STRAGI PARTIGIANE DEL DOPOGUERRA IN ITALIA
Alcuni storici che si sono occupati del fenomeno della guerra civile in Italia hanno preso in considerazione anche i fenomeni di violenze postbelliche, collocando il termine della guerra civile oltre la fine ufficiale della Seconda Guerra mondiale in Europa.
Pertanto, per costoro, non è facile identificare una vera e propria data finale del fenomeno, che tende a sfumare con il diradarsi delle violenze.
Alcuni hanno proposto come data finale della guerra civile l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946.
Tuttavia il 26 marzo 1955, ben dieci anni dopo la “Liberazione”, Afro Rossi di Leguigno e Giovanni Munarini di Casina furono assassinati in un agguato di matrice comunista all’Osteria Vezzosi presso Colombaia di Carpineti, dove da una collina si fece fuoco sulle finestre della locanda piena di un raduno a festa di militanti democristiani.
Occorre dividere le uccisioni post-resistenziali in ordini: militari e civili, e trovarne le motivazioni delle loro uccisioni, o la filiera di comando.
Quello che doveva succedere dopo la fine delle ostilità venne elaborato dal 1944 e prese il nome Piano Emergenza 27 del Comitato di Liberazione Nazionale,ovvero il piano insurrezionale.
Divideva i prigionieri in
- Militari italiani
- Militari tedeschi
- Militari Volontari fascisti
- Prigionieri politici
Militari della RSI
Il Piano Emergenza 27 del Comitato di Liberazione Nazionale,ovvero il piano insurrezionale elaborato dal 1944, considerava in due ordini le tipologie dei militari:
- Volontari (X MAS, Brigate nere..)
- Coscritti
Secondo il Piano Emergenza 27 nel punto 6. Tribunali Militari, era sufficiente l’appartenenza ai reparti volontari per una veloce esecuzione.
Ordini esecutivi inclusero anche i Paracadutisti della Folgore e del Nembo.
Civili
Le categorie di pronta fucilazione, secondo E27 sono:
- I ministri, sottosegretari, prefetti, segretari federali
- Spie
- Lavoratori presso la stampa fascista
Pertanto i civili massacrati fino al 1955 extra E27 furono per ordine dei comandi locali o tramite una ulteriore rete clandestina gestita da una cabina di regia, che probabilmente sedeva nel neonato parlamento italiano.
La post-liberazione e le motivazioni, il coinvolgimento del PCI
Nella primavera del 1990 i familiari superstiti di alcune delle vittime delle quali non fu mai ritrovato il corpo pubblicarono una lettera aperta, chiedendo quantomeno indicazioni per rintracciare le spoglie e dar loro sepoltura. Alcuni mesi dopo, il 29 agosto, fu pubblicata sul quotidiano bolognese Il Resto del Carlino una lettera del parlamentare comunista ed ex-partigiano Otello Montanari, inviata anche all’Unità, ma da questo quotidiano non pubblicata.
Con quella lettera con il titolo originario “Rigore sugli atti di ‘Eros’ e Nizzoli”.
Nella lettera Montanari premise che bisognava distinguere tra “omicidi politici”, ovvero commessi in ragione del ruolo esercitato dalla persona uccisa, ed “esecuzioni sommarie”, ovvero uccisioni indiscriminate di avversari politici e oppositori; e invitò chiunque sapesse come ritrovare le spoglie delle persone uccise (aggiungendo: «Io non lo so») a dare le necessarie informazioni. Dopo la pubblicazione di tale lettera, Montanari ebbe gravi difficoltà nel partito, all’interno del quale fu aspramente contestato, e fu inoltre escluso dal Comitato Provinciale dell’ANPI, dalla Presidenza dell’Istituto Cervi e dalla Commissione regionale di controllo.
I coniugi Elena Aga-Rossi (docente universitaria di Storia contemporanea) e Victor Zaslavsky (esperto di storia dei rapporti italo-sovietici), dopo l’apertura degli archivi di Stato dell’ex-URSS, ebbero lo spunto per una nuova analisi di tali avvenimenti alla luce dei rapporti del PCUS con i suoi partiti fratelli (ivi incluso, quindi, il PCI).
La tesi dei due studiosi, esposta anche in un’intervista allo stesso Roberto Beretta dalle colonne di Avvenire, è che il PCI all’epoca, se non proprio favorì, quantomeno tollerò e coprì la soppressione di esponenti di categorie (borghesi, sacerdoti, possidenti) che in un’ottica di breve-medio periodo potessero costituire un impedimento materiale e culturale-ideologico all’espansione comunista; aggiungendo tuttavia che, a loro avviso, in molte zone d’Italia ciò sarebbe stato controproducente, perché, anche se a livello locale vi fu un successo elettorale, lo stesso non accadde a livello nazionale.
Infine, per quanto riguarda le cause della debolezza, quando non del silenzio, da parte cattolica nel denunciare il massacro dei suoi preti, Aga-Rossi e Zaslavsky ipotizzano che il clero temette di vedersi rinfacciata una qualsivoglia forma di adesione al passato regime fascista, sebbene tale aspetto della questione sia ancora lungi dall’essere storicamente indagato a fondo.
IL DIBATTITO SULLE CIFRE
Immediatamente dopo che le forze della Resistenza partigiana riuscirono ad assumere il potere nelle città del nord, vennero istituiti tribunali improvvisati che, sulla base di giudizi sommari, comminarono condanne capitali ai fascisti catturati. Nei due mesi successivi all’insurrezione un numero notevole di persone fu sottoposto a processi popolari e giustiziato, a volte anche senza processo, per aver militato nella RSI, aver manifestato simpatie fasciste o aver collaborato con le autorità tedesche. Gli atti di giustizia sommaria nei confronti di fascisti e collaborazionisti, compiuti nei giorni immediatamente successivi al termine della guerra, furono localmente tollerati dai comandi alleati:
« Fate pulizia per due, tre giorni, ma al terzo giorno non voglio più vedere morti per le strade » (Colonnello inglese John Melior Stevens al CLN piemontese)
Le esecuzioni degli esponenti della Repubblica di Salò avvennero in fretta e con procedimenti sommari anche perché – constatato il mancato rinnovamento dei quadri del vecchio regime nell’Italia regia – i capi partigiani temevano che il passaggio definitivo dei poteri agli angloamericani ed il ritorno alla “legalità borghese” avrebbero impedito un’epurazione radicale. Questa volontà di accelerare i tempi trova testimonianza in una lettera in cui l’azionista Giorgio Agosti scrive al compagno di partito Dante Livio Bianco, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, che «occorre… prima dell’arrivo alleato, una San Bartolomeo di repubblichini che gli tolga la voglia di ricominciare per un bel numero di anni».
Le condanne a morte per collaborazionismo in alcuni casi colpirono anche persone innocenti accusate senza prove, come nei casi degli attori Elio Marcuzzo (di fede antifascista) e Luisa Ferida. Nel clima di violenza insurrezionale si verificarono anche omicidi legati a fatti privati. Tra le vittime figurano infatti non solo personalità legate al PFR, appartenenti ai reparti armati della RSI (Brigate Nere, GNR, SS italiane,… ), delatori e collaborazionisti, ma anche funzionari e dipendenti pubblici, sacerdoti, appartenenti alla borghesia contrari al comunismo, semplici cittadini e addirittura aderenti alle organizzazioni partigiane (ad esempio Giorgio Morelli), vittime sia di radicali propugnatori della lotta di classe, ma anche di sconsiderati approfittatori e comuni criminali, che sfruttarono il momento di confusione per perseguire i propri scopi
Il 24 giugno 1945, Ferruccio Parri stigmatizzò duramente questi episodi nel corso del primo radiomessaggio agli italiani tenuto dopo la sua nomina a capo del governo:
« Ed ancora una parola per gli atti arbitrari di giustizia, quando non sono di vendetta, e per le esecuzioni illegali che turbano alcune città del Nord, ci compromettono con gli alleati ed offendono soprattutto il nostro spirito di giustizia. È un invito preciso che io vi formulo. Basta: e siano i partigiani autentici, diffamati da questi turbolenti venuti fuori dopo la vittoria, siano essi a cooperare per la difesa della legalità che la nostra stessa rivoluzione si è data. »
Sulle dimensioni effettive delle violenze postbelliche si è sollevata un’aspra polemica in Italia fin dal dopoguerra. I due estremi parlano di 1.732 morti, secondo l’allora ministro Mario Scelba, e di trecentomila morti, secondo diverse fonti neofasciste.
Studi scientifici più accurati e testimonianze hanno evidenziato cifre intermedie:
Guido Crainz, in base ad un’analisi delle varie fonti, tra cui i rapporti della polizia del 1946, indica come realistica la cifra di 9.364 uccisi o scomparsi “per cause politiche”, aggiungendo poi – tuttavia – un lungo elenco di violenze ed uccisioni a carattere di vera e propria jacquerie, secondo l’autore solo debolmente collegate ai fatti della guerra civile, ma piuttosto legate ad una lunga tradizione di scontri sociali e di «durezza estrema, settaria», risalenti addirittura al secolo precedente, o al ritorno ad una ferocia ancestrale;
Secondo lo studioso tedesco Hans Woller dell’Università di Monaco, le vittime furono 12.060 nel 1945 e 6.027 nel 1946;
In un articolo pubblicato nel 1997, il giornalista Silvio Bertoldi asserì di aver saputo da Ferruccio Parri, durante un colloquio con quest’ultimo avvenuto in epoca imprecisata, che le vittime fossero state circa 30.000, uccise nel dopoguerra.
Il reduce della RSI Giorgio Pisanò giunse a stimare il numero dei morti fascisti, o presunti tali, in 48.000, comprendendo però nel computo anche le vittime dei massacri delle foibe in Istria e Dalmazia.
Il 24 giugno 1952, durante una discussione parlamentare relativa alla legge n. 645/52 (la quale, molti anni dopo, fu modificata dall’attuale Legge Mancino), l’onorevole Guglielmo Giannini rivelò di essere stato lui stesso, tramite il proprio giornale, a diffondere quella che egli definì «menzogna bene architettata» secondo cui i morti fascisti sarebbero stati trecentomila:
« Fui io a diffondere la notizia dei 300 mila morti. Avevo lo stesso giornale che ho adesso (…) E diffusi la notizia di questi 300 mila morti, – fascisti o presunti tali-, con tutti gli effetti politici che una notizia di tale gravità poteva comportare (…). Questo può suggerire ironiche considerazioni sulla fortuna dei giornali che fino a quando pubblicano panzane trovano lettori a centinaia di migliaia e quando pubblicano invece la verità vedono calare il numero dei loro lettori » (Guglielmo Giannini)
Nel libro “Il triangolo della morte” gli autori Giorgio Pisanò e Paolo Pisanò riportano l’elenco nominativo di circa 4.500 vittime della frenesia giustizialista scatenatasi alla caduta del regime nazi-fascista nell’area compresa tra Bologna, Ferrara e Modena.
Ma anche Torino (1.138), Cuneo (426), Genova (569), Savona (311), Imperia (274), Milano (610), Bergamo (247), Piacenza (250), Parma (206), Treviso (630), Udine (391), Asti (17), la Toscana (308) e il Lazio (136) ebbero le proprie vittime della cosiddetta resa dei conti.
« Da parecchi giorni le esecuzioni capitali avvengono all’alba, lontano dagli sguardi dei curiosi. […] Nei primi giorni della liberazione dall’odiata espressione fascista repubblicana, il cuore sanguinante di chi era stato colpito negli affetti più cari ha chiesto altro sangue ed ha voluto vederlo scorrere. La cosa era spiegabile. Dopo 48 ore di reazione ho avuta l’impressione che la massa non volesse più il «pubblico spettacolo». […] E’ stato deciso allora che l’esecuzione capitale fosse compiuta lontano dagli occhi della folla » («Gazzetta d’Asti», 4 maggio 1945)
Da un documento del Ministero dell’Interno, non firmato, datato 4 novembre 1946 e che all’epoca non fu reso pubblico, risulta che «il numero delle persone uccise, perché politicamente compromesse, è di n. 8.197 mentre 1.167 sono state, per lo stesso motivo, prelevate e presumibilmente soppresse». Secondo Nazario Sauro Onofri, l’iniziativa di redigere tale statistica venne dall’allora ministro dell’Interno Alcide De Gasperi, il quale però non rese noti i risultati dell’inchiesta e non ne informò neppure gli altri membri del governo; non si conoscono i metodi attraverso cui il Ministero ottenne tali numeri totali.
LE CIFRE IN SINTESI
In sintesi le fonti ci dicono, rischiando di sovrapporsi
Ufficio Storico Esercito:
Caduti Esercito RSI
- militari 13.000
- civili 2.500
Mario Gozzoli ( Popoli al bivio): 7000 militari RSI caduti in combattimento militari
Fonte Ferruccio Parri via Silvio Bertoldo: 30.000 Fascisti uccisi nel dopoguerra.
Fonte Togliatti: Il 31 Maggio 1945, in un colloquio con l’ambasciatore sovietico a Roma Michail Kostysley, Togliatti riferisce che i fascisti fucilati a fine guerra furono 50.000 “Ercoli [il nome di battaglia di Togliatti] in segreto, non per la pubblicazione, ha detto che per ora non ha dati precisi su quanti fascisti siano stati puniti, ma considera che questa cifra sia intorno a circa 50.000 fucilati. A Torino ne sono stati uccisi in scontri e giustiziati 5000, a Milano all’incirca 5000. I tribunali popolari di Milano giornalmente emettono due-tre condanne a morte. Le autorità angloamericane hanno lasciato liberi i fascisti arrestati, ma il popolo immediatamente li ricatturava e i poteri partigiani subito li eliminavano.» Aga-Rossi e Zaslavsky, i due storici che riferiscono di questo colloquio nel loro libro “Togliatti e Stalin” ritengono che il Migliore volesse impressionare il leader sovietico.
Giorgio Bocca parla di 15.000 morti,
Giampaolo Pansa di 20.000,
Minimo Franzinelli di 10-15.000,
Giorgio Pisanò: 50.000-45.000.
Il ministro dell’Interno Scelba: quantificò ufficialmente le vittime in 13.000, frutto delle stime prudenziali dei prefetti, ma il dato viene comunemente valutato per difetto: su questo e altri terreni minati Scelba — che fu anticomunista nella stessa rigida misura in cui fu antifascista — non voleva attizzare più di tanto la rivolta degli ex fascisti.
Nel fascicolo Studi sul fascismo repubblicano («Nuovo Fronte», 1994) si legge: «È un dato di fatto che la guerra civile e i massacri dell’Aprile del 1945 fecero più vittime dei bombardamenti e della guerra guerreggiata. Su un totale di circa 100.000 caduti, gli uccisi per mano fratricida assommano a circa 48.000.
GLI ELENCHI
I dati di partenza
Italiani caduti
Caduti nei fronti di guerra dal 1940 al 1943:
In combattimento o prigionia: militari 194.000, civili 3.208;
Bombardamenti aerei anglo-americani: militari 3.066, civili 25.000.
Fatti d’arme nel periodo dall’8 settembre 1943 – novembre 1945:
Fronti di guerra e dispersi: militari 27.731; civili 300.
Periodo bellico dal settembre 1943 al 25 aprile 1945:
Partigiani in Italia: militari 17.488, civili 37.288.
Partigiani nei Balcani: militari 9.249.
Deportati: militari 1.478, civili 23.446.
Internati militari in Germania: militari 41.432.
Forze Italiane con gli alleati: militari 5.927.
Bombardamenti aerei anglo-americani: civili 38.939.
Forze Armate della R.S.I.: in Italia: militari 13.000, civili 2.500.
Militari feriti, congelati, mutilati ed invalidi sui vari fronti e per l’intero periodo bellico 1940/1945: circa 320.000.
I militari fatti prigionieri dalle forze anglo-americane sui vari fronti durante il periodo 1940/1943: circa 621.000.
Studi più recenti (aggiornati al 2010) dell’Ufficio dell’Albo d’Oro del Ministero della Difesa hanno fornito dati più aggiornati sulle perdite tra le forze armate e formazioni militari e paramilitari, che risultano essere di 319.207 tra morti e dispersi, così suddivisi:
Esercito, 246.432;
Marina, 31.347;
Aeronautica, 13.210;
formazioni partigiane, 15.197;
forze armate della RSI, 13.021.
Istituto Storico della R.S.I. ha pubblicato un volume contenente circa 50.000 nomi di caduti e dispersi della R.S.I., metà militari e metà civili, dalla nascita della RSI.
Fonte Istituto Storico della R.S.I.: furono 30.000 i civili uccisi dai bombardamenti alleati nel territorio della RSI, su 65.000 nel periodo 1940-1945.
Il gruppo di lavoro costituito a Milano nel 1989, diretto dal Dott. Livio Valentini, dopo un lavoro particolarmente difficoltoso, superando diffidenze, omertà, senza appoggi delle autorità, è giunto a dei risultati sufficientemente esatti che trovano rispondenza in analoghi lavori …
Secondo la commissione sopra citata, la ripartizione dei Caduti è la seguente:
Nella totalità si presumono circa 100.000 vittime
Prigionieri non cooperatori 4000
Venezia Giulia 23.000 (militari e civili uccisi nelle Foibe)
Militari estero 10.000
Militari fino al 25 aprile 15.000
Militari dopo 25 Aprile 30.000
Civili prima del 25 Aprile 6.000
Civili dopo il 25 Aprile 12.000
Le donne furono 2055, delle quali 209 appartenenti al Servizio ausiliario femminile.
Nel sito dedicato alla memoria della Rsi, Livio Valentini citava uno studio fatto dopo il conflitto da Carlo Siriani, uomo della Resistenza, che valutava in 40.000 gli assassinati nelle settimane dell’insurrezione, una cifra giudicata eccessiva dallo stesso Valentini, il quale riteneva più ragionevole un totale di 30.000. Quello compiuto a Milano da Valentini è lo studio più accurato in materia condotto da parte di esponenti della Rsi. Dopo la recente scomparsa dello storico, il suo lavoro è stato ereditato da un gruppo che fa capo a Michele Tosca, specialista dell’area piemontese, il quale conferma che, all’inizio della ricerca, l’archivio Valentini conteneva 48.000 nomi. È cominciata poi una laboriosissima opera di verifica, nome per nome, che dura tuttora che si può trovare sul sito il sito www.laltraverita.it.
LA STRAGE DEI NEMICI DEL POPOLO
Alle cifre suddette dei fascisti “puniti” occorre sommare:
- I nemici del popolo borghesi, sacerdoti, possidenti, uccisi dal 1945 al 1955.
- Le vittime delle Foibe
- Prigionieri Italiani in URSS, ceduti da Togliatti a Stalin. “il sacrificio dei soldati dell’ ARMIR nei lager di Stalin e’ un antidoto al fascismo” Resa nota la lettera di Togliatti conservata negli archivi del KGB e trovata dal giornalista Francesco Bigazzi ( Panorama ) e dallo storico ex comunista Franco Andreucci per la casa editrice Ponte alle Grazie.
Un elenco sommario delle stragi avvenute nel dopoguerra riunite per luogo, per caratteristiche, per commando.
Ugo Gobbato
Il figlio l’ing. Pier Ugo Gobbato, Direttore generale della Lancia ucciso per ordine di Togliatti il 28 aprile 1945.
La strage nel carcere di Cesena
Nella notte fra l’8 e il 9 maggio 1945, quattro o cinque sconosciuti, dopo aver scalato il muro di cinta, fecero irruzione nel carcere della Rocca sorprendendo i guardiani. Entrati nel camerone dove dormivano i detenuti fascisti, ne uccisero 17 sparandogli addosso nel sonno.
Eccidio di Cadibona 11 Maggio 1945
L’eccidio di Cadibona fu l’omicidio di 39 prigionieri di guerra durante il viaggio di trasferimento dalle carceri di Alessandria a Savona.
L’11 maggio 1945, trentanove prigionieri appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica Sociale Italiana vennero uccisi in una località a breve distanza dall’abitato di Cadibona, lungo la strada statale che porta alla galleria di Altare.
Essi appartenevano ad un gruppo di 52 persone, fra le quali 13 donne, detenute nelle carceri di Alessandria e poste in traduzione per Savona per essere giudicate dalla Corte di Assise Straordinaria. Erano scortate da cinque agenti di Pubblica Sicurezza ausiliari: tre sottufficiali e due guardie, tutti ex partigiani.
L’azione penale contro i presunti responsabili dell’uccisione dei detenuti politici era promossa dalla Questura di Savona soltanto nel 1950. A conclusione della lunga istruttoria il giudice rinviava i cinque partigiani e l’allora commissario dell’Ufficio politico della Questura di Savona, al giudizio della Corte d’Assise. Gli imputati, durante l’interrogatorio, negavano d’aver preso parte materialmente all’eccidio. Questi asserivano che sarebbe stato compiuto da partigiani a loro sconosciuti, i quali avrebbero ricevuto l’ordine per telefono, ordine partito dall’ufficio politico della questura di Savona. Tra le vittime il ventenne Mario Molinari, tenente della Guardia Nazionale Repubblicana, figlio di Angelo Molinari fondatore dell’omonima azienda
Iniziatosi il dibattimento davanti la Corte di Assise di Verona questo veniva sospeso per impedimento (grave malattia) di uno degli imputati, e rinviato a nuovo ruolo. Intanto sopravveniva il Decreto del Presidente della Repubblica in data 11 luglio 1959 n. 460 il quale coll’art. 1 lett. a) concede amnistia per i reati politici ai sensi dell’art. 8 C.P. commessi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1946, e gli atti venivano trasmessi al Tribunale ai sensi dell’art. 153 II cpv C.P. per l’eventuale provvedimento di estinzione.
Con la sentenza del 14 ottobre 1959 tutti gli imputati vengono amnistiati.
La strage di Comacchio
Fra il 12 e il 13 maggio 1945 a Comacchio erano stati catturati diversi fascisti e rinchiusi in una villa. Dopo alcuni giorni la polizia partigiana ne prelevò 11 che erano già stati abbondantemente picchiati e torturati e li portò nel carcere di Comacchio. Poi, fra il 26 e il 27 maggio, la stessa polizia partigiana li prelevò ancora dal carcere, li condusse presso il cimitero e li uccise.
La strage di Acqui Terme
Nella notte fra il 14 e il 15 maggio 1945 alcuni partigiani irruppero nel carcere che si trovava nel castello dei Paleologi e prelevarono 6 detenuti fascisti. Li portarono in periferia e li uccisero poco dopo l’una di notte del 15 maggio. I cadaveri, poi, furono scaricati davanti al cimitero. Avevano i volti sfigurati.
La strage di Casteggio (PV)
Il 26 aprile 1945 vennero qui uccisi 12 fascisti, di cui 9 della Brigata Nera, 2 tedeschi e un avvocato di 79 anni.
La strage di Stradella (PV) e dintorni
Il 1° maggio 1945 vennero qui uccisi 14 militari della R.S.I. Il 2 maggio a Broni ne furono uccisi altri 5 e a Voghera il 13 maggio altri 9 ancora. Molti erano uomini della Sicherheits, la polizia speciale operante nell’Oltrepò pavese.
La strage di Zogno Val Brembana
L’ 8 maggio 1945 vennero catturati e uccisi 8 militi della Guardia Nazionale Repubblicana delle Foreste.
La strage di Gazzaniga in Val Seriana
Il 17 maggio 1945 vennero prelevati 8 operai dell’”Ansaldo”, qui trasferitasi durante la guerra e tutti uccisi perché ritenuti fascisti.
La strage di Graglia
Il 27 aprile 1945, dopo un disperato combattimento durato 14 ore, si arresero ai partigiani una trentina di persone appartenenti al R.A.U. (Raggruppamento Arditi Ufficiali) e al R.A.P. fra cui 24 ufficiali cinque ausiliarie e due mogli di ufficiali che avevano raggiunto i mariti. Una di queste, moglie del Ten. Della Nave, era incinta. I fatti accaddero a Cigliano nell’albergo “Cavallino Bianco” dove era trincerato il grosso dei soldati. Il R.A.P. di presidio a Cigliano era comandato dal Ten. Mancuso mentre il 2° R.A.U. giunto di rinforzo era comandato dal Magg. Filippo Galamini. I prigionieri vennero concentrati in parte al “Cavallino Bianco” e in parte altrove. Il mattino del 28 gli uomini del RAU vengono condotti prima a Dorzano, poi ad Aral Grande, infine, il 1° maggio a Graglia ove tutti furono rinchiusi in una stanza dell’albergo “Belvedere” di Graglia. Furono giorni terribili di percosse e sevizie, pressoché senza mangiare. Alla donna incinta fu negato anche un bicchiere d’acqua. Il giorno 2 maggio, poi, in più riprese, vennero condotti fuori. Il primo gruppo fu condotto presso un ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro e qui tutti furono massacrati. Fra loro il Magg. Casini, il Cap. Gili, il S.Ten.Tosi. Il secondo gruppo viene massacrato in località Pairette. Morirono qui il Cap.Toppi, il Cap. Visconti di Modrone e il Ten. Conti. Il terzo gruppo fu ucciso alla cascina Quara nei pressi del Santuario, il quarto in località Portioli. Ultime a morire furono le donne, uccise dietro il cimitero. Non ci fu pietà neppure per la donna incinta. Essa, gettata a terra con uno spintone, fu uccisa con una raffica di mitra insieme al bambino che portava in grembo.
La strage di Sordevolo
Il 30 aprile 1945 dieci persone, fra cui un prete, vennero sommariamente processate dai partigiani e tutte uccise.
La strage di Collegno
Il 1° maggio 1945 vennero qui massacrati 29 uomini della divisione “Littorio” che si erano arresi. Contemporaneamente venivano uccisi 15 tedeschi a Grugliasco e 16 alpini della “Monterosa” a Tetti Mirotti (Rivoli).
La strage del carcere di Imperia
Il 4 maggio 1945 i partigiani prelevarono 26 fascisti dal carcere di Imperia, dove si trovavano prigionieri, li condussero a Castiglione di Costa di Oneglia e, qui, li uccisero tutti. Molti erano civili. Fra loro un apprendista di 17 anni e un grande invalido di guerra di 64 anni.
La strage della corriera di Cadibona
Era l’11 maggio 1945. Una corriera con una quarantina di militari della R.S.I. prigionieri dei partigiani e provenienti dalla zona di Alessandria, stava percorrendo la strada verso Savona. Ma a un certo punto la corriera si fermò, i prigionieri furono fatti scendere e furono tutti massacrati. Molti erano marò della “San Marco”.
La strage del carcere di Finalborgo (SV)
Il 29 giugno 1945 un gruppo di partigiani penetrò nel carcere di Finalborgo e prelevò 11 fascisti che si trovavano lì incarcerati facendoli sparire. Nel 1947 furono ritrovati i corpi in località Fosse di Sant’Ermete. Un caporale della GNR era stato “incaprettato” secondo la moda dei mafiosi.
La strage del carcere di Thiene
Il 17 maggio 1945 una squadra di partigiani romagnoli si presentò nella sede dell’Istituto di Avviamento Professionale di Thiene, che era stato adibito a carcere e prelevò 14 forlivesi. Subito dopo li condusse a Covolo e, in località Tiezze, li uccise tutti.
La strage del carcere di Busto Arsizio
Nella notte fra il 12 e il 13 maggio 1945 un gruppo di partigiani romagnoli prelevò dalla scuola “Carducci” adibita a carcere 14 prigionieri che avevano appartenuto alla Brigara Nera “Muti” di Ravenna e li uccise.
Le stragi al Ponte della Bastia
Il Ponte della Bastia, sul fiume Reno, è un passaggio obbligato per chi dal ferrarese vuole dirigersi verso la Romagna. Qui i partigiani avevano organizzato un rigido posto di blocco ove tutti quelli che volevano passare venivano fermati, perquisiti e inquisiti in ogni modo onde accertarsi che non si trattasse di ex militari della R.S.I. che tentavano di rientrare alle proprie case. E molti lo erano e non era poi molto difficile individuarli. Così furono molti i fermati di cui si perse ogni traccia. Non è possibile quantificare gli “scomparsi”. Pare, comunque, che 400 sia un numero attendibile.
I morti di Argenta
Fra il 12 e il 13 maggio 1945 in Argenta furono uccisi 17 fascisti. Ma nella sola Argenta i fascisti uccisi furono in totale, ben 74.
I massacri in provincia di Reggio Emilia
Dopo che il fronte di Bologna ebbe ceduto, anche i presidi della GNR che si trovavano in provincia di Reggio E. si arresero. Gli ultimi furono quelli di Novellara che si arrese fra il 22 e il 23 aprile e quello di Castelnuovo Sotto che si arrese il 24 aprile. E subito cominciarono i massacri. Già il 24 furono uccisi 42 uomini sul torrente Crostolo, altri 21, fra cui molti civili, furono uccisi il 26 aprile e altri 11 furono uccisi fra il 30 aprile e il 1° maggio 1945. Alla fine nella sola Novellara i fascisti uccisi risultarono 54.
Gli eccidi in Liguria
Il 28 aprile 1945 ad Alassio vennero massacrati 14 fascisti fra cui una ausiliaria e due casalinghe; il 30 aprile ad Albenga, frazione Leca, si ebbero altri 21 morti; sempre il 30 aprile a Sassello 8 fascisti vennero uccisi nel cortile del carcere; a Varazze nella Villa Astoria dove si trovavano detenuti, il 1° maggio vennero massacrati 10 fascisti; dalle scuole di S.Martino d’Albaro (GE) adibite a carcere in quei giorni furono prelevati 30 detenuti fascisti dei quali non si seppe più nulla.
L’eccidio di Urgnano (Bergamo)
Nei giorni dal 26 al 29 aprile 1945 vengono rinchiusi nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Urgnano, presso Bergamo, 11 fascisti locali, in parte arrestati, in parte presentatisi spontaneamente ai membri del CLN locale per chiarire la loro posizione di persone a carico delle quali non pendeva nessuna accusa specifica.
Essi sono:
1) Giuseppe Pilenga, nato a Urgnano nel 1891, proprietario coi fratelli di una azienda agricola e commerciale con 30 dipendenti, era stato caporal maggiore del 12° bersaglieri, poi ardito nella prima guerra mondiale rimanendo ferito tre volte ( a Conca di Plesso, sul Pasubio e sul Col di Lana) e meritando la Croce di Guerra. Prima simpatizzante socialista, poi fascista e marcia su Roma, era una figura di spicco del fascismo bergamasco. Era benvoluto dai suoi dipendenti ai quali donava, ogni domenica, 5 o 6 chilogrammi di farina di mais. E benvoluto anche dal resto della popolazione per la sua generosità. In tempo di guerra si era assunto l’onere di trasportare e distribuire gratuitamente il riso prelevato nell’Oltrepo pavese. Si presentò al CNL locale il 29 aprile.
2) Cipriano Pilenga, fratello più giovane di Giuseppe, nato a Cologno sul Serio nel 1909, anche lui bersagliere in Grecia dove nel 1941 meritò la Croce di Guerra. Si presentò col fratello il 29 aprile.
3) Luciano Angeretti, nato a Milano nel 1914, aveva militato nelle forze della R.S.I. quale richiamato, prestando servizio presso il carcere militare milanese di Via Crivelli. Si presentò il 29 aprile.
4) Luca Cristini, nato a Urgnano nel 1898, era commissario dei mulini di Bergamo. Fu arrestato il 26 aprile.
5) Luigi Donati, nato a Urgnano nel 1898, Croce al Merito nella prima guerra mondiale, messo comunale, arruolato nella Brigata Nera, rientra a Urgnano e si costituisce il 29 aprile.
6) Davide Marchiondelli, nato a Urgnano nel 1906. Commissario Prefettizio di Spirano, rientra a Urgnano e si ricovera presso certi conoscenti, i Signorelli, che lo denunciano. Viene arrestato il 28 aprile.
7) Mario Moratti, nato a Urgnano nel 1910, milite della GNR. Si presenta il 29 aprile
8) Giovan Battista Nozza, nato a Urgnano nel 1884, addetto alla pesa pubblica, Croce al Merito nella prima guerra mondiale, si presenta col Vecchi il 29 aprile.
9) Lorenzo Vecchi, nato nel 1904, impiegato del Consorzio Agrario di Bergamo, cognato di Giuseppe Pilenga, la cui moglie è sua sorella, si presenta col Nozza il 29 aprile.
10) Giovanni Discacciati, che fu podestà di Urgnano dal 1939 al 1943 viene arrestato il 29 aprile.
11) Dino Richelmi, di Spirano, milite della GNR viene arrestato il 28 aprile.
Il presidente del locale CLN, pare su istruzioni della Questura di Bergamo, inviò gli 11 fascisti, scortati da molti partigiani venuti anche da Bergamo, a detta questura.
I primi nove fascisti furono trattenuti in questura circa un quarto d’ora, dopo di che furono condotti presso il cimitero di Bergamo e qui, dopo essere stati depredati di tutto, furono massacrati a raffiche di mitra, dopo essere stati duramente picchiati.
Il Discacciati e il Richelmi furono risparmiati, non si sa bene perché.
Dopo la guerra le famiglie chiesero giustizia, facendo anche i nomi di diverse persone ritenute a vario titolo responsabili, ma la magistratura non riuscì a stabilire responsabilità oggettive e giustizia, ancora una volta, non fu fatta.
L’eccidio di Stremiz (UD)
Nel 1997 in fondo ad un canalone nei pressi di Stremiz, sperduta frazione del Comune di Faedis in provincia di Udine, furono rinvenuti sette cadaveri decapitati, sepolti sotto un palmo di terra. Si trattava di alcuni militari della R.S.I. ma anche di civili fra cui delle donne. Pare che il quelle valli siano state molte le uccisioni ad opera di partigiani comunisti slavi e italiani. Ma della maggior parte di quelle vittime si è perduta ogni traccia.
La strage di Oderzo (Treviso) 28 Aprile 1945
Negli ultimi giorni di aprile del 1945, esattamente il 28, 126 giovani militi dei Btg. “Bologna” e “Romagna” della GNR e 472 uomini della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo della R.S.I. (450 allievi più 22 ufficiali) si arresero al C.L.N. con la promessa di avere salva la vita. L’accordo fu sottoscritto nello studio del parroco abate mitrato Domenico Visentin, presenti il nuovo sindaco di Oderzo Ing. Plinio Fabrizio, Dr. Sergio Martin presidente del C.L.N., il Col, Giovanni Baccarani, comandante della Scuola di Oderzo e il maggiore Amerigo Ansaloni comandante del Btg. Romagna.
Ma quando scesero i partigiani della Brigata Garibaldi “Cacciatori della pianura” comandati dal partigiano Bozambo l’accordo fu considerato carta straccia e il 30 aprile cominciarono a uccidere. Quel giorno furono massacrati senza pietà 13 uomini sulle rive del Monticano.
La maggior parte, ben 100, furono uccisi al Ponte della Priula, frazione di Susegana e gettati nel Piave il 12 maggio. Pare si trattasse di 50 uomini del “Bologna”, 23 del “Romagna”, 12 della Brigata Nera, 4 della X MAS, e gli altri di altri reparti fra cui gli allievi della scuola. Infine:
La banda di “bozambo”, “boia di montaner”, al matrimonio tra adriano venezian e vittorina arioli, entrambi partigiani
Al banchetto di addio al celibato di Venezian uno della banda affermò :- Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime di propiziazione, dodici fascisti -.
Fu così che la mattina del 17 maggio scelsero tredici allievi ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula. (Particolare delle stragi di Oderzo).
Vedi anche, qui appresso i caduti sulla corriera della morte. In totale le vittime fra gli ufficiali della scuola di Oderzo furono 144.
La corriera della morte, 19 Maggio 1945
Verso la metà di maggio (esattamente nella notte fra il 14 e il 15) tre camion della Pontificia Opera di Assistenza venivano dal bresciano e trasportavano verso sud reduci della R.S.I. che cercavano di rientrare a casa. Uno veniva da Rezzato, uno da Erbusco e uno da Brescia. Su quest’ultimo c’erano anche 15 o 16 allievi della scuola di Oderzo. A Bondanello, però, la polizia partigiana che aveva sede nella casa del popolo di Moglia, fermò i camion (almeno due). Il primo, proveniente da Brescia trasportava 43 persone. Queste furono consegnate alla polizia partigiana di Concordia che ne rinchiuse 25 (pare) a Villa Medici, ribattezzata “Villa del pianto”. Questi furono depredati di tutto e massacrati il 17 maggio. Gli altri, due notti dopo, vennero caricati su un camion e fatti proseguire per Carpi . Ma giunti a San Possidonio furono scaricati, condotti a gruppi nella campagna circostante, depredati, seviziati e uccisi. Era la notte del 19 maggio. Fra tanto orrore un fatto ancora più orrendo: fra quei poveretti c’era anche una giovane donna con marito e figlio. Questi ultimi finirono massacrati con gli altri. La donna, al sesto mese di gravidanza, fu violentata da nove uomini e poi abbandonata in stato confusionale davanti ad un albergo di Modena. Dalle risultanze processuali pare che gli uccisi fossero, in totale, più di ottanta. Diversi responsabili furono identificati ma, come al solito, pur essendo stati ritenuti colpevoli, beneficiarono dell’amnistia (e del minaccioso sostegno del partito comunista) e rimasero impuniti.
Gli uccisi di Pescarenico (Lecco)
La sera del 26 aprile transitò per Lecco una colonna di 160 uomini del Gruppo Corazzato “Leonessa” e del Btg. “Perugia” che ripiegava su Como. A Pescarenico furono attaccati dai partigiani. Asserragliati in alcune case i militi si difesero per tutta la notte e per tutto il giorno 27. A sera, avendo quasi esaurite le munizioni, fu trattata la resa. Le condizioni erano che i militi dovevano avere la libertà e gli ufficiali la prigionia secondo la Convenzione di Ginevra. Dopo la resa tutti gli uomini furono picchiati e insultati e minacciati tutti di morte. Il giorno 28 i tredici ufficiali e tre vice brigadieri furono uccisi. Prima di morire lasciarono ai religiosi che li assistettero, toccanti lettere per i familiari.
La strage di Monte Manfrei (Savona)
In questo luogo isolato dell’Appennino Ligure, fra Genova e Savona, nei giorni tragici di fine aprile, primi maggio 1945, i partigiani trucidarono i 200 marò del presidio di Sassello della Divisione “San Marco”, quando la guerra si era ormai conclusa. I cadaveri, sepolti sotto poca terra nei dintorni, non sono stati ancora rinvenuti tutti, anche per l’omertà delle popolazioni, minacciate ancora adesso dagli assassini dell’epoca. Una grande croce ricorda ora i caduti e ogni anno, l’8 luglio, numerose persone salgono lassù e li ricordano con una toccante cerimonia.
La strage di Rovetta (Bergamo)
Il 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi, sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi e si diresse verso Clusone. Ma, giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N. che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi comandati dal giovane S.Ten. Panzanelli di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Cmp, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, 1931, di Milano, Ausili Enzo, 1928, di Roma e Bricco Sergio, 1929, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. Ben 28 di loro avevano meno di 20 anni. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella del Duce.
Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi “azioni di guerra”. Fu, cioè, dalla viltà dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.
Purtroppo periodicamente i “ soliti ignoti” vandalizzano nel cimitero di Rovetta le lapidi commemorative dei 43 legionari uccisi e di Padre Antonio il loro Cappellano
Evidentemente gli eredi degli assassini di allora continuano a covare il loro odio insensato e bestiale. Tanto insensato e tanto bestiale da infierire contro delle lapidi che ricordano dei morti. L’estrema inciviltà dell’atto qualifica gli autori come persone profondamente disturbate e incapaci di sentimenti normali. Dio abbia pietà delle loro anime.
La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945 un piccolo presidio della Legione “Tagliamento”, 26 militi della 4^ Cmp, II Rgt, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso da un gruppo di partigiani fra i quali erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa i militi reagiscono, ma le perdite sono gravi: 9 morti fra cui il comandante aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunge in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del brigadiere Amerigo De Lupis.
Egli si rende conto che i tre feriti che giacciono all’Ospedale di Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, muore la mattina del 26. Allora nel pomeriggio il De Lupis, con una piccola scorta, porta i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R. comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a un gruppo di partigiani e altri partigiani stanno affluendo dalle montagne. Così il De Lupis e i suoi uomini vengono sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma poiché la cerimonia si prolungava i partigiani condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono dietro il cimitero dove furono massacrati con raffiche di mitra. Gli uccisi furono sei: Amerigo De Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano Francesco, Giamporcaro Vito, Alletto Antonino. I due legionari: Le Pera Giovanni e De Vecchi Francesco, ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati.
I massacrati di Ponte Crenna (Pavia)
Il 12 agosto 1944 quattro giovani militi venivano catturati dai partigiani e barbaramente assassinati a Ponte Crenna nell’Oltrepo Pavese. Fra essi Walter Nannini, medaglia d’Argento alla memoria.
La strage di S.Eufemia e Botticino Sera (Brescia)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945 furono prelevati 11 fascisti a Lumezzane e altri a Toscolano Maderno. Orribilmente seviziati, 23 vennero uccisi proprio di fronte alla chiesa di S.Eufemia mentre altri 16 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. I civili erano 16 e 23 i militari di cui 9 erano della Divisione San Marco. I cadaveri furono ritrovati in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.
L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945 si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendo verso nord per raggiungere la Valtellina. I reparti che costituivano la colonna erano : Il 604° Comando Provinciale GNR Vercelli Comandato dal Colonnello Giovanni Fracassi, la VII B.N. “Punzecchi di Vercelli, parte della XXXVI B.N. “Mussolini” di Lucca, CXV Btg “Montebello”, I° Btg granatieri “Ruggine”, I° Btg d’assalto”Ruggine”, I° Btg rocciatori (poi controcarro) “Ruggine”, III° Btg d’assalto “Pontida”. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novara, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative, la sera decise, dopo molte incertezze, di arrendersi ai partigiani di Novara dietro promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile i prigionieri vengono condotti a Novara e rinchiusi in massima parte nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio Morsero viene portato a Vercelli e fucilato. Intanto sono giunti gli americani che tentano di ristabilire un minimo di legalità. Ma il Corriere di Novara dell’8 maggio parla di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché il 12 maggio giungono da Vercelli i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di “Gemisto” cioè Francesco Moranino che prelevano circa 140 fascisti elencati in una loro lista. Questi uomini saranno le vittime della più incredibile ferocia. Portati all’Ospedale Psichiatrico di Vercelli saranno, in buona parte massacrati all’interno di questo. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri saranno schiacciati in un cortile da un autocarro, altri fucilati nell’orto accanto alla lavanderia, altri, pare tredici, fucilati a Larizzate e altri ancora, infine, portati con due autocarri e una corriera (quindi in numero rilevante) al ponte di Greggio sul canale Cavour e qui, a quattro a quattro, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione alimentati dal canale Cavour furono più di sessanta.
Solo il giorno 13 maggio, domenica, gli americani prenderanno il controllo dei prigionieri ed eviteranno altri massacri. Era già pronta la lista dei prigionieri da prelevare quello stesso giorno alle ore 18.
Il massacro di Schio (Vicenza)
La notte fra il 6 e il 7 luglio 1945 una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio dove erano detenute 91 persone, fascisti o presunti tali. (1) Di queste, che erano state radunate in uno o due stanzoni e contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54 di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il tribunale militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il governatore militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio “ costituiscono una macchia per l’Italia ed hanno avuto una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani dove vengono considerati senza attenuanti ”.
Note: (1) 5 erano della Brigata Nera, 3 della Polizia Ausiliaria, 3 Ausiliarie, 34 fascisti e gli altri arrestati come tali, su semplice indicazione di un partigiano. C’erano ragazze diciassettenni, donne gravide, vecchi…Fra loro c’erano: Il Primario dell’Ospedale di Schio Dr. Michele Arlotta, il Commissario Prefettizio Dr. Giulio Vescovi, i fascisti RSI Mario Plebani, Tadiello Rino, Domenico e Isidoro Marchioro, il Dr. Diego Capozzo, Vice Comm.Pref., Anna Franco di 16 anni, Calcedonio Pillitteri, reduce dalla Russia, il vecchio Dr. Antonio Sella, che fu Podestà di Valoli del Pasubio, Giuseppe Stefani già Podestà di Valdastico. (da “Nuovo Fronte” n. 247 del Giugno 2005, pag. 10 , articolo firmato U.S.)
Il massacro di Avigliana (Torino)
Qui furono uccisi, a guerra finita, dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati, 33 militari della R.S.I.
I morti di Agrate Conturbia (NO)
“Caduti per la Patria” sta scritto su una croce che fa la guardia a 33 salme di fascisti senza nome (fra cui due o tre donne), trucidati nel sottostante bosco detto “la Bindillina” dai partigiani della zona. Solo nel 1959 fu possibile individuarle in fosse comuni e riesumarle. Ma si presume che gli uccisi il quel bosco siano stati molti di più, forse alcune centinaia. Infatti negli anni novanta, durante la costruzione di un campo da golf, vennero trovate molte ossa umane che, molto disinvoltamente, vennero gettate in una discarica insieme alle sterpaglie. (Nuovo Fronte n. 247 Giugno 2005)
I feroci massacri del Biellese
A Bocchetta Sessera (Vercelli) una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, non solo uomini ma anche donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume ancora si trovino nel bosco sottostante. Fu questa, una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore.
Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Qui, dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Btg N.P. della X^ fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò. Essi, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere, dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata “Mazzini” (Comandante Mostacetti). Ma nella notte fra il 4 e il 5 maggio essi furono divisi in tre gruppi per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e, qui, trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Medean di Comboi. Qui ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, indi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.
L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. ( Reparti Arditi Ufficiali) appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma il 29 vengono divisi in due gruppi: nel primo vengono inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo viene condotto a Graglia fra inauditi maltrattamenti, senza cibo né acqua per tre giorni. Fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945 furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara presso il Santuario. E furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia dove una lapide bronzea recante il gladio della R.S.I. ne ricorda il sacrificio.
L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945, venerdì, ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano, dopo averli condotti, legati a 3 a 3, presso una fossa anticarro, i sette fratelli Govoni che erano stati prelevati a Pieve di Cento la mattina alle 6,30 : Dino, 40 anni, falegname, Marino, 34 anni, contadino, Emo, 31 anni, falegname, Giuseppe, 29 anni, contadino, Augusto, 27 anni, contadino, Primo, 22 anni, contadino e Ida, di appena venti anni, sposata ad Argelato e madre di un bambino. Prima della morte tutti furono picchiati a sangue e seviziati in vario modo. Solo Dino e Marino avevano militato nella R.S.I., Marino come brigadiere della G.N.R. e Dino come semplice milite. Nel 1951, quando fu scoperta la fossa dove giacevano i corpi dei 7 fratelli insieme a quelli degli altri dieci fascisti, si scoprì lì vicino un’altra fossa con i resti di 25 cadaveri.
Gli uccisi del XIV Btg Costiero da Fortezza
Il 5 Maggio 1945, a guerra ormai conclusa, 20 militi del battaglione, che aveva valorosamente combattuto a difesa dei confini orientali, si consegnarono ai partigiani, fidando nelle leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra. Ma i partigiani, totalmente irrispettosi di ogni legge, li condussero, dopo molte marce, a Sella Doll di Montesanto e qui, fattili inginocchiare sul bordo di una trincea della prima guerra mondiale, barbaramente li uccisero con un colpo alla nuca.
La strage di Codevigo (Padova)
Qui nei primi giorni del Maggio 1945 (fra il 3 e il 13) furono seviziate e uccise oltre 365 persone fra cui 17 fascisti (uomini e donne) dello stesso Codevigo (12 maggio). I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile e chiusi in carcere. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li condussero, invece, a Codevigo e qui, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e li uccisero a due a due, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente. Altre, gettate nei cimiteri dei dintorni, furono recuperate per l’opera instancabile di Rosa Melai che, il 27 maggio 1962 riuscì a inaugurare l’Ossario dove poté radunare le salme ritrovate. Oggi sono 114 i caduti che qui hanno trovato riposo e rispetto.
I trucidati a Ponte di Greggio (VC)
I fatti avvennero nei primi giorni del Maggio 1945. Un numero imprecisato di fascisti della Repubblica Sociale Italiana vennero trucidati e i loro corpi gettati dal ponte nelle acque del canale Cavour. (Vedi la voce “Ospedale psichiatrico di Vercelli”)
I massacri dei bersaglieri del “Mussolini” 18 Maggio 1945
Come è noto il Btg di bersaglieri volontari “Mussolini” fronteggiò gli slavi del X° Corpus sul fronte orientale fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 Aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del “Mussolini” decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali per accertare eventuali responsabilità. Ma i “titini” si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e, qui, trucidati. Dopo altri giorni altri dodici furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora il 18 maggio dall’Ospedale Militare di Gorizia furono prelevati 50 degenti e uccisi. Dieci erano bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati, e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminano morte fra gli odiatissimi bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, poterono tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.
La strage delle ausiliarie, Maggio 1945-1947
Negli ultimi giorni dell’ Aprile e nei primi di Maggio 1945 l’odio bestiale dei partigiani si scatenò con particolare accanimento contro le donne che avevano prestato servizio in qualità di ausiliarie nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, sovente stupri ripetuti, e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole così al ludibrio di folle imbestialite.
Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” (cui si rinvia per approfondimenti) ricorda diecine di casi di ausiliarie, spesso giovanissime, catturate da sole o in piccoli gruppi e, poi, martirizzate e trucidate.
L’elenco delle ausiliarie cadute che compare in detta opera è di 200 nominativi, ma si avverte che tale elenco non è completo proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani in quella primavera di sangue a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine. Nella sola Torino ne furono massacrate 18.
Gianfranco Stella nel suo libro, indica in duemilatrecentosessantacinque donne uccise.
I morti della Divisione Alpina “Monterosa”
Tra il 24 e il 25 Aprile tutte le truppe schierate sul fronte alpino occidentale ricevettero l’ordine di ripiegare sul fondovalle. Così anche gli uomini della Divisione Alpina “Monterosa” iniziarono il ripiegamento. E, a cominciare dal 26 aprile, molti reparti, ad evitare spargimenti di sangue ormai inutili, si arresero al C.L.N. della zona avendo formali promesse di trattamento conforme alle leggi internazionali. Purtroppo tali leggi non furono rispettate e anche qui, come altrove, decine e decine di uomini ormai disarmati, furono trucidati con bestiale ferocia. Non è possibile ricostruire tutti i fatti, molti dei quali, probabilmente, non sono mai stati resi noti. E’ molto noto, invece, il caso degli uomini del Btg “Bassano” che si erano arresi il 26 aprile al C.L.N. di Saluzzo. Come al solito essi avevano avuto ampie garanzie di salvaguardia della loro incolumità. Ma, ancora come il solito, tali promesse non erano state rispettate. E l’Avv. Andrea Mitolo di Bolzano, già ufficiale del “Bassano”, con una circostanziata denuncia alla Procura della Repubblica di Saluzzo, descrive la fine di ventidue uomini, ufficiali e soldati, trucidati dai partigiani di “Gianaldo” (Italo Berardengo) dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati.
Né, parlando della Monterosa, possiamo non ricordare l’infame attentato alla tradotta che trasportava sul fronte occidentale gli uomini della “Monterosa” che erano stati ritirati dal fronte della Garfagnana. Tra Villafranca e Villanova d’Asti fu minata la linea ferroviaria e l’esplosione, provocata al passaggio della tradotta, travolse due vagoni e uccise 27 alpini ferendone altri 21 anche in modo molto grave. Malgrado l’odiosità del vile attentato non fu attuata alcuna rappresaglia.
I trucidati della Divisione “Littorio”
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della “Littorio” che, come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento.
Quelli, invece, come il III Btg del 3° Rgt granatieri, si consegnarono ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del capitano Aldo Quaranta per un indisturbato deflusso di tutti i reparti e il III Btg, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Btg e i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della “Littorio” fidando nella parola dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, comandante del III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap. Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.
I morti della Divisione “San Marco”
Negli ultimi giorni di Aprile, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione “San Marco” furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” ne elenca alcune centinaia fra cui circa 300 ignoti ancora in divisa ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei (vedi), Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi.
Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., qui il 27 aprile accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma una volta deposte le armi i partigiani, fedifraghi come sempre, condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Ten. Col. Zingarelli, la cui salma, ritrovata con le altre orrendamente mutilate, poté essere identificata in virtù di un maglione blu che era solito indossare.
I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I reparti più atti al combattimento di questa divisione ( Btg “Debica” e Gruppo di combattimento “Binz”) si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile. Il resto della divisione, invece, ( Btg Pionieri e Btg dislocati a Mariano Comense e a Cantù) dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, fu catturato dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Ten. Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.
I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Il I Btg era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente per contrastare l’avanzata del negri della 92^ Div. “Buffalo”. I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e, immediatamente, quasi tutti uccisi. Il II Btg si trovava, invece, in Liguria in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì insieme alla 34^ Div. Tedesca fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Cap. Francoletti e il Ten. Casolini furono condotti sul greto della Dora e qui massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Btg ebbe anche due giovani mascotte, di quattordici e 12 anni, assassinate dai partigiani.
I caduti dei Guastatori del Genio II Btg
Anche questo reparto (che aveva poi assunto il nome di II Btg Pionieri “Nettuno”) ebbe i suoi caduti dopo la cessazione delle ostilità. Nei giorni successivi al 25 aprile 1945 il Btg fu sciolto a Somma Lombardo (Varese). La popolazione del luogo si adoperò in ogni modo per salvare gli uomini del Btg, favorendo il rientro nelle loro famiglie. Malgrado il generoso intervento, i partigiani catturarono il Capitano Dino Borsani e, dopo due settimane di torture, lo trucidarono insieme a tre militari sulle rive del Ticino. Era il 10 maggio 1945.
Gli uccisi del Btg Volontari Mutilati “Onore e Sacrificio”
Anche questo Battaglione che la Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra aveva voluto costituire (come già accadde durante la campagna etiopica del 1936) ebbe trucidati molti dei suoi appartenenti. Il Btg era stato costituito a Milano e qui era sempre rimasto, a svolgere compiti territoriali. Dopo la resa anche su questi mutilati infierì la ferocia partigiana e, allorché ebbero deposto le armi, molti furono gli assassinati
L’eccidio di Ozegna
Pur non essendo accaduto dopo il termine della guerra, si ritiene opportuno narrare qui anche questo fatto, per la vigliaccheria con cui venne consumato l’agguato. L’8 di luglio del 1944 un reparto motorizzato del Btg “Barbarigo” della X^ MAS, che dalla metà di giugno si trovava in Piemonte, al ritorno da una missione fece sosta nella piazza di Ozegna. Lo comandava il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli, comandante del Battaglione. Sulla stessa piazza si trovavano alcuni partigiani coi quali Bardelli avviò una pacata discussione invitandoli a non combattere contro altri italiani per conto dello straniero invasore. La conversazione fu pacata e i partigiani ammisero che occorreva fare fronte comune contro gli stranieri. Ma l’atteggiamento remissivo e non ostile nascondeva l’agguato. Infatti, mentre essi parlavano in quel modo con Bardelli, un centinaio di partigiani si ammassarono nelle vie che sboccavano nella piazza e, non appena i parlamentari partigiani si allontanarono, un inferno di fuoco si scatenò sugli uomini del “Barbarigo”. Bardelli tentò di organizzare la resistenza, gridando: – Barbarigo non si arrende – , ma cadde quasi subito sotto il fuoco delle armi partigiane della banda di Piero Urati (detto Piero Pieri) insieme a dodici marò. I sopravvissuti, molti dei quali erano feriti, dovettero arrendersi.
Il massacro del Distaccamento “Torino” della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono la città agli ordini del comandante regionale militare Gen. Adami-Rossi. Ma il distaccamento “Torino” della Decima Flottiglia MAS non le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La resistenza durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i carri e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì a mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti si abbatté la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati nel cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di prigionieri. Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio dei camerati, vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.
I trucidati della base operativa “Est” della X^
La Base “Est” aveva sede a Brioni Maggiore ma, a fine aprile, col precipitare degli eventi, si concentrò presso il Comando di Marina-Pola. Dopo aver partecipato alla difesa della città, quando essa cadde il personale fu catturato dagli slavi. Solo quattro marinai furono risparmiati. Ufficiali, sottufficiali e 50 fra graduati e marinai furono trucidati a Portorose, a Brioni e a Pola.
Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X^
Questa scuola, costituita a Portofino nel gennaio 1944, nell’estate fu trasferita in Istria, sul confine orientale, a Portorose. Una parte del personale, catturata negli ultimi giorni di aprile, fu subito passata per le armi. Altri, caduti prigionieri a Pola ove si erano concentrati, finirono nei terribili campi di concentramento iugoslavi. Pochi i sopravvissuti.
I morti del Btg. “Sagittario” della X^
Il 30 aprile 1945 il Btg., insieme ad altri reparti del II° Gruppo di Combattimento, raggiunse Marostica e qui, secondo gli ordini, si dette in prigionia agli americani. Ma, dopo la resa, il Comandante Ten.Vasc.F.M. Ugo Franchi e numerosi marinai, furono prelevati e assassinati dai partigiani.
L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti
Il 29 aprile 1945 a Gallarate il Primo Gruppo Caccia dell’Aeronautica Repubblicana si arrendeva al CLN del luogo previo accordo che garantiva a tutti l’incolumità. Gli ufficiali vennero condotti a Milano nella Caserma del “Savoia Cavalleria” in Via Vincenzo Monti. Qui, contrariamente agli accordi, gli ufficiali, cui era stato concesso di tenere le proprie armi, vennero disarmati. E mentre attraversavano il cortile della caserma, il Maggiore Adriano Visconti, comandante del Gruppo e il S.Ten. Valerio Stefanini, Aiutante Maggiore, vennero vilmente assassinati con raffiche di mitragliatore sparati alle spalle. Furono sepolti nel cortile stesso della caserma.
I massacrati del Btg. “Folgore”
Il 29 aprile 1945 il Btg. “Folgore” del Rgt “Folgore” si stava dirigendo verso Venaria Reale. Contemporaneamente una pattuglia su un autocarro si diresse a Torino per ritirare alcuni autocarri presso il deposito reggimentale e per recuperare i feriti del Btg presso l’O.M. Ma a Porta Susa un blocco partigiano impedì la realizzazione del progetto. Allora il sottufficiale capo-pattuglia parlamentò coi partigiani ed ebbe l’assicurazione che i feriti sarebbero stati rispettati. Purtroppo, invece, tutti i feriti furono massacrati. Il 1° maggio il Btg., giunto a Strambino il giorno prima, si sciolse, e il Capitano Fredda sciolse gli uomini da ogni obbligo. Ma quasi nessuno abbandonò il reparto che il 5 maggio, ad Ivrea, si consegnò in prigionia di guerra agli americani ricevendo l’onore delle armi. L’ausiliaria Portesan e il sergente maggiore Ciardella furono i soli a lasciare il Btg il 2 maggio, ma, appena fuori dalla zona presidiata, furono trucidati dai partigiani.
Le stragi di Genova
Fra il 26 e il 27 aprile 1945 cessava la resistenza dei presidi della GNR rimasti in città. Con l’assunzione del potere da parte del CLN iniziarono i massacri che coinvolsero anche gran parte dei familiari dei militi. Massacri che continuarono anche dopo l’arrivo a Genova della 92^ Div. “Buffalo” americana.
Le stragi di Imperia
I partigiani entrarono in Imperia il 25 aprile 1945. Fu subito costituita una “commissione di giustizia” che arrestò 500 fascisti o presunti tali. Si disse che era per salvaguardarne la vita. Ma il 4 maggio una quarantina di loro fu seviziata e uccisa. E anche nella provincia avvennero massacri spaventosi.
Le stragi di Milano
Il 608° Comando Provinciale GNR, fedele alle consegne, non si sbandò il 25 aprile 1945 e, chiusisi i vari distaccamenti nelle caserme, resisté fino all’ultima cartuccia. Dopo di che, malgrado le promesse di rispetto della vita, ci furono i massacri, compiuti prevalentemente dai partigiani dell’Oltrepo pavese. Interi plotoni vennero passati per le armi. E le uccisioni continuarono anche quando i pochi superstiti ritornarono alle loro case dai campi di concentramento.
Le stragi di Varese
Anche qui le forze del 609° Com. Prov. GNR rimaste sul posto, dopo essere state sopraffatte il 26 aprile 1945, subirono le atroci vendette dei partigiani che, dopo aver subito fucilato il Cap. Osvaldo Pieroni con alcuni altri, continuarono fino a tutto maggio le esecuzioni sommarie, abbandonando insepolti i cadaveri, spesso rimasti senza nome.
Le stragi di Como
Nella notte del 27 aprile 1945 il Colonnello Vanini aveva ordinato la resa e lo scioglimento del 610° Com. Prov. GNR. Ciò fu fatto, come dagli altri reparti della R.S.I., per evitare il bombardamento della città che sarebbe stato richiesto dai partigiani. Subito dopo cominciarono, anche qui, le sevizie e le uccisioni di numerosissimi militari, che continuarono per quasi tutto maggio.
Le stragi di Sondrio
Il 25 aprile 1945 a Sondrio comandava i circa 3000 uomini della R.S.I. il generale Onorio Onori che avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini al comando del Maggiore Renato Vanna sono a Tirano e cercano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tenta di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma ecco che il generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, federale di Sondrio, gli vanno incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, gli comunicano di essersi arresi il giorno prima e lo invitano a fare altrettanto. E’ il 29 aprile. Tutti i prigionieri vengono chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio. E qui, malgrado le solite promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali, ai primi di maggio ebbero inizio le uccisioni di massa. Il 4 maggio furono prelevati 8 uomini, condotti ad Ardenno, obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 6 maggio ne furono prelevati 13, condotti a Buglio in Monte e uccisi. Il 7 maggio fu la volta di altri 15. Condotti vicino a Bagni del Masino, furono mitragliati alle gambe e, poi, bruciati vivi. Si calcola che, in totale, gli uccisi siano stati oltre 200. Secondo alcuni addirittura 500. Fra gli uccisi anche l’ausiliaria Angela Maria Tam, il maggiore Vanna e due Capitani medici. Il S.Ten. Paganella fu gettato da un campanile. Molti uccisi ebbe anche il I Btg Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando.
Le stragi di Brescia
Gli uomini del 613° Com. Prov. GNR si arresero fra il 28 e il 30 aprile 1945. Subito ci furono sevizie e uccisioni compiute dai partigiani. Il maggiore Spadini subì un vergognoso processo e fu condannato a morte e fucilato il 13.2.1946. Il 23.4.1960 la vedova ricevette una telefonata del Ministro di Grazia e Giustizia On. Guido Gonella che gli annunciava l’annullamento della sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Brescia e la riabilitazione del marito.
Le stragi di Pavia
Le forze del 616° Com. Prov. GNR furono particolarmente pressate dalle ingenti bande partigiane della zona. Il 25 aprile 1945 il presidio di Strabella visse un episodio eroico. Per consentire al grosso delle truppe di ritirarsi verso nord, dodici giovanissimi volontari si assunsero il compito di impegnare le forze partigiane. I dodici giovani, poi ridotti a sei, si difesero disperatamente per tutto il giorno e tutta la notte. Poi accettarono la resa con l’onore delle armi. Ma poco dopo, furiosi per essere stati tenuti in scacco da sei ragazzi, i partigiani li prelevarono (ad eccezione di uno che riuscì a fuggire) e li fucilarono insieme ad altre 14 persone. La stessa sorte fu riservata a molti militi degli altri presidi.
Le stragi di Vicenza
Gli uomini del 619° Com.Prov. GNR, all’atto dello sfondamento del fronte nell’aprile 1945 si ritirarono verso le montagne. Ma qui dovettero arrendersi ai partigiani. Vari distaccamenti, però, si difesero strenuamente finché vennero sopraffatti e massacrati con inaudita ferocia. Vedi anche il terribile massacro di Schio.
Le stragi di Treviso
Anche in questa provincia gli uomini del 620° Com. Prov. GNR, dopo la resa avvenuta fra il 27 e il 30 aprile 1945, subirono la feroce vendetta partigiana. A Revine Lago, a Oderzo, a Susegana furono soppressi centinaia di uomini. Quelli del presidio di Fregona, arresisi il 27 aprile, furono portati a Piano del Cansiglio e infoibati.
Le stragi di Padova
Il 623° Com. Prov. GNR cessò di esistere il 28 aprile 1945. In tutta la provincia infierirono gli uomini della brigata garibaldina di “Bulow” (Boldrini) che commisero innumerevoli eccidi.
Le stragi di Bologna
Il 629° Com. Prov. GNR partecipò, il 21 aprile 1945, alla difesa di Bologna, poi si ritirò verso il Po e qui si sciolse. I suoi uomini furono braccati e moltissimi furono gli assassinati e lasciati senza sepoltura. Pare che gli uccisi dopo il 21 aprile 1945 nel bolognese ammontino a 773 di cui 334 civili fra cui 42 donne.
Le stragi di Parma
Il 631° Com. Prov. GNR partecipò alla difesa della città il 23 aprile 1945, poi una colonna si ritirò fino a Casalpusterlengo ove si sciolse. Ma i presidi di Colorno e di Salsomaggiore furono massacrati al completo. E il 26 aprile a Parma in via Giuseppe Rondinoni furono uccisi 10 bersaglieri della divisione “Italia”.
Le stragi di Modena
Il 633° Com.Prov.GNR nell’aprile 1945 si ritirò ordinatamente fino quasi a Como dove si sciolse. Ma nella provincia di Modena le uccisioni indiscriminate di fascisti continuarono fino al 1946. I fascisti uccisi nel modenese pare ammontino a 893.
Le stragi di Forlì
Gli uomini del 636° Com. Prov. GNR ripiegati al nord, confluirono nel Btg. “Romagna” che fu inviato nel Veneto. Qui, negli ultimi giorni di aprile 1945 avvenne la resa e, dopo la resa, il pressoché totale annientamento ad opera dei partigiani.
Le stragi del 3° Rgt M.D.T. “D’Annunzio”
Il 3° Reggimento “Gabriele D’Annunzio”, che era di stanza a Fiume, negli ultimi giorni di aprile 1945 tentò il ripiegamento verso Trieste e Gorizia. I suoi uomini, costretti ad arrendersi agli slavi il 3 maggio subirono orrende sevizie, numerose uccisioni, e anche infoibamenti.
Gli uccisi del Btg “Montebello”
Una parte del Comando e la 4^ Cmp di questo Btg il 23 aprile 1945 erano rimasti a Cossato. Qui dovettero arrendersi ai partigiani che garantirono l’onore delle armi e la vita salva agli uomini. Ma, come al solito, appena deposte le armi, iniziarono le sevizie e le uccisioni. Il giorno 30 aprile a Sordevolo un primo gruppo di uomini, compreso il Cappellano militare Cap. Don Leandro Sangiorgi, furono uccisi. Un altro gruppo fu ucciso il 1° maggio a Coggiola. Altri, condotti nel famigerato campo sportivo di Novara, finirono poi massacrati nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli.
Il sacrificio del Btg “9 settembre”
Arresosi il 27 aprile 1945, ebbe garanzie di rispetto della vita degli uomini. Invece dal 1° maggio bande partigiane prelevavano gruppi di prigionieri e, condottili in montagna ove li tenevano anche tre giorni senza cibo, li seviziavano e li uccidevano. Si erano arresi in 190. Ne sopravvissero una decina.
Il tributo di sangue delle Brigate Nere
La XI Brigata Nera “Cesare Rodini” di Como si arrese il 28 aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma al presidio di Cremia, della Cmp “Menaggio”, toccò una sorte tragica. Il 25 aprile un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini classe 1930, portò anche a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma il comandante del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano salva la vita. Ma appena consegnate le armi tutti gli squadristi furono portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati tutti, compreso il giovane Tomaini.
E questo non fu l’unico episodio di piccoli presidi delle B.N. massacrati in quel modo.
Le B.N., infatti, pagarono un alto tributo di sangue in quelle tragiche giornate.
La strage della cartiera Burgo di Mignagola
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono veri e propri campi di sterminio, dove in brevissimo tempo procedevano, dopo nefande sevizie, a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano “epurazioni”. Cito la cartiera “Burgo” di Mignagola, frazione di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave. In questa cartiera furono sterminate 400 o forse anche 1000 persone.(1)
Si ha notizia di atroci sevizie inflitte ai prigionieri prima dell’uccisione: lamette ficcate in gola, distintivi fatti ingoiare, spilloni piantati nei genitali, camminare a piedi nudi su cocci di bottiglia, bocca riempita di carta che poi veniva incendiata….
Tra i trucidati il giovane ufficiale Gino Lorenzi, crocifisso; era un sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U.
Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una rozza croce costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono.(2)
Ma non fu l’unica crocifissione; si ha notizia anche della barbara e feroce tortura inflitta ancora ad un giovane sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U. : Walter Tavani crocifisso a un portone a Cavazze (MO). E ancora altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle scelti tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano dopo sevizie atroci: aver avuto mozzate le mani, strappati gli occhi, inchiodata la lingua, strappate le unghie,amputati i genitali.(3)
NOTE: [1] Paolo Teoni Minucci ,Combattenti dell’Onore – Così caddero gli uomini e le donne della RSI ,Greco & Greco, Milano, 2001, p.233.
2 F. Enrico Accolla, Lotta su 3 fronti- Introduzione alla storia della Repubblica Sociale Italiana, Greco & Greco Editori, Milano, 1992, p. 222.
3 Vincenzo Caputo, Disobbedisco-De bello milliariniense, TLA Editrice, Ferrara, 2001,p.11
Eccidio del carcere giudiziario di Ferrara
L’otto giugno 1945 una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire con uno stratagemma, la porta del carcere “Piangipane” , di Ferrara, tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia. In totale i morti furono 18 e 17 i feriti.
In successive e tardive indagini furono identificati i tre sicari, ma , giudicati dalla Corte di Appello di Ancona, questa ritenne estinti i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato “commesso nella lotta contro il fascismo”.
Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
L’otto maggio 1945 una piccola folla di facinorosi sobillati da comunisti, prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata di ogni bene asportabile e quindi devastata, soltanto perché colpevoli di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con feroci sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei due fascisti gettati tra le fiamme ancora vivi.
Nefandezze nel modenese
A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto; ma furono più feroci gli uomini delle bestie che lo straziarono per cibarsene.
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, furono sepolte vive.
Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
A Trausella (TO), la levatrice di quel comune fu prelevata, “con audace azione di guerra”, mentre si recava ad assistere una partoriente, trascinata presso il comando di una “valorosa e intrepida” formazione partigiana, fu violentata da un numero imprecisato di eroici “combattenti per la libertà”, che poi la trucidarono, assassinandola tra tormenti atroci avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con altri tamponi infiammati fino al purtroppo stentato sopraggiungere della liberazione con la morte.
NOTE: Mino Caudana e Arturo Assante, Dal Regno del Sud al vento del Nord, Vol. II, C.E.N., Roma, 1963, III ediz., p. 1180.
L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo)
Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 le truppe italo-tedesche abbandonarono la zona di Rosolina. In località Volto operava una batteria antiaerea della X Flottiglia Mas. Il 26 aprile i marò della Decima fanno saltare le munizioni e i cannoni e cercano di mettersi in salvo vestendosi in borghese. Ma nella notte fra il 26 e il 27 vengono raggiunti dai partigiani e uccisi senza pietà con raffiche di mitra. L’allora parroco Don Mario Busetto ha lasciato una testimonianza dalla quale si ricava che in data 30 aprile furono scoperti sotto la sabbia 9 cadaveri, cui fu data cristiana sepoltura. Purtroppo fu identificato soltanto Vincenzo Caruso di anni 21 da San Nicandro Garganico (FG). Secondo il parroco, però, un altro degli uccisi era Leonardi Carmelo di Palermo. Invano la famiglia di Giuseppe Licata, anni 23, di Sciacca (AG) cercò di identificare il suo congiunto con uno dei caduti.
Il 15 giugno 1946, poi, vennero scoperti e sepolti altri 5 cadaveri.
Insieme ai 14 marò furono uccise anche due giovani sorelle che prestavano servizio alla batteria in qualità di ausiliarie: Adelasia Zampollo di anni 17, nata a Chioggia e residente a Genova e la sorella Amorina di 24 anni, che aveva un figlio piccolo.
Le stragi di Omegna
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1945 una squadra di partigiani penetrò con l’inganno nella casa del Sig. Raffaele Triboli e lo prelevò insieme alla moglie Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni Gianna. La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restavano soli in casa nel terrore i figli Francesca di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine, gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute. Né, questo, fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona del lago d’Orta.
La strage dei ragazzini di Mario Onesti
Il 25 aprile 1945 un reparto di giovanissimi militi della contraerea della Malpensa, guidato dal sergente Mario Onesti si dirigeva verso Oleggio. Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difendono come possono. Alla fine il cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, invita i militi ad arrendersi. Avranno salva la vita e un salvacondotto per tornarsene a casa. Il sergente interpella i suoi giovanissimi militi, poco più che adolescenti, e decide di accettare. Qualcuno non si fida e riesce a fuggire, ma undici, col loro sergente, si consegnano e, alle 18,30, si redige un verbale dell’accordo. Ma i partigiani non hanno nessuna intenzione di rispettare il patto e il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vengono trattenuti prigionieri nelle segrete del castello di Samarate, dove vengono sottoposti a indicibili torture. E il giorno dopo ancora, 27 aprile, alle 8 di mattina vengono caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il prete che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo è impotente e può solo impartire una frettolosa benedizione. Poi la fucilazione. Tutti offrono il petto ai fucilatori. Si ode qualche grido di “Viva l’Italia”. Non sazi gli aguzzini infieriscono sui corpi degli uccisi, anche ficcando ombrelli negli occhi dei morti.
La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Il 9 gennaio 1945 alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica nella campagna modenese dove si era rifugiato il veterinario Carlo Pallotti, fascista, insieme alla famiglia e massacrarono l’intera famiglia: il Pallotti, la moglie Maria Bertoncelli e i giovanissimi figli Luciano e Maria Luisa. Responsabili furono ritenuti i partigiani modenesi Michele Reggianini e Giuseppe Costanzini che, però, non subirono alcuna condanna per questo crimine in quanto il massacro fu ritenuto, dalla magistratura della nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.
Uccisione di ecclesiastici in Italia nel secondo dopoguerra
Durante il biennio immediatamente successivo alla cessazione delle ostilità del secondo conflitto mondiale in Italia, tra le numerose uccisioni che videro coinvolte (come attori o vittime) nel centro-nord del Paese persone di differenti (e avversi) schieramenti ideologici, vi furono alcuni episodi delittuosi le cui vittime appartenevano al clero cattolico. Il sacerdote e storico imolese Mino Martelli ha calcolato in 110 il numero complessivo di delitti
Dando seguito agli accordi della conferenza di Jalta tra le maggiori potenze alleate, alla fine della seconda guerra mondiale l’Italia si avviava a entrare nella zona d’influenza anglo-statunitense. Un serrato confronto politico era tuttavia in atto tra le principali forze che durante la Resistenza avevano fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale: il partito di ispirazione cattolica Democrazia Cristiana, vicino alle posizioni angloamericane, e quelli di matrice socialista e comunista, vicini a quelle dell’Unione Sovietica.
Per tale motivo numerosi sacerdoti, essendo l’espressione più immediatamente riconoscibile sul territorio della gerarchia ecclesiastica, la quale sosteneva la Democrazia Cristiana, furono spesso visti come avversari o nemici, indipendentemente dal loro attivismo politico recente (campagna attiva per la DC) o passato (fiancheggiamento del disciolto regime fascista), o meno.
Le uccisioni avvennero nel centro-nord Italia, con particolare preminenza in Emilia-Romagna. Per il perimetro compreso tra le zone di Bologna, Modena e Reggio Emilia fu coniato il termine di «Triangolo della morte», vista la concentrazione di omicidi (non tutti e non solo di sacerdoti, comunque) in quell’ambito territoriale.
Riguardo alle morti dei sacerdoti, nell’immediato dopoguerra una prima e incompleta ricognizione del fenomeno venne realizzata da Luciano Bergonzoni e Cleto Patelli, che trattarono l’argomento in una sezione della loro opera Preti nella tormenta; per i due autori, i sacerdoti uccisi furono «martirizzati». Più organico e sistematico fu l’approccio di Lorenzo Bedeschi negli anni cinquanta: dai risultati della sua analisi, pubblicati nel volume L’Emilia ammazza i preti, emerse che 52 ecclesiastici (definiti «martiri» anche in questo testo) furono uccisi nella fascia di territorio che va «da Rimini a Piacenza, da Modigliana a Guastalla». Più di recente il giornalista e scrittore Roberto Beretta, collaboratore del quotidiano cattolico Avvenire, nella sua Storia dei preti uccisi dai partigiani ritenne di aver individuato un denominatore comune a tali episodi e chiamò quella serie di uccisioni «strage dei preti».
Tra i casi che più ebbero e in qualche misura tuttora hanno rilevanza si possono ricordare:
Emilia
Rolando Rivi, seminarista di 14 anni ucciso a Monchio (frazione di Palagano, MO): morì alcuni giorni prima della fine della guerra. Venne rapito il 10 aprile 1945 dai partigiani, che lo accusarono di fare la spia per i fascisti: fu percosso, gli fu ordinato di sputare sul crocefisso e di togliersi la tonaca; al suo rifiuto gliela strapparono di dosso, ne fecero un pallone e ci giocarono a calcio . La Chiesa cattolica nel 2013 lo ha proclamato beato.
Domenico Gianni, Bologna città, assassinato il 24 aprile 1945.
Carlo Terenziani, 45 anni, già cappellano della Milizia e della Gioventù del Littorio. Accusato dai partigiani di essere stato coinvolto nel rastrellamento nazista di Ventoso (frazione di Scandiano, RE) del 28 luglio 1944, avvenuto in pieno regime repubblicano, subì due tentativi di sequestro prima di essere trasferito dal suo vescovo a Reggio Emilia. Lì, il 29 aprile 1945, quattro giorni dopo la Liberazione, fu rapito da tre persone e caricato su un camion. Al sequestro assistette anche un giovane Romano Prodi (nativo di Scandiano), che ricordò la circostanza durante un’intervista concessa a Bruno Vespa nel 2005. Terenziani fu condotto dapprima nella sua parrocchia e accusato di essere un collaborazionista dei nazisti, poi condotto in strada legato ed esposto al pubblico dileggio e infine, quella sera stessa, fucilato vicino al muro della chiesa parrocchiale. Ancora nel 2005 i consiglieri comunali di Scandiano respinsero la proposta, presentata da un loro collega del Polo per Scandiano, di posare una lapide in ricordo del sacerdote. Tra le motivazioni contrarie addotte, vi fu quella che l’atto non deve essere considerato omicidio, ma esecuzione decretata da quelli che all’epoca erano legittimi e riconosciuti organismi giudicanti.
Enrico Donati, Lorenzatico, frazione di San Giovanni in Persiceto (Bologna), ucciso il 13 maggio 1945.
Giuseppe Preci, Montalto di Zocca (Modena), assassinato il 24 maggio 1945.
Giuseppe Tarozzi era parroco di Riolo, frazione di Castelfranco Emilia (Modena). Il 25 maggio 1945 due uomini, presentatisi come membri della Polizia partigiana, lo portarono via nella notte. La salma non fu mai ritrovata.[7]
Giovanni Guicciardi, Mocogno (Modena), assassinato il 10 giugno 1945.
Raffaele Bortolini, Dosso, frazione di Sant’Agostino, ucciso il 20 giugno 1945.
Giuseppe Rasori, San Martino di Casola, frazione di Monte San Pietro (Bologna), assassinato il 2 luglio 1945.
Luigi Lenzini, Crocette, frazione di Pavullo nel Frignano (Modena), ucciso il 21 luglio 1945.
Achille Filippi, Maiola, frazione di Castello di Serravalle (Bologna), assassinato il 25 luglio 1945.
Alfonso Reggiani, parroco di Amola del Piano, frazione di San Giovanni in Persiceto, assassinato il 5 dicembre 1945.
Francesco Venturelli, Fossoli, frazione di Carpi, assassinato il 16 gennaio 1946.
Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo di Correggio (RE), ucciso il 18 giugno 1946. Nel 1998 fu realizzato un film-documentario sul fatto.
Romagna
Giovanni Ferruzzi, arciprete di Campanile in Selva (frazione di Lugo, RA), ucciso da partigiani comunisti il 3 aprile 1945;
Luigi Pelliconi, parroco di Poggiolo (frazione di Imola, BO). La mattina del 14 aprile 1945 fu assassinato per vendetta dai tedeschi;
Tiso Galletti, 46 anni, parroco di Spazzate Sassatelli (frazione di Imola). Don Galletti nelle sue prediche aveva manifestato contrarietà al comunismo ateo e alle vendette che avevano accompagnato la Liberazione[8]. Venne ucciso il 18 maggio 1945 a colpi di pistola da un commando di partigiani, mentre si trovava seduto davanti alla porta della canonica. Arrivarono due giovani in motocicletta; uno rimase sulla moto, l’altro scese e gli chiese se fosse lui il parroco. Alla risposta affermativa, il giovane estrasse una pistola e lo uccise. Successivamente il giovane risalì sulla moto, i due ripartirono. Allo stesso modo furono uccise altre tre persone della parrocchia nella stessa sera. Dopo l’assassinio il cadavere del presbitero rimase sulla piazza fino al giorno seguente; un partigiano piantonò l’area per controllare che nessuno venisse a rendere omaggio alla salma. Ai funerali non si presentò nessuno. La banda venne presa e il capo del commando fu rinviato a giudizio[10]. Fu condannato a 16 anni di carcere (aumentati a 18 in appello), ma per effetto dell’amnistia non scontò un solo giorno di prigione.
Giuseppe Galassi di 55 anni, parroco di San Lorenzo (frazione di Lugo). Il 31 maggio 1945, alla fine di una funzione religiosa, fu avvicinato da due persone che lo portarono con sé. Fu ritrovato dopo alcuni giorni, in un fosso, ucciso con colpi d’arma da fuoco.
Teobaldo Daporto era parroco di Casalfiumanese. Il 10 settembre 1945, all’età di 40 anni, fu assassinato da un suo conoscente, un contadino, probabilmente sobillato dai comizi anticlericali che si diffondevano in quel periodo. Il processo non si tenne poiché l’assassino, una volta tradotto in carcere, si suicidò.
Ex territori italiani
Per quanto riguarda invece i territori sotto sovranità italiana successivamente passati alla Jugoslavia con l’accordo di Parigi del 10 febbraio 1947, vi è almeno un caso documentato di sacerdote ucciso nel periodo 1945-1947: Francesco Bonifacio, di 34 anni, sequestrato nei pressi di Villa Gardossi (Buie d’Istria) da alcune “guardie popolari”, picchiato, lapidato e finito con due coltellate, e successivamente infoibato. Bonifacio fu beatificato dalla Chiesa cattolica il 4 ottobre 2008 a Trieste, in quanto ritenuto ucciso in odium fidei.
Nota a margine
Già nei primi anni cinquanta, sulla scia dei fatti delittuosi, il vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche, a capo di un comitato appositamente istituito, tentò di ottenere l’autorizzazione a erigere un monumento al cosiddetto «prete ignoto», ma la sua iniziativa non ebbe successo.
Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro
Il Giornale del 9/3/1995, con un articolo a firma P.Pisanò, informa:
“Sono 8, le condanne a morte di fascisti, chieste e ottenute dal P.M. O.L.Scalfaro, alla Corte assise di Novara, dopo il 25/4/1945.
La biografia ufficiale, parla di un solo imputato, per il quale la condanna a morte era inevitabile; ma tale imputato..venne poi graziato…
La realtà è un po’ diversa.
1943: Il futuro presidente della Repubblica entra in magistratura.
1°maggio 1945: O.L.Scalfaro assume volontariamente la carica di vicepresidente del tribunale di Novara
13 giugno 1945: Sostituiti i tribunali del popolo con le CAS (Corte Assise straordinarie), O.L.Scalfaro sostiene la pubblica accusa contro Enrico Vezzalini, soldato valoroso pluridecorato.
15 e 28/6/1945: L’Ufficio del PM ottiene la condanna a morte di Enrico Vezzalini, Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante.
Condanne eseguite all’alba del 23 sett.1945 (ndr: al poligono di tiro di Novara).
16 luglio 1945: Il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Giovanni Pompa, 42 anni, della GNR. Sentenza eseguita il 21/10/1945.
12 dic.1945: il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Salvatore Zurlo.
Da “Il Corriere di Novara” del 19 dic.1945: “Il PM Scalfaro parla con vigoria ed efficacia che lo fanno ascoltare senza impazienza dal pubblico. Il Pm, dopo la chiarissima requisitoria conclude domandando la pena di morte per lo Zurlo…”Lo Zurlo, nel 1946, in processo d’appello,ebbe la sentenza annullata.
Otto condanne a morte ottenute, sette eseguite. O.L.Scalfaro, brillante inquisitore da tribunale del popolo, si è ormai messo in luce per tentare le vie della politica, candidandosi all’ Assemblea Costituente e, pur senza abbandonare la magistratura e relative prebende, avviarsi verso la gloria di Roma”.
Questo articolo è rimasto, all’epoca, senza reazioni di sorta dell’interessato: tutto vero, dunque.
Ma giornalisti de “L’Ultima Crociata”, andati a Novara per rivedere le carte di quei processi, non trovarono un bel nulla.