PARTE PRIMA

Parte prima – La nascita della Nazione americana

Capitolo I – Genesi della civilizzazione americana

1. Il Medioevo europeo

Come fossero i romani lo si vede da ciò che fecero. Così il sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) descrisse la loro organizzazione sociale:

«Per avere una vera immagine del tardo Impero Romano in termini moderni uno deve immaginare una società dove lo Stato possiede o controlla e regola le miniere e le industrie del ferro e del carbone, tutte le fonderie, tutta la produzione di liquori, zucchero, tabacco, fiammiferi e tutti i prodotti di consumo di massa ora fabbricati da monopoli privati. In più lo Stato avrebbe enormi possedimenti demaniali, condurrebbe officine per la produzione di articoli militari così come quelli richiesti dall’apparato burocratico, possiederebbe tutte le navi e le ferrovie, e concluderebbe contratti di Stato per regolare le importazioni di lana. Uno deve immaginare l’intero complesso condotto secondo le regole di una organizzazione burocratica, e insieme a quello un sistema di registri e una pletora di documenti, accademici o di altra natura, richiesti per qualunque attività. Se noi immaginiamo tutto questo, sotto un regime militaristico e dinastico, allora noi abbiamo riassunto lo stato delle cose durante il tardo Impero Romano, con l’unica differenza che la tecnologia allora non era così sviluppata come adesso» (27).

I romani vedevano la società in termini di collettivo; ognuno di loro si sentiva una parte del tutto, senza particolari necessità o giustificazioni di doverne emergere, di distinguersi. L’unica differenziazione concepita come legittima fra i membri della società, in termini di prestigio e anche economici, era dovuta alla funzione ricoperta nell’ambito, e al servizio, di quel corpo unico che era la comunitas. La metafora di Menenio Agrippa, che paragonava le classi sociali agli organi del corpo umano, illustra bene il modo di interpretare le relazioni sociali di quel popolo. Di qui l’organizzazione statale che si diede, altamente collettivista, burocratizzata, militarizzata. Al vertice dell’organizzazione non stava un Parlamento, ma un uomo solo. Le decisioni prese dai Parlamenti sono il frutto di compromessi e mediazioni fra interessi diversi, in conflitto fra di loro, e la mentalità romana non concepiva all’interno della società alcun conflitto: tutto doveva essere per il bene generale, che non era mai difficile caso per caso individuare, bastando una visuale panoramica e buona volontà. In effetti questa organizzazione ebbe una serie pressoché ininterrotta di imperatori consapevoli del proprio ruolo e coscienziosi. La forma autocratica del tardo Impero Romano non è in contraddizione con gli inizi repubblicani: già allora ogni autorità risiedeva nel Senato e nel popolo; semplicemente, quando la dimensione dell’organizzazione divenne mondiale, tale concetto non poté che essere concretizzato in una persona sola.

Una cosa importante da notare è che l’Impero Romano scoraggiò l’iniziativa privata: come ricordato da Weber, tutto era regolato dallo Stato, quando non direttamente gestito. In particolare esso annullò quasi del tutto i traffici commerciali privati, sia per terra che per mare. La figura del commerciante, sempre mal tollerata anche nella Roma repubblicana, divenne sempre più rara in tutto l’impero, sino a scomparire pressoché totalmente. Un altro aspetto scoraggiato sino All’annullamento fu l’innovazione tecnologica, per il timore che creasse disoccupazione. L’imperatore Vespasiano, per esempio, respinse il progetto di una macchina per la pavimentazione stradale perché avrebbe sostituito il lavoro di cento operai.

Questo modo di interpretare i rapporti umani in termine di collettivo — un termine estremamente ampio, che comprendeva tutto il genere umano, e del tutto nuovo per quei tempi — fu una delle chiavi del clamoroso successo romano: la creazione dell’unico impero mondiale della Storia (i suoi confini abbracciavano tutto il mondo ragionevolmente agibile). L’altra chiave fu il loro ateismo di fondo, a dispetto della loro complicata impalcatura religiosa. Anche questo si vede dalle cose realizzate: la creazione di grandi opere tese alla modificazione della natura come strade, ponti, acquedotti, porti artificiali, e l’impegno profuso in una amministrazione minuziosa ed esaustiva di tante popolazioni testimonia l’implicita convinzione di essere gli unici determinatori della realtà, con il diritto di cercare di cambiarla per renderla così come si ritiene giusto.

Ciò non impedì ai romani di adottare la religione cristiana, anche se non in toto.

Questa religione si basa sull’intera Bibbia, che contiene due parti, il Vecchio e il Nuovo Testamento, le quali espongono una teoretica che si presta a fare da ideologia razionalizzatrice-giustificatrice rispettivamente per una visione individualistica (VT) è una collettivistica (NT) della vita e dei rapporti umani. Ai romani piacque l’umanitarismo e la simmetria morale di Gesù Nazareno: il precetto “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” esplicitava e sintetizzava il loro modo di vedere i rapporti umani, la giusta regola che li doveva ispirare. La sollecitudine per gli ultimi predicata dal Nazareno e l’accento da lui posto sui sentimenti trovavano una facile corrispondenza nel loro culto della pietas e nella loro forse eccessiva passionalità. Non piacevano affatto, invece, ai romani le scritture ebraiche. Fra le altre cose, la concezione di popolo eletto là esposto urtava contro la loro percezione di unità del genere umano, il loro universalismo. I primi cristiani di Roma furono in effetti perseguitati in base alla bizzarra accusa di essere nemici del genere umano.

Così, per farsi accettare dall’Impero, la religione cristiana, pur mantenendolo nominalmente nel proprio corpo dottrinario, all’atto pratico abbandonò ogni riferimento al Vecchio Testamento e divenne la religione cattolica nella parte occidentale dell’Impero e, più tardi, la religione greco-ortodossa in quella orientale. Il Vecchio Testamento era diventato uno scheletro nell’armadio; in verità era diventato per l’Occidente una mina vagante, una bomba a orologeria pronta a esplodere.

I romani trasmisero la loro mentalità in tutto l’Impero, in modo diverso a seconda del tempo di esposizione e della predisposizione locale. La loro influenza fu massima in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Romania, Slavonia, Austria, Germania meridionale e Inghilterra meridionale, zone che fecero parte dell’Impero anche per più di cinquecento anni; fu minima nella Germania settentrionale e nell’Inghilterra settentrionale, in particolare in Scozia, e nelle altre zone dell’impero, soggette più tardi — oltretutto — a migrazioni. Questa mentalità, questo modo di interpretare la vita, questa cultura costituiscono la civilizzazione tradizionale dell’Occidente, è questa l’originale identità europea. Non ce ne sono altre.

Caduto nel 476 l’impero d’Occidente, iniziò per l’Europa il periodo cosiddetto del Medioevo. Fu un periodo di totale continuità culturale con il passato. Non c’era più un’autorità politica centrale, sostituita parzialmente dalla Chiesa di Roma, ma dal punto di vista della vita di tutti i giorni le cose cambiarono ben poco. In effetti, se si vuole avere un’idea del quotidiano romano basta considerare il periodo medioevale, un po’ più conosciuto. Gli europei erano sempre fondamentalmente atei, benché la sovrastruttura religiosa fosse diventata più pervasiva, e sempre collettivisti. La logica feudale del tempo si adattava abbastanza alla loro concezione: la terra era di Dio, e quindi di tutti; per esigenze pratiche la Chiesa, rappresentante di Dio, ne affidava l’amministrazione ai nobili, che sopraintendevano quindi all’attività di tutti gli altri, che erano considerati uguali, tutti — chi più chi meno — “servi della gleba”.

Lo spirito regolamentatore romano continuò, certamente nel campo del commercio. Non potevano essere prodotte merci al di sotto di un certo standard qualitativo; l’attività dei mercati e delle fiere era sorvegliata; la speculazione e l’usura erano proibite. Emblematica è la teoria medioevale del giusto prezzo, che era il massimo prezzo cui poteva essere venduta una merce, calcolato in base ai contenuti di materie prime, lavorazione e qualità finale. Anche il lavoro era regolamentato, nel senso di proteggere i lavoratori: mediamente un lavoratore agricolo o artigianale aveva diritto a tre settimane di ferie all’anno, più dieci giorni di feste comandate a parte le domeniche; alcuni di quei giorni di riposo obbligatorio dovevano addirittura essere pagati. La Francia, concedendo nel 1956 trenta giorni di riposo all’anno, fu la prima nazione europea moderna a ridare ai lavoratori ciò che avevano progressivamente perso dopo il Medioevo. La grande maggioranza dei salariati e stipendiati degli attuali Stati Uniti non gode della stessa protezione di legge garantita ai loro omologhi dell’Europa medioevale.

I traffici privati, così, continuavano ai soliti livelli minimi del tempo dell’Impero, mentre invece quelli interregionali e internazionali, allora gestiti dall’autorità centrale, erano cessati o divenuti sporadici. L’iniziativa privata era ancora pressoché sconosciuta, e la figura del commerciante o dell’imprenditore molto rara. La Chiesa di Roma, mentre da una parte vendeva indulgenze per mantenere un livello di vita lussuoso, e spesso anche vizioso, dall’altra pubblicamente condannava la ricchezza.

La proprietà privata era un concetto semi-sconosciuto. Anche l’innovazione tecnologica continuava a essere assente.

2. Lo sviluppo commerciale e tecnologico

Non è ancora chiaro perché siano state fatte le Crociate. Non certo per liberare il Santo Sepolcro, sul quale semmai avrebbe dovuto avere giurisdizione l’Impero Romano d’Oriente, rimasto attivo e assai potente attraverso i secoli sino alla caduta, per mano dei turchi selgiuchidi, avvenuta nel 1453. Inoltre i musulmani non avevano mai minacciato il Santo Sepolcro, sacro anche per loro, né ne impedirono mai l’accesso in alcun modo. In ogni caso, con le Crociate inizia la fine del Medioevo. Le Crociate furono otto, la prima nel 1096 e l’ultima nel 1270. Esse ebbero l’effetto di portare gli europei a un contatto da secoli mai così profondo con il mondo arabo, le sue merci, la sua superiore cultura e le sue superiori cognizioni scientificotecnologiche, iniziando così una catena di eventi che avrebbe cambiato il volto non solo dell’Europa, ma davvero del mondo. Iniziarono i primi commerci privati, via mare e via terra, per portare in Europa le novità dell’Oriente. Sorsero i primi fondachi, magazzini, aziende di import-export, e con queste, naturalmente, i primi commercianti e imprenditori. Fu copiata la vela triangolare pivottante degli arabi, che permetteva di navigare controvento. Giunsero in Europa l’astrolabio e alcune carte geografiche arabe sorprendenti, che mostravano terre al di là delle Colonne d’Ercole.

Attraverso gli arabi arrivarono in Europa alcune invenzioni cinesi di grande portata: la polvere da sparo, le lenti ottiche e i caratteri da stampa mobili, usati in Cina circa dall’anno 700. Già nel 1242 il frate e filosofo inglese Roger Bacon scriveva un trattato sulla fabbricazione di polvere da sparo e lenti. Gli arabi diedero agli europei anche la nozione di quel periodo detto classico che avevano dimenticato: fu da traduzioni arabe di molti scritti greci antichi che gli studiosi europei ne tornarono a conoscenza, traducendoli di nuovo in latino.

Nei due secoli successivi si svilupparono le conseguenze di quelle premesse. I commerci crebbero in modo esponenziale, soprattutto nelle zone dell’Europa settentrionale, le meno influenzate dalla mentalità romana. Aumentò di molto la circolazione del danaro, e di tutti quegli strumenti atti ad agevolarla, come lettere di credito, cambiali, transazioni bancarie. Per l’anno 1500 in Inghilterra il secolare sistema del baratto era stato completamente sostituito dall’uso del danaro; anche paghe e salari erano corrisposti in danaro. Aumentarono di conseguenza i commercianti e gli imprenditori, attorno ai quali si formò una categoria di personaggi collaterali — avvocati, ragionieri, notai, architetti, esperti vari. Stava nascendo la borghesia.

Lo sviluppo dei commerci creò una forte domanda di ordine, sicurezza dei trasporti, uniformità di leggi e regolamenti per aree le più vaste possibili, tutte cose che erano minacciate dalla presenza dei numerosissimi e praticamente indipendenti feudatari. La scoperta del cannone, un’arma costosa, stava però rafforzando le monarchie. Il perfezionamento dei caratteri da stampa terminato da Gutenberg verso il 1450 permise la diffusione, oltre che di molti libri in latino, anche di loro traduzioni e di opere originali in lingue locali, fatto che codificò queste ultime in maniera sempre più ufficiale. Così, grazie all’effetto combinato dello sviluppo dei commerci, del rafforzamento delle monarchie e dell’imporsi di lingue locali le varie ex province dell’impero cominciarono a sentirsi delle entità autonome da ogni punto di vista, economico, politico, culturale, e cominciarono a originare gli Stati nazionali europei, i primi dei quali furono le monarchie di Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra. In Italia, in seguito alla riscoperta dei testi classici, si sviluppava il fenomeno culturale dell’Umanesimo, seguito poi dal Rinascimento italiano. Un contributo importante fu dato dagli studiosi di Bisanzio, che in seguito alla caduta dell’Impero nel 1453 emigrarono in massa, parte in Europa e parte in Russia.

Gli spunti dati dagli arabi si combinarono con le esigenze del commercio e contribuirono al primato della tecnica dell’Occidente che è ancora in essere. Le prime evoluzioni riguardarono la navigazione. Verso il 1450, presso il Centro di studi sulla navigazione voluto a Capo Saint Vincent dal re portoghese Enrico il Navigatore, veniva messo a punto il primo modello di nave oceanica europea, la caravella. Nel 1492, lo stesso anno della scoperta dell’America, in base a carte arabe il tedesco Martin Behaim costruiva il primo mappamondo.

3. La Riforma Protestante

A questo punto ci si aspetterebbe la frase: “in Europa nasceva il capitalismo”. Invece no. Ciò che davvero successe fu la comparsa di una nuova mentalità in seno all’Occidente, una mentalità che sul piano economico si esprime — adesso sì — col capitalismo. Lo sviluppo del commercio privato, e delle attività a esso correlate, aveva solo creato tanti commercianti e imprenditori vari; in altre parole, tante persone dedite all’accumulo di ricchezza tramite attività private. Non occorreva arrivare all’Europa settentrionale del Quattro-Cinquecento per trovare tante persone dedite a questo scopo; c’erano state in Fenicia, nella Grecia antica, nella Roma repubblicana, nello stesso Impero Romano. Ma non era mai stato creato un sistema capitalistico.

L’avidità di per sé non crea il capitalismo crea tante persone che, quando le condizioni esterne sono adatte, accumulano potere di acquisto, cessando tale attività quando le condizioni esterne non sono più favorevoli. Un sistema capitalistico si ha invece quando tali condizioni favorevoli sono sistematicamente ricercate, e su di esse è basato il funzionamento della società. L’avidità è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la vita di un sistema capitalistico. Per questo occorre che l’avidità sia giustificata. Tale giustificazione fu offerta dalla Riforma Protestante.

Torniamo alla borghesia che si era formata in Europa in quegli anni, e in particolare ai suoi elementi trainanti, i commercianti. Le nuove attività li avevano portati a un livello di agiatezza sconosciuto alla massa medioevale dalla quale erano emersi, ma li avevano anche assoggettati a un violento stress esistenziale. Essi erano soggetti a una pressione interna e a una pressione esterna. Internamente percepivano non solo di essersi staccati dalla collettività medioevale, dai loro pari di ieri, ma di avere cominciato a vivere in opposizione a essi. I loro successi economici dipendevano dalla misura in cui riuscivano a trarre vantaggio dai loro bisogni, e dalle loro debolezze; e anche da quanto riuscivano a ingannarli. Inoltre, arrivava appunto il successo economico, cosicché si trovavano ad avere più degli altri, una situazione da sempre implicitamente ritenuta illecita, ingiusta, colpevole per chi non avesse nessuna funzione istituzionale nell’ambito della comunitas, né di guida delle anime, né di gestione delle terre e guida degli uomini. Eppure nessuno li fermava; allora tutto ciò era possibile. Ma perché era possibile? La pressione esterna derivava dal fatto che i borghesi non trovavano posto nella struttura sociale del Medioevo. Essa era formata dalle tre caste del clero, dei nobili e dei servi della gleba, e loro non appartenevano a nessuna di queste. Cos’erano dunque? In più, nonostante la corte che tutti facevano al loro danaro, essi erano da tutti ufficialmente disprezzati: dal clero perché ricchi e quindi solo per ciò peccatori (“È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli”); dai nobili perché dediti al vile commercio anziché a nobili cause; dai pari di un tempo non occorre dirlo, quegli invidiosi. Inoltre con la loro ricchezza essi potevano procurarsi solo agiatezze e accessori vari, ma non la vera proprietà, la terra, trattata ancora come un bene collettivo, indivisibile. Per i primi borghesi la vecchia interpretazione del mondo non andava più bene. Occorreva una nuova spiegazione generale, un nuovo quadro della vita in cui ogni tassello trovasse il suo logico posto. Ciò era necessario per la loro sopravvivenza non solo come espressione sociale, ma anche come individui dalla psiche ben bilanciata, sereni con se stessi e con il mondo esterno. In verità a non andare più bene per loro era l’interpretazione della vita e dei rapporti umani implicita nel Nuovo Testamento, l’unica parte della Bibbia che la Chiesa di Roma insegnava, che era anche l’ideologia pubblica e realmente indiscussa di molti secoli passati.

É dubbio che nell’Europa del tempo ci sarebbe stata la Riforma Protestante se contemporaneamente Gutenberg non avesse introdotto i suoi caratteri da stampa mobili, che permettevano di stampare libri a una velocità sino allora impensabile. Ma lo fece. I libri erano ancora piuttosto costosi ma ecco, da poco si era formata una categoria abbastanza vasta di persone che se li poteva permettere. Gutenberg cominciò a stampare il primo libro nel 1450 e per l’anno 1500 si calcola che in Europa fossero già in circolazione dai 15 ai 20 milioni di libri (allora non c’erano televisione o giornali). Erano quasi tutti bibbie, compreso il primo, la famosa edizione di Gutenberg finita nel 1455. La maggior parte erano traduzioni — dal latino, dal greco e anche dall’ebraico — nelle varie lingue locali, o volgari. Nel 1495 la Bibbia, per intero o in parte, era stata stampata (nell’ordine) in tedesco, italiano, francese, ceco, olandese, catalano, greco, spagnolo, slavo, portoghese e serbo. Per quanto riguarda la lingua inglese, una traduzione pressoché completa fu terminata da William Tyndale nel 1530; questa opera fu alla base di tutte le successive versioni in inglese, e in particolare della classica versione del Re Giacomo completata nel 1611.

Il Vecchio Testamento, quello scheletro nell’armadio che la Chiesa Cattolica si era silenziosamente portato dietro per tanti secoli, era stato scoperto; la mina vagante aveva urtato l’Europa. Iniziava così la Riforma Protestante. La Riforma Protestante nasce dalla constatazione che tutta l’organizzazione gerarchica e gran parte dei dogmi, dei sacramenti, delle credenze e consuetudini che la Chiesa di Roma aveva trovato nel Nuovo Testamento, o che da lì, qualche volta a ragione e qualche volta addirittura a torto o in malafede, aveva dedotto, nel Vecchio Testamento non trovano riscontro alcuno, anzi in genere sono chiaramente contraddetti. Nel Vecchio Testamento non c’è accenno all’autorità suprema di un Papa, non c’è accenno al sacramento della Confessione, non c’è giustificazione alla creazione e tanto meno alla venerazione delle figure dei santi, non c’è accenno al celibato per i preti e alla proibizione del divorzio e delle pratiche anticoncezionali, non c’è accenno al principio, o fondata speranza, della salvezza tramite il compimento di opere di bene nei confronti del prossimo, non c’è base alcuna per l’importante dottrina cattolica della Trinità. Queste discrepanze, a volte clamorose, erano sempre state notate dagli eruditi o da persone interessate nel corso dei secoli, ma non avevano mai avuto apprezzabili effetti sull’opinione pubblica europea, sia per la scarsa circolazione di libri e scritti vari sia per la reazione ogni volta estremamente decisa della Chiesa, che non esitava a far mettere a morte gli “eretici”: il boemo Jan Hus (ca. 1369-1415) fu messo al rogo, mentre, indispettiti per non averlo fatto a suo tempo anche col di lui maestro, l’inglese John Wycliffe (1320-1384), in quel medesimo 1415 i vescovi del Concilio di Costanza ordinarono di riesumare e bruciare le ossa di quest’ultimo, macabro ordine che fu eseguito solo nel 1428 per insistenza del papa Martino V. Lo stesso Erasmo da Rotterdam, che nel 1516 produsse una edizione a stampa del testo greco della Bibbia, non ebbe il coraggio di eseguirne una traduzione in lingua comune.

Con l’avvento della stampa, invece, tutte quelle critiche alla Chiesa di Roma ebbero grande risonanza e addirittura si moltiplicarono. Lo scisma che portò alla nascita della religione protestante iniziò con le obiezioni del tedesco Martin Luther (1483-1546), per gli italiani Martin Lutero, che nel 1517 affisse le sue 95 tesi sul portone del duomo di Wittemberg, seguito rapidamente da molti altri teorici, fra i quali particolarmente importanti l’avvocato francese Jean Chauvin (1509-1564), Giovanni Calvino per gli italiani e John Calvin per gli inglesi, il suo precursore in Svizzera Huldrych Zwingli (1484-1531) e il suo epigono in Scozia John Knox (1505-1572). Pierre Robert Olivetan, che nel 1535 pubblicò la prima traduzione in francese della Bibbia, era un cugino di Calvino. La religione protestante si impose rapidamente e in modo uniforme in tutta l’Europa settentrionale a eccezione dell’Irlanda, e a macchia di leopardo, in modo chiaramente selettivo, nell’Europa centrale; non ebbe invece alcun successo nell’Europa meridionale, in particolare in Portogallo, Spagna e Italia. In Gran Bretagna le cose andarono un po’ diversamente.

Nominalmente essa entrò nel panorama protestante nel 1534, quando il re Enrico VIII, sottraendola al papa, rivendicò per sé la suprema autorità sulla Chiesa Cattolica inglese, che da allora si chiamò Chiesa Anglicana; ma egli non vi introdusse alcun cambiamento dogmatico o di altra natura, se non l’ordine dato nel 1538 che in ogni chiesa ci fosse una Bibbia in inglese a disposizione del pubblico. Col favore della tolleranza della Chiesa Anglicana, oramai “protestante”, in molte zone della Gran Bretagna si formarono però rapidamente delle forti e attive maggioranze realmente protestanti, particolarmente in Galles e, a partire dal 1541 per opera di John Knox, in Scozia.

Dal punto di vista della cronaca la Riforma protestante fu dunque uno scisma in seno alla religione cattolica dovuto al fatto che una vasta parte dei fedeli, diciamo così, di quest’ultima si accorse che il suo insegnamento non corrispondeva esattamente con la Bibbia, e cioè, in pratica, niente di meno che con la parola di Dio, e seguì altre interpretazioni bibliche proposte da vari personaggi, ritenute — ah, quelle sì — esatte. Ma dal punto di vista della Storia le cose avevano un altro significato. Come detto in precedenza, mentre il Nuovo Testamento è un corpo dottrinario che implica una visione collettivista della vita e dei rapporti umani, il Vecchio Testamento ne implica una individualista. La teoretica del Vecchio Testamento, in breve, si basa su alcuni concetti di fondo.

L’elemento qualificante delle religioni non sta nelle prove portate sull’esistenza della divinità, nella descrizione delle sue qualità, o nella narrazione della creazione del mondo e dell’uomo. Sta nel modello di comportamento che la divinità dà all’uomo, il giusto comportamento che esso deve tenere per ottenere il suo favore, per essere approvato. È questo modello che interessa gli uomini: essi adottano una religione quando tale modello razionalizza una loro preesistente esigenza, una volontà inespressa. Essi, anche, creano una religione in base a tale meccanismo; la creano in effetti a loro immagine e somiglianza. Ebbene, come vuole il Dio del Vecchio Testamento che si comportino gli uomini per essere approvati? Egli non dice “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma dà una serie di dettagliate prescrizioni — i comandamenti, che in totale sono 613 (248 in positivo e 365 in negativo), dei quali i primi in ordine di tempo sono i Dieci Comandamenti — osservate le quali c’è sicuramente l’approvazione. In questi comandamenti l’enfasi è tutta sul rapporto diretto, senza intermediari, fra il singolo e Dio. Non c’è alcun accenno alla fratellanza di tutti gli uomini, alla loro uguaglianza, al rispetto cui ognuno ha diritto. Non c’è alcuna condanna dell’egoismo materiale e dell’ingordigia; non c’è alcuna condanna dell’accumulazione individuale di ricchezza o di proprietà privata; non c’è alcuna nozione che tale accumulo possa avvenire a spese di altri; non c’è alcuna condanna dello sfruttamento di uomini da parte di altri uomini, sino al punto che la schiavitù è presa come un dato di fatto. La collettività diventa un’entità astratta — anche se biologica, nel Vecchio Testamento — cui è delegato il solo compito di sorvegliare a che i componenti seguano singolarmente i comandamenti e di eseguire dei riti religiosi di massa minuziosamente descritti. Il rispetto dei comandamenti richiesto è quindi puramente formale: non si fanno i processi alle intenzioni, come farà poi il Nazareno, ma ai fatti; gli uomini non sono giudicati per il loro cuore ma per le loro azioni, sino al punto da trascurare l’intenzionalità del reato o della trasgressione, la capacità di intendere del soggetto, e anche la sua eventuale minore età. Si può essere malvagi di animo, ma se si riesce a rispettare la forma dei precetti, magari con astuzie e cavilli, l’approvazione non mancherà (specialisti in questo erano quei Farisei coi quali ebbe a scontrarsi Gesù). Non c’è il concetto della salvezza ottenuta tramite il compimento di buone azioni verso il prossimo, la buona azione essendo un atto di liberalità o benignità spontaneo, voluto dal soggetto al di là di eventuali obblighi comandamentali. Parimenti non c’è alcun obbligo all’esercizio della carità, ad aiutare chi è in difficoltà, anche economica; non si è tenuti. La collettività umana, come entità unitaria, come un tutto formato da tutti indistintamente i componenti, ma verso il quale ognuno ha obblighi per il criterio di simmetria introdotto dal Nazareno, non esiste; al suo posto c’è un insieme di individui che non hanno obblighi — né reciproci né verso la “collettività” — se non quelli derivanti dai comandamenti. Lo “Stato” non esiste; il “bene comune” non esiste. L’unica autorità terrena non può che essere quella religiosa, giusto perché è depositaria dell’interpretazione corretta dei comandamenti.

Contrariamente a quanto insegnato e fatto da Gesù, la ricchezza materiale non è condannata nel Vecchio Testamento. Anzi: essa è addirittura considerata come il segno tangibile del favore divino. Né uomini né governi, quindi, possono frapporre ostacoli fra i singoli e i loro tentativi di arricchirsi, la loro iniziativa privata: sarebbe andare contro Dio. La proprietà privata è sancita espressamente dal X Comandamento, e posta così al di fuori della portata di eventuali maggioranze politiche.

Tutto quanto esposto sopra fu condensato da Giovanni Calvino in pochi concetti:

Non si ha l’obbligo di fare bene agli altri; ognuno deve pensare a sé stesso; l’unico obbligo è quello di seguire alla lettera i Comandamenti; la salvezza avviene per via di predestinazione divina (cioè c’è chi è predestinato a riuscire a seguire i Comandamenti e chi a non farcela), e la ricchezza materiale è il segno terreno della medesima. In poche parole, lo scopo della vita è di cercare di diventare ricchi.

Il Vecchio Testamento è un corpo teoretico altamente coerente e offre anche due strumenti assai importanti e necessari per raggiungere quello scopo: il formalismo morale e la repressione della sentimentalità. La morale non esiste; esiste il moralismo. Non si chiede agli individui un impegno interiore e sincero al meglio delle loro capacità di discernimento: si chiede il rispetto formale dei Comandamenti.

Fatta la legge trovato l’inganno, e nel rispetto formale dei Comandamenti si può compiere qualunque ingiustizia sostanziale nei riguardi del prossimo. Ciò è fondamentale negli affari. Analogamente per la repressione della sentimentalità operata dal Vecchio Testamento: il cuore è nemico del successo negli affari. La parola “amore” così frequente nei discorsi del Nazareno qui quasi scompare: nel Vecchio Testamento non ci si innamora di una donna, ma ci si invaghisce delle sue grazie; non ci sono amici, ma soci in affari. La sessualità, un’espressione benché non necessaria della sentimentalità, è anch’essa nemica degli affari; anch’essa è repressa nel Vecchio Testamento.

Tutte queste disposizioni sono date agli uomini attraverso un patto, un contratto: se voi fate questo (seguire i Comandamenti) Io vi do quello (la Terra Promessa, cioè la ricchezza, l’abbondanza sulla terra; naturalmente la salvezza finale, ci dovesse essere — è da tenere presente che il V.T. non parla di una vita dopo la morte). Un contratto  fra Dio e gli uomini in inglese è detto Covenant, e non Contract od Agreement.

Infine nel Vecchio Testamento c’è il concetto di popolo eletto, che per definizione è contraddistinto dalla prosperità materiale. Tale concetto non è necessario per sostenere la teoretica generale, ma si rivelerà utile per la politica estera.

Era questa la nuova interpretazione della vita cercata dai nuovi ricchi dell’Europa del Quattro-Cinquecento. L’avidità di beni materiali aveva trovato una giustificazione, l’ideologia protestante. Dal punto di vista psicologico, rispetto a prima l’ateismo era rimasto intatto, mentre la visione collettivista della comunità umana era stata sostituita da una particolare forma di individualismo, che vedeva ognuno in concorrenza con gli altri per l’appropriazione di sempre maggiori beni materiali. Il tutto a livello di coscienza era razionalizzato e protetto dalla teoretica protestante. Era nata una nuova mentalità, un nuovo tipo umano che, per la sua coerenza e logica interna, per la sua comparsa pressoché simultanea in un numero elevato di individui, per la sua attitudine a dare vita a un sistema omogeneo e coerente di valori in tutti i campi, economico, politico, religioso e culturale in senso stretto, e per la sua facilità di perpetuare tale sistema di valori nello spazio e nel tempo tramite un corpo dottrinario sinergico, era perfettamente in grado, una volta lasciato libero di esprimersi, di originare una civilizzazione sua propria. Era nato naturalmente — adesso sì — anche il Capitalismo, che è il sistema economico con cui si esprime tale civilizzazione.

La contemporaneità, in pratica, della comparsa nell’Europa del primo Cinquecento del Capitalismo e del Protestantesimo, e il fatto che queste due prassi abbiano la stessa giustificazione ideologica non è certo sfuggito a storici e sociologi, il solo dubbio essendo a quale dei due fenomeni attribuire la parte della causa e a quale quella dell’effetto. Il sociologo tedesco Max Weber riteneva il Protestantesimo causa diretta del Capitalismo; Sombart, Tawney e Marx invece ritenevano il Protestantesimo prodotto dell’affermazione del Capitalismo, adottato perché gli fornisce una giustificazione. I più vicini all’interpretazione esatta sono questi ultimi, tranne per la constatazione che prima dell’avvento del Protestantesimo il capitalismo non si era affatto imposto. Comunque fra le due visioni non ci sono all’atto pratico grandi differenze, vista la simbiosi esistente fra Capitalismo e Protestantesimo. La relazione fra i due è infatti biunivoca: chi vive per arricchirsi, se esposto alla teoretica del Vecchio Testamento la trova attraente; e chi pratica in primis tale teoretica trova appagante il mondo del commercio e degli affari, e in genere vi riesce meglio degli altri.

Oltre al capitalismo nascevano anche i concetti di governo parlamentare e di libertà individuale. La figura dell’autocrate presuppone il riconoscimento dell’esistenza del “bene comune”, negato dallo scopo esistenziale di ognuno di arricchirsi indipendentemente, e anche a discapito, degli altri. Il governo dell’autocrate tende a realizzare una politica di redistribuzione dei redditi, tramite la tassazione, e per quanto riguarda la politica estera è preoccupato solo della sicurezza nazionale, mentre è piuttosto insensibile alle esigenze del commercio. Occorre invece un governo che con le tasse, oltre alla normale amministrazione, tramite la costruzione di strade, porti, infrastrutture, e tramite una politica estera aggressiva, si occupi di procurare occasioni di successo economico a coloro che vi riescono, concetto che sarebbe stato elegantemente esposto dal filosofo ed economista inglese John Locke nel suo Two Treatises of Government del 1690. Un tale governo non può che essere realizzato tramite degli esponenti di quegli operatori economici di successo dei quali in poche parole deve fare gli interessi: sono i più qualificati a farlo.

In effetti nell’Europa del Cinquecento i Protestanti, dove arrivarono, spinsero subito in primo luogo per l’eliminazione della monarchia e in subordine, se ciò non era possibile, per affiancarle almeno un Parlamento, che tramite i requisiti minimi patrimoniali sempre richiesti agli elettori era sempre espressione della borghesia molto agiata. All’inizio il concetto di libertà individuale si riferiva al diritto di ogni singolo di cercare di diventare ricco; solo molto più tardi, e all’atto pratico solo in Europa, esso assumerà parzialmente quei significati politici che gli vengono attualmente comunemente dati.

Si è dunque vista la logica della Riforma Protestante del Quattro-Cinquecento e i motivi che — insieme a un intreccio di combinazioni favorevoli — portarono alla sua affermazione in gran parte dell’Europa. Il Protestantesimo comunque non fu, e non è, un fenomeno completamente unitario dal punto di vista culturale. Si è detto che Vecchio Testamento e Nuovo Testamento riflettono due modi assolutamente antitetici di vedere la vita. In effetti sono due religioni diverse. I riformatori dell’epoca erano certamente attratti dal Vecchio Testamento e avrebbero volentieri fatto a meno del Nuovo non fosse stato per la figura di Gesù, ineliminabile. E il Nazareno, dicendo che veniva per dare compimento alle Scritture, non per eliminarle, ha legato per sempre questi due corpi dottrinari. Ci fu dunque sin da subito una distinzione nell’ambito del Protestantesimo in funzione di quanto si dovesse tenere conto degli insegnamenti di Gesù nella nuova interpretazione “totale” della Bibbia.

Martin Lutero e i suoi seguaci, dai quali derivarono principalmente la Chiesa Luterana, la Chiesa Battista e la Chiesa Metodista, cercarono di conciliare il più possibile i due Testamenti. Giovanni Calvino e i suoi seguaci, dai quali ebbero origine una miriade di denominazioni diverse nella forma ma non nella sostanza, fra le quali le più importanti sono la Chiesa Presbiteriana e la Chiesa Riformata, trascurarono nei fatti anche se non nelle parole ogni concetto espresso dal Nazareno.

Nel libro in cui Calvino espose la sua interpretazione biblica, Istituzioni della religione cristiana del 1536, Gesù appare solo come nobile figura coreografica, mantenuta per non cadere in un pedissequo e meschino ebraicismo. Gli unici concetti che Calvino prese dal Nuovo Testamento furono ricavati dagli Atti degli Apostoli: il concetto di predestinazione espresso da Paolo e il concetto di congregazione, la quale, retta dai suoi anziani più saggi, era la base organizzativa dei primissimi Cristiani.

Diversi gruppi calvinisti scelsero in effetti la denominazione di Chiesa Congregazionalista.

Vecchio e Nuovo Testamento non sono logicamente conciliabili e quindi il luteranesimo risulta un corpo dottrinario un po’ confuso, incerto, che dal punto di vista culturale lascia ancora dei disagi esistenziali; il calvinismo invece è una dottrina altamente coerente, logica. Questa differenza spiega il tipo di diffusione che ebbe il Protestantesimo nel Cinquecento. Il luteranesimo, nelle sue varie denominazioni, si diffuse a macchia d’olio su aree vaste dove ogni tanto c’erano zone o città commercialmente sviluppate: esso andava bene ai commercianti e ai ricchi in genere ma non urtava eccessivamente la massa nullatenente ex medioevale. Esso prese piede nella Germania settentrionale, nella penisola scandinava e sulle coste baltiche. Il calvinismo invece si diffuse in modo molto selettivo, in aree piuttosto ristrette (almeno inizialmente) dove i commerci erano molto sviluppati. Esso attecchì in alcuni centri della Germania settentrionale, della Francia, della Polonia e della Svezia, avendo poi vicissitudini diverse. Le aree di maggior successo furono invece la Svizzera, dove Calvino nel 1536 fondò a Ginevra una repubblica oligarchicoteocratico-fìnanziaria (che fra l’altro nel 1553 mandò al rogo il contestatore religioso Michele Serveto), l’Olanda e la Gran Bretagna, specie in Galles e Scozia. In Inghilterra i calvinisti erano frazionati in varie denominazioni: c’erano i Presbiteriani, i Riformati, i Separatisti e i Puritani. Questi ultimi, inizialmente chiamati i Precisi (Precisians), si distinguevano per l’implacabile interpretazione letterale del Vecchio Testamento e per la sorprendente totale omissione del Nuovo. Essi, tutti commercianti e arricchiti vari, erano l’ala destra del calvinismo europeo.

Con l’arrivo dei Protestanti iniziò in Europa un periodo di sommovimenti e guerre civili che durò sin quasi al Settecento. In ogni luogo il motivo del contendere era lo stesso: i Protestanti volevano o abolire le monarchie o almeno affiancare loro dei Parlamenti eletti dai ricchi. Le diatribe sui dogmi, sulla Trinità, sulla libertà di culto, sull’autorità del Papa e così via erano solo una scusa per provocare, per tirare la corda, e per prepararsi al confronto, anche armato. Le lotte del periodo vedevano sempre da una parte i Protestanti e dall’altra una monarchia, la Chiesa Cattolica, e il volgo. Dal 1561 al 1589 ci fu una guerra civile in Francia che vide protagonisti gli Ugonotti, mercanti e proprietari calvinisti. Nel 1568 i Presbiteriani olandesi si ribellarono alla Corona spagnola fondando una repubblica mercantile oligarchica. Nel 1618 cominciò la Guerra dei Trent’anni (durò in effetti sino al 1648), dovuta a rivolte di borghesie protestanti tedesche. Nel 1642 cominciò la guerra civile inglese: il Parlamento, dominato dai Puritani di Oliver Cromwell, riuscì a deporre il re Carlo I, che era appoggiato dai nobili, dalla Chiesa Anglicana e dalla generalità del popolo (alla morte di Cromwell comunque la monarchia fu restaurata).

Durante questo periodo di guerre civili alcune delle frange più estreme del Protestantesimo europeo, che erano tutte calviniste, abbandonarono a varie riprese l’Europa, un po’ perché minacciate dai vincitori del momento e un po’ perché allettate dalla fama di opulenza ormai consolidata delle nuove terre scoperte da Colombo in poi. Alcuni Puritani inglesi prima si trasferirono in Olanda, fra i Presbiteriani olandesi e quindi, avendo trovato anche là degli ostacoli insormontabili, a partire dal 1620 emigrarono nell’America settentrionale, dove furono seguiti da ben più alti numeri di Puritani partiti direttamente dall’Inghilterra. A loro volta anche molti dei Presbiteriani olandesi abbandonarono il loro paese; alcuni nel 1623 emigrarono anch’essi in America, molti altri a partire dal 1652 andarono nell’attuale Sud Africa insieme con alcuni Ugonotti.

Oggi in Europa rimangono solo delle sacche di calvinismo. Le maggiori sono in Gran Bretagna, specialmente in Galles, Scozia e in particolar modo in Irlanda del Nord (dove i Protestanti stanno ancora combattendo la loro guerra della Riforma contro i Cattolici: dall’asprezza della guerra civile irlandese si ha un’idea delle progenitrici del Cinque-Seicento); in Olanda, nei suoi centri commerciali e portuali (come Amsterdam); e in Svizzera, specialmente nel cantone di Ginevra, il cantone delle banche. Molti calvinisti sono poi in Francia, dove il 10% della popolazione è protestante, e in alcuni grandi centri commerciali della Germania settentrionale (per esempio Amburgo).

Per un’altra singolare coincidenza, decisiva per il formarsi di quell’Europa tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, nel 1492 veniva scoperta l’America.

Note al capitolo I

27 Max Weber, Die romische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fur das Staats-und Privat-recht, F. Enke, Stuttgart, 1891.

Capitolo II – La colonizzazione dell’America

1. Gli inizi

L’impulso a intraprendere quelle esplorazioni che avrebbero portato alla scoperta dell’America venne dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente avvenuta nel 1453.

In seguito a questa si interruppero le usuali e vecchissime vie di comunicazione che portavano in Europa le merci dell’Estremo Oriente, di quelle “Indie” o “Isole delle spezie” che erano principalmente la Cina, il “Catai” di Marco Polo. In particolare l’Impero Ottomano bloccò entrambe le vie di terra usate per quei traffici: la Via delle steppe dei nomadi, che tagliava l’Asia a metà seguendo più o meno sempre lo stesso parallelo e che arrivava alla penisola di Crimea, ormai nelle mani dei turchi; e la Via della seta, che correva quasi parallela alla precedente, ma più a sud, arrivando in Libano, anch’esso occupato dai turchi (la Via della seta era antichissima; era già considerata millenaria ai tempi di Gesù). C’erano anche diverse rotte marinare, che però arrivavano tutte nel Mar Rosso, con un ultimo trasporto via terra sino ad Alessandria d’Egitto. Anche l’Egitto, come tutto il nord Africa del resto, era stato fagocitato dall’Impero Ottomano, ma in qualche modo qualcuno riusciva a fare affari coi saraceni. I mercanti di Genova e Venezia avevano così il monopolio di questo traffico di spezie e merci varie che diventava sempre più scarso. Era dunque necessario trovare delle rotte alternative per l’Estremo Oriente. La rotta doveva essere via mare. La via di terra aperta da Marco Polo nel 1271, oltre a non essere mai stata pratica (il suo viaggio durò 24 anni fra andata e ritorno), era ora impossibile a causa dei turchi, e non poteva essere la solita rotta marinara che arrivava al Mar Rosso, perché si sarebbe ricaduti nelle mani di genovesi e veneziani.

Cominciò il Portogallo, con l’idea di raggiungere l’Oriente navigando costantemente — sembra naturale — verso oriente, circumnavigando cioè l’Africa (il canale di Suez sarà aperto nel 1869). Alla morte del re Enrico il Navigatore, avvenuta nel 1460, i portoghesi erano arrivati a Capo Verde, a mezza strada fra Lisbona e il Capo di Buona Speranza. Questo sarà raggiunto nel 1487 da Bartolomeo Diaz, mentre finalmente nel 1498 Vasco De Gama lo sorpassò e, toccando ogni tanto prudentemente la costa orientale dell’Africa, arrivò nell’attuale India. Tornò a Lisbona con un carico di spezie per un valore sessanta volte quello portato con sé per gli scambi. Ciò dà un’idea del tipo di vento che soffiava nelle vele delle caravelle portoghesi. La rotta aperta da De Gama fu subito enormemente più conveniente e sicura delle precedenti che erano rimaste, ed ai primi del ‘500 Lisbona era il porto più trafficato d’Europa. A partire dal 1460 quindi la più ovvia rotta marinara per l’Estremo Oriente era stata monopolizzata dal Portogallo.

C’era però chi in Europa cominciava ad avanzare la curiosa teoria secondo la quale per raggiungere l’Oriente si poteva anche navigare dalla parte opposta, cioè facendo vela sempre verso Occidente. La cognizione che la terra fosse sferica era assodata all’accademia navale portoghese di Saint Vincent, dove si avevano a disposizione le carte geografiche arabe, che la rappresentavano appunto come tale. Queste carte mostravano anche delle terre al di là dell’Atlantico, che sembrava ovvio dedurre potessero essere le “Indie”. Gli esperti dell’accademia però ritenevano il globo terrestre così grande da non permettere alle loro migliori navi oceaniche — le caravelle — di attraversare l’Atlantico. Uno dei loro cartografi, un genovese di nome Cristoforo Colombo, riteneva invece il globo più piccolo e la traversata possibile. Si sbagliavano entrambi: la Terra era molto più grande di quanto pensava Colombo, ma non tanto da impedire alle caravelle di attraversare l’Atlantico; anzi, come dimostrò trent’anni dopo Magellano, esse erano in grado di compiere l’intero giro del mondo.

Privo di migliori alternative re Ferdinando di Spagna si decise infine a finanziare il tentativo della rotta verso Occidente che era venuto a proporre Colombo, uomo della concorrenza. Il 12 ottobre 1492, molto sorpreso dalla lunghezza del viaggio, l’esploratore genovese sbarcò su un’isola dei Caraibi chiamata dagli autoctoni Ganahani e che lui ribattezzò San Salvador, quindi, prima di tornare indietro, toccò Cuba e Hispaniola. Colombo morirà nel 1506, con il titolo di Ammiraglio del Mare Oceano, convinto di avere trovato le propaggini estreme delle ricche Isole delle Spezie.

Sembrava dunque che Spagna e Portogallo fossero entrambi diretti a occupare le stesse terre, l’una passando da oriente e l’altra da occidente. Con la mediazione del papa Alessandro VI fu così immediatamente concluso nel 1493 il Trattato di Tordesillas, che prevedeva la cosiddetta Linea di Demarcazione, un meridiano che tagliava l’Atlantico in due e che, spostato un po’ verso occidente l’anno successivo, lasciava il Brasile nella sfera portoghese — quella a est — e tutto il resto delle Americhe alla Spagna. La Linea di Demarcazione sarà rispettata con scrupolo: gli spagnoli colonizzarono quanto poterono a ovest e i portoghesi a est, senza sconfinamenti.

Gli altri europei, fra i quali c’erano proprio i più interessati ai commerci — gli inglesi, gli olandesi e i francesi — sembravano esclusi dalla colonizzazione delle Americhe. Ma il Nuovo Continente aveva ormai una importanza commerciale strategica: la prima circumnavigazione del globo, compiuta da Magellano (il portoghese Fernão de Magalhaes) nel 1519-1522, e seguenti esplorazioni avevano dimostrato che questo era una grande massa insulare che si stendeva dal polo Nord al polo Sud bloccando le rotte atlantiche per le Indie. La spinta a trovarvi un passaggio che immettesse nel Pacifico, e quindi alle Indie, portò così anche Francia, Inghilterra e Olanda a familiarizzare con le Americhe. In questi frangenti, verso l’anno 1600, i francesi che stavano esplorando il Canada orientale per cercare un passaggio verso il Pacifico fecero una scoperta di eccezionale importanza: la zona a nord-est dei Grandi Laghi era ricchissima di castori e di animali da pelliccia in genere. La scoperta era importantissima perché le pellicce erano la merce di scambio più ambita dai cinesi, le cui merci a loro volta — il tè e le stoffe — erano le più ricercate dagli europei fra le “spezie” e le “meraviglie” dell’Oriente.

Così, a partire circa dall’anno 1600, fu questo il grande quadro strategicoeconomico internazionale nel quale si trovò coinvolta l’America settentrionale: Gran Bretagna, Francia e Olanda cercavano tutte e tre di procurarsi le pellicce nella zona a nord-est dei Grandi Laghi per poi scambiarle in Cina con tè e stoffe. In effetti, francesi, inglesi e olandesi iniziarono quasi contemporaneamente a insediarsi sia in America settentrionale, gravitando attorno alla zona dei Grandi Laghi, sia nell’Estremo Oriente e in Asia, in particolare in India, area strategica per aggredire commercialmente la Cina.

Iniziava comunque la colonizzazione dell’America.

2. La Nuova Spagna e il dominio del Perù

Le prime terre in cui si insediarono gli spagnoli furono quelle toccate da Colombo, cioè le isole dei Caraibi. Queste isole servirono come base di partenza per la conquista di quella che pareva essere la terraferma dell’Asia. Durante una delle prime spedizioni il giovane hidalgo Vasco Nuñez de Balboa, che possedeva una piantagione a Hispaniola, giunse a Panama: era il primo europeo che vedeva quell’oceano che più tardi Magellano chiamò Pacifico; stando in piedi su una roccia, dichiarò “quel mare e tutte le sue isole e tutte le terre da esso toccate, a est e a ovest, a nord e a sud” proprietà del re di Spagna. La dichiarazione di Balboa servì come base alla Spagna per reclamare diritti su tutta la costa occidentale del continente, dall’Alaska alla Patagonia, e su molte isole del Pacifico, per esempio le Filippine. Più tardi, nel 1542, Hernando de Soto percorse come primo europeo quasi tutto il fiume Mississippi da sud a nord, ma dimenticò di pronunciare la formula di possesso; lo fece 140 anni dopo La Salle per la Francia, rifacendo il percorso, e la Spagna non obiettò. Alla spedizione di Balboa ne seguirono molte altre. Ogni volta i nativi, chiamati oramai “indiani”, pressati dagli spagnoli che cercavano solo l’oro, favoleggiavano sì di enormi disponibilità dello stesso, ma sempre un po’ più in giù. Da parte loro gli spagnoli associavano l’oro col sole e ritenevano verosimile che si trovasse in zone calde, assolate; in ogni caso non si spinsero a nord del trentesimo parallelo.

Nel 1519 il governatore di Cuba inviò una spedizione nel Messico, dove si sapeva esserci un regno vasto e ricco di manufatti. Al comando dell’armata composta da 600 soldati spagnoli, diverse migliaia di ausiliari indiani, alcuni cavalli e un cannone, fu posto Hernando Cortez, un hidalgo di 33 anni proprietario come Balboa di una piantagione. Qui c’era l’Impero Azteco, una organizzazione capace di mettere in campo eserciti di molte migliaia di uomini.

Gli aztechi però adottavano una strategia e un equipaggiamento militare che miravano a catturare il maggior numero possibile di prigionieri, allo scopo di sacrificarli poi ai loro dei sulla cima delle piramidi di Tenoctitlan. Questo fu loro fatale: nella battaglia campale decisiva un loro esercito di circa 30.000 uomini fu sbaragliato con sorprendente facilità dagli spagnoli, molti dei quali al termine poterono dire di avere trafitto con la propria spada più di cento aztechi a testa. La civilizzazione azteca finì nel 1521 quando Cortez e incendiò la sua capitale Tenoctitlan, una città di quasi 200.000 abitanti, cinque volte più grande della contemporanea Londra di Enrico VIII. Ora è la capitale del Messico col nome di Ciudad de Mexico, e con più di venti milioni di abitanti è una megalopoli dei nostri tempi. Nell’altopiano messicano vivevano circa 50 milioni di indiani; un’epidemia portata dagli spagnoli nel 1576 ne uccise dal 40 al 50%. Nel 1532 fu il turno dell’Impero Inca in Perù, ad opera di Francisco Pizarro, un popolano analfabeta.

Per quanto riguarda l’espansione più a nord, dal 1540 al 1542 Francisco Coronado esplorò e reclamò per la Spagna tutto il vasto territorio che comprende gli attuali Oklahoma, Texas, Kansas, Arizona e New Mexico, arrivando a ovest sino al Grand Canyon. Al ritorno abbandonò i suoi cavalli nella prateria, dove si moltiplicarono: a partire dal 1605 circa furono estesamente usati dagli indiani delle praterie e del sud, che prima non li conoscevano. Nel 1565, qualche anno dopo che Juan Ponce de Leon l’aveva percorsa in lungo e in largo alla ricerca della Fontana della Giovinezza, gli spagnoli fondarono in Florida la città di San Augustin, la città più antica degli attuali Stati Uniti.

Verso la fine del Cinquecento, così, la Spagna si era assicurata un enorme possedimento, che fu amministrativamente diviso in due: la Nuova Spagna, che comprendeva tutta la parte sud occidentale degli attuali Stati Uniti più la Florida a est, il Messico, l’America Centrale, le isole dei Caraibi e il Venezuela; e il Dominio del Perù, che comprendeva tutta l’America del Sud a eccezione del Brasile portoghese.

Tali colonie avranno confini stabili sino alla Pace di Parigi del 1763. Nel 1551 vennero fondate le università di Città del Messico e Lima, che sono le più antiche delle Americhe. Nell’anno 1600 si calcola ci fossero nella Nuova Spagna circa 160.000 spagnoli, dai 15 ai 20 milioni di indiani, e circa 40.000 neri importati come schiavi dall’Africa. Il tutto era distribuito in circa 200 città e 10.000 villaggi.

3. La Nuova Francia

L’interesse francese per il continente americano consisteva all’inizio solo nel trovarvi un modo per scavalcarlo via mare. Il canale di Panama sarà aperto nel 1914 e la rotta per il Capo Horn tenuta da Magellano era lunga e controllata dai portoghesi, mentre il Capo stesso era molto pericoloso da doppiare. Bisognava dunque trovare un passaggio a nord della via a ovest per le Indie: il famoso passaggio a nord-ovest. Nel 1524 Giovanni da Verrazzano, un italiano che lavorava per la Francia, compiva la prima esplorazione in loco battendo il tratto di costa fra Terranova e la Carolina del Nord. Nel 1534 l’esploratore Jacques Cartier risalì il fiume San Lorenzo nella speranza che portasse al Pacifico.

I francesi rinunciarono presto alle rotte artiche e si impegnarono a esplorare il labirinto di laghi e fiumi del Canada meridionale, sempre sperando di trovare uno sbocco al Pacifico. Tale braccio non c’era ma i francesi fecero la scoperta di cui si è parlato: la zona a nord-est dei Grandi Laghi brulicava di castori. Ciò influirà in modo determinante nella storia dell’America del Nord. I francesi così stabilirono colonie nella zona, allo scopo di procurarsi pellicce che le navi francesi avrebbero portato in Cina. Il grosso delle pellicce era ottenuto dagli indiani Huroni e Irochesi in cambio di merci varie. Nel corso di una delle prime esplorazioni Samuel de Champlain, nel 1608, fondò la città di Quebec, prima città francese del Nuovo Mondo.

Nel 1673 un missionario di Quebec, padre Jacques Marquette, percorse in canoa il fiume Mississippi verso sud sino alla confluenza col fiume Arkansas prima di rendersi conto che lo stesso sfociava nel Golfo del Messico e non nel Pacifico. Il viaggio in canoa dal Lago Superiore al Golfo del Messico fu completato nel 1682 da Robert Cavelier, signore di La Salle. La Salle partiva questa volta con un piano politico-economico preciso e di grande respiro: reclamare per la Francia tutto il bacino del Mississippi, che in un modo tortuoso divide gli Stati Uniti verticalmente, tagliando così la strada verso ovest agli inglesi che si erano sistemati sulla costa orientale e isolandoli dall’altro loro gruppo che assieme ad alcuni olandesi si era attestato attorno alla Baia di Hudson, dove cercava pellicce. Il piano di La Salle riuscì e venne così istituita la colonia della Nuova Francia, enorme possedimento che comprendeva tutto il Canada a eccezione dell’ovest inesplorato e della costa meridionale attorno alla Baia di Hudson, e tutta la parte centrale degli Stati Uniti, un territorio a forma di triangolo rovesciato con vertice alla foce del Mississippi e lati che si divaricano da una parte e dall’altra del grande fiume. Nell’anno 1700 la Nuova Francia contava circa 80.000 francesi e alcune migliaia di inglesi e olandesi, concentrati principalmente nell’attuale Canada; gli indiani qui erano pochi, mentre si calcola fossero qualche milione nel triangolo attorno al Mississippi.

4. La Nuova Olanda

Analoghe considerazioni spinsero gli olandesi in nord America. A partire dai primi anni del Seicento, precedute dai loro esploratori Hudson e Block, alcune società commerciali olandesi si attestarono in alcuni punti della costa nord orientale americana, penetrando sino alla zona dei Grandi Laghi per procurarsi le pellicce. Gli olandesi erano però pochi e non riuscirono a costituire mai colonie forti. Nel 1625 istituirono, almeno formalmente, la colonia della Nuova Olanda con centro nella città di Nuova Amsterdam (ora New York), da loro fondata. Nel 1664 una flotta inglese si presentò nella baia di New York e gli olandesi là residenti accettarono di passare sotto l’amministrazione coloniale inglese. In cambio la Gran Bretagna diede all’Olanda la sua piccola colonia del Surinam sulla costa atlantica dell’America meridionale.

5. La Nuova Inghilterra

Per tutto il Cinquecento gli inglesi cercarono di inserirsi nello scacchiere americano, sempre per il passaggio a nord-ovest. Per l’Inghilterra ci provò, all’inizio, Giovanni Caboto, un italiano al servizio di Enrico VIII che gli inglesi chiamavano John Cabot. In due riprese, nel 1497 e nel 1498, Caboto percorse la costa orientale degli Stati Uniti e del Canada. Non trovò il Passaggio ma reclamò per la Gran Bretagna quel tratto di costa americana, cosa che, nonostante la Linea di Demarcazione, aveva la sua importanza. Nel 1576 Martin Frobisher rifece il percorso di Caboto.

Nel periodo di regno di Elisabetta I (1558-1603) l’Inghilterra era diventata una ragguardevole potenza marinara, e voleva a tutti i costi impossessarsi almeno di una parte delle enormi ricchezze che vedeva affluire nei forzieri dell’Escorial di Filippo II. Pirati inglesi cominciarono così ad attaccare i galeoni spagnoli che tornavano dalle Americhe. Elisabetta negò ripetutamente, e per iscritto, al re Filippo che la Corona inglese avesse a che fare con quei pirati. In realtà era proprio lei a organizzare le spedizioni: quando Francis Drake, uno dei più attivi pirati inglesi, tornò in Inghilterra dopo un raid particolarmente fortunato. Elisabetta cenò con lui a bordo del suo veliero, il Golden Hind, e nell’occasione lo fece baronetto. É da ricordare come in una sua lettera alla regina Elisabetta I, in cui derideva l’eccessivo interesse inglese per danaro e commerci, lo zar Ivan IV il Terribile (in realtà Grozny, il Temuto) la definiva poshlaia devitsa, “puttanella da quattro soldi” (28).

Comunque, fu in seguito ad episodi del genere che Filippo II dichiarò guerra all’Inghilterra, perdendola. Nel 1588 l’Invencible Armada fu prima battuta nella Manica dalla flotta inglese comandata da Frobisher e Drake e quindi irreparabilmente decimata da una tempesta. L’esito della battaglia era stato deciso da fattori tecnici: i galeoni spagnoli erano progettati per il trasporto oceanico di grandi carichi, risultando alti e pesanti; potentemente armati, i loro cannoni avevano però una gittata inferiore a quelli montati sui bassi e veloci velieri inglesi. Tutto lascia pensare che Elisabetta I avesse manovrato con i suoi pirati per provocare la Spagna in una guerra, che non poteva essere altro che una breve guerra navale in cui i suoi ammiragli le avevano garantito una facile vittoria. Anche il teatrale incontro con Drake rientrava in tale logica.

La regina aveva infatti deciso di cercare di creare dei possedimenti in America settentrionale principalmente per due motivi. Sul fronte interno era riuscita a sedare i disordini para-religiosi seguiti alla Riforma Protestante, che avevano caratterizzato il regno dei suoi predecessori Edoardo VI e Maria I (Maria la Sanguinaria). I gruppi protestanti però continuavano a rimanere una minaccia per la Corona: considerato ciò che volevano — cosa non ignorata da Elisabetta — probabilmente sarebbero stati i primi a inseguire la ricchezza coloniale. La Gran Bretagna stava in effetti iniziando in quegli anni una politica che sarebbe stata una costante per molto tempo: mandare nelle colonie quei gruppi o settori sociali che davano problemi in patria; così avrebbe fatto con l’America, con il Sud Africa, con l’Australia. Per quanto riguarda la politica estera i viaggi di Frobisher avevano concluso che l’eventuale passaggio a nord-ovest poteva solo essere trovato con una ricerca sistematica, che necessitava di una presenza in loco. Questa sarebbe stata ancora più necessaria nel caso il passaggio fosse stato trovato dai francesi. La dichiarazione di possesso era già stata fatta da Caboto nel 1498, e non occorreva che sfoltire la flotta spagnola per rendere meno aleatori i viaggi in Atlantico. In effetti il primo insediamento inglese in America era stato fatto appena tre anni prima della vittoria sulla Invencible Armada, nel 1585, quando alcuni inglesi organizzati da sir Walter Raleigh si erano sistemati sull’isola Roanoke di fronte alla Carolina del nord, seguiti nel 1587 da un centinaio di altri.

Nell’occasione veniva alla luce, nel 1587, Virginia Dare, primo nato sul continente americano da genitori inglesi. L’insediamento di Roanoke Island scomparve nel nulla, per cause ancora sconosciute.

A partire dall’anno 1600 circa l’interesse della Gran Bretagna per l’America settentrionale aumentò considerevolmente: anch’essa stava cercando di aggredire il Mercato dell’Oriente e abbisognava delle pellicce dei Grandi Laghi. Mise così a punto la sua strategia commerciale-militare, una strategia invero planetaria. Le società mercantili inglesi interessate alle merci dell’Oriente vennero divise dalla Corona in due gruppi: erano entrambi diretti alle “Indie”, ma uno cercava di passare da occidente e l’altro da oriente. Il primo gruppo era capitanato dalla London Company e dalla Massachusetts Bay Company, il secondo dalla East India Company.

Il primo gruppo doveva formare colonie sulla costa nord orientale americana, avendo molteplici scopi: innanzitutto la formazione di colonie, tagliando la strada agli spagnoli che si erano sistemati a sud; quindi presidiare la zona più a nord per trovare il passaggio a nord-ovest o almeno essere presenti nel caso l’avessero trovato francesi od olandesi; infine doveva reperire le pellicce nella zona dei Grandi Laghi contrastando il più possibile francesi e olandesi. Le pellicce sarebbero state utilizzate dalla East India Company. La East India Company infatti avrebbe subito commerciato con la Cina seguendo la rotta della circumnavigazione dell’Africa e cercando di farsi largo nella numerosa concorrenza di spagnoli, portoghesi, francesi e olandesi.

Un ideale e necessario punto di appoggio per aggredire il mercato cinese era l’attuale India. Così, mentre iniziava la colonizzazione inglese dell’America settentrionale, al tempo stesso la marina da guerra inglese portava la East India Company in India. Nel 1609 il capitano William Hawkins otteneva dal Gran Mogol l’autorizzazione a istituire un centro di raccolta per le merci locali, o che là arrivavano dal vicino Est, in particolare tè e tessuti dalla Cina. Nel 1612 la East India Company costruiva la prima manifattura in loco, a Surat. Anche Francia, Portogallo e Olanda seguivano la strada dell’India. Usando il cavallo di Troia di Surat però, affiancata dalla marina e dall’esercito della Corona, nel tempo la East India Company riuscì ad avere il controllo di tutta l’India e quindi un accesso privilegiato al mercato dell’Oriente. Il primo importante passo fu la presa di Bombay, strappata ai portoghesi nel 1687. Le vicende inglesi in India si rifletteranno molto su quelle in America.

Questo, dunque, è il quadro nel quale aveva inizio la colonizzazione inglese dell’America, che avvenne con modalità molto differenti dalle colonizzazioni spagnole e francesi.

In seguito alla Riforma Protestante la Gran Bretagna era diventata un paese molto diverso dalla Spagna e dalla Francia. Queste ultime erano rette secondo i vecchi princìpi medioevali e governate da autocrati il cui intendimento, pur nei limiti loro e dei tempi, era di fare il bene comune. Le loro borghesie mercantili, presenti specialmente in Francia, erano tenute sotto controllo e private di concreti poteri politici che non fossero speciali favori ottenuti a Corte tramite il loro danaro. Le colonizzazioni spagnole e francesi furono così degli affari di Stato, promossi e gestiti dalla Corona, che sceglieva le persone cui affidare l’impresa. Per la Spagna le colonie rappresentarono un’ottima occasione per offrire una sistemazione agli hidalgos, giovani nobili cui la legge del maggiorasco negava un’eredità terriera in patria, e ad altri spiantati. Analogamente per la Francia. Le colonie erano quindi rette da governatori, o viceré, che dipendevano direttamente dalla Corona; non c’erano parlamenti coloniali. Tutto ciò rese le colonizzazioni spagnole e francesi meno intollerabili per i nativi. Le decimazioni furono dovute essenzialmente alle epidemie portate dagli europei. Fu importato il sistema medioevale: le terre conquistate erano assegnate dai governatori ai soldati, che creavano delle fazendas in cui i nativi dovevano lavorare. I matrimoni misti erano incoraggiati. Garcilaso de la Vega, l’autore dei Commentari reali degli Inca, un best-seller dell’epoca ancora letto, era figlio di una nobile Inca e di un hidalgo. Le conversioni al cattolicesimo erano forzate, ma raramente brutali. Già nel 1552 il cardinale Bartolomeo de las Casas scrisse un libro — Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie — sulla necessità di conciliarsi con la cultura indiana, non di annullarla. Non fu un idillio, tanto è vero che l’anniversario della scoperta di Colombo in America Latina è considerato dalla generalità dei suoi popoli un giorno di lutto. Ma poteva essere peggio, come si vide con gli inglesi.

La Gran Bretagna invece, sostanzialmente per la presenza dei suoi numerosi calvinisti, aveva cominciato a sentire l’influenza della nuova mentalità. L’economia cominciava a prendere la forma di una libera economia di mercato. La Corona gradualmente cessò di cercare di dirigere tutti gli aspetti della vita dei cittadini, a cominciare da quello economico; in particolare abbandonò la tradizionale preoccupazione medioevale che ognuno avesse di che mangiare. Essa si limitò — conservando il potere militare e per quanto poteva quello politico — a presiedere all’attivismo dei singoli, e il suo ruolo nell’economia generale divenne quello di agevolare il più possibile gli affari di quei singoli che volevano farli, e che facendoli aumentavano il gettito fiscale. La politica inglese cominciò a essere diretta secondo tali criteri, e la Royal Navy divenne il braccio armato della sua borghesia mercantile.

Stava nascendo l’Impero Inglese, un impero commerciale dettato dalla volontà di far arricchire le proprie borghesie anche alle spese di altri popoli.

La colonizzazione inglese dell’America avvenne quindi secondo questa nuova filosofia che era in nuce. Essa avvenne tramite accordi fra la Corona e privati cittadini. Questi in genere si costituivano in compagnie mercantili, quali appunto la London Company e la Massachusetts Bay Company, che erano delle società per azioni cui la Corona dava in concessione i territori oltremare resi disponibili dalla sua marina. Le concessioni corrispondevano alle varie colonie che si venivano formando ed erano amministrate in nome della Corona, la quale con i proventi delle relative tassazioni doveva provvederne la difesa. Diverse concessioni furono anche assegnate a dei singoli, ovviamente ricchissimi: lord Baltimore ottenne il Maryland, il capitano John Mason il New Hampshire, sir Berkeley e sir Carteret il New Jersey, degli amici di Carlo II le Caroline, William Penn la Pennsylvania, e il gen. James Oglethorpe e altri la Georgia.

Fa solo parte della retorica di Stato americana che i colonizzatori inglesi fossero persone in cerca di libertà religiosa o politica, o persone in disperate condizioni economiche. Ciò fu vero per una minoranza esigua, che non ebbe mai alcuna influenza nell’andamento delle cose coloniali. La caratteristica comune e significativa della maggioranza dei colonizzatori era il livello economico piuttosto alto del quale godevano in patria. In effetti il costo pro capite del viaggio, che ognuno doveva sostenere di tasca propria, era molto alto. Erano in genere commercianti, ai quali erano aggregati artigiani, mezzadri di vasti poderi, professionisti vari; spesso erano azionisti delle compagnie che organizzavano i trasferimenti. Essi erano anche, in genere, protestanti, ed è vero che in quei periodi c’erano diatribe para-religiose in Inghilterra, ma non c’era certo l’Inquisizione spagnola; e poi tali diatribe erano appunto para-religiose. Per quanto riguarda la libertà politica come la intendiamo noi, era un concetto sconosciuto nell’Europa del tempo, essendo stato introdotto solo dalla Rivoluzione Francese del 1789. Semmai era un problema di libertà economica. L’assetto sociale inglese non offriva ancora abbastanza spazio all’iniziativa privata; queste persone erano già benestanti, ma volevano esserlo di più e ciò comportava sforzi esagerati in quel contesto. Inoltre, anche essendo ricchi, o più ricchi, in Inghilterra era ancora difficile comprare proprietà terriere: la terra era della Corona e dei nobili, i quali, vista la legge del maggiorasco, diffìcilmente si trovavano nella necessità di vendere (le proprietà del clero erano state confiscate da Enrico VIII nel 1534). I pochi emigranti inglesi dell’epoca realmente poveri, o comunque non danarosi, non potevano pagare il biglietto e venivano imbarcati con la qualifica di Indentured Servant (“servo a tempo”), in base a un contratto nel quale l’individuo si impegnava a lavorare nella colonia alle dipendenze della società organizzatrice per un periodo di sette anni. Tale periodo ricorda il periodo massimo in cui un ebreo poteva rimanere schiavo di un altro ebreo che lo aveva acquistato: sei anni, e al settimo doveva essere liberato (29). Con il loro lavoro venivano realizzate le infrastrutture necessarie ai veri coloni. In altre parole, mentre Spagna, Francia e Portogallo mandarono nelle colonie i loro spiantati, la Gran Bretagna mandò principalmente le sue borghesie rampanti.

I primi colonizzatori comunque non furono troppo rappresentativi del quadro, ora esposto, che si stava costruendo. Erano un gruppo di 107 uomini, trasportati su tre vascelli dal capitano John Smith. Sbarcati nell’attuale Virginia, dove nel 1607 fondarono la città di Jamestown, pensarono di seguire le orme degli spagnoli e cercarono l’oro, che non c’era. Essi furono aiutati da Pocahontas (1595-1617), la figlia di un capo indiano che sposò un colono garantendo la pace dopo iniziali dissapori. Gli indiani insegnarono così ai coloni l’uso e la coltivazione del tabacco, che sin da allora fu il più tipico e lucroso prodotto della Virginia. Per coltivarlo essi per primi importarono schiavi neri, un carico dei quali fu portato a Jamestown da una nave olandese nel 1619. La Corona inglese, pur tollerandola nelle colonie per ovvi motivi, non aveva istituzionalizzato la figura giuridica dello “schiavo”, né mai lo avrebbe fatto; così quelle persone furono introdotte con la qualifica di indentured servants. Scaduto il periodo, la qualifica veniva rinnovata e passata ai figli. Questo sistema fu usato sino alla Guerra di Indipendenza. Nello stesso anno giungeva dall’Inghilterra anche un carico di donne, e la colonia della Virginia (così chiamata in onore di Elisabetta I, la Virgin Queen) cominciava a nascere a tutti gli effetti. Sempre nel 1619 i virginiani elessero propri rappresentanti per stabilire i regolamenti del luogo formando così l’House of Burgesses of Virginia, il primo Parlamento coloniale.

Nel 1620 arrivò l’avanguardia dei veri fondatori della civilizzazione americana.

Essi, e non gli inglesi di Jamestown che pure furono i primi, sono chiamati dall’iconografia ufficiale americana i Padri Fondatori (Founding Fathers). I nuovi coloni si autodefinivano i Pellegrini (Pylgrims). Destinati dalla London Company alla Virginia e imbarcati sul veliero Mayflower, a causa di una tempesta approdarono nell’attuale Massachusetts, dove la società concesse loro di restare in attesa di definire la posizione con la Corona. Qui, nello stesso 1620, fondarono la città di Plymouth e chiamarono la zona Plymouth Colony. Il quarto giovedì di novembre del 1621 organizzarono una cerimonia di ringraziamento a Dio, dopodiché pranzarono con carne di tacchino; tale giorno è rimasto una festa nazionale statunitense, il Thanksgiving Day (giorno del ringraziamento). In numero di 100 ο 101 ο 102 a seconda delle versioni, appartenevano tutti alla Chiesa Presbiteriana inglese come i Puritani, ma erano chiamati Separatisti. Prima di mettere piede a terra avevano firmato una dichiarazione di intenti sulla società che avrebbero creato, un Bible Commonwealth, patto che prese il nome di Covenant. Erano tutti piccoli artigiani e mezzadri che, pur essendosi staccati dalla condizione medioevale, non avevano ancora raggiunto l’agiatezza che distingueva i Puritani. Si erano quindi imbarcati tutti con un contratto di indentured servant per la London Company. A dispetto dell’iconografia questo gruppo non ebbe alcuna rilevanza nel fissare le caratteristiche della colonizzazione: erano già pochi, e oltretutto durante il primo inverno la metà circa di loro morì di freddo e fame prima che gli indiani potessero aiutarli. Negli anni successivi altri inglesi arrivarono alla Plymouth Colony, ma sempre in piccoli numeri.

Con l’arrivo, nel 1630, di 2.000 Puritani, seguiti entro il 1640 da altri 18.000, inizia la vera colonizzazione degli Stati Uniti. Il primo gruppo era guidato da John Winthrop, che mantenne la leadership anche negli anni successivi. I Puritani fondarono la Massachusetts Bay Colony, distinta dalla pur vicina Plymouth Colony dei Pellegrini, utilizzando il nome della compagnia con la quale avevano stipulato il contratto di colonizzazione, ossia la Massachusetts Bay Company di Londra, società nella quale molti di loro avevano una compartecipazione azionaria. Nessuno si era imbarcato come indentured servant. Nello stesso 1630 fondarono la città portuale di Boston. Nei due-tre decenni successivi il loro afflusso continuò fino a espandersi nell’area circostante, dove, occupate le zone economicamente più promettenti, diedero luogo alle colonie del cosiddetto New England puritano.

La colonia del Massachusetts si formò ufficialmente nel 1691, quando la Massachusetts Bay Colony incorporò la Plymouth Colony, con la quale c’erano sempre stati attriti, e tutto quel vasto territorio settentrionale corrispondente all’attuale Stato del Maine. La colonia del Massachusetts era quindi molto più grande dell’omonimo attuale Stato.

Nel 1633 alcuni Puritani della Massachusetts Bay presero possesso di un forte e di un posto di scambio gestiti da olandesi nei pressi dell’attuale Hartford, dando origine alla colonia del Connecticut, istituzionalizzata dalla Corona nel 1662. Il primo visitatore europeo era stato l’esploratore olandese Adriaen Block, che nel 1614 aveva risalito il fiume Connecticut.

Nel 1636, in seguito a dispute sorte nella Massachusetts Bay circa il trattamento da riservare agli indiani del luogo, il dissenziente William Rogers fu costretto a fuggire per salvarsi, rifugiandosi presso gli indiani Narragansett. Qui, seguito da altri, nello stesso anno fondò la città di Providence, intorno alla quale si formò la colonia di Rhode Island. Nei pressi riparò anche la poetessa Anne Hutchinson, sempre per dissidi sorti con i correligionari puritani, fondando nel 1638 la città di Portsmouth.

Dal 1650 al 1670 nel Rhode Island giunsero, provenienti dall’Inghilterra, molti quaccheri ed ebrei. La zona era stata esplorata nel 1524 per conto della Francia dal navigatore italiano Giovanni da Verrazzano.

Π New Hampshire fu unito al territorio della Massachusetts Bay nel 1641. La zona era stata esplorata nel 1603 da Martin Pring per l’Inghilterra e da Champlain per la Francia nel 1605. Qui, in base a una piccola concessione, nel 1623 il capitano John Smith aveva permesso agli inglesi di impiantare una stazione di pesca, realizzata a Odiorne’s Point (oggi è il porto di Rye). Il capitano John Mason, che diede il nome alla regione, nel 1630 vi fondò la città di Portsmouth, lo stesso nome scelto da Anne Hutchinson, ottenendo nel 1635 una concessione per tutta l’area. Nel 1679 la Corona distaccò quest’area dalla Massachusetts Bay creando una colonia a parte.

Molti Puritani si stabilirono gradualmente negli attuali Delaware, New York e New Jersey, sino a che la flotta inglese, presentandosi nel 1664 all’imboccatura della baia di New York, non ne garantì loro la proprietà, reclamata sino allora dall’Olanda sulla base di alcuni insediamenti precedenti. Il Delaware era stato individuato nel 1609 da Henry Hudson, un esploratore inglese che lavorava per l’Olanda. Egli fu seguito nel 1610 da Samuel Argall, che operava per conto dell’Inghilterra e che gli diede il nome in onore del governatore della Virginia Thomas West, barone De La Warr. Anche gli indiani Lenni Lenape che vivevano nella regione vennero chiamati con quel nome. Il primo insediamento, ad opera di olandesi, nel 1631, fu distrutto proprio dai Lenni Lenape. I coloni svedesi costruirono il forte Christina nel 1638, incorporato da un nuovo insediamento olandese nel 1655. Dopo il 1664 il Delaware fu prima annesso alla concessione Penn, quindi diventò semiautonomo a partire dal 1704; non fu mai una colonia vera e propria, tuttavia combatté la Guerra di Indipendenza come Stato sovrano.

La colonia di New York venne istituita nel 1664. Giovanni da Verrazzano, sempre per conto della Francia, aveva esplorato per primo l’omonima baia nel 1524. Nel 1609 vi giunse, per conto dell’Olanda, Henry Hudson — il quale percorse il fiume che ora porta il suo nome —, lo stesso anno in cui Samuel de Champlain esplorava e reclamava per la Francia il territorio poco più a nord. Il primo insediamento fu il forte Orange, l’odierna città di Albany, costruito nel 1624 dagli olandesi. L’anno successivo l’olandese Peter Minuit, che lavorava per la Compagnia Olandese delle Indie Occidentali, barattava l’isola di Manhattan dagli indiani Man-a-hat-a con merci del valore di 24 dollari e fondava la città di Nuova Amsterdam, attorno alla quale fece capo la colonia della Nuova Olanda che, a sua volta, faceva da punto di riferimento per tutti gli altri insediamenti olandesi cui si è accennato.

L’attuale New Jersey era l’entroterra della Nuova Olanda. Nel 1665, un anno dopo la resa olandese agli inglesi, fu dato in concessione a Sir William Berkeley e Sir George Carteret, con Sir Philip Carteret governatore; quindi, diviso con la concessione Penn e più tardi amministrato dal governatore di New York, divenne colonia autonoma nel 1738, con il governatore reale Lewis Morris.

Anche la colonia del Maryland, fondata sotto auspici cattolici, divenne ben presto parte del New England puritano. La baia di Chesapeake, intorno alla quale si sviluppa la regione, fu esplorata nel 1608 dal capitano John Smith, alcuni anni dopo che vi era passato Giovanni da Verrazzano. Nel 1631 fu creata dagli inglesi un’area di scambio sull’isola Kent, nella baia. L’anno successivo la zona fu ottenuta in concessione dal cattolico Cecilius Calvert, Lord Baltimore, e nel 1634 i primi cattolici inglesi giunsero nelle colonie. Nel 1649 l’assemblea del Maryland approvò il Toleration Act, che garantiva agli abitanti la libertà di religione, ma a causa di una rivolta dei Puritani, durata dal 1654 al 1658, venne ritirato.

Intanto al di fuori del New England si stavano formando altre colonie. La Carolina del Nord fu occupata a partire dal 1653 da coloni provenienti dalla confinante Virginia e organizzata come colonia tra il 1663 e il 1665.

I primi insediamenti nella Carolina del Sud si verificarono nel 1670, allorché fu fondata la città di Charles Town (ora Charleston), e divenne una colonia solo nel 1729, quando si separò da quella del Nord. Il territorio delle due colonie era stato dato in concessione dal re Carlo II ad alcuni amici nel 1663.

Il vasto territorio della Pennsylvania aveva visto il primo insediamento europeo nel 1643, quando degli esploratori svedesi avevano fatto base nell’isola di Tinicum.

L’area fu occupata dagli olandesi nel 1655, che a partire dal 1664 accettarono la sovranità inglese. Nel 1681 tutto il territorio fu ottenuto in concessione da William Penn, un quacchero, dal quale derivò il nome (Pennsylvania significa infatti “Foresta di Penn”). Qui venne fondata la città di Philadelphia, vale a dire “Amore Fraterno”.

L’area che si sarebbe chiamata Georgia era ritenuta dalla Spagna di sua proprietà.

Nel 1540 era stata percorsa da Hernando de Soto e nel 1566 era stata edificata una missione a Santa Catalina, nell’isola di Saint Catherines. Nonostante ciò, nel 1733 la Corona inglese la diede in concessione. Tra i beneficiari, ricordiamo James Oglethorpe, generale e filantropo, che ne voleva ricavare un rifugio per le molte persone incarcerate per debiti in Inghilterra. Egli vi fondò Savannah e nel 1742 batté a Bloody Marsh un piccolo esercito spagnolo proveniente dalla Florida, al quale non ne sarebbero seguiti altri.

La forma di governo adottata nelle colonie era simile a quella inglese di allora. Al posto del re o della regina c’era un governatore con ampi poteri, quindi un Parlamento bicamerale in cui la Camera Alta, corrispondente alla Camera dei Lord d’Inghilterra, era eletta dal governatore e la Camera Bassa era eletta dal “popolo”.

Questo, però, solo sulla carta; in realtà, visti i requisiti richiesti, solo i ricchi potevano votare. La figura del governatore non si delineò con le stesse modalità in tutte le colonie. Nominato in genere dalla Corona, esso era però scelto dal Lord Protector in Pennsylvania, Maryland e Delaware (che non fu mai ufficialmente una colonia, ma aveva un governatore), ed era eletto dal “popolo” in Rhode Island e Connecticut.

Naturalmente tali nomine dovevano essere ratificate dalla Corona, così come per tutte le leggi approvate dai Parlamenti locali. L’autonomia delle colonie inglesi era però ben maggiore di quella delle colonie spagnole e francesi, dove l’amministrazione era completamente nelle mani di funzionari inviati dalla madrepatria. Oltretutto i coloni inglesi potevano stabilire l’ammontare dello stipendio dei loro governatori, che pagavano direttamente tramite le tasse.

Quindi c’era il “popolo” delle colonie. Per poter sia votare sia ricoprire cariche pubbliche occorreva innanzitutto essere maggiorenni, maschi e bianchi; generalmente nel New England occorreva anche essere degli anziani della Chiesa Congregazionalista, così come i Puritani chiamarono, in America, la loro confessione. I requisiti minimi patrimoniali erano dappertutto molto alti. In Massachusetts e Connecticut si trattava di un’attività che rendesse almeno 40 sterline all’anno, oppure beni immobili valutati almeno la stessa cifra; in Rhode Island un’attività valutata minimo 40 sterline e che rendesse almeno la stessa cifra ogni anno; in New Jersey il possesso di almeno 40 ettari di terreno, più un’attività o dei beni immobili valutati almeno 50 sterline; nel New Hampshire minimo 50 sterline in contanti; in Pennsylvania e Delaware minimo 20 ettari di terreno, più beni immobili valutati almeno 50 sterline; in Maryland minimo 20 ettari di terreno, più beni valutati almeno 40 sterline; in Virginia minimo 20 ettari di terreno, più una casa in città; nella Georgia e nella Carolina del Nord minimo 20 ettari di terreno; nella Carolina del Sud almeno 40 ettari di terreno e una casa in città, oppure si dovevano pagare non meno di 10 sterline di tasse all’anno.

Da questo livello di requisiti, traspare quanto si fossero divaricate, fin da subito, le economie dei due “blocchi” coloniali: il New England si dirigeva verso il commercio e le colonie del sud verso il latifondo agricolo.

Note al capitolo II

28 – T. Florinsky, Russia, The McMillan Co., New York, 1957, vol. I, p. 207.

29 – Esodo 21-2.

Capitolo III – I Puritani

1. Caratteri generali

Il termine “puritano” si è affermato nel mondo occidentale come sinonimo di persona bigotta e di costumi sessuali eccessivamente rigidi, ma intimamente ipocrita.

Questi erano in effetti i tratti più evidenti dei Puritani storici. Ma i Puritani storici erano molto più di questo. Come abbiamo visto, per un insieme di circostanze nell’Europa del Quattro-Cinquecento si andava delineando un nuovo tipo umano, un nuovo atteggiamento psicologico verso la vita. Esso nasceva dall’incontro fra un individualismo materialistico istintivo e la teoretica del Vecchio Testamento, che gli offriva una razionalizzazione, una protezione ed un sistema di propagazione nello spazio e di perpetuazione nel tempo. Si originava, così, una valutazione globale della vita che forniva soluzioni specifiche e coerenti in ogni aspetto dell’umano e che, lasciata libera di esprimersi, avrebbe generato una civilizzazione nuova. I Puritani erano gli esponenti più coerenti di questa nuova cultura europea, coloro che più sfruttarono gli spunti del Vecchio Testamento. Erano in effetti quelli che ne avevano più bisogno dal punto di vista esistenziale e infatti, liberi di esprimersi nel continente nuovo, diedero vita alla civilizzazione americana. Gli Stati Uniti non sono una società culturalmente composita, o derivata dall’incontro e dal contributo di differenti culture. Negli Stati Uniti non vi fu mai alcun melting pot. I Puritani formarono subito una società culturalmente congrua e compatta, quindi di semplice aggregazione da intuire e foriera di risultati concreti: conformandosi ad esso non era difficile raggiungere l’agiatezza, facilitati anche dalla obiettiva ricchezza del paese. Alla seconda o terza generazione i discendenti dei nuovi arrivati ne facevano già parte, se non nominalmente, di sicuro nella realtà effettiva.

Il tutto fu facilitato anche dalla dinamica della creazione degli Stati Uniti. I Puritani del New England furono in schiacciante superiorità numerica sino alla Guerra di Indipendenza, e mantennero una maggioranza fino al 1880 circa. I nuovi territori che si rendevano progressivamente disponibili al sud e all’ovest venivano occupati in prima istanza da loro, che vi creavano posizioni di supremazia economica durevoli, mentre gli immigrati andavano a riempire i vuoti di mano d’opera che parallelamente si formavano nel New England. La supremazia economica del New England iniziò subito e dura tuttora, così come quella culturale, originata anch’essa dai Puritani storici. La Chiesa Congregazionalista storica perse sempre più di consistenza, e oggi conta solo circa 150.000 adepti, quasi tutti nel New England. Ciò fu dovuto da un lato alla dispersione che seguiva le colonizzazioni dei nuovi territori e, dall’altro, a teorie di nuova fondazione che tendevano a mettere in discussione i principi religiosi tradizionali del Vecchio Testamento, come la psicanalisi di Freud e l’evoluzionismo di Darwin. Anche i massacri degli indiani, troppo sistematici, persino “economistici”, avevano gettato del discredito sulla Chiesa Congregazionalista. Rimanevano le altre confessioni protestanti cui aderire, non troppo diverse, mentre la religione cattolica americana, pur avendo raggiunto una certa consistenza numerica per effetto delle immigrazioni, ha sempre adattato, nel tempo ha sempre diffuso una teoretica simile alla Luterana. L’America è rimasta puritana, dunque, pur con gli aggiustamenti e le mimetizzazioni resi necessari dai tempi, che vedremo. É necessario allora approfondire i caratteri dei Puritani storici.

Alcuni aspetti sono stati spiegati a proposito della loro lettura della Riforma Protestante. Traevano ogni ispirazione dal Vecchio Testamento, o almeno erano convinti di farlo. L’idea fondamentale era che la ricchezza materiale, e più in generale il benessere materiale, compreso quello fisiologico, rappresentava un segno di elezione divina. Un individuo era eletto se Dio lo predestinava alla virtù di osservare i Comandamenti. Non c’era obbligo alla solidarietà reciproca né a compiere opere di bene. Il rispetto richiesto per i Comandamenti era letterale, cioè formale. La figura di Gesù era totalmente ignorata, benché certamente si definissero “cristiani”.

I Puritani, come del resto un po’ tutti gli altri Protestanti, operarono una certa mirata selezione anche nell’ambito del Vecchio Testamento, a ulteriore dimostrazione del principio utilitaristico alla base di tutta l’operazione. Consideriamo, per esempio, la schiavitù. É vero che il Vecchio Testamento la giustifica, ma solo in una certa ottica. Fra gli ebrei storici gli schiavi diventavano tali in genere per un debito non pagato e quindi, una volta di proprietà del creditore, erano trattati bene e venivano considerati un po’ come parte della famiglia. Dio enuncia a Mosé un certo numero di precetti sul modo di trattare gli schiavi, ma i Puritani li ignorarono. Il Deuteronomio dice: «Tu non restituirai al suo padrone uno schiavo che è da quello fuggito: lui vivrà con te, in mezzo a te, nel posto che sceglierà in una delle tue città, là dove egli preferisce: tu non lo opprimerai», ma nell’Art. IV, Sez. 2, par. c) della Costituzione del 1787 fu scritto l’esatto contrario. È vero, quindi, che il Vecchio Testamento rende la proprietà privata una istituzione divina, ma contiene anche dei passi che suggerirebbero la natura temporale della stessa. Il Levitico, per esempio, riporta la sacra ricorrenza cinquantennale dell’anno del Giubileo, anno in cui gli schiavi per debiti venivano liberati e le proprietà confiscate per debiti rese agli originali proprietari. I Puritani non festeggiarono mai un anno del Giubileo (come del resto mai fecero gli ebrei storici). Il Vecchio Testamento pone delle restrizioni al capitalismo del laissez faire: nell’Esodo compaiono leggi miranti a regolare l’usura; nel Levitico ci sono leggi circa la compravendita di terreni; nel Deuteronomio sono contemplate leggi che prevedono periodiche obliterazioni di debiti. Anche queste furono ignorate dai Puritani (e dai Protestanti in generale, nonché dagli ebrei, dai Cattolici, dagli Ortodossi e così via — da cui si evince come la “Bibbia” di cui tutti parlano non venga in realtà considerata da nessuno in modo rigoroso).

Un concetto importante per i Puritani, che si rivelò gravido di conseguenze inaspettate, era quello di popolo eletto. Chiunque pensa che il Vecchio Testamento, nel parlare di “popolo eletto”, si riferisca anche a lui deve convincersi di far parte di quella particolare “elezione” divina presa in considerazione nel testo biblico; e così facevano i Puritani. Al popolo eletto Dio destina una patria opulenta, e i Puritani certamente si diressero in America pensando che fosse la loro Terra Promessa. Gli indiani erano destinati alla distruzione per loro mano così come lo erano stati i cananei per Giosuè e i Giudici. Non solo, ma quando i Puritani scorgeranno un po’ più in là una terra ricca o in qualche modo appetibile penseranno sempre di averne diritto, un diritto che giustificherà anche i mezzi più cruenti, stermini compresi. La debolezza della resistenza incontrata sarà un segno divino, mentre la sua tenacia li scandalizzerà. Le implicazioni in politica estera e militare di questa concezione non possono sfuggire e, come si vedrà, non cesseranno mai di influire nella storia statunitense. Naturalmente il rispetto dei Comandamenti era limitato all’ambito del popolo eletto. I Puritani non cercavano di fare proseliti: era stato Dio a predestinare loro come popolo eletto. I missionari puritani andavano tra gli indiani per convincerli a sgombrare il campo, pur senza mai dichiararlo.

Nelle colonie i Puritani svilupparono tali premesse in ogni campo e con coerenza.

2. I Puritani e la politica

Nelle colonie i residenti avevano un’ampia possibilità di autogoverno. I governatori badavano a che fossero salvi i principi della legislazione inglese, soprattutto nella forma, e cercavano di intervenire il meno possibile; il loro stipendio era poi fissato dai coloni. I Puritani poterono così organizzarsi come volevano, tranne che per l’eliminazione della monarchia, che riuscirono a realizzare solo con la Guerra di Indipendenza.

In campo religioso essi non riconobbero più la gerarchia della Chiesa d’Inghilterra, e bandirono tutte le manifestazioni esteriori di culto introdotte arbitrariamente dalla Chiesa Cattolica, che quella aveva conservato: i vestimenti rituali, il segno della croce, particolarmente nel battesimo, la genuflessione durante la Comunione, l’uso della fede nel matrimonio, l’osservanza delle festività per i Santi, compresa la celebrazione del Natale, ed in genere tutto quanto prescritto dal The Book of Common Prayer, una specie di breviario pubblicato dalla Chiesa d’Inghilterra. In particolare celebrare il Natale nel New England fu illegale sino alla prima metà dell’Ottocento, e ciò nonostante la separazione fra Chiesa e Stato decretata dalla Costituzione del 1787.

La loro organizzazione politica si basò su due concetti fondamentali: quello dell’uomo singolo che doveva essere assolutamente libero di poter fare la sua fortuna materiale, vincolato solo dal rispetto dei Comandamenti; e quello della comunità che doveva solo sorvegliare a che i medesimi fossero appunto rispettati. La base della loro organizzazione sociale furono allora le parrocchie, che essi chiamavano congregazioni. Le congregazioni erano delle comunità piuttosto piccole, come del resto imponeva la natura frammentaria del New England collinoso e percorso da numerosi solchi d’acqua; erano costituite dagli abitanti di una città o da quelli di un’area rurale, che faceva di solito capo a un piccolo villaggio, la Township (il “borgo”). La Township di puritana memoria non è altro che l’embrione della Contea, anche oggi vera chiave del sistema politico-amministrativo americano. Ogni congregazione era in verità una cellula di popolo eletto, e si governava autonomamente come tale. I Puritani non operavano nessuna distinzione fra autorità politica e religiosa; ogni congregazione era quindi una piccola teocrazia. L’autorità era esercitata da una sorta di consiglio dei saggi o degli anziani, che ricalcava il concetto del Presbiterio di Calvino, e che chiamava se stesso i “membri della chiesa”.

I membri della chiesa eleggevano tutte le cariche pubbliche della comunità, sia quelle religiose come il pastore della chiesa stessa sia quelle civili e politiche come il maestro della scuola e il sindaco. Il pastore era una figura molto importante, come si può già immaginare; una volta nominato entrava a far parte in modo preminente dei membri della chiesa, ed era lui a decidere la cooptazione di nuovi membri. I membri della chiesa rappresentavano una piccola percentuale della comunità; i criteri di ammissione erano molto severi e naturalmente, oltre che a una condotta pubblica e privata irreprensibile, i candidati dovevano possedere solide proprietà materiali e buona salute — in effetti i membri della chiesa erano di norma i più ricchi della comunità – solitamente commercianti. Per avere un’idea si può dire che nell’anno 1641 nella Massachusetts Bay su una popolazione di 15.000 maschi adulti solo 1.300, l’8%, erano membri di una qualche congregazione, e cioè potevano votare o farsi votare per qualche carica. Gli altri erano sempre Puritani della comunità puritana; dovevano seguire le regole comuni e andare a messa ogni domenica mattina, ma non avevano diritti politici.

Le varie congregazioni avevano spesso problemi di convivenza, in genere per motivi economici. Tali screzi riguardavano quindi tutta la colonia, ed erano regolati dal Parlamento coloniale, con leggi o interventi specifici. La Camera Bassa, come detto, era eletta dal “popolo” della colonia, ma si sono visti i requisiti richiesti per votare. In più in tutte le colonie del New England e in alcune del Sud come requisito per il voto veniva anche pretesa l’appartenenza al consiglio degli anziani della propria chiesa, la quale a sua volta doveva essere quella ufficiale della colonia specifica. Per un lungo periodo iniziale infatti ogni colonia aveva una sua religione ufficiale, che nel New England era naturalmente la Chiesa Congregazionalista (si è visto come nel 1653 i Puritani del Maryland pretesero il ritiro del Toleration Act). Alla fine gli abilitati al voto nel New England non raggiungevano il 15% della popolazione maschile adulta e bianca, ed erano poco di più nelle colonie del Sud.

Le colonie inglesi del Nuovo Mondo, a parte la lontana Corona, erano quindi delle oligarchie basate sul danaro; quelle del New England e di alcune del Sud erano anche teocratiche. Di libertà politiche, così come sono comunemente intese, non c’era traccia. Criticare l’operato del Parlamento o degli anziani della parrocchia era reato.

Nel 1636 ad un certo Philip Ratcliffe in Massachusetts furono tagliate le orecchie per «aver mormorato maliziosi e scandalosi discorsi contro il Governo e la Chiesa». Roger Williams fu costretto a fuggire perché aveva criticato l’operato dei suoi colleghi nei confronti degli indiani: egli riteneva di dover pagare loro le terre, gli altri semplicemente di doverli scacciare. Anne Hutchinson li aveva accusati di ipocrisia. Ma i Puritani, e gli altri, dicevano di essere emigrati in cerca di libertà.

Anche negli Stati Uniti attuali si parla molto di libertà, come tutti sanno, ma se si esaminano i fatti che seguono tale enunciazione si vede che implicitamente si intende solo la libertà di cercare di diventare ricchi.

I Puritani rappresentavano l’antitesi della democrazia. Essi non credevano affatto che gli uomini fossero tutti uguali, e tantomeno che avessero tutti gli stessi diritti.

Alcuni in effetti potevano anche essere ridotti in schiavitù. Essi pensavano al governo come ad una oligarchia di uomini virtuosi e meritevoli che soli avevano — collettivamente, e quindi… democraticamente — il diritto di regolare i modi e i mezzi coi quali un eletto aveva la possibilità di realizzare appieno la volontà divina, che si manifestava col successo o l’insuccesso materiale. L’accesso a tale oligarchia non poteva essere negato a chi, diventato ricco e magari essendo anche in buona salute, dimostrava di essere per definizione uno di loro. Di qui deriva un altro aspetto della loro apparente democraticità, oltre che del loro repubblicanesimo: l’abolizione del concetto di élite per via ereditaria e l’introduzione del concetto di elite aperta, appunto “democratica”. In pratica, alla nobiltà per diritto divino, indimostrabile, di stampo medioevale i Puritani sostituirono la nobiltà per diritto divino dimostrabile, appunto attraverso la ricchezza materiale. Gli americani attuali accettano di buon grado che i loro dirigenti politici e alti funzionari dello Stato siano quasi tutti uomini estremamente ricchi, e la giustificazione risiede implicitamente in quel ragionamento puritano.

Anche il concetto di libertà religiosa era assente fra i Puritani. Nelle colonie del New England la presenza di non Puritani era tollerata, a patto che fossero pochi e che non si facessero notare. Questi, mentre da una parte dovevano contribuire per legge al mantenimento della Chiesa Congregazionalista e conformarsi alle sue pratiche esteriori, dall’altra non potevano né votare, né ricoprire cariche pubbliche, né praticare in pubblico i loro riti religiosi.

Libertà a parte i Puritani accumularono una grande esperienza di vita parlamentare. Discutevano nelle congregazioni e nei Parlamenti coloniali, ed erano diventati estremamente abili nel districarsi in tali consessi. Avevano imparato a ottenere ciò che volevano tramite azioni e argomentazioni che apparentemente riguardavano tutt’altro; in altre parole, essi erano abili nella politica. Ciò a suo tempo li mise in grado di dominare le assemblee coloniali che avrebbero portato alla Dichiarazione di Indipendenza, e quindi di dominare i congressi federali.

L’abilità politica è rimasta una caratteristica della classe dirigente americana, sottovalutata all’estero in modo allarmante. Il problema è sempre quello esposto nell’introduzione: gli Stati Uniti percorrono strade e perseguono scopi che sono poco capiti; gli atteggiamenti e le prese di posizione dei loro politici così spesso sembrano fuori luogo, assurdi, persino sciocchi. Una volta entrati nella loro ottica ci si rende conto invece di quanto i politici americani siano logici, coerenti, soprattutto efficaci.

3· I Puritani e l’economia

I Puritani naturalmente diedero vita ad un sistema capitalista puro. Tale sistema, con piccolissime correzioni introdotte nei primi decenni del Novecento per limitare l’abnorme dimensione e potere raggiunto da monopoli privati, è ancora il sistema, non solo economico, ma sociale in senso lato degli attuali Stati Uniti, dove tutto o quasi è privato o gestito da privati, come ad esempio molte carceri.

Però non è facile spiegare compiutamente l’importanza che il danaro aveva assunto presso i Puritani. Si era come interposto fra loro e il mondo materiale, direi il mondo reale. Non c’erano più tanti acri di terreno o tanti alberi: c’erano tot sterline di podere e tot sterline di legname. Era diventato un’unità di misura per il mondo; in tutta la sua varietà a quel minimo comune multiplo si riduceva. Le stesse persone erano valutate con quel metro; ancora oggi gli americani per descrivere una persona spesso forniscono come primo dato il suo patrimonio approssimativo. Possono anche presentarsi in tale maniera, se ricchi: salve, sono Tal dei Tali e valgo un milione di dollari. Per i Puritani era anche logico che tutto si potesse comprare col danaro, e che tutto anche potesse, e dovesse, essere venduto per danaro; sempre nel rispetto formale dei Comandamenti. Everything goes, dicono oggi gli americani. Così nel New England c’erano pure gli schiavi: neri comprati dai mercanti di schiavi calvinisti olandesi ma anche indiani e indiane catturati sul luogo e tenuti come domestici o stallieri. Però la schiavitù non ebbe mai nel New England una diffusione paragonabile a quella del Sud: la sua economia era basata sul commercio e la sua agricoltura era floridissima ma suddivisa in tante piccole aziende a conduzione familiare, dove la produzione era diversificata e la mano d’opera richiesta piuttosto specializzata. Nei porti di Boston e New York invece c’erano molti schiavi.

Il danaro, insomma, era entrato a far parte di loro stessi, aveva assunto un valore metafìsico. Esso era per loro in effetti l’essenza della vita, un anticipo di immortalità. Così non se ne staccavano volentieri. Le tasse saranno sempre la questione primaria nelle colonie. I Puritani non accettavano il principio di affidare al governo la gestione del gettito fiscale; c’erano rischi di una politica di redistribuzione dei redditi. Nelle congregazioni ogni tassa doveva avere la sua destinazione specifica, che volevano approvare: tot per la tale strada, tot per lo stipendio del maestro, tot per le spese di cancelleria del municipio. Era il principio del no taxation without representation, portato poi ai Parlamenti coloniali e di qui via via sino agli attuali Congressi statali e federale. Anche così era difficile far pagare tasse ai Puritani. I Puritani, ad esempio, nelle loro comunità non volevano pagare tasse per le spese di incarcerazione dei detenuti. Non capivano perché avrebbero dovuto pagare per i reati di qualcun altro.

Così doveva provvedere il detenuto stesso. Scaduta la pena era rimesso in libertà solo se pagava il conto, o se qualcuno per lui lo faceva; in caso contrario rimaneva in cella. Ci furono effettivamente casi di persone rimaste in cella sino alla morte per non aver potuto pagare per una detenzione di pochi mesi. Anche una semplice sanzione pecuniaria poteva avere questo effetto: non potendola pagare si era condannati a un periodo detentivo, che facilmente diventava a vita. Questo era uno dei motivi per cui molte persone fuggivano dalle colonie puritane: la previsione di una condanna o sanzione anche lieve, ma che non si poteva pagare. Ogni imputato doveva poi pagare per le spese del proprio processo anche nel caso in cui alla fine fosse stato riconosciuto del tutto innocente, e non pagando si ricadeva nel caso precedente. Nel caso di un condannato alla pena capitale, che avveniva per impiccagione (usatissima), lo stesso o qualcuno per lui doveva pagare le spese per l’esecuzione: in caso contrario le sue eventuali proprietà venivano confiscate. Le proprietà erano messe all’asta e in genere acquistate a prezzi vantaggiosi da uno dei membri della chiesa, cioè da uno degli anziani. Non essendoci una proprietà da confiscare sorgeva un credito nei confronti di eventuali eredi legali, e si ricominciava la trafila che portava costoro al carcere a vita se non erano fuggiti per tempo. Una volta che il condannato era stato impiccato e le spese erano state pagate, per ottenere la salma i familiari dovevano pagare una certa tariffa. Anche per un posto in cimitero occorreva pagare, naturalmente; non potendo pagare la salma veniva seppellita in giardino o in altro luogo. La diffusione negli attuali Stati Uniti di sepolture non ortodosse e di cimiteri privati risale a questa pratica puritana.

Diversi aspetti del sistema giudiziario americano attuale derivano da quello puritano, come la prassi del bail bond, pagato il quale il detenuto attende il processo in stato di libertà o, come è spesso il caso, si rende irreperibile comprandosi così la libertà del tutto. Anche oggi gli americani non vorrebbero pagare per le spese di incarcerazione dei detenuti; così li impiegano in lavori utili, come la manutenzione stradale, o la sperimentazione di nuovi farmaci, e ogni tanto qualche parlamentare avanza la seria proposta di usare gli organi dei condannati per trapianti o di vendere i diritti della ripresa filmata delle esecuzioni (30).

4· I Puritani e la morale

La morale dei Puritani consisteva nel rispetto formale dei Comandamenti, che permetteva loro ogni iniquità nella sostanza. In più tale legge valeva solo nell’ambito del popolo eletto dei Puritani: gli altri, in particolare i selvaggi indiani, potevano essere derubati, catturati come schiavi, anche uccisi. I rapporti sessuali con le donne indiane non costituivano reato, neanche da parte di Puritani sposati. Erano così degli ipocriti, come disse Anne Hutchinson. Dimostrando che aveva ragione, nel 1638 la General Court della Massachusetts Bay la espulse dalla colonia con l’accusa di aver sostenuto la rivelazione diretta e personale della verità da parte di Dio.

Il rispetto formale per i precetti del Vecchio Testamento era rigoroso e inflessibile. Le mancanze contemplate, e punite a norma di legge civile, erano moltissime. Giocare a carte, ballare, fare sport chiassosi era proibito; un’occhiata più lunga del dovuto sul soggetto sbagliato poteva essere un reato. Nelle colonie del New England era obbligatorio per legge del Parlamento andare alla messa della domenica mattina e della domenica sera: uomini e donne sedevano separati e i bambini, obbligati anch’essi, stavano nella loggia in silenzio. Mancare alle funzioni senza un grave motivo era punito con la frusta. Davanti a ogni chiesa c’erano il palo delle frustate (whipping post) e la gogna (pillory), che servivano per le mancanze leggere, come appunto aver mancato ad una funzione. Lo sgabello ad immersione (ducking stool) era un attrezzo speciale usato in genere per mogli bisbetiche o pettegole: la testa della donna, ad esso legata, veniva ripetutamente immersa nell’acqua; il concetto era di toglierle il troppo fiato che evidentemente aveva in gola. Per la bestemmia era prevista la purificazione della lingua con un ferro rovente. La pena di morte era prevista per 15 tipi di reato ed era applicata con larghezza. Queste norme erano riportate nel The Book of the general Lawes and Libertyes (Libro delle leggi e libertà generali), pubblicato nel 1648 nella Massachusetts Bay, che è il primo codice legale americano.

I Puritani punivano i reati oggettivi, indipendentemente da ogni considerazione di volontarietà o consapevolezza che nel Vecchio Testamento non sono prese in considerazione. Minori e minorati venivano puniti senza sconti, così come gli autori di danni involontari. Il codice citato prevedeva anche una punizione specifica per i minori difficili, secondo il seguente testuale articolo:

«Se un uomo ha un figlio testardo o ribelle, di sufficiente età e comprensione e di sedici anni di età, che non ubbidisce alla voce di suo Padre, o… Madre… [allora essi] lo prenderanno e lo porteranno dai magistrati riuniti in Corte e testimonieranno di fronte a loro, che il loro Figlio è testardo e ribelle e non ubbidisce alla loro voce e punizioni, ma vive in crimine, tale figlio sarà messo a morte».

Il Deuteronomio dice:

«Se un uomo ha un figlio testardo e ribelle, che non dia ascolto a suo padre o… madre...[allora essi] lo prenderanno e lo porteranno agli anziani della loro città… Allora tutti gli uomini della città lo lapideranno a morte con pietre; così voi toglierete il male tra di voi e tutto Israele ascolterà, e temerà».

Però nelle colonie vigeva anche il Book of Common Law inglese (una specie di codice civile molto farraginoso; era una raccolta di leggi, ordinanze municipali, sentenze significative, tradizioni giudiziarie), sul quale si basava il governatore, e molte delle pene previste dal codice puritano non furono mai applicate, come sembra essere stato il caso con la norma sui figli ribelli. Molte però lo furono.

La morale sessuale dei Puritani era di riferimento già ai loro tempi. Le donne erano ritenute le “sorelle di Eva tentatrice”, il mezzo preferito dal Maligno per tentare la virtù degli uomini e distoglierli dal loro patto con Dio. Non potevano mostrare in pubblico più della faccia e delle mani, e ciò valeva anche per le bambine di ogni età.

Con un’apposita legge nel 1650 il Parlamento del Massachusetts proibì le maniche corte nei vestiti femminili. Contrariamente a quanto si pensa all’estero, che accredita gli Stati Uniti quale esempio di grande liberalità nei costumi, l’esposizione in pubblico di nudità, in immagini o dal vero, è contro la legge; non ci sono monokini sulle spiagge aperte al pubblico, e ciò vale anche per le bambine praticamente di ogni età. Anche il divorzio, da sempre in uso presso gli americani, era ammesso dai Puritani, che lo praticavano con ancora maggiore frequenza vista la seria proibizione dell’adulterio. I reati sessuali erano puniti con straordinario rigore. Per l’adulterio e l’omosessualità era comminata la pena di morte. L’adulterio si verificava anche nel caso in cui la donna fosse solo fidanzata.

Nelle comunità puritane gli uomini non sposati avevano una vita difficile, anche rischiosa. Ogni comunità aveva i suoi watchmen (“sorveglianti”), dipendenti comunali il cui compito era di controllare il comportamento delle persone e di riferire al pastore della chiesa. Erano dei delatori, che origliavano dietro gli angoli e spiavano dalle finestre. Scapoli e zitelle erano naturalmente i più controllati. Per facilitare il compito a questi era fissata una residenza coatta (per la quale dovevano pagare comunque) a scelta dei membri della chiesa; in genere erano alloggiati presso la residenza del pastore, in casa se donne e nella stalla o nel fienile se uomini. Per queste persone l’unico modo per allentare un po’ la sorveglianza era di mostrarsi più devoti e zelanti degli altri, i primi ad arrivare alla messa e gli ultimi ad andarsene, e naturalmente i primi a fare da delatori. Ma non era mai abbastanza. Nel 1695 la città di Eastham nel Massachusetts promulgò la seguente ordinanza: «Ogni uomo non sposato nel territorio comunale dovrà uccidere 6 cornacchie o 3 corvi; come penitenza per non farlo, non si potrà sposare sino a che non avrà ottemperato a questa ordinanza» (31). È superfluo osservare anche l’utile economico derivante all’agricoltura della comunità.

Fra i Puritani non esisteva il diritto alla privacy. Tale invadenza non era un difetto caratteriale fine a se stesso e gratuito; aveva una logica implicita. La comunità del popolo eletto era garante degli impegni presi con Dio dai suoi singoli componenti, e se fosse venuta meno a tale compito sarebbe stata punita globalmente, in pratica con un immiserimento generale. I momenti più pericolosi fra i Puritani erano quelli successivi a un qualche disastro naturale che avesse colpito la loro zona, come un uragano o una siccità o una epidemia nel bestiame o nelle persone, perché il danno era interpretato come il segno che Dio era dispiaciuto a causa delle mancanze che si erano lasciate commettere a qualcuno, e così cominciavano a ricercare i colpevoli andando a sindacare ancora di più nella vita privata dei candidati più probabili al peccato. Tale invadenza dei Puritani è rimasta una caratteristica della società americana nel tempo, che dura ancora oggi. Per esempio, tutti gli Stati della federazione vietano per legge alcune pratiche sessuali, anche per le coppie di coniugi e indipendentemente dal luogo. Anche l’interesse del pubblico americano per i più sordidi dettagli dei pettegolezzi e scandaletti attribuiti dai media a personaggi noti, dello spettacolo e della politica, è un tratto puritano.

Con tutto ciò le comunità puritane non allarmavano affatto lo straniero: sembravano così per bene. Nelle loro contee la vita aveva un tono quieto, che metteva sicurezza: molta pulizia, poco rumore, mai un alterco, mai un furto, nessun vagabondo o gente senza una precisa funzione (i mendicanti e i poveri o gli immiseriti venivano infatti espulsi). Era tutto un “buongiorno fratello” e un “buonasera fratello”, insomma. Una buona idea di una di queste comunità la si può trarre dal film Friendly Persuasion con Gary Cooper (di William Wyler, 1956, in italiano La legge del Signore). Il film è ambientato all’epoca della Guerra di Secessione e in una comunità quacchera, ma le cose non erano troppo diverse fra i Puritani. L’episodio della spinetta è emblematico. Prima la moglie (Dorothy Mac Guire) si preoccupa moltissimo perché il marito (Gary Cooper) ha comprato lo strumento musicale, cosa già significativa; poi la coppia è terrorizzata da tre vecchi della comunità capitati in visita di cortesia. La morale della storia è che i vecchi erano anziani della chiesa i quali, se avessero scoperto la spinetta, avrebbero potuto dare noie serie alla famiglia. Nonostante le apparenze, però, la pressione psicologica esercitata da tale moralismo pruriginoso e occhiuto era fortissima, e dobbiamo dedurre che desse luogo a molte isterie, turbe comportamentali e perversioni, specie sessuali, che assumevano la funzione di valvole di sfogo. Quando tali fenomeni psicologici si combinavano con l’acuta percezione del Maligno che avevano i Puritani l’effetto era esplosivo. I Puritani credevano che il Diavolo fosse costantemente fra loro per tentarli, per farli peccare:

«I Puritani si consideravano come il popolo scelto da Dio, paragonando il loro stato a quello degli antichi ebrei… Per Calvin ed i suoi seguaci il tema centrale del Vecchio Testamento era il patto tra Dio e l’uomo. L’accettazione da parte del Puritano della teologia calvinista rese la sua vita un’instancabile lotta contro le tentazioni di Satana. Anche quando l’appartenenza attiva alla Chiesa, la prosperità materiale, e la buona salute indicavano elezione, il “santo” non era completamente libero dalla possibilità di peccato. Egli non si poteva rilassare un momento… » (32).

Parimenti i Puritani prendevano alla lettera l’ammonizione del Vecchio Testamento: «Tu non lascerai sopravvivere una sola strega». In effetti in Massachusetts era previsto il Witchfinder General (Cacciastreghe Capo), un funzionario pubblico incaricato di individuare le streghe. Uno di questi, Matthew Hopkins, pubblicò anche un manuale di caccia alle streghe, intitolato The Discovery of Witches (La caccia alle streghe).

Nel 1692 proprio nel Massachusetts, a Salem (ora Danvers), capitò il famoso incidente delle “Streghe di Salem”. Un gruppo di bambine e ragazze che si riunivano nella casa del reverendo James Parris per ascoltare le storie di riti e magie raccontati da due suoi schiavi — il pellerossa John Indian e sua moglie Tituba, una nera — cominciarono a sviluppare un comportamento strano, come il dare in escandescenze, gridare oscenità, parlare tra di loro in quella che pareva una lingua sconosciuta. Non era una lingua sconosciuta, naturalmente, e le ragazze non sapevano quel che dicevano. Le “streghe” erano Elizabeth Parris di 9 anni, figlia di Parris (uomo severissimo anche per gli standard puritani), sua cugina Abigail Williams di 11 anni, e le loro amiche Ann Putnam di 12 anni, Mary Walcott di 16, Elizabeth Hubbard di 17, Susan Sheldon di 18, Elizabeth Booth di 18, Mercy Lewis di 19 e Mary Warren di 20. Il comportamento delle ragazze fu immediatamente diagnosticato come un caso di possessione diabolica.

I Puritani collegavano la salute fisica con l’intervento divino, e i disordini mentali con quello del Diavolo. Le isterie, non rare in età puberale, erano immancabilmente ritenute fenomeni di possessione diabolica; se non si affrettavano a risolversi si avviava un’indagine pubblica. Nel 1688 i quattro figli di un muratore di Boston di nome Goodwin iniziarono a dare segni di possessione, come fu definita dal reverendo Cotton Mather in persona; in quel caso il veicolo di trasmissione del Maligno fu individuato in una vecchia lavandaia arterio-sclerotica, che fu impiccata.

Cotton Mather, il più grande teologo della storia puritana, era il pastore più influente del suo tempo, in campo sia religioso che politico. Proveniva da una famiglia di pastori puritani, come capitava di frequente: figli e figlie di pastori puritani si sposavano di preferenza tra loro e a loro volta avviavano i discendenti alla stessa attività (un po’ come avviene fra i rabbini ebrei). Lo strano nome (“Cotone”) gli fu dato dal padre Increase Mather, anch’egli importante teologo, in onore di John Cotton, un teorico inglese del calvinismo trasferitosi in America. Anche Mather, come Hopkins, scrisse un libro sulla caccia alle streghe: il suo An essay of the recording of illustrious providences del 1681 fu un best seller dell’epoca coloniale.

Mather fece da supervisore anche nel caso di Salem — vi si precipitò letteralmente. L’atmosfera divenne rapidamente da Inquisizione: interrogatori con tortura (con il collo legato alle caviglie o il torace ricoperto di pietre sempre più pesanti) fino alla confessione. Le ragazze non ebbero la presenza di spirito delle monache di Loudun, in Francia, che in un caso analogo del 1633 avevano accusato il loro stesso inquisitore di essere il diavolo che le aveva tentate, facendo finire al rogo il reverendo Urbain Grandier. Furono così coinvolte le persone considerate adatte, come Sarah Good, una vecchia che fumava la pipa, Sarah Osborne, una storpia sposatasi tre volte, Martha Cory (o Corey o Carrier), che aveva una figlia illegittima di sette anni e che in base alla sola testimonianza della bambina stessa fu impiccata, naturalmente la schiava Tituba Indian, e altri. Un po’ tutti a Salem colsero l’occasione per sistemare vecchie faccende, come faide di famiglia, rivalità sociali e politiche, questioni di proprietà e di eredità, e fu una girandola mozzafiato di accuse e controaccuse di stregoneria.

Alla fine 55 persone confessarono di essere streghe o stregoni ed un altro centinaio finì in carcere in attesa del processo. Il governatore sir William Phipps non approvava il processo, e fu costretto ad abbandonare Salem dai Puritani che volevano fare giustizia a modo loro. Nell’estate del 1692 la Corte di Oyer and Terminer (cioè di Hear and Determine : Ascolto e Giudizio) condannò a morte 25 donne, 6 uomini e due cani, trovati collegati per intuibili motivi. Ann Putnam al momento del processo aveva compiuto 13 anni. Il reverendo Parris aveva fatto da scrivano della Corte ed aveva assistito impassibile agli interrogatori con tortura della figlia Elizabeth e della nipote Abigail. Diciannove di quelle persone furono impiccate, così come i due cani.

Delle rimanenti, Sarah Osborne e Ann Foster morirono in cella in attesa dell’esecuzione; Giles Cory, un vecchio di 80 anni, morì sotto tortura perché non voleva confessare; Abigail Faulkner e Elizabeth Proctor riuscirono a posporre l’esecuzione e furono liberate in seguito all’amnistia generale decretata nel maggio 1693 dal governatore Phipps, che nel frattempo era tornato in forze; Mary Bradbury riuscì a fuggire di cella e non fu più vista in Massachusetts; altre sei rilasciarono delle confessioni che permisero loro di arrivare vive all’amnistia. Giles Cory era morto per lasciare la sua proprietà alla famiglia: confessandosi colpevole avrebbe forse salvato la vita ma la sua proprietà sarebbe stata confiscata; invece, per la legge inglese, in mancanza di una confessione di colpevolezza egli non poteva essere condannato. Le ultime parole di Cory furono “Più peso!”, e il torace gli si sfondò (33).

L’amnistia di Phipps non poteva però estinguere i debiti giudiziari. I costi delle 19 impiccagioni furono pagati tutti dalle famiglie. Anche il ritiro delle salme fu pagato; per il corpo di Ann Foster il prezzo fu di 2 sterline e 16 scellini, per quello di Sarah Osborne di 1 sterlina, 3 scellini e 5 doppie (34). Sarah Dustin fu assolta nel gennaio 1693 per non aver commesso il fatto, ma non potendo pagare le spese della sua detenzione rimase in cella sino alla morte, avvenuta molti anni dopo. Margaret Jacobs, anche lei assolta con formula piena, avrebbe fatto la stessa fine se alcuni anni dopo uno straniero di nome Gammon non avesse saldato i suoi debiti. Tituba Indian, tenuta in carcere per tutto il periodo senza alcun processo, dopo l’amnistia del 1693 fu venduta dal municipio di Salem per coprire le spese della sua incarcerazione; il marito John Indian non la vide più. Elizabeth Proctor e Abigail Faulkner poterono pagare, ma una volta in libertà si trovarono legalmente morte, per effetto della condanna alla pena capitale che l’amnistia non toglieva, e quindi impossibilitate a reclamare le loro proprietà, e a suo tempo non poterono neanche ereditare.

Quello di Salem fu solo il più clamoroso di uno stillicidio di episodi del genere.

Negli Stati Uniti attuali è stata istituita una associazione dei discendenti di persone accusate ai tempi di stregoneria, la Sons and Daughters of the Victims of Colonial Witch Trials. I membri sono solo 45, i quali sostengono, sulla base di semplici formule statistiche, che negli Stati Uniti attualmente vivrebbero circa 20 milioni di discendenti di perseguitati per stregoneria: fra questi ci sarebbe Joan Kennedy, ex moglie del senatore Edward Kennedy, discendente di Mary Esty. Lo scopo principale dell’associazione è di convincere il municipio di Salem-Danvers a erigere almeno una targa ricordo dell’accaduto, obiettivo non ancora ottenuto.

5. I Puritani e la cultura

Alla scuola i Puritani dedicarono subito una attenzione che precorreva i tempi.

C’erano due necessità, i Comandamenti e gli affari: per seguire i primi occorreva conoscere la Bibbia, e quindi saper leggere, mentre per i secondi oltre a ciò occorreva saper fare i conti. Ogni township quindi aveva almeno una scuola e un maestro, pagati dalla municipalità, e ce n’erano altri nelle città. Il livello di alfabetismo fra i Puritani era senz’altro il più alto delle colonie americane.

Una ulteriore importante spinta fu data dalla necessità, che i Puritani americani avvertirono molto presto, di formare in loco i loro pastori. I pastori che provenivano dall’Inghilterra infatti portavano l’influsso delle correnti di pensiero europee sul puritanesimo inglese, nella madrepatria già in fase calante. Nel 1636 così, solo sei anni dopo l’istituzione della Massachusetts Bay Colony, il pastore John Harvard donava tutti i suoi libri e metà dei suoi rilevanti averi per fondare un seminario. Nel 1640 c’erano già nel New England circa 300 pastori diplomati in loco. L’Harvard College, divenuto gradualmente una università, è il più antico college degli Stati Uniti. Sempre come seminari nacquero nel 1701 l’università di Yale, fondata dallo stesso Cotton Mather, nel 1764 l’università di Brown nel Rhode Island e nel 1769 l’università di Darthmouth nel New Hampshire. Tali istituzioni garantirono ai Puritani una superiorità culturale schiacciante nell’ambito coloniale sino alla Guerra di Indipendenza e mantennero una supremazia del New England nell’ambito della federazione che dura ancora oggi.

La produzione libraria puritana fu sin dall’inizio molto abbondante. Essa aveva un carattere essenzialmente pratico; oltre ai testi scolastici erano pubblicati manuali, cronache coloniali, trattati di agricultura e giurisprudenza, pamphlet politici. La maggior parte delle pubblicazioni era di argomento religioso, ritenuto dai Puritani il più utile di tutti. Cotton Mather pubblicò 444 libri, divisi quasi equamente fra religione e politica; suo padre Increase ne aveva pubblicati 92, tutti sulla Bibbia. Non mancavano opere di poesia e poemi, tutti però di ispirazione religiosa. La più notevole poetessa puritana fu Anne Bradstreet, che nel 1650 pubblicò a Londra la raccolta The Tenth Muse, il cui filo conduttore era la bellezza della natura vista come esaltazione del suo Creatore. La Bradstreet, pur essendo una puritana ortodossa in linea con Cotton Mather, aveva una natura mistica e sentimentale e scrisse anche Contemplations, l’unica opera letteraria puritana insieme con i Busybody Papers di Benjamin Franklin a non avere un carattere utilitaristico o didattico-religioso.

Il poema più letto dagli americani di tutti i tempi è The Day of Doom (Il Giudizio Universale) pubblicato nel 1662 in Massachusetts dal puritano Michael Wiggleworth, nel quale la teologia calvinista è messa in versi settenari. La prima edizione fu esaurita in un anno e seguita da altre dieci, l’ultima delle quali nel 1774. Un estratto esemplificativo del poema è il seguente passo, in cui Dio pronuncia la sentenza finale per i morti in tenera età, ma sempre affetti dal peccato originale:

«É un crimine, perciò in beatitudine

Voi non potete sperare di stare;

Ma per voi io lascerò

La stanza dell’Inferno più comoda.

Avendo il Re glorioso così risposto,

Loro smettono, e non supplicano più;

Le loro coscienze devono ammettere,

le Sue ragioni sono le più forti».

Numerose furono le cronache o storie della colonizzazione. La loro avventura nel Nuovo Mondo era immancabilmente interpretata come un ripetersi dell’esodo di Mosè: i Puritani erano gli ebrei, l’oceano Atlantico il Mar Rosso, l’America era la nuova Terra Promessa, gli indiani erano i cananei annientati dagli ebrei e il re inglese era il Faraone. Fra queste, notevoli sono il Journal di John Winthrop, il leader dei primi 2.000 Puritani giunti alla baia di Massachusetts nel 1630; il New English Canaan di Thomas Morton, pubblicato nel 1637 ad Amsterdam in Olanda e ripubblicato nel 1697 dalla Burt Franklin di New York; l’History of Plymouth Plantation: 1620-1647 di William Bradford, pubblicato verso il 1650 in Massachusetts e ripubblicato nel 1693 dalla Alfred A. Knopf Inc. di New York; il New England’s Prospect di William Wood, pubblicato nel 1634 e ripubblicato nel 1697 sempre dalla Burt Franklin.

I pamphlet politici erano numerosi e riguardavano le questioni tipicamente coloniali. Interessante, benché non di origine puritana, è il New England present sufferings under their cruel neighboring indians (Le attuali sofferenze del New England a causa dei loro crudeli vicini indiani) di tale Edward Wharton, un quacchero della Pennsylvania, pubblicato nel 1675: Wharton sostiene la tesi che la colpa delle guerre indiane ricadeva soltanto sui Puritani del New England, per via delle loro provocazioni. Quindi interpreta tali guerre come una punizione divina per i Puritani a causa delle persecuzioni religiose che infliggevano ai Quaccheri.

La Bibbia continuerà ad avere un posto centrale anche nelle opere dei più grandi autori americani sino a tutto il XIX secolo. Brahmin Henry Wadsworth Long-fellow (1807-1882), nato in Maine, tradusse la Divina Commedia e scrisse nel 1851 una trilogia di drammi lirici intitolata Christus: a Mistery. Il poeta Nathaniel Hawthorne (1804-1864), nato proprio a Salem in Massachusetts, era un Puritano che lottava con il suo retaggio: The Scarlet Letter è del 1850. I romanzi di Herman Melville (1819-1891), di New York, sono ricchi di allusioni, immagini e riferimenti biblici, come appare chiaro in Billy Bud del 1891. Il capitano Achab di Moby Dick è un Puritano, e la balena bianca è il male imperscrutabilmente presente nell’universo ma reso «visibilmente personificato e materialmente sfidabile».

La teoria dell’evoluzionismo di Darwin (1809-1882), che pubblicava la Origin of Species nel 1859, scuoteva la fiducia di molti intellettuali americani nell’interpretazione letterale della Bibbia. Essa però non ne scalfiva il corollario sociale più importante, anzi gli forniva argomenti forse più convincenti, perché moderni, “scientifici”. Theodore Dreiser (1871-1945), nella sua American Tragedy del 1925, descrive un mondo dominato dalle leggi di sopravvivenza darwiniane; Frank Cowperwood, l’eroe-uomo d’affari del The Financer del 1912 e di The Titan del 1914 è convinto che l’uomo deve “mangiare o essere mangiato”. Jack London (1876-1916), il cui The Call of the Wild (Il richiamo della foresta) è del 1903, paragona la lotta fra gli uomini a quella fra gli animali. Analoghe visioni della vita appartengono a Francis Scott Fitzgerald, John Dos Passos, Ernest Hemingway.

Nella parziale crisi della sovrastruttura culturale del Vecchio Testamento cominciò a trovare un po’ di posto nella prima metà del Novecento anche il Nuovo Testamento, anche per effetto delle potenti immigrazioni dall’Europa avvenute fra il 1880 e il 1914, che avevano portato consistenti quote di cattolici irlandesi, italiani e tedeschi.

La figura del Nazareno, che alcuni anni prima aveva ispirato anche Longfellow, diventò per molti autori un tema centrale, specie per i più sensibili alle problematiche sociali: la poetessa Sarah Northcliffe Cleghorn (1876-1959) intitolava una sua ode Comrade Jesus. Gli autori cattolici acquistavano per la prima volta un qualche riconoscimento con Thomas Stearns Eliot (1888-1965), il cui Murder in the Cathédrale del 1935.

Anche la psicanalisi introdotta da Sigmund Freud (1856-1939), che dimostrava come la volontà umana potesse originarsi da fenomeni ben più complessi di quanto trasparisse dal Vecchio Testamento, interferiva con la tradizionale cultura biblica americana, così come del resto aveva fatto in misura più ridotta la critica portata al capitalismo da Karl Marx (1818-1883), il cui Capitale è del 1867.

Queste tre figure — Darwin, Marx e Freud — costituiscono l’odiata triade contro cui sta lottando praticamente dagli inizi del Novecento l’ortodossia puritana americana, chiamata da alcuni anni a questa parte “fondamentalismo”. Il Fondamentalismo, i cui tratti principali sono ancora l’interpretazione letterale della Bibbia, in particolare del Vecchio Testamento, e la difesa a oltranza del capitalismo puro, è tornato alla ribalta a partire dal 1980, di concerto con l’ondata conservatrice che ha insediato Ronald Reagan alla presidenza della federazione. Di questo movimento fanno parte quote importanti di diverse confessioni (ordini) protestanti, in particolare della battista nel sud e della presbiteriana nel nord, oltre a organizzazioni religiose comunemente definite sette, come la The Worldwide Church of God, che conta alcuni milioni fra aderenti e simpatizzanti, e il Salvation Army (Esercito della Salvezza). I Jeovah Witnesses (Testimoni di Geova), nonostante la loro inflessibile interpretazione letterale della Bibbia, sono da considerare un caso a parte; essi, però, semplicemente spostando l’accento su alcuni concetti piuttosto che su altri, potrebbero diventare la religione contemporanea più simile a quella puritana storica.

Data la sua importanza nella storia contemporanea americana, al Fondamentalismo sarà dedicato un capitolo più avanti.

Le caratteristiche culturali e psicologiche dei Puritani si sono conservate negli americani. Anche per loro tutto deve mirare al raggiungimento della ricchezza.

L’editoria quindi ha un carattere essenzialmente pratico, con prodotti che nei vari generi hanno raggiunto col tempo livelli di eccellenza (i manuali americani sono punti di riferimento nei vari settori). Gli autori di talento, più che indagare la realtà, cioè la verità, mirano a confezionare opere di successo presso il vasto pubblico. Così si sono specializzati nella fiction, nelle opere di evasione, dove di nuovo eccellono di gran lunga su tutti per la capacità di presentare storie e situazioni assurde in modo verosimile. Hollywood riassume tale attitudine tipicamente americana.

Dei Puritani gli americani conservano l’intelligenza: notevole, e di tipo logico, consequenziale. Gli americani partono da presupposti che poi sviluppano con una coerenza, direi, sconosciuta anche agli europei. La loro società ne è un esempio. Essa parte dal presupposto che ognuno deve tentare di arricchirsi. Allora gliene si offre davvero la possibilità: non lo si soffoca con le leggi e i regolamenti, non gli si impedisce di scegliersi e cambiare il proprio personale, non gli si fa perdere tempo con la burocrazia. E così è per tutto. Le leggi sono fatte per essere rispettate, non è vero? Perciò fanno poche leggi, ma da rispettare, pena, quasi sempre e quasi per tutte (comprese quelle sul traffico), il carcere. Le donne non hanno forse gli stessi diritti degli uomini? Allora hanno anche gli stessi doveri: vadano alla guerra, siano licenziate quando non produttive, siano condannate a morte secondo il delitto. Tutto

logico, ineccepibile. Di sbagliato non potrebbero esserci che i presupposti.

Note al capitolo III

30 – Molte sono le richieste di filmare le esecuzioni capitali a fini commerciali. Diverse esecuzioni sono già state diffuse negli USA. Per quanto riguarda l’espianto di organi, ad esempio, il Senatore del Congresso della Florida Larry Plummer, un Democratico e presidente del Senate Corrections, Probation and Parole Committee, nel 1989 ha proposto di sostituire l’iniezione letale alla sedia elettrica per i condannati a morte che accettino di donare i loro organi. E questo perché, come ha detto lui stesso, “Ne abbiamo un bisogno urgente per trapianti di cuore, reni, midollo spinale eccetera”. Ha poi aggiunto che il sistema della sedia elettrica gli sembrava disumano: Associated Press del 12/9/1989.

31 – Alice Morse, Earle, Customs and Fashions of Old New England, Charles Scribner’s Sons, New York, 1893.

32 – Joseph Gaer e Benjamin Sieger, The Puritan heritage: America’s roots in the Bible, The new american library of world literature Inc., New York, 1964.

33 – Richard D. Brown, Massachusetts, W.W. Norton & Co. Inc., New York, 1978. Per l’episodio di Salem vedi Marion L. Starkey, The Devil in Massachusetts, Doubleday, Garden City, New York, 1961.

34 – Russel Hope Robbins, The Encyclopedia of Witchcraft and Demonology, Crown Publishers Inc., New York, 1959, p. 439.

Capitolo IV – L’indipendenza

1. Il predominio puritano

Le colonie del New England puritano — Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, Delaware, Maryland, New Hampshire, New Jersey e New York — furono le prime e rimasero di gran lunga le più importanti del periodo precedente la Guerra di Indipendenza, combattuta a partire dal 1776. Questo da ogni punto di vista: demografico, economico, culturale, politico.

Dal punto di vista demografico l’andamento della popolazione nelle 13 colonie, nel periodo compreso fra il 1630 e il 1770, fu all’incirca quello raffigurato nella tabella che riportiamo alla pagina seguente: i valori sono espressi in migliaia (35), e si riferiscono al totale della popolazione, comprendendo pertanto anche gli schiavi neri.

Nel New England questi ultimi rappresentavano circa il 12% della popolazione nel 1650, e calarono al 3% nel 1770; nelle colonie del Sud, invece, per via della mano d’opera richiesta nelle piantagioni, essi passarono dal 3% del 1650 al 41% nel 1770 (essendo più del 60% in Virginia e in Carolina del Sud). Quindi, nel 1650, il New England contava circa 27.800 abitanti bianchi e le colonie del sud 18.100, e nel 1770 il New England ne contava circa 1.066.500 contro i 707.260 del Sud: sino alla Guerra di Indipendenza, insomma, il rapporto fu sempre di 3 a 2 in favore del New England, esattamente come all’inizio.

Mass. 266.6 (1770) 151.6 (1740) 91.0 (1720) 55.9 (1700) 35.3 (1670) 16.6 (1650) 1.3 (1630)

Conn. 183.9 (1770) 89.6 (1740) 58.8 (1720) 6.0 (1700) 12.6 (1670) 4.1 (1650) — (1630)

R. Isl. 58.2 (1770) 25.3 (1740) 11.7 (1720) 5.9 (1700) 2.2 (1670) 0.8 (1650) — (1630)

Delaw. 35.5 (1770) 19.9 (1740) 5.4 (1720) 2.5 (1700) 0.7 (1670) 0.2 (1650) — (1630)

N.Ham. 72.4 (1770) 23.3 (1740) 9.4 (1720) 5.0 (1700) 1.8 (1670) 1.3 (1650) 0.5 (1630)

N.Jer. 117.4 (1770) 51.4 (1740) 29.8 (1720) 14.0 (1700) 1.0 (1670) — (1650) — (1630)

N.Yor. 162.9 (1770) 63.7 (1740) 36.9 (1720) 19.1 (1700) 5.8 (1670) 4.1 (1650) 0.4 (1630)

Maryl. 202.6 (1770) 116.1 (1740) 66.1 (1720) 29.6 (1700) 13.2 (1670) 4.5 (1650) — (1630)

Tot. 1099.5 (1770) 540.9 (1740) 309.1 (1720) 158.0 (1700) 72.6 (1670) 31.6 (1650) 2.2 (1630)

Penn. 240.1 (1770) 85.6 (1740) 31.0 (1720) 18.0 (1700) — (1670) — (1650) — (1630)

Virg. 447.0 (1770) 180.4 (1740) 87.8 (1720) 58.6 (1700) 35.3 (1670) 18.7 (1650) 2.5 (1630)

N.Car. 197.2 (1770) 51.8 (1740) 21.3 (1720) 10.7 (1700) 3.8 (1670) — (1650) — (1630)

S.Car. 124.2 (1770) 45.0 (1740) 17.0 (1720) 5.7 (1700) 0.2 (1670) — (1650) — (1630)

Geor. 23.4 (1770) 2.0 (1740) — (1720) — (1700) — (1670) — (1650) — (1630)

Tot. 1031.9 (1770) 364.8 (1740) 157.1 (1720) 93.0 (1700) 39.3 (1670) 18.7 (1650) 2.5 (1630)

Per quanto riguarda l’economia, quella del New England assunse rapidamente dimensioni gigantesche. Le condizioni trovate dai Puritani erano state straordinariamente favorevoli. Il terreno, una volta disboscato senza troppa fatica con la tecnica imparata dagli indiani, incendiando il sottobosco e neutralizzando gli alberi con l’asportazione di una corona di corteccia alla base (il girdling), era fertile, già coltivato a mais dagli indiani; il legname, importante come combustibile e materiale da costruzione anche per le navi, era sovrabbondante; l’interno del territorio era solcato da una buona rete di vie d’acqua navigabili e sulla costa erano già pronti dei grandi porti oceanici naturali come Boston e New York. Il cibo non fu mai un problema se non nei primissimi mesi. Il luogo brulicava di animali di ogni genere, daini, procioni, anatre, fagiani, tacchini di proporzioni eccezionali. La selvaggina era talmente abbondante che così si espresse uno dei primi coloni della Massachusetts Bay : «I have fed my doggs with as fatt geese there as I have ever fed upon my self in England» (“Ho dato da mangiare ai miei cani delle anatre così grasse come non mi ero mai potuto permettere io stesso in Inghilterra”) (36). I fiumi e le acque costiere brulicavano allo stesso modo di pesci e crostacei. Fra i pesci gli indiani e i coloni mangiavano solo i branzini e adoperavano il resto della pesca per concimare i campi.

Durante la bassa marea nei tratti di costa sassosa si raccoglievano aragoste del peso anche di 15 chili, che venivano adoperate come esca (37). Le grossissime vongole del New England venivano raccolte col badile sul bagnasciuga e date ai maiali; coi gusci venivano pavimentate le strade, una usanza che nelle cittadine costiere americane sopravvive ancora (uno dei 613 Comandamenti proibisce di cibarsi di crostacei). La pesca oceanica era oltremodo redditizia e Cape Cod in Massachusetts divenne presto il primo centro mondiale per la pesca al merluzzo, mentre da Boston e Nantucket cominciavano a partire le baleniere che avrebbero ispirato Melville. Il commercio marittimo conobbe una crescita rapidissima e per la fine del Seicento dai promontori del New England si vedeva già un brulicare di nere navi mercantili che andavano e venivano, cariche di merce di ogni tipo. La pirateria era praticata in grande stile in tutte le colonie, con l’approvazione dei governatori quando aveva per oggetto mercantili non inglesi; nell’anno 1717 si calcolava che non meno di 1.500 persone si dedicassero alla pirateria sulle coste della sola Carolina. C’erano anche società armatoriali di Business of Wrecking (sciacallaggio marinaro): i loro ottimi brigantini cercavano la tempesta e seguivano i mercantili in difficoltà attendendo che affondassero per recuperare legalmente il carico, trascurando altrettanto legalmente i naufraghi (nessuno dei 613 Comandamenti obbliga a soccorrere chi è in difficoltà).

Nella prima metà dell’Ottocento quasi duemila battelli saranno impegnati in tale attività, regolata con il Congressional Act del 3 marzo 1825 che imponeva di scaricare il bottino in un porto statunitense. Il Business of Wrecking cesso verso il 1930, per riprendere verso il 1980 sotto la forma di ricerca di tesori sommersi. La raccolta delle pellicce, barattate con cianfrusaglie, coperte e utensili dagli indiani specialmente nelle zone a ridosso dei Grandi Laghi come il New Hampshire e l’odierno Vermont, invece lasciava un po’ a desiderare: il regno del castoro era sui Grandi Laghi, ma più a est, dove c’erano i francesi.

Ma più di ciò fu la qualità dell’immigrazione puritana a determinarne il successo economico. In varie ondate a partire dal 1630 questa portò in America non un insieme casuale di spiantati, ma una società completa, forse piccola ma organizzata in ogni sua parte. I soci della London Company selezionavano accuratamente i componenti dei viaggi. Tutte le caselle da cui doveva essere formata la società che progettavano di creare erano riempite: i quadri dirigenti, che per ]oro erano i grandi commercianti, affaristi e finanzieri; i quadri intermedi, formati da imprenditori più piccoli ma autonomi come contadini, artigiani, pescatori; i lavoranti per alimentare tutti quei settori, cui veniva offerto un contratto come Indentured Servant, e infine gli operatori del campo culturale e religioso, gli avvocati, i maestri, i contabili, e gli onnipresenti preti. In sostanza essi avevano tutti i requisiti per fare da gruppo dominante nelle colonie inglesi in America; erano una cellula già formata attorno cui potevano gravitare tutte le altre strutture più semplici, sino a che anche queste per simbiosi e imitazione prendevano la sua forma.

Gli altri inglesi che si sistemarono nelle colonie del Sud non erano niente di paragonabile. Essi erano più simili allo stereotipo dell’emigrante: degli squattrinati in cerca di fortuna o solo di sollievo raccolti a destra e sinistra da compagnie e privati che non avevano altri scopi che vendere i biglietti o popolare zone ottenute in concessione per farvi da governatore o per realizzare personali utopie che mai sarebbero state realizzate. I primi inglesi di Jamestown erano un’armata Brancaleone di soldati, ex soldati e gentiluomini senza arte né parte; nello sparuto drappello di artigiani che si erano portati dietro c’erano un gioielliere e un profumiere. Iniziarono cercando l’oro e fraternizzando con gli indiani tramite matrimoni misti; anche alcune donne inglesi sposarono degli indiani. In molti fuggirono dalla colonia e si unirono a tribù indiane, attratti dalla loro vita libera, tanto è vero che il governatore per fermare l’emorragia stabilì dure pene per i fuggiaschi. Gli ultimi inglesi arrivati al Sud nel periodo coloniale erano persone che il generale Oglethorpe aveva raccolto fra i condannati per debiti. Questi uomini non avevano né le cognizioni né lo spirito imprenditoriale dei Puritani ed erano inclini a sfruttare le occasioni che trovavano piuttosto che cercare di crearne di nuove. Così, dove c’era il tabacco coltivarono il tabacco e dove c’era il cotone coltivarono il cotone, e quando si accorsero che gli schiavi potevano fare il grosso del lavoro si trasformarono in latifondisti negrieri.

Essi diedero in tal modo origine a colonie ricche ma poco articolate dal punto di vista economico e sociale. La loro unica risorsa era la schiavitù: il 75% delle famiglie possedeva uno o più schiavi, mentre nell’anno 1770 il valore investito in schiavi era di 15 milioni di sterline quando nello stesso anno il valore totale delle esportazioni dalle 13 colonie era stato di 1 milione di sterline.

Mentre nel Sud i coloni si adagiavano su una facile e torpida economia basata sulla schiavitù, nel New England erano rapidamente fiorite miriadi di piccole, medie, grandi e grandissime imprese economiche, quasi tutte sin dall’inizio eccezionalmente remunerative. Il raddoppio del capitale in un anno era la norma e così questo, divenuto ben presto sovrabbondante, andò a finanziare lo sviluppo un po’ in tutte le colonie. Nel New England si formò così una classe borghese potentissima per la sua numerosità, per la sua grande disponibilità di capitali, e per la sua incessante, maniacale voglia di aumentarli. Napoleone, impressionato dallo spirito mercantile della classe borghese inglese, un fenomeno sconosciuto in tali proporzioni nell’Europa continentale tranne che in alcune enclavi in Olanda, Germania settentrionale e Svizzera, definì la Gran Bretagna una “nazione di bottegai”.

Napoleone non aveva visto il New England.

Dal punto di vista culturale e politico la preminenza puritana era ancora più marcata. L’istruzione primaria, obbligatoria da subito nel New England, fu resa tale più tardi e solo gradualmente nelle colonie del Sud, mentre per le università la prima al di fuori del New England fu quella di Pennsylvania fondata nel 1740, quando l’Harvard College stava sfornando la classe dirigente americana da più di un secolo.

Anche da ciò proveniva l’abilità politica dei Puritani, già ricca dell’esperienza nei loro precoci Parlamenti coloniali. Così, pur essendo giuridicamente sullo stesso piano delle altre, anch’esse soggette alla Corona tramite un governatore, le colonie del New England avevano un peso politico assai superiore per l’influenza che i loro Parlamenti esercitavano su quelli delle altre colonie.

2. Verso la Guerra di Indipendenza

I Puritani erano andati in America con uno scopo ben preciso: avere la possibilità di arricchirsi senza costrizione alcuna. Per questo volevano autogovernarsi, liberarsi di quell’autocrate che inevitabilmente cercava di perseguire ideali di “bene comune”, di “giustizia sociale”, di “moralità cristiana”. Il loro obiettivo era dunque, fin dall’inizio, di liberarsi della Corona inglese e dei suoi governatori. Così non era, mano a mano che sorsero, per le colonie del Sud e in Pennsylvania, alimentate da una immigrazione diversa, che non aveva particolari rimproveri da portare alla Corona, anzi semmai coltivava una certa gratitudine nei suoi confronti per averle dato quella opportunità. I Puritani del New England si rendevano conto di non potersi ribellare alla madrepatria da soli, senza la collaborazione delle altre colonie, anzi magari con la loro opposizione. Essi quindi si dedicarono con estrema energia ai loro affari commerciali ma ogni volta, quando se ne presentava l’occasione, non dimenticavano, tramite i loro Parlamenti e la loro propaganda, di attaccare la Corona o i suoi governatori. L’obiettivo era sempre di dimostrare alle altre colonie quanto nociva fosse la presenza della Corona anche per le loro possibilità di arricchimento: avevano già molto, ma avrebbero potuto avere di più. Tale polemica, presente sin dall’inizio del 1630, andò aumentando mano a mano che l’incremento di popolazione e l’indebolimento sul continente nordamericano di francesi e spagnoli rendevano sempre meno necessaria la protezione dell’esercito di Sua Maestà.

I principali argomenti politici dei Puritani furono gli indiani, la schiavitù negra, i territori dell’Ovest e naturalmente le tasse.

La Corona perseguiva una politica di accomodamento con gli indiani. Questi erano utili come alleati nelle guerre combattute contro i francesi per spodestarli dai Grandi Laghi. I francesi a loro volta se ne servivano; gli indiani in effetti erano combattenti eccezionali e tentare di sottometterli completamente comportava costi umani e finanziari rilevantissimi (domare la rivolta di poche centinaia di Seminole della Florida sarebbe costato, nel 1835-1840, la vita di 1.500 soldati; durante la Conquista del West ogni indiano morto sarebbe costato al governo federale un milione di dollari). I Puritani invece sostenevano che era meglio sterminare gli indiani, come del resto avevano subito iniziato a fare, e dicevano che la Corona per proteggere gli indiani privava i cittadini di tutte le colonie di eccezionali opportunità economiche.

I Puritani si erano accorti presto che alla loro economia gli schiavi neri non servivano; anzi erano di intralcio. Però sapevano che erano fondamentali per i latifondisti del Sud e assunsero questo atteggiamento: da una parte li appoggiarono concretamente nel chiedere alla Corona il permesso di tenere gli schiavi nelle colonie americane, dall’altra mantennero nel New England una fronda anti-schiavitù, dando spazio nei giornali e al Parlamento ai pochi sinceri antischiavisti che c’erano. In tale modo si faceva sapere al Sud che il New England faceva sì blocco con gli interessi di tutte le colonie, dei quali affermava essere il custode, ma che il suo appoggio per lo schiavismo poteva anche non essere scontato, poteva anche avere un prezzo. Tali motivi — la non convenienza della schiavitù e lo spazio quindi concesso agli antischiavisti — portarono all’abolizione della schiavitù nella colonia del Rhode Island nel 1774, nel territorio autonomo del Vermont nel 1776 e nello stesso Stato del Massachusetts nel 1783.

Dal 1689 al 1763 Francia e Gran Bretagna si combatterono pressoché ininterrottamente. Materia del contendere era il controllo del Mercato dell’Oriente e, ovviamente, della collegata fonte di rifornimento delle pellicce: i combattimenti più importanti si svolsero proprio nell’America settentrionale, nella zona dei Grandi Laghi. In virtù di ciò, di tanto in tanto la Gran Bretagna si impossessava di qualche pezzo di Nuova Francia nella zona suddetta. Tali territori confinavano a ovest con le colonie settentrionali e quindi le società del New England volevano acquistarli in grandi blocchi per rivenderli parcellizzati ai loro concittadini, già a corto di proprietà, e quant’altri. Ma la Corona intendeva lasciarli alle tribù locali e a quelle che vi si erano rifugiate dall’est, sopravvissute alle epidemie e ai massacri dei Puritani. Anche le colonie del Sud avevano degli appetibili territori a ovest che avrebbero potuto liberarsi. Il New England così sosteneva che la Corona voleva soffocare lo sviluppo di tutte le colonie.

Le tasse erano sempre troppe e sempre ingiustificate per i Puritani. Esse servivano alla Corona per coprire le spese di amministrazione delle colonie, per la loro difesa, e per finanziare le guerre combattute contro la Francia per il possesso dell’America settentrionale. Tali tasse erano raccolte essenzialmente tramite il Navigation Act del 1660, il quale imponeva a ogni nave mercantile da e per le colonie di fare dogana in un porto inglese. Questo valeva anche per il commercio marittimo intercoloniale, ma in tale caso il Navigation Act era facilmente eluso. Gli utili commerciali per le società coloniali rimanevano sempre astronomici, ma pagare meno tasse era una musica che piaceva sempre. Infine, dal punto di vista culturale i Puritani spinsero per il riconoscimento dell’identità “americana” dei coloni, ben distinta oramai da quella “inglese”. Per questo furono importanti le numerose attività editoriali di Boston: nel 1704 veniva fondato il primo quotidiano americano, il Boston News Letter, mentre nel 1732 il puritano Benjamin Franklin iniziava la pubblicazione annuale del suo Poor Richard’s Almanac.

Nonostante questa manfrina più che secolare la causa indipendentista dei Puritani non fu mai molto popolare nelle colonie. Riguardo agli indiani era vero che la Gran Bretagna cercava di proteggerli, ma alla fine i coloni li scacciavano comunque: essi attaccavano e provocavano i nativi pellerossa e di fronte alla loro reazione il governatore inglese mandava sempre i soldati a tutelare i connazionali. La Corona inglese quindi sapeva benissimo che le colonie puritane volevano l’indipendenza e che speravano in una proibizione della schiavitù così da guadagnare alla causa le colonie del Sud, e non fece certo quell’errore. Fece però pesare la concessione e lasciò le colonie meridionali in un vago senso di insicurezza. I piantatori del Sud quindi non erano troppo sensibili neanche al problema delle terre dell’Ovest e del Navigation Act. Si poteva certo migliorare, ma dopo tutto le cose per loro andavano bene anche così com’erano, e c’è da credergli.

Ma in ultima analisi, a parte i pigri piantatori del Sud, ciò che era sempre realmente mancato era un sufficiente appoggio popolare. Ciò valeva sia nelle colonie del Sud che in quelle stesse del New England. Nelle colonie del Sud la maggioranza dei bianchi si interessava poco di politica, ma semmai non vedeva altro che svantaggi dall’indipendenza: ogni potere sarebbe andato a quel Parlamento alla cui elezione non poteva partecipare.

Nel New England solo i grandi mercanti, finanzieri e imprenditori avrebbero tratto tangibili e immediati vantaggi dall’indipendenza, che avrebbe significato il loro stesso autogoverno: niente più Navigation Act, grandi appezzamenti di terre ricche da acquistare all’Ovest e rivendere con guadagni mirabolanti, danaro delle tasse che sarebbe stato usato per creare nuove opportunità economiche soprattutto per loro, per nuovi mercati da aprire all’estero, per l’Ovest da bonificare del tutto dagli indiani, per quel passaggio a Nord-Ovest che prima o poi si sarebbe trovato. A proposito di quest’ultimo non bisogna mai dimenticare ciò che i mercanti puritani non hanno mai dimenticato — dal 1630 a tutt’oggi, per la verità. Trasferendosi sul continente americano essi sapevano benissimo di recarsi in quello che in un modo o nell’altro era il trampolino di lancio per impossessarsi del Mercato dell’Oriente. Se vi si trovava il passaggio a Nord-Ovest, controllandolo si controllavano i relativi traffici; se non lo si trovava allora era chiaro che occorreva giungere via terra sulla sponda del Pacifico. Tali obiettivi erano condivisi dal resto dell’alta borghesia mercantile.

Al di fuori c’era un vasto numero di artigiani e piccoli imprenditori relativamente benestanti e un numero ancora più vasto di nullatenenti che forniva mano d’opera.

Erano tutti in linea di principio per l’indipendenza, ma non ne vedevano vantaggi materiali tali da giustificare i rischi di una rivolta: il Navigation Act li danneggiava poco o punto.

3. La Guerra di Indipendenza

La svolta avvenne al termine della Guerra dei Sette Anni, così chiamata in Europa per la sua durata dal 1756 al 1763. Questa guerra vedeva opposti da una parte la Gran Bretagna e la alleata Prussia e dall’altra la Francia e i suoi alleati Spagna, Austria e Russia. Si trattava della resa dei conti finale per stabilire il controllo di buona parte del Mercato dell’Oriente, ricoprendo già Portogallo e Olanda ruoli marginali. In effetti tale guerra era cominciata due anni prima tra Gran Bretagna e Francia proprio nella zona dei Grandi Laghi. Negli Stati Uniti è chiamata “Guerra Francese e Indiana” perché vi parteciparono, sul suolo americano, numerosi indiani: le tribù Algonchine con i francesi e gli Irochesi con gli inglesi. Diversi combattimenti avvennero anche in quella vasta parte a sud dei Grandi Laghi chiamata allora Ohio Territory, ad ovest dell’omonimo fiume e a ridosso del New England. Qui gli scontri con i francesi erano iniziati addirittura nel 1748, perché la Ohio Company, nonostante la proprietà formale francese e l’opposizione della Gran Bretagna, vi aveva acquistato per pochi soldi vastissime parti dagli indiani Miami, vendute poi a coloni del New England che vi si erano trasferiti alla ricerca di pellicce. Contemporaneamente, circa nel 1750, erano iniziati scontri in India tra francesi ed armate islamico-indiane da una parte e inglesi dall’altra; questi ultimi, al comando di Lord Clive, per l’anno 1760 avevano preso quel sopravvento definitivo che avrebbe poi portato nel 1848 a dichiarare l’India colonia ufficiale della Corona inglese.

In effetti la Gran Bretagna vinse la Guerra dei Sette Anni. Le condizioni della pace furono fissate dal Trattato di Parigi del 10 febbraio 1763, che stabiliva anche le sorti dei possedimenti nordamericani degli sconfitti: la Gran Bretagna riceveva dalla Francia tutta la Nuova Francia a eccezione dei territori ad ovest del Mississippi e riceveva dalla Spagna la Florida; la Spagna a sua volta riceveva dalla Francia quei medesimi territori ad ovest del Mississippi, a titolo di compensazione. Così la Francia perdeva tutti i suoi enormi possedimenti coloniali nell’America settentrionale, mentre la Spagna scambiava la Florida con i territori ad ovest del Mississippi. La Gran Bretagna si era così virtualmente assicurata il controllo del Mercato dell’Oriente chiudendo il cerchio: sua era praticamente l’India da cui partiva l’East India Company, suo era il Canada da cui quella prendeva le pellicce. Anche l’Ohio Territory era ora a sua disposizione.

L’esito della Guerra dei Sette Anni, pur così favorevole, sarebbe però costato alla Gran Bretagna le sue 13 colonie americane. Esso forniva infatti un tremendo impulso alla causa puritana dell’indipendenza.

Innanzitutto nell’America settentrionale non c’era più la temuta Francia, ma solo — nel lontano Sud e nel selvaggio Ovest — quella Spagna la cui potenza già da tempo era in declino. La presenza dell’esercito inglese non era più necessaria. Quindi ci furono gli incidenti per l’Ohio Territory. Come detto, questo era già stato infiltrato da coloni provenienti dal New England; appena liberato dai francesi molti altri ne giunsero, non solo, ma vecchi e nuovi arrivati attaccarono brutalmente piccoli nuclei di indiani. Gli episodi furono molti ed efferati. Una ventina di Conestoga, gli ultimi dell’omonima tribù, furono massacrati da Puritani nella Pennsylvania occidentale, la retrovia della nuova Terra Promessa: «Quei poveri esseri indifesi furono immediatamente uccisi a fucilate, a pugnalate, a colpi d’ascia; il buon vecchio Shebaes, che era con loro, venne fatto a pezzi nel suo letto. A tutti furono strappati gli scalpi e orribilmente mutilati, poi le loro capanne vennero incendiate (38). Tali provocazioni portarono alla rivolta di Pontiac, un capo Ottawa, che dal 1763 al 1764 riusciva a prendere una decina di fortini prima di sbandare per defezioni e incomprensioni con altri indiani (sarà assassinato qualche anno dopo). La Gran Bretagna aveva già speso un’enormità per la guerra in America contro francesi e indiani (nel 1756 il Primo Ministro Pitt aveva dovuto inviare un’armata di 50.000 uomini) e desiderava un accomodamento stabile con gli indiani. Così nel 1763 la Corona proclamò che l’Ohio Territory era destinato soltanto agli indiani: tutti gli insediamenti effettuati dovevano “essere rimossi all’istante”. Ciò fece infuriare gli aspiranti coloni del New England e allarmò anche i candidati delle colonie meridionali. I Parlamenti puritani non mancarono di soffiare sul fuoco.

Ma c’era ben altro a proposito dell’ Ohio Territory. Il fatto che ora la Gran Bretagna, dopo aver liberato il nord America dai francesi, bloccasse tuttavia l’espansione ad Ovest alle sue colonie americane, magari con la scusa di riservare territori agli indiani come pensavano — forse giustamente — i grandi mercanti Puritani, non poteva che significare una cosa: la Corona intendeva lasciare il Mercato dell’Oriente alla East India Company, bloccando per sempre la strada verso il Pacifico alle colonie americane. Ciò deluse oltremodo i mercanti Puritani perché annullava in un attimo quello che era stato l’obiettivo ultimo di tutta la colonizzazione. Tale ragionamento, sconosciuto al “popolo” coloniale, dominava invece la mente dell’elite mercantile puritana, l’elemento motore del New England.

Fu questo in ultima analisi il vero grande motivo della Guerra di Indipendenza americana: il Mercato dell’Oriente.

Infine le tasse. La Gran Bretagna doveva recuperare le spese sostenute nella guerra in America e le entrate del Navigation Act non erano più sufficienti, anche perché ampiamente aggirate dai mercanti: già nel 1761 i Writs of Assistance avevano dato alla Marina inglese il diritto di perquisire le navi da e per le colonie. Fu quindi introdotta una serie di decreti per imporre dazi e gabelle varie: nel 1764 furono introdotti il Sugar Act e il Currency Act, nel 1765 lo Stamp Act e il Quartering Act, nel 1767 il Townshend Act. I Parlamenti del New England furono in prima fila nell’esprimere le proteste delle colonie, e la loro abilità consisté nell’indurre il governo inglese a spostare gradualmente la tassazione verso beni di largo consumo, che colpivano la classe povera e media. Ad esempio, essi si opposero con decisione allo Stamp Act, che prevedeva l’uso di marche da bollo per gli atti notarili di compravendita e per le pratiche col governo (licenze, concessioni ecc.). Per questo i Parlamenti del Massachusetts e di New York organizzarono a New York una riunione, cui parteciparono nove colonie e che fu detta Congresso dello Stamp Act, nel quale fu adottata una Dichiarazione dei Diritti che escludeva la Taxation without representation e i processi senza giuria. La “tassazione senza contropartita” si riferiva alle tasse da pagare per la guerra appena terminata: c’erano da pagare le spese ma non i vantaggi da godere — l’Ohio Territory che si era liberato, almeno. I processi senza giuria, e cioè sommari, erano l’unico strumento legale dei governatori inglesi per poter perquisire i magazzini dei commercianti al fine di verificare il pagamento dei dazi.

Lo Stamp Act fu ritirato lo stesso anno e al suo posto fu introdotto il Townshend Act, che prevedeva le seguenti misure:

a) I funzionari coloniali venivano pagati direttamente dal governo inglese, compresi i governatori. Questi funzionari venivano infatti ricattati dai Parlamenti coloniali, che sino allora avevano avuto il potere di stabilirne lo stipendio.

b) La possibilità di perquisire con procedura legale d’urgenza le case private. Ciò non aveva lo scopo di istituire uno Stato di polizia, come dicevano i Puritani, ma solo di fare in modo che il Navigation Act fosse rispettato. L’articolo mirava a verificare se le merci dichiarate nelle bolle doganali corrispondevano con quelle movimentate, perquisendo senza preavviso i magazzini degli esportatori, che erano legalmente considerati una loro “casa” (spesso tali magazzini erano materialmente sotto casa).

c) Nuove entrate al posto di quelle dello Stamp Act. dazi su vetro, vernici, carta e tè. Anche questo provvedimento fu osteggiato e nel 1770 l’unica tassa a rimanere in vigore era la tassa sul tè, un articolo di largo consumo. La causa dei Puritani cominciava a prendere piede anche negli strati bassi della popolazione. Non c’erano ancora le condizioni sufficienti per una rivolta ma le medesime non erano mai state così favorevoli. I grandi mercanti del Massachusetts decisero di spingere sull’acceleratore e incaricarono i loro media — giornalisti, intellettuali, preti dal pulpito — di mantenere viva la polemica con la madrepatria. In tale clima cominciarono a crearsi degli incidenti. Nel 1770 a Boston alcuni soldati inglesi (le Giubbe Rosse) provocati dalla folla reagirono a fucilate, facendo, a seconda delle fonti, da tre a cinque morti. La stampa parlò subito del “Massacro di Boston”. Uno dei morti era un nero, tale Crispus Attucks, che casualmente si trovava nei paraggi.

La stampa del Massachusetts colse così l’occasione per lucrare un extra: con l’alibi di incoronare Attucks come eroe, sostenne che questi era stato il capo dei provocatori, con l’intento di diminuire le simpatie antischiaviste dei funzionari inglesi. La polemica sulla tassa sul tè dava intanto i suoi frutti. Non bisogna dimenticare che i grandi mercanti Puritani erano furiosi con la East India Company e che la tassa sul tè aveva un sapore beffardo: a tale Compagnia praticamente la Corona aveva riservato il monopolio del tè, e poi attraverso lo stesso prodotto andava a raccogliere tasse nelle colonie americane. Nel maggio del 1773 alcuni mercantili della East India Company che trasportavano tè furono respinti nei porti di Boston, New York e Philadelphia.

Nell’ottobre un altro mercantile della stessa compagnia veniva incendiato ad Annapolis. Infine il 16 dicembre del 1773 ci fu il celebratissimo episodio del Boston Tea Party, un gruppo di uomini travestiti da indiani rovesciò in acqua il carico di tè di una nave alla banchina, la stessa che era stata danneggiata ad Annapolis. Il travestimento aveva lo scopo di diminuire le simpatie che i funzionari inglesi sembravano avere per gli indiani. Il trucco comunque non funzionò. Il re Giorgio III era furioso col Massachusetts e ordinò la chiusura del porto di Boston sino a che il danno non fosse stato ripagato, quindi tolse al Massachusetts molti poteri di autogoverno.

Il Massachusetts convocò allora tutti i Parlamenti coloniali per una riunione che si tenne a Philadelphia dal 5 settembre al 26 ottobre del 1774. Fu il cosiddetto Primo Congresso Continentale. Qui tutti i Parlamenti mandarono rappresentanti, ad eccezione della Georgia, che non si riteneva parte in causa. Il delegato del Massachusetts Samuel Adams insistette per un’immediata azione militare comune, ma molti delegati erano contrari all’indipendenza. Il congresso terminò quindi con una petizione scritta al re Giorgio III nella quale ci si lamentava, per fare contento Adams e qualche altro, dell’“ingiustizia” e della “crudeltà” delle sue azioni. Dato che c’era, il Congresso aggiunse anche le solite geremiadi americane sulle tasse.

Il Massachusetts aveva però fiutato una certa indecisione nel Congresso e così decise di spingere a fondo nella direzione di provocare gli inglesi. L’anno dopo un gruppo di patrioti, come erano chiamati a Boston, tese un’imboscata a un reparto inglese che andava ad arrestare Adams e John Hancock (in precedenza avvertiti da Paul Revere); alla fine delle cosiddette battaglie di Lexington e Concord i cecchini che sparavano dalla macchia e fuggivano avevano ucciso 273 soldati (furono subito chiamati i Minutemen, gli “uomini-minuto”). Seguirono altri scontri del genere in Massachusetts. Il colonnello Ethan Allen prese il forte Ticonderoga, nell’area dell’attuale Vermont, e affrontò due scontri campali con un’armata inglese comandata dal generale Howe prima di ritirarsi; nella battaglia di Bunker Hill, Howe perse circa 1.000 uomini.

Le colonie allora, vista la piega assunta dagli eventi, decisero di riunirsi ancora a Philadelphia. Fu il Secondo Congresso Continentale. Qui, dopo mesi di discussioni, l’ormai consolidata minoranza indipendentista, i cui leader erano i grossi mercanti puritani John Adams, Samuel Adams e John Hancock, e i grossi piantatori del Sud James Madison, Alexander Hamilton, Thomas Jefferson e George Washington, riuscì a convincere l’assemblea a decidere per la separazione definitiva dall’Inghilterra.

Alla fine i Puritani erano riusciti nel loro intento. Il 4 luglio 1776 veniva così enunciata la Dichiarazione di Indipendenza, anche se più di un terzo della popolazione coloniale era contraria. Il testo della Dichiarazione è riportato nel prossimo paragrafo assieme a un breve commento. Il quattro di luglio è rimasto la più grande festa nazionale americana: l’Independence Day.

La guerra per l’indipendenza iniziava così ufficialmente. Nel 1775 il Congresso Continentale aveva già preso accordi cautelativi con Francia e Spagna, che avevano garantito il loro appoggio in caso di guerra. L’anno dopo questi paesi fornirono 350 tonnellate di armamenti. Nel 1775 era anche stato nominato l’eventuale comandante in capo, l’ex esploratore e allora ricchissimo latifondista negriero della Virginia George Washington.

Uno dei maggiori problemi di Washington fu la raccolta degli effettivi, vista la diffusa ostilità alla guerra; in effetti quando essa ebbe termine circa 100.000 americani emigrarono, rifugiandosi metà in Inghilterra e metà in Canada, dove originarono la parte anglofona del paese. Washington perse la prima battaglia, a Long Island; la città di New York fu evacuata. Perse anche la battaglia di White Plains, ma il generale Howe non riuscì ad annientare il suo esercito. Gli Hessiani, mercenari tedeschi che combattevano per la Gran Bretagna, presero il forte Lee nel New Jersey e il forte Washington nel New York, facendo 3.000 prigionieri, ma furono battuti a Trenton nel New Jersey da Washington. Questi batté anche il comandante inglese Lord Cornwallis a Princeton, l’anno dopo, nel 1777. Nel nord il generale americano Gates batteva a Saratoga un esercito inglese penetrato dal Canada, forte di 8.000 uomini e comandato dal generale John Burgoyne, che aveva ripreso il forte Ticonderoga. Burgoyne si arrendeva assieme a 5.000 uomini, fatti prigionieri.

La sostanziale situazione di stallo fu ribaltata da un più deciso impegno della Francia, che il 17 dicembre 1777 aveva riconosciuto l’indipendenza delle 13 colonie.

Nel 1778 iniziò a inviare la flotta e contingenti militari di terra, che misero gli inglesi sulla difensiva. Nel 1781 ebbero luogo gli avvenimenti più rilevanti sul piano militare. Il generale Cornwallis si ritirava a Yorktown, in Virginia, mentre la flotta francese bloccava quella inglese ad Hampton Roads e sbarcava 3.000 uomini. Infine Cornwallis, cui erano rimasti 6.000 uomini, si arrendeva il 19 ottobre alle armate riunite di Washington e del francese Rochembeau, forti rispettivamente di 8.846 e 7.800 uomini.

Si è detto che il reale motivo della ribellione era il Mercato dell’Oriente. Per quello era necessario avere a disposizione le pellicce del Canada. Il proditorio attacco al forte Ticonderoga del colonnello Allen, avvenuto addirittura un anno prima della Dichiarazione di Indipendenza, aveva il preciso scopo di occupare la zona dei Grandi Laghi. In seguito all’attacco di Allen gli americani poco dopo riuscirono in effetti a prendere Montreal, ma avevano bisogno della collaborazione dei residenti i quali, in maggioranza francesi, preferivano la Corona inglese che avevano combattuto a quei Puritani che sapevano così rapaci. Anche l’eloquente Benjamin Franklin fu mandato a Montreal per convincerli, inutilmente. Gli americani allora si ritirarono, non senza aver prima messo a fuoco la città per vendetta.

La Gran Bretagna avrebbe potuto continuare la guerra, e con ogni probabilità vincerla, ma ciò che realmente le premeva in America era solo la zona dei Grandi Laghi e bloccare per quanto possibile l’espansione verso il Pacifico ai Puritani. Gli americani, da parte loro, non riuscivano a prendere il Canada, dopo l’episodio di Montreal presidiato da ingenti forze inglesi. Così il 30 novembre 1783 le parti si accordavano secondo la Pace di Parigi. La Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza delle 13 colonie, e inoltre metteva a loro disposizione l’Ohio Territory. Però manteneva la proprietà del Canada, chiamato da allora British North America (BNA), disegnandone i confini a sud in modo da comprendere la zona a nord-est dei Grandi Laghi, la zona delle pellicce. Per quanto riguarda l’espansione verso il Pacifico, la valle ad est del Mississippi, che correva dal Canada al sud spagnolo, dal 1763 era di proprietà della Spagna: forse sarebbe stata questa a fermare gli americani. Per contro la Gran Bretagna rinunciava ad attaccare i mercantili americani diretti in Cina.

4· Il testo della Dichiarazione di Indipendenza

AL CONGRESSO, 4 LUGLIO 1776 UNA DICHIARAZIONE da parte dei RAPPRESENTANTI degli STATI UNITI D’AMERICA riuniti in ASSEMBLEA GENERALE.

Quando, nel corso degli avvenimenti umani, diventa necessario per un popolo dissolvere i legami politici che lo hanno legato con un altro, ed assumere così fra le potenze della terra la distinta e paritetica collocazione alla quale le Leggi della Natura e del Dio della Natura danno diritto, un decente rispetto alle genti richiede che tale popolo dichiari le cause che lo portano a tale separazione.

Noi riteniamo queste verità essere di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati da parte del loro Creatore di certi inalienabili diritti, che fra questi sono il diritto a Vita, Libertà e perseguimento della Felicità. Che per assicurare tali diritti, dei Governi sono istituiti fra gli Uomini, i quali derivano il loro potere dal consenso dei governati, che ogniqualvolta una forma di governo ostacola questi scopi, è nel diritto del Popolo di modificarlo o abolirlo, e di istituire un nuovo Governo, basando le sue fondamenta su quei princìpi ed organizzando i suoi poteri in quella forma che allo stesso Popolo sembri più adatta a salvaguardare la loro Sicurezza e Felicità. Prudenza, certamente, detta che Governi da lungo stabiliti non siano cambiati per cause leggere e transitorie; ed infatti ogni esperienza ha mostrato che il genere umano è più disposto a sopportare, quando i mali sono sopportabili, piuttosto che sollevarsi abolendo le forme di Governo alle quali sono abituati. Ma quando una lunga successione di abusi e usurpazioni, invariabilmente con lo stesso Scopo, dimostra un intento di ridurli sotto assoluto Dispotismo, è il loro diritto, è il loro dovere, di liberarsi di tale Governo e di procurarsi nuovi Guardiani per la loro sicurezza futura. Tale è stata la paziente sofferenza di queste colonie: e tale è ora la necessità che le costringe a modificare i loro precedenti Sistemi di Governo. La storia dell’attuale Re di Gran Bretagna è una storia di ripetute offese ed usurpazioni, tutte avendo il diretto scopo di stabilire una assoluta tirannia su questi Stati. Per dimostrare questo noi sottoponiamo i fatti ad un mondo ingenuo:

Egli ha rifiutato il suo Consenso a leggi le più salutari e necessarie per il bene pubblico.

Egli ha proibito ai suoi Governatori di approvare leggi di immediata ed urgente importanza, quando non sospese nella loro applicazione sino a che il suo Consenso non sia ottenuto; e quando così sospese egli ha altamente mancato di occuparsi delle medesime.

Egli ha rifiutato di approvare altre leggi per l’assegnazione di larghi distretti di popolazione, altrimenti quelle stesse avrebbero perso il diritto di Rappresentanza nella Legislatura, un diritto per esse inestimabile, solo formidabile per i tiranni.

Egli ha riunito corpi legislativi in luoghi inusuali, scomodi, e distanti dalle sedi dei loro Atti Pubblici, con il solo scopo di farli convenire per fatica con le sue misure.

Egli ha sciolto ripetutamente Camere di Rappresentanti per avere opposto con virile fermezza le sue invasioni dei diritti del popolo.

Egli ha impedito per un lungo tempo che altre siano elette, dopo tali scioglimenti; per cui i poteri legislativi, incapaci di Annichilimento, sono tornati al popolo in senso lato per il loro esercizio; lo Stato rimanendo nel frattempo esposto a tutti i pericoli di invasione dall’esterno, e di disordini all’interno.

Egli si è ingegnato a impedire il popolamento di questi Stati; a tale scopo egli ha ostacolato le·leggi per la Naturalizzazione di Stranieri; ha rifiutato di passarne altre per favorire le loro migrazioni interne, ed aumentando i requisiti per nuove Destinazioni di Terre.

Egli ha ostacolato l’Amministrazione della Giustizia, rifiutando il suo Consenso a leggi atte a stabilire poteri giudiziari.

Egli ha creato Giudici dipendenti solo dal suo Volere per la tenuta della loro carica e per l’ammontare del loro salario.

Egli ha creato una moltitudine di Nuovi Uffici e mandato qui sciami di Funzionari per angariare il nostro Popolo e divorare le sue sostanze.

Egli ha tenuto fra di noi, in tempi di pace, Armate Regionali senza il Consenso delle nostre legislature.

Egli ha fatto in modo da rendere i militari indipendenti dal potere Civile, e ad esso superiori.

Egli si è schierato con altri per assoggettarci a una giurisdizione aliena alla nostra società, e non riconosciuta dalle nostre leggi; dando il suo Consenso ai loro Atti di pretesa Legislazione:

Per installare grandi armate tra noi;

Per proteggerle, per mezzo di Processi farsa, dalla Punizione per qualunque crimine che abbiano commesso sugli Abitanti di questi Stati;

Per interrompere il nostro Commercio con tutte le parti del mondo;

Per imporre tasse su di noi senza consultarci;

Per negarci in molti casi dei benefici del Processo con Giuria;

Per portarci al di là dei Mari per essere processati per presunti crimini;

Per abolire il libero Sistema di Leggi Inglesi in una confinante Provincia, stabilendo colà un governo Arbitrario, ed allargando i suoi confini così da rendere il tutto come esempio e adatto strumento per introdurre lo stesso potere assoluto in queste Colonie;

Per toglierci le Concessioni di colonizzazione, abolire le nostre leggi più preziose ed alterare fondamentalmente le Forme dei nostri Governi;

Per sospendere le nostre stesse Legislature, e dichiarare che in esse stava tutto il potere di legiferare per noi in qualsiasi caso.

Egli ha abdicato al Governo qui, dichiarandoci esclusi dalla sua Protezione e muovendoci guerra.

Egli ha depredato i nostri mari, saccheggiato le nostre coste, bruciato le nostre città e distrutto le vite del nostro popolo.

Egli sta, in questo stesso momento, inviando grandi Armate di mercenari stranieri a completare il lavoro di morte, desolazione e tirannia, di già cominciato con atti di Crudeltà e Perfidia a malapena uguagliati nei tempi più barbari, e del tutto indegni del Capo di una nazione civilizzata.

Egli ha costretto i nostri Compatrioti presi prigionieri nei mari aperti a portare armi contro la loro stessa Patria, a diventare gli esecutori dei loro amici e fratelli, oppure a cadere essi stessi vittime per loro Mano.

Egli ha fomentato insurrezioni interne contro di noi, e si è adoperato a portare contro gli abitanti delle nostre frontiere gli spietati Indiani Selvaggi, la cui nota regola di guerra è una indiscriminata distruzione di tutte le età, sessi e condizioni.

In ogni fase di queste oppressioni noi abbiamo chiesto Risarcimento nei termini più umili: alle nostre ripetute petizioni è stato risposto solo con ripetute offese. Un Principe, il cui carattere è così marcato da tutti quei tratti che possano definire un Tiranno, e inadatto a essere il capo di un popolo libero.

Né abbiamo mancato in avvertimenti al nostro fratello Popolo Inglese. Noi li abbiamo avvertiti in varie occasioni dei tentativi da parte della loro legislatura di estendere una ingiustificabile giurisdizione sopra di noi. Noi abbiamo loro ricordato le circostanze della nostra emigrazione e insediamento qui. Noi ci siamo appellati alla loro naturale giustizia e magnanimità, e noi li abbiamo implorati, nel nome dei legami derivati dal nostro comune spirito, di rinnegare tali usurpazioni che inevitabilmente porterebbero a interrompere i nostri legami e rapporti. Anche loro sono stati sordi alla voce della giustizia e consanguineità. Noi dobbiamo perciò rassegnarci alla necessità di denunciare la nostra separazione, e considerarli, come consideriamo il resto del genere umano, Nemici in Guerra, nella Pace Amici.

Noi perciò, i Rappresentanti degli uniti Stati di America, in Riunione Plenaria, in Assemblea, appellandoci al Supremo Giudice del mondo per la rettitudine delle nostre intenzioni, nel Nome e per Autorità del buon Popolo di queste Colonie, solennemente rendiamo pubblico e dichiariamo che queste Colonie Unite sono, e di Diritto dovrebbero essere, Liberi e Indipendenti Stati; che essi sono liberi da ogni Alleanza con la Corona Inglese e che ogni connessione politica fra essi e lo Stato di Gran Bretagna è, e dovrebbe essere, totalmente dissolta; e che come Stati Liberi e Indipendenti, essi hanno pieno Potere di Dichiarare Guerra, concludere Pace, contrarre Alleanze, regolare il Commercio, e di compiere tutti quegli altri Atti e Cose che Stati Indipendenti possono fare. Ed a sostegno di questa Dichiarazione, con ferma confidenza sulla protezione della divina Provvidenza, noi reciprocamente affidiamo a l’un l’altro le nostre Vite, le nostre Fortune ed il nostro sacro Onore.

JOHN HANCOCK, Presidente

Certificato: Charles Thomson, Segretario.

La Dichiarazione fu firmata da 56 persone, riportate nel seguente elenco assieme alla professione dichiarata e alla colonia di appartenenza.

Clymer, George Commerciante Penn.

Gerry, Elbridge » Mass.

Gwinnett, Burton » Geor.

Hancock, John » Mass.

Hewes, Joseph » N. Car.

Lewis, Francis » N. Yor.

Livingston, Philip » N. Yor.

Morris, Robert » Penn.

Whipple, William » N. Ham.

Williams, William » Conn.

Braxton, Carter Latifondista Virg.

Harrison, Benjamin » Virg.

Hart, John » N. Jer.

Heyward, Thomas jr » S. Car.

Lee, Francis Lightfoot » Virg.

Lynch, Thomas jr » S. Car.

Lee, Richard Henry » Virg.

Middleton, Arthur » S. Car.

Morris, Lewis » N. Yor.

Nelson, Thomas jr » Virg.

Jefferson, Thomas » Virg.

Adams, John Avvocato Mass.

Carroll, Charles of Carrollton » Mary.

Ellery, William » R. His.

Hooper, William » N. Car.

McKean, Thomas » Dela.

Penn, John » N. Car.

Rutledge, Edward » S. Car.

Sherman, Roger » Conn.

Smith, James » Penn.

Stockton, Richard » N. Jer.

Stone, Thomas » Mary.

Wythe, George » Virg.

Chase, Samuel Giudice Mary.

Hopkins, Stephen » R. Isl.

Hopkinson, Francis » N. Jer.

Huntington, Samuel » Conn.

Morton, John » Penn.

Paca, William » Mary.

Paine, Robert Treat » Mass.

Read, George » Dela.

Rodney, Caesar » Dela.

Ross, George » Penn.

Walton, George » Geor.

Wilson, James » Penn.

Wolcott, Oliver » Conn.

Bartlett, Josiah Medico N. Ham.

Hall, Lyman » Geor.

Rush, Benjamin » Penn.

Thornton, Matthew » N. Ham.

Clark, Abraham Fattore agricolo N. Jer.

Franklin, Benjamin Editore, scrittore Penn.

Witherspoon, John Pastore Protestante N. Jer.

Floyd, William Militare Ν. Yor.

Adams, Samuel Politico Mass.

Taylor, George Fabbro Penn.

I firmatari offrono l’esatto quadro dell’élite rivoluzionaria americana: 10 ricchissimi mercanti del New England; 11 grandi latifondisti negrieri del Sud; 12 avvocati; 13 giudici; 4 medici; e quindi un fattore agricolo, un editore-scrittore, un pastore protestante, un politico, un militare e un fabbro, ma di quella Pennsylvania che stava diventando il primo centro siderurgico mondiale. Il top della borghesia mercantile, con il loro codazzo di professionisti-consulenti e di alti funzionari da loro eletti. Il loro intento era quello sempiterno dei Puritani: non importa quanto ricchi, bisognava avere la libertà di poter tentare di arricchirsi di più. Esso era stato mirabilmente riassunto dal firmatario Robert Morris della Pennsylvania, allora il più ricco commerciante-finanziere delle colonie, che agli inizi della Guerra di Indipendenza così aveva scritto: «Non dobbiamo perdere la presente opportunità di aumentare le nostre Fortune, specialmente dato che gli stessi mezzi per farlo contribuiranno nello stesso tempo al Servizio della nostra Patria». Come dimostrerà poco dopo, Morris si riferiva esattamente al Mercato dell’Oriente.

Allo scopo la monarchia inglese non andava più bene. Occorreva l’autogoverno degli imprenditori ricchi; occorreva instaurare un’oligarchia mercantile. E questo dice la Dichiarazione di Indipendenza americana. Quel “popolo” al quale essa attribuisce il diritto di autogoverno non è altro che il corpo elettorale che già eleggeva i Parlamenti coloniali, che per via dei requisiti di ricchezza minima richiesti per il voto era la parte più ricca della popolazione, il 15-25% del totale a seconda della colonia.

Naturalmente si trattava pur sempre di una rivoluzione, che necessitava di volontari, da reclutare soprattutto negli strati medio e basso della popolazione. Non si poteva dire che occorreva fare la guerra per il Mercato dell’Oriente. Come in quasi tutte le rivoluzioni bisognava lasciar aggregare alla élite rivoluzionaria un certo numero di “idealisti”, e cioè persone sinceramente ben intenzionate, capaci di suscitare entusiasmo nelle folle con i loro buoni propositi e con le loro belle parole.

Questi, sotto la forma di una sparuta minoranza, sempre proveniente però dall’altissima borghesia, c’erano anche nella rivoluzione americana. Il loro leader era Thomas Jefferson, e il suo più notevole seguace George Mason, che in effetti quando sarà il momento si rifiuterà di firmare la Costituzione. Jefferson, come Mason del resto, era un ricchissimo latifondista della Virginia, dove, nella tenuta di Monticello, impiegava migliaia di schiavi. Egli era senz’altro per l’oligarchia mercantile, ma la vedeva in termini meno drastici, più coinvolgente nei riguardi del resto della popolazione, magari abbassando i requisiti di ricchezza richiesti per il voto. Non dava alla ricchezza il valore assoluto, biblico, assegnatogli dai Puritani del Nord; non credeva neanche nella Bibbia, pur credendo in un Dio “della Natura”. Diciamo che egli aveva un carattere più “umano”. Così, pur possedendo schiavi, era però contrario alla schiavitù, che semplicemente riteneva ingiusta.

A Jefferson, naturalmente, fu dato l’incarico di scrivere la Dichiarazione di Indipendenza; oltretutto era anche un uomo di grande intelligenza ed eloquenza (era, in effetti, un “utile idiota” di lusso). Prima di firmare il documento originario di Jefferson, però, il Congresso lo sottopose ad una attenta analisi, apportandovi molte correzioni ed eliminandovi del tutto molte parti e concetti. In effetti furono eliminate 480 parole sul totale delle 1817 che aveva scritto. Fra i misfatti da imputare a Giorgio III, Jefferson aveva inserito anche la schiavitù, che aveva definito un assemblage of horrors imposto dal re inglese agli americani, indignati ma costretti a sopportarlo.

Tutto il paragrafo, di 168 parole, fu tolto (39). Il fatto che «tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati da parte del loro Creatore di certi inalienabili diritti, che fra questi sono il diritto a Vita, Libertà e perseguimento della Felicità» sembrerebbe escludere la schiavitù. Non è in realtà così, vista anche la lingua inglese. Jefferson aveva scritto «all men […] are endowed by their Creator with inherent and inalienable rights» mentre nella versione finale si trova «all men […] are endowed by their Creator with certain unalienable rights». Ora, inalienable è una parola specifica, riportata a sé stante nel dizionario Webster della lingua americana, che significa “inalienabile”, che non può essere venduto; nello stesso dizionario unalienable è solo elencata come una delle tante parole ottenute premettendo la particella “un”, invertendone così il significato. Alla fine si passava da «diritti innati e inalienabili» a «certi diritti non vendibili» o anche a «certi diritti non fatti per essere venduti» o «certi diritti da non vendere». A quella frase della Dichiarazione comunque si aggrapperanno poi sempre i neri americani per farsi riconoscere elementari diritti.

Rimanevano le generiche e concretamente insignificanti belle parole, condivisibili certamente anche dai Puritani più ortodossi. Anche loro pensavano che tutti gli uomini erano creati uguali; poi però c’era chi diventava ricco e chi no. Tutti partivano con tutti i diritti possibili e immaginabili; però poi li potevano perdere, come ad esempio il diritto al voto se rimanevano poveri, cioè il diritto di contribuire a decidere del proprio destino. Potevano perdere anche il diritto alla libertà fisica se non lo sapevano difendere.

La Dichiarazione di Indipendenza americana, e la retorica di Stato che l’ha sempre avvolta, ha ingannato molte persone. Essa in effetti costituì il primo esempio di quella che sarebbe diventata una costante della politica estera americana: l’enunciazione di slogan di alto contenuto ideale coi quali nascondere intenti inconfessabili e meramente e sistematicamente economici. Lo slogan del caso fu il Principio dell’Autodeterminazione dei Popoli. Ma era appunto uno slogan per coprire le mire al Mercato dell’Oriente. Infatti gli americani mai riconobbero quel principio a nessunaltro, quando non conveniente sul piano economico. Molti giovani rivoluzionari che combattevano per liberare il loro paese da una dominazione coloniale identificarono invece le loro aspirazioni di indipendenza, di autodeterminazione, con quelle degli americani del 1776. Il giovane Ho Chi Minh, sino ai primi anni ‘50 teneva addirittura il frontespizio della Dichiarazione di Indipendenza americana appeso incorniciato dietro la scrivania. La Dichiarazione di Indipendenza del Vietnam dai francesi da lui scritta così iniziava: « Tutti gli uomini sono creati uguali. Essi sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti, fra i quali sono Vita, Libertà e ricerca della Felicità…» (40). Nel momento decisivo della lotta di liberazione contro i francesi si rivolse proprio agli americani per ottenere aiuto, scrivendo in tal senso diverse lettere al presidente Truman, che non rispose neanche: gli americani avevano deciso di aiutare invece la Francia, per i soliti motivi politico-economici, e nel 1954 si offrirono addirittura di rompere l’assedio vietnamita a Dien Bien Phu con un bombardamento nucleare, logicamente rifiutato dalla Francia (41). Anche il giovane Patrice Lumumba sembra avesse il culto della Dichiarazione di Indipendenza americana: appena ottenuta l’indipendenza del Congo dai belgi, pure lui si rivolse proprio agli americani chiedendone l’aiuto. Invece gli Stati Uniti avevano di mira le ricchezze minerarie del suo paese. Nel 1962 il presidente Eisenhower lo fece assassinare.

Note al capitolo IV

35 – Bureau of the Census, US Department of Commerce.

36 – Thomas Morton, New English Canaan, p. 190.

37 – William Wood, New England’s Prospect, p. 38.

38 – Helen Hunt Jackson, A Century of Dishonor, Ross & Haines Inc., Minneapolis-Minnesota, 1964. Prima edizione del 1881.

39 – The life and selected writings of Thomas Jefferson a cura della Random House Inc., New York, 1944, p. 25.

40 – The CIA…, op. cit., p. 135.

41 – Leonard Mosley, Dulles, The Dial Press/James Wade, New York, 1978, p. 357.