DAL CONFINE ORIENTALE, PER NON DIMENTICARE

                                                                    di Fabio Calabrese

Noi sappiamo da tempo di vivere in un mondo in cui la rappresentazione mediatica tiene sempre più il posto della percezione della realtà e della memoria storica, e quindi diventa il campo di fin troppo facili manipolazioni.

Ora, guarda caso, mentre il 27 gennaio, data preposta a ricordare i crimini di cui è stata accusata la parte soccombente nel secondo conflitto mondiale è esposta a una intensa copertura mediatica che, nei fatti, non è che l’intensificazione di un bombardamento propagandistico di “verità” di regime cui siamo esposti quotidianamente, il 10 febbraio che dovrebbe ricordare i crimini dei vincitori, è quasi ignorato o trova pochissima eco al di là di alcune manifestazioni “ufficiali” puramente di facciata, e al ricordo di una parte politica, la nostra, che sembra essere rimasta l’unica depositaria di una memoria storica.

Eppure coloro che qui, sul confine orientale furono uccisi nella maniera più atroce o dovettero abbandonare le case, i beni, tutto quanto, e fuggire per non subire la stessa sorte, erano la nostra gente, la cui colpa non era altro che quella di essere italiani.

Io ritengo sia indispensabile che tutti noi ricordiamo bene cosa hanno significato queste due parole foibe ed esodo ma so anche riguardo a queste tematiche come sia facile lasciarsi prendere dall’emotività, continuare a sentire il dolore di una ferita, di una mutilazione subita dalla nostra Italia, che rimane sempre aperta, e per questo motivo cercherò, nei limiti del possibile, di far parlare i documenti.

Vediamo per prima cosa di riassumere brevemente il quadro storico e i fatti. Nell’ aprile 1945, con il crollo militare delle forze dell’Asse, man mano che occupano le terre italiane sulla sponda orientale dell’Adriatico, i comunisti jugoslavi, riprendono la feroce pulizia etnica con l’uccisione di migliaia di persone colpevoli solo di essere italiane e l’intento di costringere gli altri alla fuga. Sottolineo riprendono perché una prima ondata di eccidi e infoibamenti era iniziata già nel settembre 1943, con la dissoluzione dello stato italiano in conseguenza dell’8 settembre, ma l’intervento delle truppe germaniche con l’operazione Alarico vi aveva provvisoriamente posto termine. Un fatto importante da sottolineare, perché dimostra che l’obiettivo dei comunisti jugoslavi era fin dall’inizio quello di CANCELLARE LA PRESENZA ITALIANA SULLA SPONDA ORIENTALE DELL’ADRIATICO con i metodi più brutali e spingendosi quanto più a occidente possibile.

Le foibe sono dei profondi inghiottitoi che caratterizzano la regione carsica, formati dal dilavamento delle acque sul suolo calcareo, precipizi che giungono spesso a una profondità di diverse centinaia di metri. Queste trappole naturali hanno offerto ai comunisti jugoslavi un metodo semplice ed economico per assassinare la nostra gente. Gli italiani catturati venivano portati sull’orlo delle foibe legati col fil di ferro in lunghe file, qui gli assassini mitragliavano i primi che cadevano nella voragine trascinando nella caduta tutti gli altri, che si sfracellavano nel fondo dell’abisso, restandovi ad agonizzare magari per giorni.

Nel 1991 Milovan Gilas, ex collaboratore del dittatore jugoslavo maresciallo Tito e poi dissidente, in un’intervista ha ammesso questi eccidi con sconcertante candore, precisando:

“Li uccidemmo, non perché fossero fascisti, ma perché erano italiani”.

Sempre in quell’intervista, Gilas quantificò in circa trentamila il numero di persone uccise in questo modo. Non esiste un conteggio preciso del numero delle persone assassinate per l’inespiabile colpa di essere italiane, ma è raro che un assassino si attribuisca responsabilità maggiori di quelle che ha. Qualsiasi stima inferiore al numero indicato da Gilas, va perciò ritenuta inattendibile, è anzi verosimile che egli abbia sottostimato l’ampiezza del massacro. Diciamo, in assenza di dati migliori, che i nostri connazionali massacrati sono stati decine di migliaia.

Benedetto Croce diceva che il marxismo è “un paio di occhiali sociologico”, io credo, al contrario, che sia un paraocchi che impedisce di vedere quello che è ovvio, in questo caso, ha impedito ai comunisti ipnotizzati dalla fregnaccia dell’“internazionalismo proletario”, e impedisce tuttora alla persistente sinistra italiana che ancora oggi quando deve ricordare quei morti nelle cerimonie ufficiali, lo fa assai malvolentieri, il carattere etnico della guerra.

La favola che oltre a voler ridurre la portata di tali eccidi, li vorrebbe ricondurre a vendette personali, a reazioni all’ “imperialismo fascista” si smentisce considerando il quadro complessivo: queste atrocità facevano parte di un piano globale per far avanzare il mondo slavo a spese di quello germanico e di quello latino, come dimostrano le atrocità compiute parallelamente dall’Armata Rossa nei territori tedeschi a est dell’Oder e anche contro i Finlandesi della Carelia, incolpevoli di alcunché.

“Il territorio straniero si può assimilare, il sangue straniero no, o lo si allontana o lo si elimina”.

Lo ha scritto Adolf Hitler nel Mein Kampf, ma sono stati i comunisti a metterlo in pratica.

Un episodio che sarebbe grottesco se non si inserisse nel quadro di una spaventosa tragedia e che è una dimostrazione perfetta della CECITA’ della sinistra sulle tematiche nazionali. Come in altre parti d’Italia, a fine aprile 1945, il CLN locale “insorse” quando i Tedeschi se ne stavano andando, poi i suoi membri andarono festosi incontro ai partigiani jugoslavi che stavano arrivando. Questi ultimi, quando gli videro le fasce tricolori al braccio, li catturarono e li fucilarono.

Un simile comportamento però non rappresentò affatto un’eccezione nel quadro della politica delle bande partigiane slavo-comuniste: vi riporto un piccolo stralcio da Riflessioni su un documento del confine orientale, un articolo di Antonio Sema che fa parte di un fascicolo dell’IRCI di cui vi dirò fra poco:

“Giovanni Zol, comandante del Battaglione Triestino che nell’ottobre 1943, quando i tedeschi occuparono l’Istria, si ritira nel Carso istriano. Zol cerca un’intesa con gli sloveni che non vogliono una presenza autonoma di comunisti italiani nel territorio appena annesso, poi a novembre viene ucciso in un’imboscata dai contorni alquanto ambigui.

Giovanni Pezza: rifiuta la confluenza nelle file slovene, costituisce il Battaglione italiano autonomo Giovanni Zol, che risponde al PCI triestino nel contesto del CLN italiano. Alla fine del febbraio 1944, viene passato per le armi da un distaccamento partigiano comandato dallo sloveno Carlo Maslo.

Ferdinando Marea, il comandante del Battaglione Triestino d’Assalto che vuole contattare il PCI triestino mentre il suo comando politico è d’accordo con gli sloveni, e viene catturato a Doberdò dai tedeschi.

Il documento omette pure di ricordare la vicenda del battaglione autonomo Alma Vivoda che nell’agosto del 1944 riceva dagli sloveni l’ordine di sciogliersi, ma la Medaglia d’Oro Vincenzo Gigante risponde negativamente. A ottobre, il CLN sposta l’unità all’interno dell’Istria, dove sarà circondata e distrutta dai tedeschi”.

Il quadro è chiaro? GLI ITALIANI ANDAVANO ELIMINATI, a prescindere dal fatto che fossero fascisti, partigiani, comunisti o aderenti a qualsivoglia ideologia, e il metodo più comodo per farlo, nel caso di bande partigiane, era quello di fare in modo che cadessero letteralmente in bocca ai Tedeschi.

Questa constatazione ci illumina anche su uno degli episodi più vergognosi e meno raccontati della cosiddetta resistenza, l’eccidio delle malghe di Porzus. In questa località friulana, la brigata partigiana non comunista Osoppo, fu circondata a tradimento dai partigiani comunisti della brigata Garibaldi, disarmata, e i suoi membri furono tutti trucidati.

Il motivo? I partigiani della Osoppo si erano rifiutati di passare agli ordini del IX Corpus jugoslavo, cosa che sarebbe dovuta avvenire in base a un accordo tra il maresciallo Tito e il leader comunista italiano Palmiro Togliatti, che prevedeva la cessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia, del Friuli fino al Tagliamento e oltre, in cambio dell’aiuto a “fare la rivoluzione” in Italia.

Il documento che dobbiamo ora prendere in esame, in tutta sincerità, ci può provocare dei conati di nausea, tuttavia, quello che ci rivela è molto importante.

Il 4 aprile 2001 il quotidiano “Il Piccolo” di Trieste pubblicava un rapporto elaborato da una commissione mista, prima italo-iugoslava, poi italo-slovena, frutto di una lunga elaborazione (i lavori di questa commissione erano iniziati nel 1991, dieci anni prima, e data la sua modesta estensione, non devono essere state scritte più di una o due pagine l’anno, per le quali la commissione di sedicenti storici è stata di certo lucrosamente retribuita), che doveva concernere la situazione storica e i rapporti fra italiani e sloveni sul confine orientale dall’ottocento alle due guerre mondiali, ma ovviamente si concentrava soprattutto sui fatti degli anni della seconda guerra mondiale e seguenti.

Nello spirito antifascista (che all’atto pratico vuole sempre dire anti-italiano), la commissione sposava le tesi della propaganda jugoslava-slovena in maniera addirittura grottesca, ad esempio negando che in Istria e Dalmazia, terre di antichissima cultura veneta, prima del 1918 vi fosse una presenza italiana, e interpretando l’annessione dell’Istria e di Fiume (la Dalmazia ci fu negata) a seguito della prima guerra mondiale come “imperialismo”, e attribuendo l’esodo dal confine orientale della nostra gente costretta a fuggire per non essere soppressa nelle foibe, al boom economico che si sarebbe verificato in Italia non prima di una decina di anni più tardi. Ridicolo, se non fosse tragico.

Per quanto riguarda le foibe, riduzionismo, perché un negazionismo completo non era possibile: prima di tutto in territorio triestino c’è una foiba, quella di Basovizza, dove giacciono i resti di un gran numero di nostri connazionali uccisi dai partigiani slavo-comunisti, poi la Slovenia aveva già riconosciuto un elenco di 3000 infoibati per la sola provincia di Gorizia, ma la provincia di Gorizia non è che un frammento delle terre strappate all’Italia, parliamo quindi di un campione di una mattanza molto più vasta. Infine, nel territorio oggi sloveno vi sono un gran numero di foibe e grotte interdette agli speleologi, interdette, è ovvio, per quel che potrebbero trovarvi.

Per capire il senso di una mostruosità di questo genere, dobbiamo rifarci da un lato alla lezione di George Orwell: la “verità” non è la verità, ma quella che si riesce a far credere alla gente che essa sia, dall’altro alla mostruosità antigiuridica del processo di Norimberga: una volta stabilita la “verità ufficiale”, ulteriori indagini sono proibite, diventano, come ben sappiamo, un reato, con la differenza che qui non si trattava di mettere supposti crimini sotto la lente di ingrandimento, ma al contrario, di occultarli o minimizzarli.

Questo rapporto ha avuto una pronta risposta da parte dell’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata) sotto forma di un fascicolo intitolato 10 anni per un documento, che ne mette in luce la faziosità, la disinformazione, la volontà di disinformare. Al fascicolo dell’IRCI curato da Piero Delbello, hanno collaborato Almerigo Apollonio, Antonio Sema, Pierluigi Sabatti e Roberto Spazzali, il che è come dire il meglio degli esperti della nostra storia locale, ed è appunto in esso che si trova l’articolo di Antonio Sema da cui ho tratto la citazione che ho riportato più sopra.

Parlando di esperti di storia locale, non è possibile dimenticare il nome dello scomparso Giorgio Rustia, triestino tornato nella città natale dopo un ventennio di attività giornalistica, e dedicatosi a ripercorrere le vicende di quegli anni tragici. Forse ricorderete che anni fa ho recensito sulle pagine di “Ereticamente” il suo libro dal chilometrico titolo Atti, meriti e sacrifici dei reggimenti milizia difesa territoriale al confine orientale italiano. Atti, meriti e sacrifici per rendere conto dei quali il nostro ha ripercorso tutta la nostra storia dal XIX alla metà del XX secolo, e a cui ho dedicato una recensione che per la sua ampiezza è stato necessario suddividere in due articoli.

Ora io non vi ripeterò il contenuto di questa doppia recensione né tanto meno del libro, ma vi sono un paio di punti dell’ampia casistica riportata che è opportuno riportare. Ad esempio il caso di un milite della difesa territoriale che, catturato dai partigiani slavo-comunisti, “per divertimento” fu legato a un ceppo d’albero a cui diedero fuoco facendogli fare una morte orribile, arso vivo e (episodio quasi simmetrico) quello di un partigiano titino che, ferito e catturato, fu tradotto all’ospedale di Monfalcone (che cattivi, questi fascisti che curavano i prigionieri invece di bruciarli vivi), qui incappò in una retata slavo-comunista nel maggio del 1945, e, assieme agli altri degenti dell’ospedale, fu buttato in una foiba. Infoibato dai suoi stessi compagni, è stato forse uno dei pochi in queste tristi vicende, che ha avuto quel che si meritava.

Il caso più emblematico però è forse quello del capitano Alberto Marega, catturato dai partigiani e processato da un “tribunale popolare”, fu assolto e poi buttato in una foiba, assolto dall’accusa di essere un “boia fascista”, ma non dalla colpa inespiabile e imperdonabile di essere un italiano.

A dispetto di quanti credono al dogma stupido e antistorico dell’immutabilità dei confini, dobbiamo porci una domanda: come mai Trieste è ancora oggi una città italiana? Quando le bande slavo-comuniste a fine aprile 1945 giunsero a Trieste, diedero il via alla stessa feroce “pulizia etnica” che stavano attuando in Istria e dovunque nelle terre italiane capitate sotto i loro artigli, e sono poche le famiglie italiane di Trieste che non debbano ricordare qualche vittima di questa inumana pratica, e ne rimane l’atroce testimonianza della foiba di Basovizza, ma il 12 giugno, dopo 40 giorni di atroce agonia, gli slavo-comunisti furono scacciati da Trieste dalle truppe neozelandesi sopraggiunte nel frattempo in vicinanza della città.

Il fatto è che poco prima della conclusione del conflitto in Europa, morì il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e gli successe il suo vice Harry Truman. Truman è probabilmente destinato a essere ricordato come uno dei più grandi assassini della storia per aver ordinato i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, ma almeno, a differenza del suo predecessore che aveva un’inspiegabile simpatia per Stalin e i comunisti, era determinato a contrastare l’espansione comunista in Europa ovunque fosse possibile, cosa che però si verificò fattibile soltanto a Trieste. Ho l’impressione che se, per disgrazia, Roosevelt fosse vissuto un paio di settimane in più, oggi Trieste non sarebbe altro che un pezzo di Slovenia.

Con il 12 giugno l’incubo per Trieste (non per le restanti terre italiane cadute sotto gli artigli jugoslavi) era davvero finito? No, entrava semplicemente in una nuova fase.

Il 12 giugno 1945, con l’intervento delle truppe neozelandesi e la cacciata da Trieste delle bande partigiane slavo-comuniste che l’avevano insanguinata per quaranta giorni, per la città giuliana fu, se non la fine, quanto meno l’attenuazione dell’incubo, anche se non bisogna dimenticare che nel frattempo in Istria, a Fiume, in Dalmazia, in tutte le terre italiane cadute sotto il tallone jugoslavo la mattanza continuava feroce e sarebbe continuata per un pezzo: i nostri connazionali erano posti di fronte alla feroce alternativa: fuggire abbandonando le proprie case e le proprie cose, o morire.

Della Venezia Giulia prebellica, era caduta nelle mani dei comunisti assassini della nostra gente il 90% della provincia di Trieste e il 95% di quella di Gorizia, compreso un rione cittadino che la Jugoslavia avrebbe trasformato nella “città” di Nova Gorica, la città è stata smembrata come Berlino, ma a differenza di questa, non è stata mai riunificata.

Nel frattempo, i metodi per l’eliminazione degli italiani si fecero meno artigianali, con l’istituzione dei campi di sterminio di Goli Otok, di Borovnica, di Skofia Loka, di Aidussina. Almeno a Trieste durante i 40 giorni di martirio dell’occupazione slavo-comunista (ma non è escluso che lo stesso sia avvenuto altrove, anche se ovviamente non esiste documentazione), il metodo di selezione di coloro che sarebbero stati spediti nei lager, fu particolarmente subdolo, si fece credere che chi l’avesse voluto, avrebbe potuto emigrare nella zona occupata dagli alleati occidentali avrebbe potuto farlo, ma chi si presentava ai comandi jugoslavi per ricevere il lasciapassare, veniva invece inviato alla deportazione.

Trieste non fu comunque restituita all’Italia, ma vi fu costituito un Governo Militare Alleato, in attesa della costituzione, che non ebbe mai luogo, di un fantomatico “Territorio libero di Trieste” (TLT), una sorta di stato cuscinetto fra l’Italia controllata dagli alleati occidentali e il blocco comunista di cui la Jugoslavia allora faceva parte (anche se Tito più tardi indosserà la maschera del “non allineato”).

Il 10 febbraio 1947 avveniva la firma del trattato di pace. Era in sostanza una beffa. Il capovolgimento di fronte dell’8 settembre 1943 e un anno e mezzo di cobelligeranza con gli alleati non erano serviti a nulla se non a innescare la guerra civile e a lasciare sull’Italia una macchia indelebile di disonore. Al momento della stipula del trattato di pace, tornavamo a essere i nemici sconfitti.

Con questo trattato, perdevamo più di quanto non avessimo già perso nella situazione determinatasi con la cessazione delle ostilità. Pola, l’ultimo lembo d’Istria di cui gli Jugoslavi non si erano impadroniti, città dalle profonde radici venete e italiane, occupata via mare dagli alleati occidentali, a quasi due anni dalla conclusione del conflitto, fu ceduta alla Jugoslavia e la popolazione costretta a un ulteriore, straziante esodo.

A margine di questo tragico fatto, va citato un episodio vergognoso. I comunisti italiani (andrebbe virgolettato con virgolette di enorme spessore), non hanno mai mancato di mostrare totale ostilità nei confronti dei nostri profughi, e i polesani non erano destinati a ricevere un trattamento migliore degli altri. Il convoglio ferroviario dei profughi polesani diretto a La Spezia avrebbe dovuto fare tappa a Bologna, dove la Pontificia Opera di Assistenza aveva approntato per loro un posto di ristoro, che fu distrutto dai ferrovieri della CGIL, le derrate, compreso il latte per i bambini, rovesciate sui binari, e al treno non fu consentito di fermarsi.

Basterebbe questo episodio a dimostrare LA TOTALE INCOMPATIBILITA’ FRA ITALIANITA’ E COMUNISMO.

Oggi i figli di questi sciacalli hanno vestito la pelliccia dell’agnello, si fanno chiamare Partito Democratico, ma gli sciacalli rimangono sciacalli.

Nel 2007, a ricordo dei sessant’anni dalla stipula di questo trattato, la Lega Nazionale di Trieste ha pubblicato un fascicolo intitolato Io ricordo, e tu?, che tra l’altro contiene un interessante commento del presidente della Lega Nazionale Paolo Sardos Albertini che fa notare che da parte italiana il sottoscriverlo fu un eclatante esempio di iniquità e di stupidità.

Iniquità perché faceva ricadere pressoché per intero sugli italiani del confine orientale il peso della guerra perduta, stupidità perché nel frattempo fra i vincitori del conflitto era intervenuta una profonda frattura, era iniziata la Guerra Fredda, situazione di cui si sarebbe potuto approfittare per ottenere condizioni meno pesanti.

En passant, ricordiamo che nella costituzione più bella del mondo secondo l’illustre giurista Roberto Benigni, fu inserito un articolo che vieta il referendum sui trattati internazionali, fu inserito precisamente allo scopo di impedire che gli Italiani potessero dire la loro sul trattato del 1947, e in tempi più recenti è servito ugualmente bene per ficcarci obtorto collo nella trappola della UE, e svendere quel che restava della nostra sovranità nazionale.

Il trattato di pace, oltre a sancire il passaggio delle terre italiane alla Jugoslavia, prevedeva l’istituzione del fantomatico “territorio libero di Trieste”. Sulla carta, esso avrebbe dovuto comprendere il moncherino che costituisce l’attuale provincia di Trieste, al momento sottoposta all’amministrazione militare “alleata”, più una striscia di territorio istriano occupata dagli jugoslavi, fino al fiume Quieto. Le due parti che sarebbero dovute diventare un’unica entità sono state denominate Zona A (quella sottoposta al governo militare con Trieste) e Zona B (quella istriana) Questo stato-cuscinetto non è mai venuto in essere, formalmente perché non si riuscì a trovare un accordo sulla figura del governatore che l’avrebbe dovuto reggere, ma noi capiamo facilmente, che, ammesso e non concesso che una simile figura si fosse trovata, questo presunto stato non sarebbe mai divenuto una realtà concreta, o al massimo si sarebbe limitato alla sola Zona A, perché la Jugoslavia non intendeva cedere neppure un metro delle terre di cui si era impadronita.

Contro ogni evidenza storica a cominciare dal fatto che questo presunto stato non è mai venuto in essere, esiste ancora oggi un pugno di nostalgici del TLT, ma questo, a mio parere rientra in un più ampio fenomeno che abbiamo visto più volte, quello degli italiani nauseati da questa repubblica democratica e antifascista (e ne hanno ben donde) e che per conseguenza vorrebbero essere tutto meno che italiani, e per conseguenza si inventano pseudo-nazionalità: neoborbonici, padani, mitteleuropei e via dicendo, ma non è di essere italiani che ci dobbiamo vergognare, è la democrazia antifascista impostaci dai vincitori che ci deve fare nausea e schifo.

Premesso che la cosiddetta Zona B è esistita solo sulla carta, e all’atto pratico era soltanto un pezzo d’Istria dove, come altrove la Jugoslavia si era data da fare per cancellare ogni presenza italiana, la situazione di Trieste rimaneva in bilico, essendo il Governo Militare Alleato una soluzione transitoria, al termine della quale non si sapeva se Trieste sarebbe stata restituita all’Italia o definitivamente annessa alla Jugoslavia. Questa situazione era però destinata a protrarsi per nove anni, fino al 1954.

In questo lasso di tempo non breve, va detto che i rapporti fra i militari alleati occupanti e la popolazione, furono complessi, se con gli Americani si stabilì (non sempre) una certa cordialità, gli Inglesi furono sempre freddi e ostili.

La situazione non era certo tranquilla, al punto da consentire la ripresa di una normale vita civile. Quasi quotidianamente la città era percorsa da manifestazioni di chi reclamava il ritorno all’Italia, e chi invece (sloveni e comunisti) voleva l’annessione alla Jugoslavia, spesso con scontri fra le opposte fazioni dove, soprattutto da parte dei filo-jugoslavi che ben sapevano di essere una minoranza, non ci si faceva scrupolo di ricorrere a coltelli e armi da fuoco.

Nel novembre 1953, il comandante inglese, il generale Winterton ordinò di sparare ad altezza d’uomo per disperdere una manifestazione per l’italianità di Trieste, fra la folla vi furono sei morti fra cui un adolescente, Pierino Addobbati.

Nel 1954, forse anche in conseguenza di questi fatti, veniva firmato a Londra il Memorandum d’Intesa con cui Trieste veniva riconsegnata all’Italia che poteva rientrarne in possesso il 5 ottobre.

Contando anche l’anno e mezzo di occupazione tedesca, erano undici anni che la città era rimasta separata dall’Italia, e il tripudio dei triestini che accolsero con un abbraccio oceanico spettacolare le truppe italiane in arrivo in una seconda liberazione che sembrava ripetere quella del 1918, e che è testimoniata da numerose foto dell’epoca, è ben comprensibile, ma c’è un fatto fondamentale che allora pareva sfuggire a tutti.

L’Italia che allora tornava a Trieste non era l’Italia prebellica, ma l’Italia “democratica e antifascista”, nata dal tradimento dell’8 settembre e dalla sconfitta, il prolungamento, nonostante il mutamento istituzionale da monarchia a repubblica, del governicchio costituito a Brindisi sotto l’egida degli alleati.

I tradimenti, le pugnalate alle spalle contro la nostra gente sarebbero continuate, e così fu.

Per prima cosa, non si sa bene a che titolo, per uno spirito di discutibile liberalità, l’Italia rientrata in possesso della Zona A ne cedette spontaneamente parte alla Jugoslavia, la fascia meridionale con il villaggio di Crevatini. La cosa ironica, se di ironia si può parlare nell’ambito dell’immane tragedia subita dalle genti giuliane, istriane, dalmate, è che proprio ai sensi del Trattato di Pace del 1947, almeno formalmente, non essendo mai stato costituito il Territorio Libero di Trieste, la sovranità italiana non era mai cessata de iure su Trieste e nemmeno sulla Zona B. A cosa fu dovuta questa inesplicabile liberalità, rimane un mistero. La nostra gente non aveva già perduto abbastanza? Come nel caso di Pola, anche la responsabilità per la perdita di Crevatini non è addebitabile alla guerra perduta, ma all’incuria della repubblica democratica nel proteggere i confini nazionali. In altri termini, la piaga dell’antifascismo: poiché il fascismo aveva tenuto in gran conto l’interesse nazionale, ci si è fatto un dovere di tenerlo nel minor conto possibile.

Per la terza volta si ripeté la tragedia dell’esodo, anche gli abitanti di Crevatini furono costretti ad abbandonare le loro case e le loro cose e avviarsi sulla triste via dell’esilio.

Ma questo naturalmente era solo l’inizio, da allora per Trieste è iniziato un (nemmeno tanto) lento declino economico, una graduale sparizione delle attività economiche che ha costretto sempre più spesso i triestini a emigrare per trovare lavoro altrove. “La madre (l’Italia) torna, i figli partono”, ha commentato amaramente qualcuno. Oggi Trieste conta meno di 200.000 abitanti, meno della metà di quanti ne avesse nel XIX secolo. Ce l’hanno ripetuto più volte le attività economiche di Trieste devono essere “complementari e non concorrenziali” a quelle della vicina Slovenia. “Per compensarci” ci hanno dato l’Area di Sincrotrone e il Centro di Fisica Teorica, che saranno certamente delle eccellenze in campo scientifico, ma in termini di occupazione e di indotto, hanno avuto un impatto praticamente nullo. Si è trattato, insomma, della classica operazione di facciata.

Si è varie volte ipotizzato che il Memorandum d’Intesa avesse delle clausole segrete che prevedevano la decadenza economica della città giuliana in cambio della restituzione del territorio triestino, e le smentite ufficiali non sono state molto convincenti, ma all’indomani di esso si ricorda una tracotante dichiarazione del maresciallo Tito, secondo cui all’Italia era stato restituito soltanto il cadavere di Trieste.

Noi non ci siamo mai sentiti l’Italia alle spalle nel difendere l’italianità della nostra città, al contrario, dalla repubblica democratica e antifascista ci sono sempre arrivate soltanto legnate.

La politica della repubblica democratica nei confronti delle minoranze etniche merita un discorso a parte: nello spirito dell’antifascismo, quindi del disprezzo di ogni politica tendente a tutelare la nazionalità italiana, la repubblica democratica ha riempito le minoranze etniche di tutele e privilegi ultra dimidium, sì che si può dire che oggi in Italia, gli Italiani costituiscono la maggioranza discriminata.

L’esempio più classico in questo senso è rappresentato dal trattamento di ultra-favore ricevuto dalla minoranza tedesca in Alto Adige. Vi ricorderete della dichiarazione di appartenenza etnica ottenuta dalla SVP per discriminare gli Italiani, che fa a pugni con l’articolo 3 della “nostra” costituzione, al punto che possiamo dire che nella provincia di Bolzano non vigono le leggi italiane.

Ma questo, ve l’ho già spiegato a suo tempo in una serie di articoli dedicati alla costituzione “più bella del mondo”, è uno dei miracoli di essa e dello spirito antifascista: i suoi articoli valgono solo quando sono rivolti contro di noi, là dove dovrebbero tutelarci, perdono immediatamente di efficacia.

Gli sloveni di Trieste hanno ovviamente cercato di imitare i tedeschi dell’Alto Adige nell’accaparrarsi quante più tutele e privilegi, ma c’è un ostacolo oggettivo rappresentato dall’esiguità numerica di questa minoranza. Allo scopo di impedire che tale esiguità numerica risulti in piena luce costringendoli a ridimensionare le loro pretese, hanno sempre osteggiato qualsiasi ipotesi di censimento, e qui si situa una vicenda davvero grottesca: anni fa fu avanzata la richiesta dell’introduzione nella provincia di Trieste, come già in quella di Bolzano, di carte d’identità bilingui. L’amministrazione comunale triestina fece notare che ciò sarebbe stato malvisto dalla maggioranza italiana, e avanzò una controproposta: scelta libera per i triestini se avere la carta d’identità in lingua italiana o bilingue. Tale controposta fu respinta con sdegno dagli sloveni, perché sarebbe equivalsa a un censimento. Quando si dice avere una coda di paglia lunga chilometri.

Nel complesso, nel generale declino della città giuliana, la minoranza slovena, favorita in ogni settore, ha prosperato, anche perché i figli di famiglie miste hanno tutta la convenienza a dichiararsi sloveni. Anni fa, quando le mie figlie erano piccole, ho avuto a che fare con un pediatra sloveno e molto fiero della sua slovenità. Sapete come si chiama? Volpi, non c’è che dire, lubianese puro!

La regione Friuli-Venezia Giulia è stata costituita nel 1963, unendo ciò che restava della Venezia Giulia prebellica, Trieste, Gorizia e Tarvisio, al Friuli, cioè alla provincia di Udine scorporata dal Veneto (successivamente è stato elevato a provincia Pordenone), un matrimonio forzato che si è rivelato non sempre felice. Nel 1973, in occasione del decimo anniversario di tale costituzione, la regione editò un fascicolo, “F” (come Friuli-Venezia Giulia). Quello che vi si legge è molto interessante: il documento si apre con una lamentela circa la mancata integrazione fra la parte friulana e quella giuliana della regione.

Non è chiaro? Non è un esempio evidente di come la democrazia antifascista intendeva risolvere il problema giuliano? Le parti superstiti della Venezia Giulia avrebbero dovuto amalgamarsi al Friuli, e del fatto che un tempo fosse esistita una Venezia Giulia italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico, non si sarebbe dovuto parlare più. Semplice e molto orwelliano.

Un ricordo di parecchi anni fa: eravamo negli anni ’70 dello scorso secolo, l’epoca della contestazione, io ero allora uno studente di liceo. Nel corso di un’assemblea studentesca riuscii a portare il discorso sulle foibe. Io sapevo che in quel periodo la contestazione rossa stava prendendo piede dappertutto, ma mi sembrava impossibile e mi sembra ancora oggi paradossale che essa potesse attecchire in una città con un retroterra storico come quello di Trieste.

Mi fu bruscamente risposto: “E i campi di concentramento, allora?” (a quel tempo non si usava ancora il termine “olocausto”, poi entrato nell’uso con il romanzo di Joseph Green e la sua riduzione cinematografica e televisiva).

Rimasi stupito: l’argomentazione era totalmente illogica: come poteva un crimine, vero o presunto, assolverne un altro? Io allora non ero al corrente di tutta la tematica revisionista, ma non era di questo che si stava parlando. I campi di concentramento non erano certamente imputabili alle genti istriane e giuliane che hanno subito il martirio delle foibe, e poi si trattava della nostra gente, massacrata appunto per la colpa di essere italiana.

Imparai in quella circostanza che la mentalità di sinistra è fatta tutta di questi cortocircuiti mentali nei quali è impossibile trovare un filo logico, discutere coi “rossi” significa solo sprecare tempo e fiato, oltre, spesso, mettere a rischio la propria incolumità.

Nei lunghi anni che separano quella tragedia dall’istituzione ufficiale della giornata del ricordo del 10 febbraio, (avvenuta, ricordiamolo in un raro momento in cui al governo non era l’immarcescibile centrosinistra che ci regge ininterrottamente da sessant’anni a dispetto di qualsiasi risultato elettorale, come una maledizione biblica), a ricordare quegli eventi dolorosi è stata soltanto la nostra parte politica, anzi, solo il fatto di parlarne etichettava immediatamente come “fascisti”.

Il 10 novembre 1975 veniva firmato a Osimo un accordo che nelle intenzioni dei firmatari doveva chiudere definitivamente la questione triestina. L’Italia riconosceva alla Jugoslavia la sovranità sulla Zona B, e la Jugoslavia all’Italia quella sulla Zona A. La fregatura? L’ennesima coltellata alla schiena ai triestini e all’italianità di Trieste? Naturalmente, c’era. Il fatto è che già dal 1948 una pronuncia delle Nazioni Unite aveva riconosciuto che non essendo mai stato costituito il Territorio Libero di Trieste, la sovranità italiana su entrambe le zone non era mai venuta meno, quindi la cessione della sovranità sulla Zona B era di fatto l’ennesima elargizione liberale dell’Italia antifascista verso i boia jugoslavi. Era, s’intende una sovranità puramente formale, ma senza Osimo, quando negli anni seguenti dallo smembramento dello stato jugoslavo sono emerse le nuove repubbliche bisognose di riconoscimento internazionale, se non fosse stata improvvidamente ceduta, con qualcosa la si sarebbe potuta scambiare: una maggiore tutela della superstite minoranza italiana, qualche forma di risarcimento agli esuli.

Ma non è nemmeno vero che l’accordo di Osimo sia stato semplicemente il riconoscimento di una situazione di fatto. Fino ad allora le acque antistanti la Zona B erano rimaste libere. Ora che diventavano acque territoriali jugoslave, il golfo di Trieste restava collegato alle restanti acque territoriali italiane solo da uno stretto budello intransitabile alle navi di grosso tonnellaggio. In conseguenza di ciò, la decadenza del porto e della città di Trieste ha subito una notevole accelerazione.

Ma non è tutto, infatti l’accordo prevedeva l’istituzione di una “zona franca” a cavallo del confine. Fu subito chiaro cosa sarebbe successo se tale zona franca fosse stata attuata. L’intento dichiarato era quello di attirare industrie sia italiane sia jugoslave grazie alle agevolazioni fiscali, ma i salari dei lavoratori sarebbero stati quelli previsti dai contratti sindacali dello stato della parte di zona franca dove gli stabilimenti sarebbero stati ubicati. Nella parte italiana non sarebbe stato costruito nulla, a che pro, se poco più in là si poteva praticare un regime salariale molto inferiore? Né alcun italiano vi avrebbe trovato lavoro, perché coi salari jugoslavi non si poteva vivere in Italia. In pratica, questa “zona franca”, oltre a non arrecarci nessun beneficio, avrebbe attirato gente dall’interno della Jugoslavia, creando una “bomba demografica” a ridosso di una città italiana già demograficamente in declino.

Le proteste, la civile ribellione dei triestini, proteste nelle quali “i neofascisti” furono in prima fila, fecero sì che almeno il progetto di zona franca venisse ritirato. Il che dimostra che nonostante la democrazia antifascista, nonostante la costituzione “più bella del mondo” che vieta i referendum sui trattati internazionali, e le mille trappole contenute in essa per vanificare la volontà popolare, quando una popolazione si muove compatta, fa sentire la propria voce per difendere non solo i propri interessi, ma la propria sopravvivenza, qualcosa si riesce a ottenere.

Josip Broz, in arte maresciallo Tito, despota jugoslavo e massacratore di italiani morì nel 1980. La cosa che mi seccò fu che in quel periodo stavo facendo il servizio militare. Avevo sperato di essere a casa e stappare una bottiglia di spumante per festeggiarne la dipartita.

Ai funerali dell’assassino di italiani, l’allora presidente della repubblica italiana, Sandro Pertini fu visto (e fotografato) baciarne la bara, ma Pertini, oltre che un “compagno” era un individuo della stessa genia. Durante il suo mandato presidenziale si è riusciti a costruirgli una figura di nonno bonario, a far dimenticare che durante la “resistenza” era stato uno dei capi partigiani più feroci, tra l’altro, facendo assassinare l’attrice Luisa Ferida, che era incinta, e il suo compagno Osvaldo Valenti facendoli passare per spie dei tedeschi, ma in realtà per nessun altro motivo se non che la Ferida gli si era rifiutata.

La disgregazione della Jugoslavia, di colpo diventata ex, non poteva non peggiorare la situazione della superstite minoranza italiana sopravvissuta, rimasta oltre l’innaturale confine stabilito nel 1945, questo sia perché la comunità italiana veniva a essere spaccata in due tronconi separati dal fiume Dragogna che divide la parte slovena da quella croata dell’Istria, sia per la massiccia dose di sciovinismo etnico che è stata artificiosamente iniettata nelle popolazioni che hanno costituito lo stato jugoslavo.

Occorre capire quale sia la vera origine della crisi che ha portato allo smembramento della Jugoslavia. Tutto parte dal 1989, dalla decisione del leader sovietico Michail Gorbacev di non sostenere più militarmente i “Paesi fratelli” di affidare la sopravvivenza dei regimi comunisti unicamente al consenso delle rispettive popolazioni, ammesso che ne avessero un minimo.

Il risultato è stato di una chiarezza solare, appena ha potuto appena non sono stati più sostenuti dalle armi sovietiche, la gente ha cacciato a calci i regimi comunisti. La caduta del muro di Berlino e la scomparsa della DDR sono stati gli esempi più eclatanti, ma il vento della rivolta ha soffiato forte in tutto l’Est europeo.

Per evitare di fare la stessa fine, di essere cacciati a furor di popolo, i vertici dell’ “Alleanza dei Socialisti”, così si chiamava il partito comunista jugoslavo, la malefica covata dell’assassino Tito, hanno architettato un piano diabolico: cambiare la casacca comunista con quella del più esasperato sciovinismo etnico e rimanere al potere, mettendo i popoli della ex Jugoslavia uno contro l’altro. Divide et impera, letteralmente.

Le prove di questa cospirazione che ha provocato una serie di guerre civili, “pulizia etnica” e migliaia di morti, sono state raccolte in maniera indipendente dall’avvocatessa belgradese Jagoda Savic e dal giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz. Ci sono le prove che la crisi della ex Jugoslavia è stata costruita a tavolino, prima con campagne di stampa per aizzare i popoli dello stato balcanico l’uno contro l’altro, poi arruolando le prime bande di miliziani nelle prigioni, tra i detenuti per crimini violenti.

Le feroci pulizie etniche, i massacri, le fosse comuni, ci hanno inorridito ma non sorpreso: un aspetto dell’animo slavo che avevamo ben sperimentato mezzo secolo prima. In questa situazione, la superstite minoranza italiana rimasta oltre l’innaturale confine, non poteva non trovarsi a essere il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro.

Ricordiamo che la crisi della ex Jugoslavia è stata accuratamente progettata a tavolino. Uno degli ultimi provvedimenti presi dal governo federale jugoslavo prima dello scioglimento della federazione, è stata una riforma scolastica che ha moltiplicato gli indirizzi delle scuole superiori. Questo ha avuto l’effetto, che con ogni probabilità era proprio quella voluto, di far sparire le scuole superiori di lingua italiana che fin allora esistevano per la minoranza superstite dei nostri connazionali, perché per ciascuno dei nuovi indirizzi, il numero degli studenti risulta troppo esiguo per una scuola di lingua italiana. Va da sé che è lo stato italiano a finanziare sia le scuole italiane nella ex Jugoslavia, sia le scuole slovene in Italia. L’Italia è sempre, in ogni caso, il solito Pantalone che paga per tutti (anche se questo non impedisce alla minoranza slovena in Italia di chiedere “reciprocità”, cioè sempre nuovi privilegi, mentre tiene la sua effettiva consistenza numerica come un segreto di stato. Qualcuno ha osservato che se dovessimo davvero trattarla con reciprocità, dovremmo cominciare a buttare gli sloveni nelle foibe).

Si può anche ricordare il fatto che allora il primo stato dell’Europa occidentale a riconoscere gli stati indipendenti di Slovenia e Croazia è stato il Vaticano, seguito a ruota, a un giorno di distanza proprio dall’Italia. Allora, sul soglio pontificio c’era Karol Wojtila, un papa astuto politicante, che certamente avrà fatto le debite pressioni sullo stato italiano per un frettoloso riconoscimento in modo che in cambio di esso non avessimo a rivendicare nulla. Per il papa slavo, i Croati, cattolici, erano i nuovi crociati contro la Serbia ortodossa.

Ma questo, naturalmente, era solo l’inizio. Nella crisi della ex Jugoslavia, per motivi che non hanno nulla a che fare con la situazione in Adriatico, gli Stati Uniti hanno deciso che “i cattivi” sono i Serbi e “i buoni” tutti gli altri, si è probabilmente trattato di uno scambio di favori con l’Arabia Saudita, intenzionata a favorire i mussulmani di Bosnia e l’islamizzazione dei Balcani, in cambio dell’isolamento dell’Irak di Saddam Hussein in previsione delle guerre del Golfo. I Paesi della NATO che dal 1945 non hanno più una politica estera, e l’Italia meno di tutti, ovviamente, hanno seguito a ruota.

Possiamo ricordare che il casus belli che servì a giustificare l’aggressione della NATO contro la Serbia, fu il cannoneggiamento della città bosniaca di Sebrenica, che anni dopo si scoprì essere stato opera dei Bosniaci stessi su indicazioni NATO, precisamente allo scopo di giustificare l’intervento del Patto Atlantico, un classico esempio di quella che nel gergo militar-politichese si chiama false flag.

Sarà forse ironico, sarà forse paradossale che a mettere a disposizione della NATO le basi aeree del nord-est italiano per l’aggressione alla Serbia e il bombardamento di Belgrado, fosse proprio il governo presieduto dall’ex comunista D’Alema, ex comunista, ma infido e vigliacco, sempre.

La scelta di campo della NATO, degli USA, ovviamente, perché gli “alleati” europei vi contano quanto il due di picche, la trovai, in una parola, ripugnante, perche autori dei massacri delle foibe e responsabili della disperata fuga dell’esodo, erano stati i nostri “cari vicini” sloveni e croati, e croato era lo stesso maresciallo Tito, mentre non è che con tutto ciò i Serbi avessero avuto a che fare, e adesso, in quanto membri della mefitica Alleanza Atlantica, ci trovavamo schierati dalla parte dei boia dei nostri connazionali, senza d’altronde la prospettiva di ricavarne alcunché. Senza contare la funzione che la Serbia aveva sempre avuto di barriera contro l’islamizzazione dei Balcani e del nostro continente, per non tacere del fatto che con ogni probabilità era proprio questo il motivo per cui gli USA ne avevano deciso l’annientamento per conto dei sauditi.

Il peggio, però, è avvenuto poco dopo. Forse reso sicuro proprio dall’appoggio NATO, il rais croato Frane Tudjman, degno erede di Tito, ha deciso un ulteriore giro di vite. Tolse agli italiani di Fiume lo status di minoranza etnica per ridurlo a quello di immigrati. Immigrati i superstiti del ceppo originario degli abitanti della città, ed è stato solo l’inizio di una vasta opera di cancellazione delle tracce della presenza italiana e veneziana in quella Dalmazia che è stata per tanti secoli parte integrante della Repubblica Serenissima. Si è arrivati a cancellare o alterare i nomi dei vecchi registri parrocchiali e delle lapidi dei cimiteri, a scalpellare via il leone di San Marco dai campanili, si è attuato fino in fondo il concetto orwelliano secondo cui ciò che non si conosce non è mai avvenuto, e ciò che si riesce a far credere a tutti quanti è “la verità”. Ora, dopo aver alterato chiese, campanili, lapidi dei cimiteri si pretende di presentare al mondo gli edifici eretti dalla Serenissima sulla costa dalmata come “arte croata”, quando è verosimile che i croati dei tempi in cui essi furono edificati, pastori e caprai dell’interno, non vi abbiano contribuito nemmeno con una pietra.

Non dovete però fare lo sbaglio di pensare che gli sloveni siano da meno. Ce lo ha spiegato molto bene Giorgio Rustia nel libro dal titolo chilometrico di cui vi ho più volte parlato. Questo testo è del 2011 e Rustia riporta un estratto di un documento molto interessante. Qualche tempo prima si era concluso il semestre sloveno di presidenza di quella pagliaccesca istituzione che usurpa il nome di Unione Europea. A conclusione di esso, il governo sloveno ha presentato un documento di presentazione dell’entità storico-politica slovena, dove si sostiene che a conclusione del secondo conflitto mondiale le aspirazioni nazionali slovene non furono affatto soddisfatte, estendendosi a tutto il Friuli e almeno a parte del Veneto (Slavia friulana e Slavia veneta, secondo loro). Bisogna notare che questo non è il punto di vista di qualche sciovinista esaltato, ma quello del governo sloveno, espresso in sede internazionale.

In altre parole, noi pensiamo che il nazionalismo sia una cosa superata, d’altri tempi, ma, appunto, lo pensiamo soltanto noi in Italia, gli altri vedono le cose in modo molto differente.

Bene, forse voi penserete che con l’istituzione, nel 2004 della Giornata del Ricordo del 10 febbraio (in ricordo del 10 febbraio 1947 in cui è avvenuta la firma del Trattato di Pace), si sia cominciato a rendere alle vittime delle foibe e a quanti hanno vissuto il dramma dell’esodo, almeno il tributo della memoria. In realtà, le cose non sono così semplici.

Eravamo nel 2004. Quell’anno cadeva il cinquantenario e restituzione di Trieste all’Italia. Il comune di Trieste aveva organizzato una manifestazione per celebrare l’evento, e richiese a ogni scuola superiore triestina di inviare una classe sul colle di San Giusto dove si doveva tenere la celebrazione, a cantare l’inno nazionale e sventolare il tricolore. All’uopo, a ogni scuola interessata fu inviato un pacco contenente copie dell’inno di Mameli e bandierine tricolori.

Nessun preside di nessuna scuola triestina decise di aderire all’iniziativa, non solo, ma il preside di uno dei due licei scientifici cittadini, proprio, per ironia della sorte, quello che porta il nome del martire dell’italianità Guglielmo Oberdan, decise di dare al suo rifiuto una particolare enfasi, facendo allestire nel cortile della scuola una specie di rogo dove fu platealmente bruciato il pacco contenente gli inni e le bandierine. Non vi stupirà sapere che quest’uomo era stato candidato del PD alla presidenza della provincia di Trieste poco tempo prima.

L’istituzione della giornata del ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo, avvenuta proprio nel 2004, in uno dei rari momenti in cui l’Italia non è stata governata dal centrosinistra, doveva averli fatti rodere, e parecchio.

Tutto ciò ci rimanda a due ordini di problemi: prima di tutto, quello gravissimo e che ancora adesso le forze di centrodestra e gli anticomunisti, a mio parere sottovalutano largamente, della posizione di pressoché monopolio che “i compagni” a partire dal 1968 sono riusciti ad assumere nella scuola italiana, ed è un problema gravissimo, se pensiamo che per la scuola passa la formazione, che diventa deformazione dei nostri giovani. Gli insegnanti che non condividono le fallimentari idee marxiste sono costretti al silenzio sugli argomenti “tabù” o si espongono alle peggiori ritorsioni, cosa che io stesso ho più volte sperimentato sulla mia pelle.

Potrei ricordare quanto avvenne a me nel 1991. All’epoca era appena avvenuta l’uscita della Slovenia e della Croazia dalla Jugoslavia. Il presidente della repubblica italiana Francesco Cossiga, forse l’unica persona degna che è salita a tale carica, cosa che, come vedremo, non si può certo dire per Sergio Mattarella, contravvenendo all’accordo segreto intervenuto tra il governo jugoslavo e quello italiano, rivelò che era stato concordato che l’esercito federale jugoslavo, ritirandosi dalla Slovenia si sarebbe dovuto imbarcare a Trieste per raggiungere i territori ancora jugoslavi via mare.

La cosa provocò nei triestini un comprensibile moto di orrore, trent’anni fa era viva ancora molta gente che ricordava l’orrore e le atrocità scatenate dell’immediato dopoguerra dagli jugoslavi nella nostra città. Questo nonostante un comunicato del PD locale (allora si chiamava DS, mi pare, ma non è che l’ambarabaciccicocò delle sigle abbia cambiato qualcosa) che ci invitava ad accogliere gli jugoslavi fraternamente a braccia aperte (avevano smesso ufficialmente di chiamarsi comunisti, ma il servilismo verso la stella rossa rimaneva inalterato).

Io all’epoca lavoravo al liceo “G. Galilei”, l’altro liceo scientifico cittadino, e avevamo un preside non solo comunista, ma un vecchio stalinista di quelli duri, compagno e amico del preside dell’altro liceo scientifico di cui vi ho detto.

Quel giorno arrivai a scuola e trovai le classi in subbuglio. I ragazzi avevano richiesto al preside un’assemblea d’istituto, e costui, sempre pronto a concederla per qualsiasi fesseria purché utile a fare propaganda di sinistra, gliela aveva rifiutata in un momento così delicato della vita della nostra città.

Dissi ai miei allievi: “Andiamo in classe, e ne parliamo”. Così facemmo, la mia lezione fu un’assemblea di classe ufficiosa, nella quale parlammo della situazione e della dolorosa storia pregressa della nostra città. Giovannone (così era soprannominato il preside, ma non aveva di certo sotto la scorza comunista, l’umanità del Peppone guareschiano), venne a saperlo, e da quel momento cercò in ogni modo di rendermi la vita impossibile con un durissimo mobbing, mi fece passare due anni d’inferno, finché non ottenni un trasferimento.

Ora badate bene, io non mi voglio affatto paragonare a quanti hanno pagato un prezzo ben più pesante, talvolta anche la vita, e i nomi li conosciamo tutti, per difendere le nostre idee, ma quanto meno quell’esperienza m’insegnò quale fosse il concetto di democrazia dei “compagni”, parafrasando Voltaire, “Non sono d’accordo con le tue idee, ma mi batterò fino alla morte (la tua) per tapparti la bocca”.

Non vi è quasi nessuna idea che non possa essere contestata, tranne l’aritmetica. Che undici meno quattro faccia sette, non può essere messo in dubbio da nessuno.  Tra il 2004, data del famoso rogo nel cortile del liceo Oberdan al 2011, passano sette anni, non 70, troppo pochi per un cambio generazionale, per un cambio credibile di mentalità. Nel 2011 i sedicenti democratici, in occasione del centocinquantenario dell’unità italiana, si sono scoperti all’improvviso grandi patrioti, sembrava la materializzazione della famosa caricatura di Guareschi, “Contrordine, compagni”, gente a cui poco prima davano fastidio perfino i tricolori negli stadi, girava ora con la coccardina tricolore all’occhiello.

Tuttavia bastava prestare un po’ di attenzione per rendersi conto di come stessero effettivamente le cose: questa improvvisa ventata di patriottismo era un alibi per “venderci” l’idea degli immigrati come “nuovi italiani” e lo ius soli. Altra regola basilare che ebbi modo se non di imparare, di ripassare in quella circostanza: di tutto ciò che viene da sinistra, bisogna presupporre fino a lampante evidenza contraria, la malafede.

La stessa cosa bisogna pensare oggi quando vediamo il 10 febbraio le delegazioni del PD alla commemorazione davanti alla foiba di Basovizza. Tanto per cominciare, sarà bene ricordare che quando fu proposta l’istituzione della Giornata del Ricordo, a votare contro di essa non furono solo gli stalinisti “duri e puri” di Rifondazione Comunista, ma anche, ad esempio Nichi Vendola, leader di Sinistra, Ecologia e Libertà ed ex presidente della regione Puglia, ma soprattutto, i continui danneggiamenti ed imbrattamenti un po’ in tutta Italia dei monumenti e delle lapidi che ricordano la tragedia delle foibe e dell’esodo, ci dimostrano chiaramente quale sia ancora oggi il vero animo dei “compagni”.

E come dimenticare il fatto che per sessant’anni, la memoria di quella tragedia è stata accuratamente repressa e nascosta? Solo ricordare quei morti, quelle vittime della violenza comunista, significava essere “fascisti”.

Ricordiamo anche il fatto che qualche tempo prima dell’istituzione della Giornata del Ricordo, una procura avanzò alla “nostra” magistratura, dove per disgrazia abbondano le toghe rosse, una richiesta di indagare sugli eccidi delle foibe, richiesta che fu respinta adducendo il pretesto che questi fatti sono avvenuti in territori che non rientrano più sotto la giurisdizione italiana, il che è falso, perché quanto meno la foiba di Basovizza si trova in territorio restituito all’Italia, a due passi da Trieste. La consegna era chiara: il pozzo senza fondo degli orrori del comunismo non andava scoperchiato.

Noi dobbiamo pensare che a differenza del militante “rosso” medio, i vertici del PD non siano composti da individui totalmente decerebrati, e d’altro canto non dimentichiamo che in questo partito sono confluiti pure i rottami della DC, che avrebbero ben potuto dare ai “compagni” lezioni di ipocrisia, ammesso che questi ne avessero bisogno. Evidentemente costoro si sono resi conto che una volta scoperchiata la pentola, non si poteva richiudere come se niente fosse.

Non è la prima volta che costoro, per illudersi, e per far credere di essere “nel senso della storia” hanno dovuto fingere che la storia vada nel loro senso. Ricordo ad esempio che quando nel 1989 le TV trasmisero in diretta l’abbattimento del muro di Berlino, seguii la cosa su RAI3, la più rossa delle reti della TV di stato. Non era solo la fine di un incubo che aveva gravato sull’Europa per sessant’anni, era una gioia supplementare ascoltare i telecronisti “rossi” fingere di essere lieti dell’evento quando le loro espressioni e i loro toni di voce dicevano tutto il contrario. Cosa volete? A volte un po’ di cattiveria fa bene all’anima!

Tuttavia, credo che “i compagni” che hanno una coda di paglia chilometrica, sopravvalutino la capacità della gente di capire e ricordare. Nel 2007, quando la foiba di Basovizza fu inaugurata come monumento nazionale, il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza tenne un discorso talmente vago e generico, che alcuni giornalisti presenti provarono a chiedere ai giovani presenti, ovviamente sprovvisti di cultura storica come “l’educazione democratica” comanda, se avessero capito chi fossero stati gli autori della strage. Molti ammisero di non averlo compreso, altri risposero “I nazisti”. E’ da notare che i nostri giovani hanno purtroppo interiorizzato la mentalità da film hollywoodiano, per la quale “i buoni” vincono sempre, e  di conseguenza i vincitori sono automaticamente collocati tra “i buoni”, attribuendo ai vinti le loro atrocità.

Roberto Dipiazza non è un uomo di sinistra, è un esponente del centrodestra, ma, come tutti, aveva interiorizzato sessant’anni di reticenza a denunciare le atrocità del comunismo.

I “democratici” del PD dicono di aver abiurato le mostruosità del comunismo (di cui gli eccidi delle foibe e il dramma dell’esodo non sono le più ampie, basta pensare che nei gulag staliniani sono sparite qualcosa dai 60 ai 100 milioni di persone, ma sono quelle che come italiani ci toccano più da vicino), ma i loro comportamenti reali non fanno che smentirli.

Ricordiamo ad esempio che l’attore Leo Gullotta fu aggredito a un convegno di giovani del PD, perché colpevole di aver recitato una parte nel film Il cuore nel pozzo in cui si parla della tragedia delle foibe, (e parliamo di giovani del PD, non dei Centri Sociali, di Sardine o simili) o i continui ostacoli che sono stati posti alla rappresentazione teatrale di Magazzino 18 di Simone Cristicchi che rievoca il dramma dell’esodo. Non ci possono essere dubbi su questo: per il PD la gente non deve sapere, non deve conoscere la verità che il comunismo è stato il vero male assoluto, una spaventosa macchina di morte che ha disseminato il XX secolo di cadaveri e terrore.

La ricetta che il PD segue scrupolosamente, l’ha esposta Jean François Revel nel libro La conoscenza inutile: non menzionare mai un’atrocità comunista senza nel contempo denunciare con maggiore veemenza un “crimine fascista” e, all’occorrenza, inventarlo.

Protagonista dell’ennesima rappresentazione di questo squallido copione è stato Sergio Mattarella, per disgrazia rieletto recentemente alla presidenza della repubblica, ma che non è stato, non è, non sarà mai il presidente di tutti gli Italiani, e questa storia è un esempio da manuale di come si costruisce un “delitto fascista” inesistente.

La cerimonia del 2020 è stata una cosa parecchio strana, a cominciare dalla partecipazione di Mattarella, ma capiamo, ricorreva il centenario dell’incendio dell’hotel Balkan. Un presidente della repubblica antifascista non si scomoda per ricordare decine di migliaia di italiani trucidati dai comunisti, ma per un presunto crimine fascista, si.

È stata una cosa surreale a cui ha partecipato il presidente sloveno Bodrut Pahor (e ci sono delle foto esilaranti dove si vedono i due presidenti tenersi per manina come due vecchi gay). Dopo un “salutino” alla foiba di Basovizza (dove, ci ha segnalato l’onorevole Renzo De Vidovich, non è stato consentito all’Unione degli Istriani di esporre il proprio labaro) e al vicino poligono di tiro dove furono fucilati quattro terroristi sloveni colpevoli di reati di sangue (e noi capiamo bene che equiparare decine di migliaia di italiani trucidati per la sola colpa di essere italiani a quattro assassini fucilati dopo un regolare processo, è un’offesa gravissima ai nostri morti, un esempio ripugnante di doppiopesismo, di come le colpe dei vincitori sono minimizzate e quelle dei vinti ingigantite o inventate di sana pianta), la cerimonia si è spostata nel centro triestino, in via Filzi, dove sorge (o dovremmo dire sorgeva) la Scuola Interpreti dell’Università di Trieste, che è stata regalata alla Slovenia. Nel contesto della cerimonia, proprio per non farsi mancare nulla, Mattarella ha conferito il cavalierato di gran croce (la massima onorificenza italiana) allo scrittore sloveno Boris Pahor (quasi omonimo del presidente sloveno), scrittore negazionista delle foibe.

Il fatto è che la (o l’ex) Scuola Interpreti è ubicata là dove un secolo fa sorgeva l’hotel Balkan “incendiato dai fascisti”, ma sappiamo bene come andarono effettivamente le cose, e che la versione ufficiale in realtà è una fola.

Siamo nel periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale, e gli Sloveni cercano di contrastare con la violenza terroristica l’annessione della Venezia Giulia all’Italia.

L’hotel Balkan ospitava la sede della Edinost (organizzazione politica slovena), dell’omonimo giornale, e di altre associazioni slovene, era praticamente il centro nevralgico di tutte le attività anti-italiane.

Il 12 luglio 1920 a Spalato (quindi dove gli Italiani si trovavano a convivere non con gli Sloveni, ma con i Croati, ma al riguardo fa poca differenza) furono uccisi Tommaso Gulli comandante della nave “Puglia” e il motorista Aldo Rossi.

In risposta a un evento di una simile gravità, vi fu il giorno successivo a Trieste una grande manifestazione italiana, a margine della quale vi furono disordini provocati dagli sloveni, e un giovane, Giovanni Nini, fu ucciso a coltellate. A questo punto la manifestazione, dove c’erano certamente i fascisti, ma anche molti italiani di qualsiasi colore politico, si diresse verso l’hotel Balkan per protestare contro la violenza slovena.

Proprio in previsione di possibili disordini, le autorità italiane avevano predisposto un cordone di sicurezza composto da soldati, carabinieri e finanzieri, Dalle finestre del Balkan si cominciò a sparare sulla folla, e una fucilata uccise il tenente Luigi Casciana che faceva parte del cordone disposto a difendere l’edificio. A questo punto, la folla irruppe all’interno del Balkan e scoppiò l’incendio.

Le testimonianze dell’epoca sono molto chiare: l’incendio partì dai piani alti, dove gli italiani non erano ancora arrivati, furono gli sloveni stessi ad appiccarlo: probabilmente, volevano bruciare documenti sui quali le autorità italiane non dovevano mettere mano, e il fuoco gli “prese la mano”.

Inventando la storia del Balkan “bruciato dai fascisti”, una volta di più, la storiografia antifascista ha invertito i ruoli di vittime e responsabili.

Se ne avessimo avuto bisogno, Sergio Mattarella ce ne ha dato l’ennesima dimostrazione: antifascista significa sostanzialmente anti-italiano.

da www.ereticamente,net