberland Road, che dal Maryland portava a Ovest; nel 1819 la nave a vapore Savannah attraversava l’Atlantico; nel 1825 fu costruita nel New Jersey la prima locomotiva a vapore americana; nel 1828 veniva inaugurata la prima linea ferroviaria per passeggeri, la Baltimore & Ohio; nel 1836 Samuel Colt inventava la pistola a tamburo; nel 1844 veniva inviato il primo messaggio telegrafico; nel 1846 Elias Howe inventava la macchina per cucire; nei 1855 il primo treno attraversava il Mississippi; nel 1859 veniva perforato il primo pozzo petrolifero a Titusville in Pennsylvania, e nel 1865 veniva posato il primo oleodotto, del diametro di due pollici e lungo sei chilometri; nel 1860 veniva introdotto il fucile a ripetizione Winchester. La richiesta di mano d’opera era inesauribile e fu soddisfatta importando nel tempo milioni di immigrati dall’Europa, anche per sostituire i locali che si spostavano a Ovest, dove acquistavano tutte le terre e promuovevano tutte le attività più importanti e lucrose.

Dal 1840 al 1860 giunsero nel New England 4 milioni di immigrati, provenienti in massima parte dalla Gran Bretagna e dall’Irlanda. Nel 1880 la produzione industriale del New England sarebbe arrivata a eguagliare quella della Gran Bretagna.

Nel Sud la rivoluzione industriale non arrivò; il Sud non ne aveva bisogno: era il regno del latifondismo schiavista. Negli Stati schiavisti storici, su 4 milioni di bianchi c’erano 3 milioni di schiavi neri. Tre famiglie bianche su quattro possedevano uno o più schiavi. La grande maggioranza delle terre era posseduta da 437.000 famiglie.

Ma Nord e Sud facevano parte della stessa federazione, dove a decidere i rapporti fra gli Stati e i rapporti fra questi e il resto del mondo era il Congresso federale, fatta salva la Costituzione del 1787. E nel Congresso c’erano attriti continui fra i delegati del Nord e quelli del Sud. Il problema era che Nord e Sud avevano due economie completamente diverse, ed entrambe ai loro veri estremi: il capitalismo del laissez faire al Nord, per di più in una fase di espansione, ed il latifondismo agrario del Sud, per di più basato sulla schiavitù. I due tipi di economia non potevano coesistere, così come il capitalismo nascente dell’Europa della Riforma non poteva coesistere col preesistente sistema feudale.

I motivi di conflitto erano numerosi. Il boom industriale del Nord cresceva vigoroso ma aveva ancora bisogno di protezione. Le nuove industrie e i commerci connessi non potevano ancora competere con le analoghe realtà dell’Europa, in particolare della Gran Bretagna. Occorreva dunque una politica di barriere protezionistiche alle merci estere, ma tale politica era strenuamente avversata dagli Stati del Sud perché avrebbe provocato ritorsioni dall’estero che avrebbero colpito soprattutto le loro enormi esportazioni di cotone. Già nel 1832 il Parlamento della Carolina del Sud, irritato per alcune tariffe decise dal Congresso federale, aveva adottato il Nullification Act, che sosteneva il diritto dello Stato di annullare atti del Congresso ritenuti non conformi alla Costituzione.

Il Nord aveva inoltre bisogno che il governo federale usasse i fondi federali in grandi opere di miglioramento interno necessarie per favorirne il nuovo sviluppo: strade, ferrovie, porti, infrastrutture in generale. Come si ricorderà, i fondi federali provenivano da contribuzioni degli Stati proporzionali alla popolazione, contando anche i tre quinti degli schiavi. Un problema non secondario era l’immigrazione, invocata dal Nord ma avversata dal Sud. Essa comportava costi federali che non gli competevano; il Sud temeva una immigrazione secondaria dal Nord, che avrebbe portato masse di mano d’opera non necessaria con conseguenti probabili contraccolpi sociali interni; inoltre i nuovi arrivati si disgustavano al contatto de visu con la schiavitù e potevano creare problemi politici gravi.

Il Sud ostacolava lo sviluppo capitalista-mercantile del Nord non solo condizionando la politica federale, ma anche attraverso un altro strumento molto importante: gli impediva di espandersi nel suo stesso grande territorio, nel Sud. Era inutile andare nel Sud con montagne di capitali: non c’era terra da comprare, manifatture da impiantare, magazzini da aprire — tutto era immobile e impenetrabile, cristallizzato dal latifondismo.

Il problema fra Nord e Sud era davvero lo schiavismo del Sud, alla fin fine, ma non per ragioni morali: bensì per le ragioni economiche che implicava. Così, poco alla volta, per iniziativa dei rappresentanti del Nord la battaglia in Congresso si spostò dai motivi di discordia immediata — tariffe doganali, opere pubbliche interne, immigrazione — alla loro causa profonda, lo schiavismo. Naturalmente non si poteva dire che lo schiavismo era un male perché danneggiava il capitalismo del Nord; bisognava trasferire la questione sul piano morale, più accattivante. Il problema venne presentato al pubblico dai politici e dai media del Nord in questi termini, provocando un dibattito nazionale con relativi pro e contro. Al Sud naturalmente il corpo elettorale era tutto a favore dello schiavismo, e anche la maggioranza dei bianchi in generale: speravano tutti di divenire proprietari negrieri a loro volta, il che era poi ciò che facevano migrando a ovest in Mississippi, Alabama, Louisiana, Texas.

Al Nord la causa antischiavista incontrò un certo successo, ma non tanto quanto si pensa: è assodato ormai che anche al Nord gli abolizionisti rimasero sempre una netta minoranza sino all’inizio delle ostilità, sia nel corpo elettorale sia nell’opinione comune. In effetti, nonostante la pressione dei media, nessun partito politico inserì mai nella sua piattaforma elettorale la richiesta dell’abolizione della schiavitù al di fuori del proprio Stato. Gli immigrati recenti erano antischiavisti, ma — al di fuori del Vermont — non votavano per i requisiti di censo.

I politici e i capitalisti del Nord non scatenarono questa campagna antischiavista allo scopo preciso di provocare una guerra civile. Non si proponevano neanche di riuscire ad abolire la schiavitù. La Costituzione del 1787 richiedeva un Emendamento specifico per dare al Congresso il potere di farlo, per il quale era necessaria una maggioranza dei tre quarti degli Stati, ma gli Stati del Sud controllavano l’ammissione dei nuovi Stati all’Unione in modo che una tale maggioranza antischiavista non si formasse mai. Essi semplicemente volevano esercitare una pressione sul Sud per convincerlo ad allinearsi alla loro politica economica federale, almeno in qualche misura. Lo stesso presidente Abraham Lincoln, mentre da una parte — essendo un grande interprete del vero spirito del capitalismo — era genuinamente antischiavista, dall’altra era apertamente disponibile (com’è documentato) ad accettare lo schiavismo negli Stati del Sud a patto che fosse stato possibile trovare un compromesso sulla politica economica federale.

Ma quel processo ebbe un risultato imprevisto. Il Sud credette che il Nord facesse sul serio con lo schiavismo, che non fosse solo una questione di tariffe, e prese l’iniziativa di secedere dall’Unione. Preceduti il 20 dicembre 1860 dalla Carolina del Sud, l’anno seguente anche Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas decisero di secedere, formando i Confederate States of America, sotto la presidenza di Jefferson Davis. La logica avrebbe voluto che a quel punto tutto dovesse essere sistemato: schiavisti di qua e antischiavisti di là, e per il resto amici come prima. Ma a quel punto veniva alla luce un fatto terribile: i capitalisti del Nord, ed i loro politici, si erano resi improvvisamente conto di essersi venuti a trovare fra le mani, praticamente per caso, la soluzione più soddisfacente che si potesse immaginare a tutti i loro problemi: una guerra civile, una vittoria militare, la distruzione completa del sistema economico del Sud!

C’era dell’altro. Proprio negli anni dal 1850 al 1860 l’élite politica-mercantile del New England aveva definito le grandi strategie planetarie del futuro per gli Stati Uniti. Non c’era nulla di nuovo, e il tutto si riduceva al solito obiettivo: Mercato dell’Oriente. Ma si era chiarito in quegli anni cosa davvero si dovesse fare per prenderlo. I porti sul Pacifico ed il controllo sul canale da realizzare in Centroamerica non bastavano. Bisognava, oltre a pochi dettagli, demolire la Russia, sgretolare la sua potenza in mille pezzi e spargere poi il sale sulle rovine. Vedremo più avanti la logicità ineccepibile di tale conclusione; ciò che importa ora è che gli americani lo capirono in quegli anni. Il concetto fu espresso nel 1860 dal Senatore William H. Seward, che poi non per nulla sarebbe stato scelto da Abraham Lincoln come Segretario di Stato, e confermato dal suo successore Andrew Johnson: gli Stati Uniti — disse Seward — dovevano annettere il Canada, spostare i propri confini meridionali sino a comprendere tutte le repubbliche del Centroamerica, e fare una guerra contro la Russia, da combattersi nelle pianure della Cina (47). Era un programma impegnativo, che richiedeva la presenza nella federazione di tutti gli Stati che già c’erano, più quelli che si stavano aggiungendo a Ovest.

Così il presidente Lincoln, con l’aria di voler cercare un accomodamento come gli imponeva l’opinione pubblica contraria ad una “guerra per i negri”, all’atto pratico provocò ulteriormente gli Stati del Sud, usando la stessa procedura poi attuata anche dai presidenti Wilson e Roosevelt in occasione rispettivamente della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. L’occasione venne con l’incidente di Fort Sumter del 12 aprile 1861: truppe della Carolina del Sud spararono dei colpi di cannone contro il forte tenuto da truppe federali, e Lincoln proclamò immediatamente la leva per la costituzione di un esercito forte di 75.000 volontari, e decretò il blocco dei porti del Sud. Era la guerra. Anche Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord si unirono alla Confederazione sudista.

2. La guerra

Si trattò di una guerra civile caratterizzata da numerose battaglie campali: fu, in effetti, la guerra più sanguinosa in assoluto per gli Stati Uniti, con il suo milione di morti, metà dei quali civili (nella Seconda Guerra Mondiale i morti saranno 407.316, quasi tutti militari). Dopo le prime vittorie sudiste, caratterizzate dalla valentìa delle loro cavallerie, la dovizia di uomini e mezzi del Nord ebbe alla fine la meglio. Le battaglie più importanti furono la prima e la seconda battaglia di Bull Run, vinte dai sudisti nel luglio del 1861 e nell’agosto del 1862; la vittoria sudista a Shiloh del giugno 1862; la sconfitta ad Antietam del generale sudista Lee che cercava di prendere Washington, nel settembre del 1862; la vittoria dei sudisti a Fredericksburg nel dicembre del 1862; la vittoria di Lee a Chancellorsville nel maggio del 1863; la sua rovinosa sconfitta nel luglio del 1863 a Gettysburg, la più grande battaglia della guerra, nella quale perse 20.000 uomini, che, seguita anche dalla sconfitta di Vicksburg, segnò il punto di svolta della guerra; le sconfitte dei sudisti a Nashville nel dicembre del 1864 e a Five Forks nell’aprile del 1865; la resa del generale Lee al generale Grant ad Appomattox, il 9 aprile del 1865, che segnò la fine della guerra.

Due furono gli episodi significativi della guerra: i Draft Riots nel Nord e la March to the sea di Sherman.

Lincoln aveva inizialmente fatto appello a un’armata di volontari, per non allarmare troppo la popolazione. A ostilità già iniziate ordinò poi naturalmente la coscrizione obbligatoria per sorteggio, che però avveniva secondo i concetti puritani: l’esenzione poteva essere ottenuta per legge tramite il pagamento di una certa somma piuttosto cospicua, col risultato che solo i poveri andavano al fronte. Così nel 1862-1863 in Wisconsin, Indiana, Pennsylvania, Massachusetts, New York, Vermont, New Hampshire e Ohio scoppiarono rivolte contro questo sistema, dette Draft Riots — “rivolte della leva”. Nel 1863, a New York, una folla di 50.000 dimostranti incendiò degli orfanotrofi di neri e impiccò in strada parecchi neri prima di essere dispersa dall’intervento dell’Armata del Potomac, che sparò sulla folla causando circa 1.200 morti. Per placare le famiglie indigenti fu approvato nel 1862 lo Homestead Act, che per la somma di 10 dollari accordava ai pionieri un lotto di 60 ettari nei territori a patto che lo coltivassero per almeno 5 anni. Poi, nel 1864, la possibilità di evitare la leva col danaro fu abolita. Ma anche così, in un modo o nell’altro, furono solo i più poveri ad andare coscritti, con conseguente malumore e cattivo rendimento dei militari di leva.

Sarà sempre così in tutte le guerre che richiederanno per la loro ampiezza il ricorso alla leva obbligatoria: solo i più poveri andranno coscritti, nonostante nessuna legge lo prevederà più (Dan Quayle e Bill Clinton evitarono la leva per il Vietnam, come fecero quasi tutti i ricchi). Il fatto è che per la mentalità americana il danaro ha un valore assoluto, capace di procurare tutto, e questa società trova le modalità giuste per far emergere il suddetto principio anche in queste occasioni. Il cattivo rendimento dei coscritti costituirà così sempre un handicap delle grandi guerre americane, un elemento importante da tenere in considerazione, perché è la vera spiegazione di certi fatti interni, di una certa consolidata e altrimenti incomprensibile prudenza nei confronti di paesi dotati di un appena discreto esercito di terra, e infine dell’esito clamorosamente insoddisfacente di tutte le grandi guerre americane.

La Marcia al mare del generale Sherman fu una strana operazione militare. Mentre teneva impegnate le forze del generale Lee in Virginia, Ulysses Grant, da poco nominato Capo di Stato Maggiore da Lincoln, mandò un’armata di 100.000 uomini al comando, appunto, del generale Sherman all’interno dell’indifeso territorio della Confederazione. Dal maggio del 1864 all’aprile del 1865 Sherman compì un’incursione di più di 1.000 chilometri nel territorio del Sud, da Chattanooga in Tennessee sino a Savannah in Georgia e quindi indietro verso Columbia nella Carolina del Sud, distruggendo quanto incontrava sul suo cammino per una larghezza mai inferiore ai 100 chilometri. Gli uomini di Sherman bruciarono in quei 100.000 chilometri quadrati tutte le città, i villaggi, le fattorie, le infrastrutture di ogni genere; distrussero i raccolti e sterminarono il bestiame (evidentemente uccisero anche molti civili ma ciò non è riportato nei testi americani). Nel settembre del 1864 Sherman arrivò ad Atlanta, un importante centro industriale e agricolo — era la capitale del cotone — oltreché cruciale nodo ferroviario, la rase al suolo e la incendiò.

Qual era lo scopo del raid di Sherman? Diminuire le capacità del Sud di mantenere le proprie forze armate, dissero Grant e Lincoln; così sostengono anche gli storici americani, e di conseguenza gli altri. Ma non è così. Lo scopo dell’incursione, che in effetti non ebbe la minima influenza su quella capacità, era di danneggiare il più possibile le infrastrutture economiche del Sud in modo tale che a guerra conclusa l’establishment del Nord — commercianti, finanzieri, industriali eccetera — potesse godere di tante opportunità economiche extra, esportandovi di più, rilevando le imprese locali in difficoltà, acquistando grandi proprietà per pochi soldi. Questo, in ultima analisi, era stato il motivo della guerra: perché allora, nel corso della stessa guerra, non cogliere ogni occasione per ottimizzare quelle prospettive? Anche questa, come l’incredibile debolezza delle forze armate di terra formate essenzialmente da coscritti, sarà una costante delle guerre americane: le distruzioni inflitte all’avversario non per vincere la guerra in essere — essendo allo scopo inutili — ma per lucrare vantaggi economici nel dopoguerra.

Durante la guerra successe anche un piccolo fatto marginale, ma importante dal punto di vista culturale: su iniziativa del Segretario al Tesoro Salmon P. Chase, poi fondatore della Chase Manhattan Bank ed eminente membro della Chiesa Episcopale, si iniziò a stampare sulla moneta la frase In God We Trust.

Il mondo del Sud fu dunque distrutto nel 1865. Oggi mantiene ancora vecchi tratti, che offrono l’idea di come doveva essere a quei tempi, del resto non tanto antichi (l’ultimo veterano della Guerra Civile è morto nel 1958). La gente non ha i ritmi convulsi di vita del Nord; se la prende un po’ più comoda. É cortese e cerimoniosa, e ad ogni approccio, anche con estranei, fa convenevoli sulla salute, la famiglia, il tempo (fa tanto short talking). Percorrendo le sue strade di campagna, o anche di periferia, si è salutati da estranei con ampi gesti della mano. I vicini di casa danno una mano molto volentieri in ogni occasione. Si dà importanza agli agi e alla tranquillità della vita domestica, cui sono molto attaccati; anche la buona cucina è curata, contrariamente al Nord. Come tutti gli americani sono però oltremodo attaccati al danaro. All’epoca dello schiavismo doveva proprio essere come scriveva il polemista locale George Fitzhugh nel 1854:

«Nel Sud schiavista tutto è pace, quiete, abbondanza, e contentezza. Noi non abbiamo né marmaglie, né Trade Unions, né scioperi per paghe più alte, né resistenza armata alla legge; c’è solo un po’ di gelosia del ricco da parte del povero… Noi siamo del tutto esenti da quel torrente di povertà, criminalità, agrarianesimo ed infedeltà che l’Europa sta riversando dalle sue galere e ospizi nel già sovraffollato Nord» (48).

3. L’Emendamento XIV

Conclusa vittoriosamente la guerra civile fu approvato l’Emendamento XIII, che aboliva la schiavitù in tutta la federazione.

Ma il grande capitale del New England puritano aveva ottenuto una vittoria troppo grande per fermarsi lì. Fu approvato così nel 1868 l’Emendamento XIV, la cui Sez. 1 è di seguito riportata per comodità:

«Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato dove risiedono. Nessuno Stato farà o farà rispettare leggi che riducano i privilegi o le immunità di cittadini degli Stati Uniti; né uno Stato potrà privare una persona qualunque di vita, libertà, o proprietà, senza il dovuto processo di legge; né potrà negare a qualsivoglia persona nella sua giurisdizione l’equa protezione della legge».

Le “persons” dell’Emendamento alle quali il medesimo si preoccupa di garantire l’«equa protezione della legge» sembrerebbero essere i neri, gli schiavi appena liberati ai quali gli ex padroni erano restii a riconoscere i nuovi diritti. Erano loro, ma non solo: appena approvato l’Emendamento la Corte Suprema si affrettò a decretare che quelle “persons” cui si elargivano tanti e tali diritti erano sia le persone fisiche sia le persone giuridiche, e cioè le società, le aziende, le corporazioni.

L’Emendamento fu proposto e verbalmente congegnato proprio con quell’intenzione, anche se non tutti i membri del Congresso che lo approvarono se ne resero conto. Lo ammise nel 1882 Roscoe Conkling, uno degli estensori materiali del documento (49).

L’Emendamento è di straordinaria importanza per il business, specie per il grande business. Gli concede gli stessi riguardi legali dati alle persone in carne e ossa: la libertà di parola, di stampa e di associazione garantite dal Primo Emendamento; il diritto di non testimoniare contro se stessi garantito dal Quinto Emendamento; il diritto, garantito dal Quarto Emendamento, di non essere soggetti a perquisizioni senza validi motivi stabiliti per iscritto dall’autorità giudiziaria, con descrizione esatta dei locali e delle cose da ricercare in base a precise testimonianze; e così via.

Ralph Nader, il famoso avvocato americano dei consumatori, in un suo articolo del 1988 sul New York Times ha riportato alcuni esempi dell’uso che le imprese americane hanno fatto del Quattordicesimo Emendamento, il quale assorbe e trasferisce emendamenti precedenti relativi alle società (50):

• Alla metà degli anni ‘80 un gruppo di Compagnie di Boston ha invocato il Primo Emendamento per giustificare gli sforzi finanziari fatti per sconfiggere un referendum popolare che si proponeva di aumentare le tasse sul reddito (personali e aziendali).

• Una società elettrica dell’Idaho ha evitato un accertamento sulla salute e sicurezza dei dipendenti citando il Quarto Emendamento.

• Una società tessile del Texas ha invocato con successo il Quinto Emendamento in un processo antitrust.

• Nel 1986 la Dow Chemical ha sostenuto di fronte alla Corte Suprema che il Quarto Emendamento proibisce all’EPA — Environmental Protection Agency — di effettuare voli di ricognizione sui suoi stabilimenti per verificare il rispetto delle norme antinquinamento. La Corte Suprema ha accettato il ragionamento, permettendo però i voli in base a dei cavilli di ordine tecnico.

• Le manifatture di tabacco americane si sono sempre opposte al bando della pubblicità alle sigarette invocando il Primo Emendamento.

Note al Capitolo III

47 – The economic basis of politics, op. cit., p. 198.

48 – George Fitzhugh, Sociology for the South, or the failure of free society, 1854.

49 – The economic basis of politics, op. cit., p. 210.

50 – “New York Times” del 9/4/1988.

Capitolo IV – Il carattere nazionale americano

1. L’omogeneizzazione culturale

Tutti sono concordi nell’ammettere l’esistenza di un carattere nazionale statunitense: tutti gli americani hanno in comune dei tratti psicologici e comportamentali di fondo, ben definiti e peculiari. Ed è così. Ci sono naturalmente le dovute differenze fisiologiche individuali, le diverse inclinazioni, e ci sono le diversità, invero piuttosto superficiali, fra zona e zona, fra il New England, il Sud e l’Ovest, dovute alle diverse storie, influenze e condizioni di vita, ma la base è la stessa.

Il carattere nazionale americano è praticamente quello puritano storico, diffuso in tutto il territorio grazie alla dinamica dell’espansione dell’Ottocento, e alla sua capacità di imporsi nelle date condizioni e quindi di fissare il tono culturale generale. A mano a mano che si liberavano, i territori a Ovest venivano occupati in primo luogo da abitanti delle 13 colonie iniziali, e in grande maggioranza del più popoloso New England. È noto che gli americani della Conquista del West erano chiamati Yankees. Ma gli Yankees, come li chiamavano anche gli americani del Sud, erano i Puritani del New England. Il nomignolo era stato dato loro dagli olandesi di Nuova Amsterdam nel Seicento, quando competevano per le pellicce: deriva da Jan Kees — Gianni Formaggino o più liberamente Gianni Scamorza — come i più sanguigni olandesi chiamavano i pallidi santarellini biblici della Massachusetts Bay Colony.

Oltre ad essere più numerosi gli Yankees, per le stesse ragioni a suo tempo spiegate per i Puritani storici, erano i più abili nell’acquisire le migliori posizioni economiche, ad avere successo nella colonizzazione. Gli americani del Sud, già non molto diversi in virtù dell’affinità religiosa, si allinearono e ne assorbirono la filosofia di vita. Non va dimenticato, inoltre, che praticamente sin dagli inizi del 1630 molti Puritani si spostarono dai siti iniziali in altre colonie, comprese quelle del Sud, là dove pensavano di cogliere migliori opportunità economiche.

Il fenomeno della riduzione del carattere americano a quello puritano era già stato osservato nel 1835 da Alexis De Tocqueville, un funzionario governativo francese mandato negli Stati Uniti per studiarne il sistema carcerario e che, colpito dalla singolarità del carattere americano, scrisse un classico sull’argomento, Democracy in America:

«Ma mentre gli americani si mescolano, essi diventano sempre più simili l’uno all’altro, le differenze risultanti dai loro climi, dalle loro origini e dalle loro istituzioni, diminuiscono; e loro si avvicinano sempre di più ad un tipo standard. Ogni anno, migliaia di uomini lasciano il Nord per trasferirsi in altre parti dell’Unione: essi portano con sé la loro fede, le loro opinioni, ed i loro modi; e siccome essi sono più colti di quelli fra i quali vanno a vivere, essi rapidamente emergono nel mondo degli affari, ed essi modificano la società al loro comodo. Questa continua emigrazione dal Nord al Sud è particolarmente favorevole alla fusione dei vari caratteri locali in un unico carattere nazionale. La civilizzazione del Nord sembra essere lo standard comune al quale l’intera nazione verrà un giorno assimilata» (51).

Lo standard caratteriale comune cui si stavano uniformando tutti gli americani era certamente quello puritano. Così De Tocqueville descriveva il tratto più saliente di tale carattere, la frenetica avidità:

«[Gli europei poveri non pensano ai disagi che sopportano] mentre gli ultimi [gli americani] stanno perennemente a rimuginare sui beni che non possiedono. É strano vedere con quale ardore febbricitante gli americani inseguono il loro proprio benessere; ed osservare il vago terrore che costantemente li tormenta, il terrore di non aver preso la strada più breve al medesimo. Un nativo degli Stati Uniti si attacca ai beni del mondo come se fosse certo di non dovere morire mai; ed egli così frenetico nell’acchiappare tutto quello che è a portata di mano che uno lo supporrebbe costantemente atterrito dal pensiero di non poter vivere abbastanza per goderseli… A prima vista c’è qualcosa di sorprendente in questo strano tormento di tanti uomini tanto benestanti, frenetici nel mezzo dell’abbondanza. Lo spettacolo in se stesso, certamente, è vecchio come il mondo; la novità è quella di vedere un intero popolo darne una dimostrazione… La loro predilezione per le gratificazioni materiali deve essere considerata come la fonte originaria di quella segreta inquietudine che le azioni degli americani tradiscono…» (52).

L’esito della Guerra Civile del 1861-1865 naturalmente non fece altro che accentuare questa azione di colonizzazione culturale puritana, soprattutto al Sud dove, finita la guerra, si precipitarono orde di commercianti e imprenditori provenienti dal New England.

Comunque, già da tempo i Puritani non si chiamavano più così. Le continue emigrazioni verso l’Ovest e verso il Sud, e le immigrazioni nel New England dall’Europa, iniziate nel 1840, avevano disperso i nuclei originari della Chiesa Congregazionalista, che a partire dalla prima metà dell’Ottocento iniziò un rapido declino come denominazione protestante a sé. Si calcola che attualmente i suoi membri ammontino a circa 150.000, concentrati soprattutto nel New England. La sua funzione di sovrastruttura culturale passò alle altre denominazioni protestanti americane, tutte più o meno adatte allo scopo, perché tutte basate sul Vecchio Testamento e su una sua interpretazione più o meno letterale, e funzionale ai desideri dei “fedeli”. I Puritani così cambiavano nome — diventavano gli americani —, ma la sostanza delle cose non cambiava.

Intorno al 1870, in effetti, iniziò a diffondersi negli Stati Uniti l’usanza della circoncisione. Essa trovava la sua giustificazione nella convinzione — diciamo ora americana — di essere il popolo eletto del Vecchio Testamento, divenuta poi attuabile praticamente su vasta scala grazie ai progressi fatti dalla medicina e dalle condizioni igieniche generali. Il Senatore Beveridge, nel suo discorso sulle Filippine, non faceva che esternare una implicita e diffusa convinzione nazionale. Sino al 1870 si calcola che negli Stati Uniti solo un 5-8% dei soggetti fossero circoncisi, una percentuale comunque già significativa considerato il piccolo numero di ebrei presenti, meno dell’1% della popolazione: gli ebrei sarebbero immigrati in numeri consistenti solo dopo il 1880. Poi, a partire appunto dal 1870, tale percentuale cominciò ad aumentare in modo costante, secondo il seguente andamento (53):

anno % di circoncisi

1870 5

1880 10

1890 15

1900 25

1910 35

1920 50

1930 55

1940 60

1950 70

1960 75

1970 80

1979 85

Attualmente il 95% della popolazione maschile americana dovrebbe essere circoncisa: gli ospedali infatti eseguono l’intervento sui neonati praticamente di routine, spesso senza chiedere l’autorizzazione ai genitori, tanto la cosa è scontata. La religione di appartenenza non ha importanza: è appunto una usanza nazionale.

Secondo alcuni le massicce immigrazioni provenienti dall’Europa, portando con sé elementi nuovi e di diversa mentalità, avrebbero favorito la creazione di un carattere nazionale particolarissimo, risultante da più componenti. È appunto la teoria del melting pot, del crogiolo etnico e culturale. È evidente che non ci fu nessun crogiolo etnico: i matrimoni misti sono tuttora una rarità negli Stati Uniti, specie fra razze molto diverse come fra bianchi e neri. Allo stesso modo, non ci fu neanche un crogiolo culturale: ci fu, come s’è detto, una riduzione ad una psicologia unica, quella da sempre dominante. Sino al 1840 ci fu una immigrazione lenta e costante, proveniente generalmente dalla Gran Bretagna, che portava elementi già molto affini agli Yankees, e che rapidamente diventarono tali a tutti gli effetti. La prima grossa ondata immigratoria si verificò dal 1840 al 1860, quando giunsero nel New England circa 4 milioni di persone. Queste provenivano in genere dall’Irlanda e ancora dalla Gran Bretagna. Rimasero in loco, a svolgere i lavori più umili, mentre i residenti si spostavano ad Ovest. Gli irlandesi erano portatori di una mentalità radicalmente diversa — erano cattolici — ma restavano sulla difensiva, impegnati solo a sopravvivere, in un ambiente culturalmente molto caratterizzato. Alla seconda o terza generazione erano diventati americani anche loro. La loro religione non giocava un ruolo troppo importante. Mettendo piede in America — come avvenne con gli irlandesi di questo periodo — anche la religione cattolica si dovette infatti adattare: continuò a insistere sul Nuovo Testamento, ma in modo obliquo, mediato, poco chiaro, risultando così poco efficace come valida sovrastruttura culturale da contrapporre a quella protestante. Discorso analogo vale per la seconda e ultima grande ondata di immigrazione europea, quella che dal 1860 al 1914 portò, sempre nel New England, circa 14 milioni di persone provenienti da Germania, Italia, Grecia, Irlanda, Gran Bretagna, Polonia, Russia; parecchi erano ebrei.

Per quanto riguarda la capacità uniformatrice della mentalità americana non bisogna dimenticare che gli americani non tollerano critiche al loro modo di vivere, all’American Way. Essi così non danno spazio ad altre espressioni, anche materialmente (si veda, per sommi capi, la fine riservata agli indiani e ai cajouns). Tutte le religioni sono ammesse, a patto che non interferiscano con l’American Way. Non si fa carriera in nessun campo negli Stati Uniti, non si acquisisce nessuna posizione di potere né economico né di altro tipo, se non si è dei buoni interpreti dell’American Way of Life. Già De Tocqueville aveva notato questa sostanziale intolleranza americana:

«Gli americani, nei loro rapporti con stranieri, sì mostrano insofferenti della più piccola critica, ed insaziabili di elogi… essi incessantemente ti tormentano per estorcerti elogi, e se resisti ai loro imbeccamenti, essi finiscono per lodarsi da loro stessi… Io non so di alcun altro paese nel quale c’è così poca indipendenza di mente e così poca vera libertà di discussione come in America. In ogni stato costituzionale europeo ogni sorta di teoria religiosa e politica può essere liberamente propagata e disseminata… In America la maggioranza erge formidabili barriere attorno alla libertà di opinione; entro queste barriere un autore può scrivere quello che gli pare, ma guai a lui se passa oltre. Non che egli corra il rischio di un auto da fé, ma egli è esposto a continue persecuzioni e diffamazioni. La sua carriera politica è chiusa per sempre, dato che egli ha offeso la sola· autorità che la può aprire. Qualunque sorta di compensazione, fosse solo quella della· celebrità, gli è negata… Col tempo egli si dà per vinto, sopraffatto dallo sforzo quotidiano che gli è richiesto, e sì riduce al silenzio, come se sentisse rimorso per il fatto di aver detto la verità» (54).

La stessa osservazione veniva fatta 130 anni dopo dal filosofo Herbert Marcuse (1898-1979), il quale però, come vedremo, ebbe anche a sperimentare sulla sua persona uno di quegli auto da fè del popolo americano che De Tocqueville aveva un po’ troppo frettolosamente escluso:

«Indipendenza di pensiero, autonomia, e diritto alla opposizione politica sono deprivate della loro funzione critica di base in una società [quella americana] che sembra sempre più capace di soddisfare i bisogni degli individui attraverso il modo in cui essa è organizzata. Tale società può a diritto richiedere l’accettazione dei suoi principi e istituzioni, e ridurre l’opposizione alla discussione e promozione di politiche alternative entro lo status quo (55).

Per tutti questi motivi il fatto che a partire dai primi decenni del Novecento gli Stati del New England siano passati addirittura a una maggioranza cattolica non ha una grande importanza culturale. Oltretutto le posizioni di forza economiche sono rimaste nelle mani degli Yankees, detti ora WASP — White Anglo-Saxon Protestants.

Il che ha portato solo ad una maggiore tendenza al liberalismo politico. Già nel 1860 un terzo della popolazione di Boston era costituita da irlandesi cattolici. Il Massachusetts fu logicamente il primo Stato a subire questo apparente stravolgimento (i suoi abitanti erano i primi a precipitarsi all’Ovest, alle Golden Rush della California, del Colorado, delle Black Hills, del Klondyke; sull’Oregon Trail: sul petrolio della Pennsylvania e del Texas ecc.): la prima città americana a eleggere un sindaco cattolico fu Lawrence in Massachusetts nel 1881, seguita nel 1884 dalla stessa Boston dove fu eletto l’irlandese Hugh O’Brien, mentre nel 1957 veniva eletto governatore dello Stato il cittadino di origine italiana Foster Fuscolo. Cose senza importanza, ma intanto iniziava la leggenda del melting pot.

2. Il carattere americano

Il tratto più caratteristico degli americani è perciò l’avidità di beni materiali, come notato da De Tocqueville e da tutti gli autori che hanno scritto sull’argomento — un dato sul quale è oramai superfluo insistere.

Non rimane che osservare come l’amore americano per il danaro sia fine a se stesso. Gli europei, e invero quasi tutti i popoli, amano certo il danaro, ma in genere per ciò che esso può procurare di necessario e soprattutto di piacevole. Gli americani invece accumulano il danaro e con esso, a ben vedere, tolto il necessario, non ci fanno niente. Mangiano come tutti sanno, cioè male, un po’ meno al Sud, gratificato anche dal gumbo dei neri e dal crowfìsh dei Cajouns. Si vestono allo stesso modo, con indumenti da pochi dollari adatti per lavori di fatica; quando devono vestire decorosamente, magari per motivi professionali, scelgono capi standard, comunque di poco prezzo, e in tessuti duri e rigidi di gabardine, perché devono resistere all’usura e soprattutto tenere la piega. Vivono in case di legno e materiali compositi che si erigono in una settimana, con infissi leggerissimi e imposte finte. Sono molto graziose da vedere, e confortevoli, ma sono esposte agli incendi e agli uragani e in ogni caso difficilmente sopravvivono al loro costruttore. Non danno la soddisfazione di vivere in una vera casa, fatta per proteggere dall’ambiente e dal futuro tramite il suo valore capitale costante: sono economiche, e beni di consumo. Anche le ville dei grandi ricchi sono costruite perlopiù con tali criteri: sembrano edifici importanti, di stile spesso neoclassico all’apparenza, ma gli ornamenti sono finti, come le colonne e i frontoni, e i materiali ovunque scadenti. Le ville dei divi di Hollywood a Beverly Hills sono in realtà dei vasti complessi più simili a luna park, ricchi come sono di gesso e cartone. Mattoni, intonaco a cemento e marmi sono in realtà quasi sconosciuti negli Stati Uniti: un tempo erano usati nei palazzi dei centri storici, e ora solo in pochi edifici pubblici e grandi banche.

Considerata la morale pubblica altamente repressiva, gli svaghi e divertimenti degli americani sono paragonabili a quelli degli adolescenti europei, escludendo però per questi ultimi la birra e tenendo conto che negli Stati Uniti il ballo è quasi ovunque visto con sospetto. Nessun livello di agiatezza raggiunto sembra sufficiente agli americani per ridurre il ritmo di lavoro, per prendersela un po’ più comoda; anzi più guadagnano e più lavorano. Essi sorprendono per l’intensità e la concentrazione nelle loro ore lavorative, e per il numero delle stesse, che nel caso di professionisti, imprenditori e dirigenti raramente scende al di sotto delle dodici giornaliere, arrivando non infrequentemente alle sedici. Quindi gli americani si privano anche del piacere di lasciare qualcosa ai figli: raggiunta la maggiore età li allontanano, rimanendo peraltro in buoni rapporti, e conducono la loro vita senza pensare più a loro, facendo all’ultimo dei testamenti che riservano spesso delle sorprese; se i figli frequentano l’università in genere devono provvedere loro stessi alle spese relative, ostacolo comunque mai insormontabile.

In conclusione, sembra che gli americani si agitino per fare danaro ad un solo scopo: far vedere a tutti che, appunto, ne possiedono. A questo in effetti tengono, pur cercando al solito di raggiungere l’obiettivo con la minima spesa: la casa è di cartone e segatura pressata, ma deve sembrare “da favola”, e così accade; l’automobile può avere prestazioni infami, ma deve essere grande (esigenze economiche negli ultimi anni hanno portato all’introduzione di parecchie vetturette giapponesi, mentre le ditte americane hanno prodotto anche modelli all’europea; l’auto più desiderata rimane però la Cadillac); l’orologio deve essere d’oro e di marca nota, non importa se falso; e così via con status symbols luccicanti ma generalmente da poco. Il fatto che la ricerca americana della ricchezza materiale sia fine a se stessa, senza servire ad alcuno scopo concreto, testimonia della natura completamente irrazionale di tale atteggiamento, frutto infatti di un particolare modo istintivo di interpretare la vita, come si diceva nel par. 2 dell’Introduzione.

Avendo un preciso scopo nella vita gli americani sono utilitaristi, nel senso funzionale al medesimo. La precisazione è necessaria per via dell’equivoco generato dall’accezione in genere positiva del termine “utilitarismo”, che deriva da “utile”. In realtà gli americani non fanno affatto ciò che è utile in assoluto, ma ciò che è utile per il loro scopo, appunto arricchirsi. Così essi programmano la loro vita e prendono le decisioni giornaliere in base al profitto materiale che ne può derivare.

Ciò va naturalmente a detrimento della sfera morale degli individui; perciò gli americani sono anche sentimentalmente piuttosto aridi, poco emotivi e abbastanza incapaci di slanci generosi, o disinteressati. Ciò spiega anche la strana mancanza di eroi nella storia americana. Gli eroi della storia civile americana, i personaggi più stimati e ammirati, sono uomini d’affari riusciti, tycoons di questo o quel settore merceologico. Gli eroi della storia bellica sono generali abili nella politica come George Washington o nella logistica come Ike Eisenhower, o portaordini come Paul Revere ed esploratori come Daniel Boone e Davy Crockett. Per sua natura, come si è spiegato, la religione protestante non si presta a creare martiri; nonostante ciò vi fu qualche Protestante finito al rogo in Europa; non così naturalmente negli Stati Uniti, i cui missionari protestanti si guardarono sempre bene dal mettersi in situazioni di pericolo in nome della loro “fede”. Allo stesso modo, a causa di questo utilitarismo materialistico, mancano nella storia americana grandi figure nel campo dell’arte e delle discipline umanistiche: non sono carriere remunerative.

Una caratteristica importante dell’utilitarismo americano è di essere a breve termine. Gli americani hanno la tendenza a realizzare il proprio massimo tornaconto materiale immediato, trascurando le conseguenze negative che ciò potrebbe portare in futuro. I commercianti americani raramente si astengono dall’imbrogliare un cliente per il timore poi di perderlo; piuttosto essi pensano che Every minute is born a sucker (“Di gonzi ne nasce uno al minuto”). Anche la politica estera americana risente di tale attitudine. Essa è in effetti estremamente utilitaristica, ma miope: mira a procurarsi grandi vantaggi materiali a breve, dovendo usare per ciò sistemi assai brutali, e non tiene conto che in tal modo ingenera nel mondo un risentimento che nel futuro potrebbe rivelarsi determinante.

Gli americani hanno una capacità di odiare decisamente abnorme. Ciò deriva dal loro modo inconscio di interpretare i rapporti umani in una chiave di competizione, istintivamente il prossimo è visto come un potenziale concorrente, il cui scopo è di danneggiarli; la reazione di fronte all’eventuale o presunto torto o ostacolo è quindi esagerata perché in qualche modo preconcetta. In sostanza agli americani manca il criterio di simmetria nel giudicare gli altri; non sono in grado di capire le motivazioni altrui, ma vedono solo il danno recato loro. Questa incapacità di mettersi nei panni altrui porta anche a una certa insensibilità degli americani, perfino a una certa crudeltà.

La storia americana offre una dimostrazione esemplare di tale attitudine. Gli indiani non furono solo sterminati, ma anche odiati come persone. Analogo sentimento ci fu per i neri, dopo che da comodi schiavi divennero delle seccature. In tutte le loro guerre gli americani compirono atti dettati unicamente da un odio genuino per l’avversario, e portarono devastazioni materiali e soprattutto umane ben al di là del necessario. Gli stessi embarghi economici decretati nei confronti di tanti paesi, fatti applicare puntigliosamente ai propri alleati e succubi, non sono altro che espressioni di odio, privi come sono di effetti politici e militari da una parte e carichi di nefaste conseguenze per le popolazioni civili dall’altra.

Tale attitudine è senz’altro percepibile a livello di singoli e di società. Gli americani raramente sono dei buoni amici, ma facilmente possono diventare degli ottimi nemici. Quando sembrano amici è perché sono su un palcoscenico sul quale stanno cercando di dimostrarvi qualche cosa sul loro conto; per farseli nemici basta far loro un torto, anche involontario, o costituire un ostacolo a qualche obiettivo. A loro non piace nemmeno essere snobbati, come diceva De Tocqueville. Gli ambienti di lavoro americani sono proverbiali per i rancori più o meno sotterranei che li attraversano e che in un modo o nell’altro interessano un po’ tutti. Un esempio di tale atmosfera è addirittura la Casa Bianca: le vicende del presidente Clinton e di qualche predecessore, con quei contorni di registrazioni, tradimenti, delazioni dei vari collaboratori e collaboratrici riproducono situazioni abbastanza tipiche nel grande paese.

Le hate campaigns (“campagne di odio”) sono una caratteristica peculiare e oltremodo significativa della società americana. Vi può partecipare un numero qualunque di persone, da un piccolo gruppo a tutta la nazione, e possono avere qualunque obiettivo: una singola persona, un gruppo, una categoria sociale, un’etnia, un popolo estero. Può essere scatenata dai più svariati motivi, veri o più spesso presunti, e il loro tratto più sorprendente è la convinta e diretta partecipazione dei singoli alla campagna di odio per la vittima designata. C’è una hate campaign quando un quartiere rifiuta un nuovo venuto: tutti gli abitanti cominciano allora con dispetti, danneggiamenti, telefonate anonime eccetera, e si placano solo quando l’intruso se ne va. Il caso tipico è quello di una famiglia nera che si trasferisce in un quartiere bianco, ma possono esserci altre motivazioni, come per esempio il fatto che un membro della nuova famiglia sia malato di Aids. Ci sono spesso hate campaigns nei confronti di responsabili di particolari crimini, per i quali allora si fanno manifestazioni e sit-in per chiedere che sia comminata la pena di morte o, se già fatto, che la stessa sia eseguita. Quando Ted Bundy fu giustiziato sulla sedia elettrica, 300 membri della hate campaign relativa organizzarono un happening di fronte al carcere per festeggiare. Ted Bundy era un feroce serial killer di ragazze, ma ci sono hate campaigns del genere anche per autori di incidenti stradali nefasti, specie se al momento ubriachi.

Contestare l’American Way può facilmente attirare una hate campaign. Durante l’Era McCarthy ogni sospettato della Commissione si ritrovava anche improvvisamente oggetto della persecuzione di conoscenti e colleghi. Più tardi anche il filosofo Herbert Marcuse sperimentò una hate campaign americana. Fra il 1967 e il 1968 Marcuse, allora professore all’Università di California sita nel quartiere di La Jolla a San Diego, fece un giro di conferenze in Europa, incontrando spesso gli studenti del Sessantotto europeo. In una di queste occasioni, malauguratamente trasmessa negli USA, egli incontrò anche Rudi Dutschke (noto anche come “Rudi il Rosso”), famoso “contestatore” dell’epoca. Non ci furono baci e abbracci, né reciproche attestazioni di stima, ma Marcuse non contrastò il giovane e ciò in patria fu interpretato come connivenza. Già il suo One dimensional man (L’uomo a una dimensione) del 1964 non era piaciuto all’establishment. Al suo ritorno egli trovò gli abitanti del quartiere di La Jolla in rivolta contro di lui, insieme a buona parte del corpo accademico. Ci furono petizioni al Consiglio di Facoltà, e anche all’FBI, per farlo licenziare, e possibilmente arrestare; ci furono anche diverse minacce di morte anonime. Il Consiglio di Facoltà addirittura prese in esame la questione, ma dopo un lungo dibattito concluse che il professore poteva rimanere. Marcuse rimase, ma non scrisse più niente sull’America, stando in America. L’attrice Jane Fonda è ancora l’obiettivo di una hate campaign. La cosa cominciò nel 1972, quando visitò la città di Hanoi sotto i bombardamenti e si fece fotografare accanto a una postazione contraerea. Nel 1988 una sollevazione dei residenti di Waterbury e Holyhoke, due cittadine del Connecticut, le impedì di girare in loco un film con Robert De Niro (Stanley & Iris, in italiano Lettere d’amore). Esiste anche una associazione ufficiale, la Veterans Coalition Against Hanoi Jane, il cui unico scopo è di mantenere vivo l’odio verso la donna.

La capacità di odiare, di norma, porta con sé un atteggiamento vendicativo: e gli americani sono vendicativi, come nel 1835 aveva già immancabilmente notato De Tocqueville. La vendetta è un sentimento diffuso e accettato nella società americana, che sembra lo coltivi pubblicamente. Sono in vendita dei manuali con consigli sulla vendetta più adatta nelle varie occasioni, come ad esempio il Get even: The complete book of dirty tricks (di George Hayduke, Paladine Press, 1986); l’argomento è trattato con un certo umorismo, ma è trattato. Ci sono anche negozi specializzati, come “Enough is Enough! Creative Revenge for Today’s World” (“Quando è troppo è troppo! Vendette creative per il mondo di oggi”) della signora Nan Berman a Newton in Massachusetts, che fa pervenire oggetti significativi ai destinatari indicati dai clienti (un pesce marcio, un mazzo di rose appassite, un paio di corna ecc.).

Ma è forse nella politica estera che meglio si evidenzia questo tratto caratteriale americano. I rancori internazionali degli USA hanno durata abnorme. Il nuovo governo che si insediò in Russia nel 1917 fu riconosciuto solo nel 1933; quindi, nello stesso 1917, furono imposte alla Russia sanzioni economiche che durarono, tolta la parentesi della Seconda Guerra Mondiale, sino al 1990, e sono ancora molti i materiali che non possono essere esportati in Russia. Il governo comunista cinese del 1949 fu riconosciuto solo nel 1979, cioè trent’anni dopo, mentre a tutt’oggi continuano le sanzioni economiche imposte nel 1949. L’embargo economico a Cuba cominciò nel 1962 ed è tuttora in vigore; ad esso fu aggiunto nel 1996 l’emendamento Helms-Burton, che prevede sanzioni per qualunque ditta del mondo che faccia investimenti a Cuba; i personaggi dello spettacolo che vanno ad esibirsi a Cuba, poi, non ottengono visti di ingresso negli Stati Uniti, di qualunque nazionalità siano (il che fra l’altro testimonia l’importanza politica che gli Stati Uniti attribuiscono al mondo dello spettacolo — a Hollywood). Un analogo embargo fu imposto alla Libia a partire dal 1986. Nel 1991 sono iniziate le sanzioni dell’ONU contro l’Iraq, volute dagli Stati Uniti, le quali, comprendendo anche medicinali di prima necessità, hanno provocato a tutt’oggi la morte di decine di migliaia di bambini; e ancora non se ne vede la fine. Anche l’atteggiamento provocatorio e pretestuoso tenuto dai membri statunitensi delle commissioni di controllo dell’ONU in Iraq rientra nella logica dei rancori post-bellici (il problema è che gli Stati Uniti non vinsero la Guerra del Golfo, non essendo riusciti a spodestare Saddam Hussein).

Certamente, e come vedremo bene nel capitolo dedicato alla politica estera americana, dal loro punto di vista gli Stati Uniti hanno ottimi motivi per essere scontenti di quei paesi, e di tutti gli altri che finiscono nel loro mirino, ma i danni ivi provocati per così lunghi periodi di tempo, essendo privi di effetti politici, non possono che trovare la loro ultima spiegazione soltanto in un desiderio di vendetta fine a se stesso.

Gli americani sono molto formalisti e superficiali; essi cioè badano molto di più alla forma delle cose che alla sostanza, come del resto si era intravisto a proposito dei loro status symbols. Ciò si nota di primo acchito da come vestono: in genere sempre con capi scadenti, come s’è detto, ma tutti in quello stesso stile, diciamo, che presso di loro è codificato nei minimi dettagli per ogni occasione. Dividono le occasioni in private e pubbliche. In privato si vestono casuale a seconda dei climi sono in braghe e maglietta, in training suit [la nostra tuta – N.d.E.], in jeans e flanella. Per le occasioni pubbliche ci sono regole non scritte ma ferree e seguite da tutti. Se sono impiegati, completo con camicia e cravatta, e scarpe “civili”; la giacca può, ma non sempre, essere omessa nei periodi caldi. Lo stesso vale per ogni occasione mondana poco importante, allorché però il completo deve essere molto scuro, le scarpe nere e la camicia bianca (vestono così anche giovani e ragazzini). In circostanze più impegnative è d’obbligo il tight: esistono molte occasioni del genere negli Stati Uniti e il tuxedo [termine americano per “smoking” – N.d.E.] è presente in ogni armadio, ammesso che ci sia. I venditori porta a porta sono tutti uguali: perfettamente sbarbati, pettinati e profumati, con la valigetta in mano e — assolutamente — la cravatta.

L’esemplare è replicato in tutto il mondo dai Testimoni di Geova, secondo le disposizioni del loro Corpo Direttivo, che è americano e ha sede a Brooklyn.

Il formalismo americano è una forma mentis e riguarda ogni aspetto della vita. Gli americani mentono molto, ma solo dopo avere esaurito la risorsa della verità formale ma incompleta che nasconde la bugia sostanziale. Negli Stati Uniti conta solo il contratto scritto; il principio che un contratto debba essere equo nella sostanza non è riconosciuto. Il formalismo è applicato a piene mani nel campo della morale. Gli americani così non sono affatto morali, bensì moralisti, e cioè ipocriti. Un banale esempio lo ha dato il presidente Clinton in persona: egli predilige certe prestazioni dalle segretarie e a quelle restie, perché proclamantisi ligie alla Bibbia, assicurava che nelle Scritture il sesso orale non era contemplato; a loro volta quelle fìngevano di accettare il ragionamento, e così — come si dice terra terra — “down to the job”.

La preferenza americana per la forma rispetto alla sostanza arriva a livelli estremi, che sembrano patologici. Gli americani non si preoccupano di come sono, ma di come gli altri pensano che loro siano, di come gli altri “li vedono”. Finiscono così per assumere l’identità assegnata loro dalla società secondo i suoi canoni prestabiliti, determinati in primo luogo in base al mestiere. Lo stereotipo dell’operaio, per esempio, prevede che si vesta trasandato, beva birra (anche se non dovrebbe), giochi a bowling, vada a pesca, guidi una vecchia e grossa auto americana, o meglio un pickup, disprezzi la cultura e la politica, sia gioviale, abbia una moglie casalinga e sciatta, dei figli indisciplinati. Ebbene, sono tutti così, proprio come si vede nei serial televisivi, e chi non lo è viene considerato un odd ball. É lo stesso è per tutte le altre categorie, a ciascuna delle quali vengono associati un atteggiamento, degli hobby preferenziali, certe letture (se previste) eccetera. Il fenomeno fu ben osservato dal sociologo David Riesman, che nel suo The lonely crowd del 1950 (La folla solitaria) coniò per gli americani una definizione di successo: other oriented, orientati verso gli altri.

È questa other orientedness a spiegare lo straordinario talento degli americani per la recitazione: in pratica recitano per tutta la vita e quella dell’attore, o dell’uomo di spettacolo in generale, è per loro una seconda natura. Sostenuta da tali personaggi, e da registi e scrittori di analoghe propensioni, l’industria americana dello spettacolo, Hollywood in testa, è effettivamente fortissima, la migliore del mondo — e inarrivabile. Il talento nella recitazione rende gli americani anche eccellenti commercianti, in particolare dei venditori insuperabili, mansione nella quale si avvalgono anche di una tenacia fuori dal comune.

Il concetto di other orientedness non va confuso con l’estroversione. In realtà gli americani non sono estroversi, tutt’altro; sono persone che tendono alla tetraggine (e anche all’ombrosità), come del resto i Puritani storici. Ciononostante sembrano espansivi, soprattutto perché ridono spesso. Non bisogna mai dimenticare che gli americani si sentono sempre su un palcoscenico. Ognuno deve dimostrare di essere un vincente, ed essere soddisfatti della propria condizione — qualunque sia, o quasi — è il requisito minimo indispensabile per non essere classificato tra i frustrati e i falliti. Inoltre la società americana è fortemente caratterizzata in senso commerciale; il commercio vi predomina e tutti si sentono commercianti, in particolare venditori (non gettano via le cose vecchie ma organizzano yard sale nel loro giardino, anche se sono metalmeccanici o insegnanti). Col tempo, dunque, in tale società si è affermato come standard il modo d’essere artificiosamente gioviale del venditore. Infine l’utilitarismo domina, e mostrarsi gioviali conviene sempre.

Ma nel fondo gli americani non sono affatto gioviali. Estremizzando un po’ la situazione, ma chiarendo il concetto, si potrebbero ricordare ora le dichiarazioni della signora Sa Thi Qui, scampata insieme a pochi altri al massacro di My Lai avvenuto nel 1968 in Vietnam, quando la compagnia “Charlie” sterminò i 500 abitanti del villaggio, quasi tutti donne, vecchi e bambini (gli uomini erano a pescare). Disse la donna, intervistata per il documentario Remember My Lai, trasmesso sulla rete americana PBS il 23 maggio 1989:

«I soldati americani vennero tre volte nel nostro villaggio. La prima volta erano tutti sorrisi, tutti okays, davano le caramelle ai bambini. La seconda volta non ridevano più, non dicevano niente. La terza volta che vennero, ci uccisero tutti».

Il rovescio della medaglia dell’other orientedness è naturalmente il conformismo, innanzitutto sociale e poi intellettuale. Gli americani sono conformisti, e poco capaci di pensare in modo indipendente, autonomo, al di fuori degli schemi offerti dalla società. É una mancanza diffusa fra gli uomini della terra ma nel caso degli americani è sconcertante, come notarono De Tocqueville, Riesman, Marcuse e altri.

Questo, nei tratti salienti, è il carattere americano, ogni giudizio di merito essendo escluso perché presupporrebbe l’esistenza di un carattere umano riconosciuto come eccellente. Accanto a questo ci sono le qualità intellettuali. Come s’è detto gli americani sono intelligenti, ben più di quanto generalmente gli si riconosca. E, come abbiamo avuto modo di dire, la loro dote più pregevole è la consequenzialità di ragionamento: essi partono da determinati presupposti, da certe verità giudicate “evidenti di per se stesse”, e quindi procedono di deduzione in deduzione, mettendole in pratica. La società americana è un vero modello di logica applicata: parte dal presupposto che lo scopo di ognuno sia di arricchirsi, e tutto vi è organizzato perché ciò sia possibile — per chi vi riesce. Anche la politica estera americana è un modello di logica, come si potrà apprezzare nel capitolo specifico. Il problema, per gli americani, è che la validità dei loro presupposti indimostrati e indimostrabili deve ancora essere verificata dalla Storia — che potrebbe anche trovarli sbagliati.

Alcune debolezze americane non sono dovute a mancanza di intelligenza, ma a un suo utilizzo mirato. Gli americani, per esempio, latitano nel campo cosiddetto del pensiero, della speculazione intellettuale: non ci sono mai stati grandi filosofi o pensatori americani, né grandi scrittori in generale. I “grandi” romanzieri americani tipo Hemingway e Scott Fitzgerald sono venuti alla ribalta al traino del peso politico internazionale degli USA; quelli alla ribalta oggi sono sostenuti anche dal battage pubblicitario della grande industria. Ciò è dovuto al fatto che gli americani, sia come autori sia come pubblico, non sono interessati a una indagine approfondita della realtà; ciò dipende da un motivo complesso, un po’ al di fuori degli scopi del presente lavoro, che qui si può esemplificare con la completa soddisfazione per la loro personale interpretazione della realtà. Riveste naturalmente un ruolo importante la loro other orientedness. I prodotti industriali americani, poi, non sono certo di riferimento, compresi i manufatti militari, i cui modelli più validi vengono sistematicamente copiati — in genere ai russi, come per esempio anche nel caso del bombardiere “invisibile” B2 Stealth, per non parlare dei sommergibili: a tutt’oggi gli USA non sono riusciti a produrre un razzo vettore paragonabile al russo Energia, che ha una spinta di 150.000 tonnellate. Il che dipende dal fatto che gli americani si applicano di preferenza a quei settori che promettono i guadagni maggiori e più immediati: il commercio, la finanza e il business dell’intrattenimento in generale, comprendente la filmografia, la discografia, la letteratura d’evasione; trascurano invece la produzione di manufatti, meno redditizia e più a lungo termine. In effetti le voci maggiori dell’export americano, tolti gli armamenti che seguono una logica politica, sono costituite da materie prime agricole e da prodotti per l’intrattenimento, principalmente i film di Hollywood. Gli Stati Uniti — ulteriore equivoco — non sono una potenza industriale, ma agricola e commerciale.

Note al Capitolo IV

51 – Alexis de Tocqueville, Democracy in America, The Colonial Press, New York, 1898, p. 411·Prima edizione del 1835.

52 – Ivi, p. 205.

53 – Edward Wallerstein, Circumcision. An American health fallacy Springer Publishing Company, New York, 1980, p. 217.

54 – Democracy in America, op. cit., pp. 96 e 257.

55 – Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi 1974.