Autore: Amministratore

FIGURE DI MERDA

Da quando esiste, il parlamento di questa repubblica ha scritto ben poche pagine edificanti, talmente poche che non ne ricordo neppure una. In compenso ne ha scritte moltissime vergognose, ma con ciò che è accaduto in occasione dell’elezione del nuovo presidente del senato ha – per ora – toccato il fondo.

E’ successo che, in veste di “presidente provvisorio” dell’assemblea, sul seggiolone dell’aula si è arrampicata lei: la senatrice a vita Liliana Segre, di professione sopravvissuta.

Non importa il fatto che  come membro del senato nessuno l’abbia mai eletta: essa è e rimane una sopravvissuta e, come tale, oggetto di profonda venerazione da parte di tutte le istituzioni.

Naturalmente la vegliarda non ha perso l’occasione di tirare in ballo, nel suo pistolotto, argomenti del tutto consoni alla circostanza, quali la Marcia su Roma, le “leggi razziste” e la sua tribolata esperienza giovanile in campo di concentramento, alla quale peraltro dovrebbe essere molto grata, dal momento che, oltre a non avere minimamente inciso sulla lunghezza della sua esistenza (come stranamente accaduto per tantissimi altri sopravvissuti), proprio su di essa ha costruito la sua luminosa e fortunata carriera. A suo merito, detto per inciso, va sottolineato il fatto che, pur parlando di Auschwitz, non ha mai menzionato camere a gas e forni crematori; d’altra parte non era neppure necessario, visto che la loro esistenza è “notoria” e sancita per legge.

Come da copione il suo discorso ha scatenato l’entusiasmo unanime e irrefrenabile dell’assemblea (non essendo stato là presente, non posso escludere né confermare che all’interno dell’aula sia apparsa la scritta lampeggiante: “applausi”) e ha avuto ampia eco su giornali e televisioni, tanto da far passare in seconda linea quello pronunciato dal neoeletto presidente del senato, il quale si è rispettosamente presentato a lei con un mazzo di rose bianche e si è calorosamente profuso in baci e abbracci, rivelando ancora una volta – ma non ce n’era alcun bisogno – chi è che realmente comanda.

Tale figura di merda dell’alta camera dell’organo legislativo ha persino in parte oscurato quella sensazionale fatta nella stessa occasione da Silvio Berlusconi. Il cavaliere, frustrato nel fermo proposito di imporre la sua badante come seconda carica dello Stato, ha tentato di sgambettare la “presidente in pectore”, facendo sì che la sua banda non partecipasse alla elezione, in modo – lui sperava – da far mancare il numero di voti necessario al candidato di quella. Ha così clamorosamente tradito, alla prima prova, il patto di alleanza stipulato prima delle elezioni politiche, ma non ha tenuto conto del camaleontismo dell’assemblea, che ha reso inutile, oltreché ridicola, tale manovra, facendo vestire a Silvio i panni del piffero di montagna.

Il che non deve far gioire Giorgia più di tanto: lei si è impegnata a fondo nella campagna elettorale; oltre a promettere mari e monti agli elettori, come del resto hanno fatto tutti, ha sputato sul Fascismo, ha proclamato la sua incondizionata fedeltà all’Europa degli usurai e al braccio armato del Sistema (leggi NATO), ha ribadito la sua fraterna amicizia con Israele, ha cinguettato dolcemente col comico “boss” dell’Ucraina e, per non farsi mancare niente, ha inviato i suoi fervidi auguri di buon compleanno a Liliana Segre; ne ha così raccolto i frutti, tanto che nonno Sergio, pur digrignando i denti dietro un falso sorrisetto, dovrà giocoforza conferirle l’incarico di formare il governo.

Ma il risultato elettorale che ha conseguito non è affatto sufficiente a farle dormire sonni tranquilli; i chiari avvertimenti che ha già ricevuto da Ursula e le altre (i ministri donne del giudaico governo francese) sono da prendere molto sul serio: se solo tentasse di avviarsi in una direzione non gradita al Sistema, loro hanno i mezzi per farla deragliare e tali mezzi, oltre, alla borsa, allo “spread”, ecc., comprendono anche la mina vagante che si chiama Silvio.

Continua così, sulla pelle degli italiani, il teatrino di quella che, con spiccato senso dell’umorismo, chiamano “democrazia”.

Giuliano Scarpellini 

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28 Ottobre 1943 – RITORNO ALLE ORIGINI

di Alessandro Pavolini

Celebrare oggi il 28 ottobre 1922 significa – contro tutte le viltà, le calunnie e le diserzioni – rivendicare la propria qualità di fascisti come titolo di fierezza e di onore. Da che abbiamo iniziato questa nostra riscossa non sono certo mancate le anime buone a suggerirci: per carità, cercate di far dimenticare che siete fascisti. Fatevelo perdonare. Usate il meno possibile l’aggettivo “fascista”.

Ma noialtri, evidentemente pazzi e sconsigliati, fascisti ci siamo proclamati, fascisti ci proclamiamo. Sissignori. Siamo quelli che ventun anni fa marciavano su Roma: siamo quelli stessi. E siamo, anche, quelli che nei quarantacinque giorni di Badoglio non rinnegarono la loro fede, nell’alternativa della morte, della prigione, dell’esilio.

Oggi, nell’anniversario della Marcia su Roma, noi diciamo agli Italiani: volgete lo sguardo a ricordare: dalla rivoluzione dell’ottobre ’22 uscì un’Italia, che costituisce appunto la nostra indeclinabile fierezza. Un’Italia grande, prospera, rispettata. Italiani di buona fede, dite voi se non fu tale l’Italia degli anni tra il 1930 e il 1940. Italiani della terra, ricordate come si rasciugarono le paludi e come vi nacque il grano. Italiani dei porti, ripensate a quante navi vedeste scendere sul mare e portare alta e lontano, dappertutto, la nostra bandiera. Italiani che foste all’estero, ricordate quale era allora il vostro prestigio. Italiani che foste in Africa Orientale, in Libia, in Egeo, rammentate quali furono le nostre prove di colonizzatori e di costruttori. Italiani che combatteste per l’Impero ed in Spagna, ripensate quale era la nostra giovane, vittoriosa e ben organizzata potenza.

E voi, operai, se anche la nuova realtà non fu sempre pari alla vostra speranza, ebbene, ponetevi onestamente la domanda: è vero o no che dal 1922 alle grandi annate di costruzione e di lavoro del regime fascista il vostro livello di vita si elevò in misura considerevole? E’ vero o no che le provvidenze per malattie, infortuni, vecchiaia, raggiunsero un alto limite? E’ vero o no che i vostri figli crebbero in salute e in educazione? E ancora, Italiani delle città, pensate quale fu il loro rapido ampliarsi e fiorire. Italiani delle arti e della scienza, riconoscete che mai trovaste aiuto più generoso per le vostre attività. E voi tutti, infine, Italiani che in quegli anni di sole viaggiaste l’Italia, rievocate quale era la bellezza delle strade, la disciplina di tutti i traffici, l’ordine del Paese, il rigoglio perfino fisico della razza.

Potremmo a lungo continuare. Ma preferiamo concludere, chiedendo: o Italiani che conoscete la vostra Patria e la sua lunga storia – pochi o molti che siate – considerate se dai tempi di Augusto ad oggi l’Italia visse mai un periodo di unitario splendore, comparabile a quello che attraversò felicemente sotto la guida di Mussolini.

Tutto questo non si cancella. Il maresciallo del tradimento ha potuto far scalpellare i fasci littori dalle opera pubbliche, non distruggere le opere. Ha potuto aizzare contro i fascisti le cronache di una stampa immonda, non destituire il Fascismo dalla storia d’Italia. Ha potuto decretare lo scioglimento della Camicie Nere, non disperdere, nei sacrari, le mute assemblee dei nostri Morti. Il Fascismo è una fede che ha trovato a migliaia i suoi martiri, da Berta e Sonzini e Maramotti fino a Ricci e Pallotta e Giani. Fino ad Ettore Muti e agli squadristi giuliani, Caduti fronte al bolscevismo partigiano. E’ un credo che parlò alla mente di uomini quali Gabriele D’Annunzio e Guglielmo Marconi. E’ un’idea che ha fatto il giro del mondo. E’ la somma di energie di tutto un popolo, tese durante un ventennio con incomparabile fervore ai fini più nobili. Nelle settimane d’infamia si cambiò la copertina ai nostri codici: la sostanza delle nostre leggi rimase, intatta e incorruttibile. Si coprì sulle pareti del Ministero delle Corporazioni la Carta del Lavoro: rimase l’ordinamento sindacale e sociale del Fascismo, senza variazioni. Gli annali dell’umanità racconteranno in eterno come Mussolini trasse il suo Paese dal baratro e lo portò sulle vette, facendone per le genti un fato.

Ma, purtroppo, il 28 ottobre 1922 non segnò soltanto la vittoria di quella rivoluzione, che doveva avviarci a tanta ascesa. Non segnò soltanto la conquista dei poteri in Roma. Segnò anche, in Roma, l’incontro tra il Fascismo di Mussolini e la monarchia dei Savoia.

Ormai, al lume di quanto è avvenuto, tutto è chiaro. Chi un giorno scriverà la storia “vera” della dinastia nella storia italiana, documenterà come essa, ponendosi quale unica forza di carattere continuativo, abbia invariabilmente teso a far rientrare nel temporaneo tutte le altre forze che via via sorgessero dal popolo, liquidandole ad una ad una dopo averle sfruttate. L’abbandono o il tradimento dei patrioti nelle prima fasi del Risorgimento, l’esilio di Garibaldi a Caprera al termine delle sue imprese, le dimissioni di Cavour dopo Villafranca, il drammatico declino di Crispi, la costante politica per cui la monarchia favoriva esteriormente il partito prevalente, fosse esso la destra storica o il socialismo, e nel contempo ne allevava l’affossatore o il corruttore, fosse esso la sinistra o il giolittismo, tutti questi episodi diversi, fino alle cannonate contro i legionari di Fiume, non sono in realtà che il precedente uniforme di quanto è finalmente avvenuto nei confronti del Fascismo.

Il re, che all’esterno avallava in pieno la politica fascista, contemporaneamente favoriva e collegava attorno al trono tutti gli elementi che all’occasione avrebbero potuto inferire il colpo fatale al Regime del Duce.

Stato maggiore del regio esercito, ammiragliato della regia marina, comandi dei reali carabinieri, ecco alcuni fra gli ambienti dove a più riprese si ordì la congiura cui la Corona faceva da scudo. Occorre riflettere che nello Stato monarchico i comandi delle Forze Armate sembravano in qualche modo appartenere al demanio regio, un poco come le tenute di Sant’Anna di Valdieri o di San Rossore. A un certo punto ci si imbatteva nei cartelli di divieto: riserva, bandita. A chi si era messo verso la Corona in rapporti di servizio leale, non rimaneva che rispettosamente fermarsi, fidando in altrettanta lealtà. Né il settore militare era l’unico dove il sabotaggio antifascista si preparasse dietro lo schermo sabaudo. L’alleanza tra i generali badogliani massonici, la plutocrazia collegata con gli ebrei, la zona arricchita e corrota del gerarchismo, questo intrigo di collari dell’Annunziata e di nuovi duchi, conti, baroni e marchesi si realizzò anch’esso intorno al Quirinale ed ebbe nel ministro della real casa il suo sebretario losco e zelante.

 Fu dunque – è questo un punto da fissare ben chiaro – fu dunque la monarchia che rese impossibile di prevenire e in parte di prevedere il tradimento, coprendolo per intero con la propria autorità allora indiscussa e suprema. Ed oggi, e per le stesse ragioni, è colpendo la monarchia a piè del tronco che si abbattono insieme tutte le forze oscure che hanno impedito la vittoria alla Patria in guerra e l’hanno trascinata giù dai vertici del benessere e del prestigio verso l’abisso della vergogna e della miseria.

Sì, la monarchia non esitò a portarci alla disfatta e alla capitolazione, pur di seppellire il Fascismo. Ma sarà invece il Fascismo, rinato repubblicano com’era nel profondo istinto del suo periodo originario, a seppellire la monarchia ed a riportare l’Italia alla resistenza e alla vittoria finale.

Un’altra volta, come nel remoto ottobre della nostra adolescenza, il Fascismo ha marciato su Roma. Fin dal giorno stesso della capitolazione, col pianto nella gola noi insorgemmo e gridammo: no! c’è un’altra Italia oltre a questa! c’è un’Italia che è stata tradita e che non sa tradire! Non ancora i camerati germanici avevano sviluppato la pronta reazione che doveva portarli a ristabilire il dominio della situazione militare, contro gli angloamericani. Non ancora Mussolini era stato liberato, e questo evento sembrava impossibile, fuorché alla nostra irragionata certezza. Ma ecco che nel nome di Lui proclamammo il nuovo governo e per la prima volta dopo 45 giorni gli Italiani riascoltarono la parola del Fascismo e le note di “Giovinezza”. Poi, per tutti noi, per quelli che in carcere non disperavano, per quelli che in armi rifiutarono gli ordini infami e continuarono il combattimento, per tutti gli uomini e le donne di carattere e di onore, la liberazione di Mussolini a opera di un pugno di arditissimi soldati del Führer fu il miracolo atteso, il miracolo che solo una mistica fede può attendersi.

E riudimmo il timbro inconfondibile dei suoi ordini. In immediata obbedienza, squadristi e combattenti, anziani e giovani riaprirono le nostre sedi, in tutta Italia, riaccesero la fiamma e la difesero. In una Roma che rigurgitava di truppe e di polizie dai comandi infeudati a Badoglio, e nei cui rioni il tradimento aveva sparso a piene mani, nel miraggio della sedizione, le armi sottratte all’Esercito e i milioni rubati nelle casse sindacali, risollevammo la nostra insegna e rinconquistammo all’Italia lo Stato.

Da allora, cioè dall’inizio effetivo della nostra attività di governo, poco più di un mese è strascorso. Solo chi sa in quali condizioni di disastrosa inefficienza fosse ridotta quella macchina statale che prima di Badoglio funzionava in ogni sua parte, può capire le difficoltà che si sono superate, nell’assillo dei mille problemi urgenti, e come le apparenti lentezze abbiano forse rappresentato il massimo della celerità possibile. Per confermare il carattere di città aperta a Roma, la capitale si è trasferita, mediante il trasporto alquanto complesso di tutti gli essenziali strumenti di governo. Sotto l’impulso di un soldato di razza la organizzazione delle Forze Armate repubblicane ha compiuto i primi e fondamentali passi in avanti. Nell’abolizione del “marco di occupazione” ha visibilmente culminato l’inizio della normalizzazione nei rapporti della vita civile.

Il Consiglio dei Ministri presieduto ieri dal Duce ha perfezionato l’immediata formazione degli speciali Tribunali che giudicheranno i colpevoli della sconfitta e del disonore, mandando a morte i traditori. A giustizia fatta, e quando anche l’opera della Commissione per gli illeciti arricchimenti avrà finito di discriminare il marcio dal sano e le denunzie dalle calunnie, allora sarà il caso di consacrare per sempre quanto già oggi, in questo anniversario di inobliabile storia, abbiamo affermato e affermiamo: essere stato il Fascismo, infinitamente al di sopra delle ondate di fango con cui il tradimento e la diffamazione tentarono invano di insozzarne l’architettura alta e perenne, un movimento ideale di portata storica e mondiale, a cui più di una generazione di Italiani ha già consacrato in assoluta purezza il fiore del suo sangue e dei suoi sacrifici.

La stessa disinteressata passione che li mosse attraverso l’agro nell’autunno del ’22 è quella che anima oggi i fascisti repubblicani. Per decisione del Duce, in una vicina riunione, il Partito preciserà le proprie direttive programmatiche sui più importanti problemi statali e sulle nuove realizzazioni da raggiungere nel campo del lavoro, le quali, più propriamente che sociali, non abbiamo alcuna peritanza a definire socialiste. Dopo di che, l’Assemblea Costituente darà alla Repubblica le leggi basiche.

La Repubblica nasce fra lo schianto degli esplosivi, nel disperato impeto vitale di una gente tradita la quale sa che per essa riconquistare la stima fa tutt’uno col riconquistare il diritto di esistere. La Repubblica nasce nella tragedia, ma nella purezza. E’ possibile che vi sia un giovane, dico giovane, il quale non senta il suo richiamo imperioso? il quale si attardi nella critica sofistica o nell’accidia incomprensiva?

La Repubblica chiama. Chiama alle armi, contro il nemico plutocratico che strazia le nostre città e vuole smembrare il nostro paese. Alle armi, per moltiplicare oggi la resistenza contro l’invasore e per cacciarlo domani. Alle armi, perché il prode soldato germanico che adesso quasi da solo sbarra gli accessi alle nostre case possa presto tornare a vedere in ciascuno di noi il camerata, pari a lui camerata nell’orgoglio sovrano di portare con dignità le proprie armi di uomo il quale sa di difendere la propria terra, come sempre è stata tradizione passata e recente dei soldati d’Italia.

Ai piedi della Repubblica, come su una soglia augusta, i fascisti, gli uomini dell’ottobre ’22 e del settembre ’43, depongono le loro peculiarità di gente di un movimento e di un programma. La Repubblica non è una parte politica, come non è una parte geografica. Essa comprende tutti gli Italiani degni del nome, in tutta la terra che è Italia. Essa è la Patria. E’ la razza. E’ lo Stato. E’ l’dea di Mazzini e di Mussolini.

E’ l’antico tricolore che in una lontana primavera nacque senza stemmi, sulla sua parte bianca, là dove noi idealmente iscriviamo, come su una pagina tornata vergine, una sola parola: ONORE.  

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PER L’ONORE D’ITALIA: OMAGGIO AGLI EROI DI NETTUNIA

Il 22 gennaio 1944 gli Anglo-Americani sbarcavano sul litorale laziale costituendo una testa di ponte ad Anzio, distante dalla Capitale appena una cinquantina di chilometri.  Roma sembrava, ormai, a portata di mano. Il Comando Germanico inviò il Maggiore Paracadutista Walter Gericke a fronteggiare la situazione con un Gruppo da combattimento formato da sparuti Reparti eterogenei trovati sul posto. Con essi riuscì a ben contrastare le truppe sbarcate. Successivamente affluirono Reparti corazzati e la IV Div.  Fallschirmjager, che contennero la pressione del VI Corpo d’armata statunitense. Le contrapposte posizioni, tenute dai contendenti, diedero origine a quello che divenne il ‘Fronte di Nettuno’.

Pochi giorni dopo, alla Divisione Paracadutisti Germanici si aggregò – con non poche difficoltà, a causa della diffidenza tedesca –  il Battaglione Paracadutisti ‘Nembo’, comandato da quel meraviglioso Soldato che risponde al nome del Capitano Corradino Alvino. Trecento italiani riprendevano, organicamente, a combattere contro gli invasori Anglo-Americani. Finiva così, in parte, l’amarezza e la rabbia nel sapere che Roma era difesa soltanto da truppe straniere. Tedeschi, nostri alleati, ma pur sempre stranieri.

Al Nord la RSI, sorta da appena quattro mesi, faceva sforzi giganteschi per organizzare, addestrare, equipaggiare, armare e sopportare logisticamente le centinaia di migliaia di volontari che accorrevano ai vari Reparti in via di costituzione, tutti protesi e ardentemente desiderosi di combattere contro gli invasori del suolo italico. Ritenendo, questi ultimi, i soli nemici avverso i quali l’Italia si era battuta onorevolmente per trentanove mesi, sino al tradimento settembrino ordito da certi figuri in combutta con quel Savoia che non seppe morire come un vero re.

Per gli avvenimenti che si erano susseguiti tra luglio e settembre, i Tedeschi, ovviamente, non si fidavano più di noi, anche se, alla data dell’8 settembre, in Patria e fuori dei confini, 180.000 uomini erano rimasti al loro fianco. Non fosse altro per non macchiare – nei secoli a venire – l’onore della nostra razza.

La Xa Flottiglia MAS, le Camicie Nere della M.V.S.N. e i Paracadutisti non ammainarono la bandiera della Patria. Mentre l’Esercito regio si dissolveva e la Flotta da battaglia alzava a riva il ‘pennello nero’ – segno che contraddinse i pavidi, gli inetti, gli ignavi e i furbastri ‘benpensanti’- a Porta S. Paolo, in quel di Roma, il Generale Gioacchino Solinas, con i suoi Granatieri, oppose resistenza ai tedeschi, per non consegnare loro le armi.  Altro che eroismo contro il ‘nazifascismo’: Solinas e i suoi uomini aderirono alla Repubblica Sociale Italiana.

Successivamente, il Generale prestò servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito repubblicano e, dal giugno ’44, comandò il Centro Complementi destinati alle Divisioni dell’Esercito di Mussolini. La falsa retorica antifascista si è appropriata di eroismi e benemerenze, inserendoli nella sua vacua storiografia. Come nel caso del Vice brigadiere Salvo D’Acquisto che, da Carabiniere in servizio sul territorio della RSI, viene camuffato da eroe resistenziale.

La battaglia per Roma, iniziata il 22 gennaio, continuò per quattro mesi, sino al 4 giugno. Per gli eserciti ‘alleati’ non fu davvero una semplice passeggiata nonostante l’enorme potenziale bellico messo in campo.  In quei 134 giorni d’inferno, i Paracadutisti di Alvino, di Rizzatti e di Sala, i Marò di Bardelli, di Mataluno, di Nesi, i Legionari SS di Degli Oddi, gli Aerosiluranti di Faggioni e Marini stupirono amici e nemici, coronando in un alone di gloria l’olocausto delle giovani vite di migliaia di Caduti.

Il primo Reparto a raggiungere il Fronte di Nettuno fu, come accennato, il Battaglione Paracadutisti “Nembo” di Alvino. Aggregato alla IV Divisione Fallschirmjager il “Nembo” entrò in linea l’8 Febbraio. Il 16 partecipò a un contrattacco germanico, con tale irruenza e combattività da suscitare l’ammirazione incondizionata e il compiacimento dei Parà tedeschi che, in fatto di guerra seriamente combattuta, non erano certo degli sprovveduti. Il “Nembo”, in continui combattimenti, si coprì di gloria, mettendo in grossa difficoltà gli Anglo-Americani che pagarono un prezzo altissimo in perdite umane. Il Battaglione venne citato nel bollettini di guerra dell’Alto Comando Germanico. I tedeschi erano strabiliati dell’ardore e dell’aggressività dei nostri al punto che, anch’essi, attaccavano le postazioni avversarie al grido di ‘Nembo’. Al fosso della Moletta, gli uomini di Alvino diedero i meglio di se stessi. Le perdite superarono i due terzi degli effettivi. Un mese dopo l’arrivo al Fronte,  il Battaglione, ridotto a una Compagnia, prese il nome di Cmp. ‘Nettuno-Nembo’ e tornò in linea combattendo sino al giorno 4 e poi ripiegando, ancora, fino al 30 di giugno.

A fine febbraio, intanto, da La Spezia partiva per Nettuno il Btg.  Fanteria di Marina ‘Barbarigo’ della X Flottiglia MAS, agli ordini del Capitano di Corvetta Umberto Bardelli. Dopo molte richieste e insistenza, millecento Marò riuscirono a coronare il loro sogno: quello di vedere in faccia il nemico invasore. A Nettuno, tra il lago di Fogliano, il canale Mussolini, Borgo Piave, Cerreto Alto e Borgo Sabotino, ebbe origine il mito del ‘Barbarigo’. Esso ci tramanda le imprese e il valore dei Marò, l’abnegazione dei Sottufficiali, l’eroismo indomito degli Ufficiali di questo straordinario Battaglione. Di questo mito vanno fieri i protagonisti superstiti e inorgoglisce tutto il combattentismo repubblicano. Quei ‘mille’ giovani, anzi giovanissimi, del ‘Barbarigo’, superarono epicamente i ‘mille’ di Leonida alle Termopili.

A Nettuno, articolati nelle Compagnie l° ‘Decima’, 2° ‘Scirè’, 3° ‘Iride’, 4° ‘Tarigo’ e 5° Cannoni, unitamente al Gruppo Artiglieria X ‘S. Giorgio’ aggregato al ‘Barbarigo’, gli uomini di Bardelli furono tutti eroi. Gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno, videro l’accanita resistenza e l’estremo sacrificio di tutte le compagnie. La 1° a Borgo S. Michele e Borgo Pasubio, la 4° fu l’ ultima a lasciare il Fronte dopo aver contrattaccato gli americani all’arma bianca. Fogliano, Gorgolicino, Norma, Colleferro, difese zolla dopo zolla, metro dopo metro. E Cisterna, dove non rimane in piedi un solo uomo del II Plotone 2° Cmp.

Il Comandante Tenente Sandro Tognoloni, per il suo eroismo, verrà decorato di Medaglia d’oro al V.M.. Ancora il 2, 3 e 4 giugno, l’indimenticabile Tenente di Vascello Giulio Cencetti, con una Compagnia di Formazione – l’Ultima – fronteggia gli ‘alleati’ alle porte di Roma che lascia, transitando per Piazzale di Ponte Milvio, alle ore 13.30 del 5 giugno ’44. Al Labaro del ‘Barbarigo’ venne concessa la Medaglia di Bronzo VM con questa motivazione: “Armato essenzialmente di fede e di coraggio chiedeva di essere inviato al Fronte di Nettuno per riscattare l’Onore della Patria tradita. A fianco dell’Alleato fedele, in tre mesi di lotta asperrima contendeva fino all’estremo alle orde travolgenti dei nuovi barbari il possesso di Roma immortale dando luminose prove di strenuo valore e consacrando col sangue dei migliori il sacro diritto d’Italia alla vita e alla rinascita. Fronte di Nettuno – Roma, 4 marzo-4 giugno 1944”.

Il Gruppo di Artiglieria XII ‘S. Giorgio’ affiancò il ‘Barbarigo’ che da poco era entrato in linea a Nettuno.  Il Gruppo, al comando del Capitano Renato Carnevale, era ordinato su due Batterie cannoni da 105 mm. e una Batteria da 75 mm.  Gli uomini del ‘S. Giorgio’ si impegnarono nel durissimo compito, opponendo le loro bocche da fuoco ai terrificanti cannoneggiamenti e bombardamenti provenienti dalle linee avversarie e dal mare e dal cielo.  Quotidianamente, senza sosta, con tiri di accompagnamento, di interdizione, di alleggerimento, di controbatteria, contrastando animosamente ed efficacemente la pressione nemica. Il ‘S.  Giorgio’ rimase in linea a tutto il 3 giugno, sparando sino all’ultimo proiettile.

La X MAS concorse alla difesa di Roma anche con i suoi Reparti navali. A Fiumicino venne costituita – meglio dire: creata – la ‘Base Sud’ dei Mezzi d’assalto di superficie.  Il comando venne assunto dal Tenente di Vascello Domenico Mataluno.  Tra mille difficoltà di ogni tipo, innumerevoli furono le uscite in mare dei Mezzi in dotazione, alla ricerca di naviglio nemico. Notti insonni, attese snervanti, spesso con mare forte.  Il 20 febbraio venne scoperto, attaccato e colpito con siluro un cacciatorpediniere. Il 28 dello stesso mese venne affondata una corvetta. Stessa sorte subì l’incrociatore inglese ‘Penelope’. L’ultimo eroico Comandante fu il Tenente di Vascello pilota Sergio Nesi, Medaglia d’argento al V.M. sul campo per aver attaccato e colpito una corvetta nemica. La ‘base Sud’, al suo comando, operò sino al 4 giugno ’44.

In aprile entrò in linea, sul Fronte di Nettuno, il II Btg. del I Rgt. SS italiana, al comando del Tenente Colonnello Federigo degli Oddi. Per il valoroso comportamento nei combattimenti e per l’aggressività dimostrata in ogni circostanza, il Labaro del Btg. fu decorato con la Medaglia d’argento.  Soldati eccezionali che si imposero all’ammirazione per l’indiscusso valore ed audacia.  Vale ricordare, tra i tanti, l’episodio nel quale dieci Legionari SS tennero un settore del Fronte, lungo 400 metri, contro reiterati attacchi di forze di gran lunga superiori e che non portarono ai risultati sperati. Un altro caposaldo, nella notte tra il 27-28 aprile, difeso da sette giovani Legionari SS, venne investito dall’attacco di due Compagnie fucilieri appoggiate da carri armati e fuoco d’artiglieria. Dopo dura resistenza la posizione fu, giocoforza, abbandonata. La notte successiva, un pattuglione di trenta Legionari SS riconquistarono, con azione irruente e decisa, il caposaldo.

Nel mese di maggio, anche il Battaglione ‘Debica’ della Legione SS italiana raggiunse il Fronte schierandosi tra S. Marinella e Fiumicino. Il ‘Debica’ in ogni azione fu all’altezza delle aspettative, coprendosi di gloria e lasciando sul terreno oltre il 50% degli effettivi. Il valore dei Legionari SS fu ricompensato con ben quarantacinque Croci di Ferro e cinquantasette Promozioni per merito di guerra.  Dopo ‘NETTUNO’ i Legionari della SS italiana furono autorizzati a fregiarsi delle mostreggiature nere anziché rosse.  Parificazione di alto valore morale.

A fine maggio, raggiunse il Fronte di Nettuno anche il Reggimento Arditi Paracadutisti italiani.  Gli arditi dei cielo combatterono strenuamente a Castel Porziano, Ardea, Castel di Decima e all’Acquabona, dove cadde eroicamente il Comandante del Rgt. Maggiore Mario Rizzatti Medaglia d’Oro alla Memoria. Ai Paracadutisti venne affidato il compito di costante retroguardia del Fronte in fase di ripiegamento. Questo significò il quotidiano contatto con un nemico mille volte più numeroso e dotato di mezzi e volume di fuoco inestinguibili.

Per l’eroico comportamento dei Paracadutisti, lo schieramento italo-tedesco potè effettuare un regolare sganciamento dalla pressione della V Armata USA. Le perdite superarono il 60% dell’organico reggimentale. Il Gagliardetto del Btg. ‘Folgore’ fu insignìto di Medaglia di Bronzo. Le decorazioni individuali furono: tre Medaglie d’Oro V.M. alla Memoria, dodici d’Argento alla Memoria, diciassette d’Argento V.M. sul campo, sedici di Bronzo e Dodici Croci di guerra al V.M..

Nei mesi in cui fu combattuta la battaglia per la difesa di Roma, fu presente, su quel Fronte, anche l’Artiglieria Contraerea e la risorta Aeronautica della RSI. In particolare, le ali repubblicane parteciparono con il Gruppo Aerosiluranti, costituito dal valoroso Capitano Carlo Faggioni. Un mese dopo avere giurato fedeltà alla RSI, sette aerosiluranti entrarono in azione di guerra, al largo di Nettuno, colpendo due navi nemiche. Era la prima vittoria dell’A.N.R.. Subito dopo gli aerosiluranti attaccarono a Capo Circeo, dove colpirono un cacciatorpediniere, un grosso piroscafo e tre navi trasporto.  La notte del 10 aprile, con un altro attacco, furono silurate tre navi nemiche.  In questa azione cadeva il Comandante Faggioni.  Il 4 giugno, mentre Roma veniva occupata dalle armate ‘alleate’, il Gruppo Aerosiluranti, al comando dei Capitano Marino Marini – che aveva sostituito Faggioni – alle ore 21, con dieci SM 79, attaccava la munitissima base di Gibilterra, mettendo a segno tutti i siluri su altrettante navi nemiche.

La battaglia in difesa di Roma è entrata nella Storia d’Italia tingendola con l’azzurro di questo inestimabile medagliere. Alle Bandiere:  – Medaglia d’Argento V.M. al Labaro del II/I Rgt. SS italiana. – Medaglia di Bronzo V,M. al Labaro del Btg.  ‘Barbarigo’ della Xa – Medaglia di Bronzo V.M. al Labaro del Rgt.  Arditi Paracadutisti Italiani; individuali:  – 3 Medaglie d’Oro V.M. alla Memoria – 15 Medaglie d’Argento V.M. alla memoria – 2 Medaglie di Bronzo V.M. alla Memoria – 1 Medaglia d’Oro V.M. sul campo – 75 Medaglie d’argento V.M. sul campo – 28 Medaglie di Bronzo V.M. sul campo – 37 Croci di guerra V.M. sul campo – 94 Croci di Ferro.

L’epopea dei Paracadutisti, dei Marò, dei Legionari SS, degli Artiglieri, degli Aerosiluranti e dei Mezzi d’assalto della Xa Flottiglia MAS è patrimonio che viene onorato e si perpetua nel Campo della Memoria di Nettuno.

da: www.italia-rsi.it

A completamento dell’articolo sopra riportato aggiungo le cifre riguardanti le perdite subìte dai combattenti italiani nella “Battaglia per Roma”:

  • Nembo: 70%
  • Barbarigo: 50%
  • SS italiane: 75%

Sono cifre che parlano da sole.

Giuliano Scarpellini

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ALLIED WAR CRIMES: NAVE LACONIA

Quella che le nazioni dell’Asse definirono “Tragedia del Laconia” e le nazioni “alleate” battezzarono pudicamente “Incidente del Laconia” fu in realtà una strage di prigionieri di guerra italiani, che, seppur innescata da un evento imprevisto (ma prevedibile), fu assolutamente voluta ed attuata dagli inglesi con la manovalanza polacca e rifinita, sempre volutamente, dagli americani e dimostrò ancora una volta il livello di civiltà (leggi barbarie) raggiunto dai difensori della “libertà”, della “democrazia” e dei “diritti dell’uomo”.

La “Laconia” era un transatlantico inglese di 19.695 t.s.l. di proprietà della “Cunard Line”, varato nel 1921 ed entrato in servizio nel 1922, il quale, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale era stato requisito dalla “Royal Navy” e trasformato in cargo incrociatore, armato con otto cannoni da 152 mm, due obici e cannoni antiaerei (il che lo rendeva senza alcun dubbio un obiettivo militare), e, successivamente ad altre modifiche, in trasporto truppe e nave per prigionieri di guerra.

Inizialmente effettuò le sue crociere dalla Gran Bretagna fino al continente africano, trasportando le truppe inglesi inviate a combattere in Nord Africa contro l’Afrika Korps del Feldmaresciallo Erwin Rommel e, più tardi le fu assegnata la missione di trasferire circa 1800 prigionieri italiani nei campi di concentramento alleati negli Stati Uniti.

Nel luglio 1942 salpò dal porto di Suez al comando del capitano Rudolf Sharp, con a bordo 463 uomini d’equipaggio tra ufficiali e marinai, 268 soldati britannici, ottanta passeggeri (per lo più donne e bambini delle famiglie dei soldati britannici o dei membri dell’equipaggio) e 103 soldati polacchi destinati al servizio di guardia degli oltre 1800 prigionieri italiani, questi ultimi ammassati in tre stive che potevano contenerne solo la metà, con razioni di viveri inadeguate e appena due “ore d’aria” al giorno, una al mattino e una alla sera.

Dopo aver fatto scalo nei porti di Aden, Mombasa, Durban e Città del Capo, dove le era stata modificata la destinazione iniziale (dall’Inghilterra agli Stati Uniti), la notte del 12 settembre 1942 la “Laconia” navigava in Atlantico al largo dell’isola di Ascensione, situata a circa 1600 chilometri di distanza dalla costa africana e a circa 2250 chilometri da quella brasiliana.

Sebbene procedesse zigzagando e a luci spente, fu avvistata dall’U-Boot 156, il quale, al comando del pluridecorato capitano di corvetta Werner Hartenstein, si trovava in caccia nella zona e, inquadrato al periscopio l’obiettivo, gli lanciò contro una coppiola di siluri,  che andarono entrambi  a segno e provocarono l’affondamento della nave in meno di due ore.

Gli avvenimenti che seguirono il siluramento sono stati minuziosamente descritti, sulla base delle testimonianze fornite da molti sopravvissuti e dei documenti d’archivio reperiti, nell’articolo “La tragedia della Laconia” di Andrea David Quinzi ed è pertanto indispensabile trascriverne alcuni stralci:

“……L’U-Boot emerse ed a questo punto si accorse che tra i naufraghi vi erano dei soldati alleati italiani. Hartenstein parlò con due di essi e, appresa la composizione dei passeggeri della nave nemica, diede subito ospitalità ai feriti, alle donne ed ai bambini, ed il ponte del sottomarino si riempì di coloro che non avevano trovato posto sulle scialuppe di salvataggio. Ma i naufraghi erano troppi ed il comandante chiese istruzioni al suo comando: <13,9 – atlantico verso freetown – affondato inglese laconia qu. f.f. 7721 – 310 – purtroppo con 1800 prigionieri italiani – sino ad ora 90 salvati – combustibile 157 m3 – siluri 19 – alisei forza 3 – chiedo ordini>.

Informato dell’accaduto, l’Ammiraglio Dönitz ordinò il salvataggio dei naufraghi, con particolare riguardo agli italiani, e dispose che altri due sommergibili in zona, l’U-506 del capitano Würdemann e l’U-507 del capitano Schacht, partecipassero alle operazioni di salvataggio. Inoltre avvisò il comando italiano di Betasom che inviò sul luogo il sottomarino Cappellini, al comando del Tenente di vascello Marco Revedin.

A questo punto bisogna suddividere la vicenda nei due drammatici avvenimenti che la contraddistinsero: quello dell’omicidio premeditato di centinaia di prigionieri di guerra italiani, e quello dei sopravvissuti all’affondamento, rimasti per giorni in balìa delle onde.

La tragedia più spaventosa, l’orrore più grande, fu senz’altro il primo, che si svolse nei circa 60 minuti trascorsi tra il siluramento e l’affondamento della nave, una vicenda poco nota circondata ancora oggi da un vergognoso silenzio: la condanna a morte di 1800 prigionieri di guerra italiani.

Di tragici errori e di drammatici naufragi se ne verificarono purtroppo a centinaia nel corso della Seconda Guerra Mondiale, con colpevoli e vittime in entrambi gli schieramenti. Ciò che rende unico e particolarmente odioso il disastro della Laconia è il fatto che in questo caso la tragedia non fu né casuale né inevitabile. Ecco come essa venne riassunta con assoluta sinteticità nel giornale di bordo del comandante Hartenstein: <Secondo le informazioni degli italiani, gli inglesi, dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio…>.

Da fonte non sospetta, uno storico americano, risulta che le scialuppe e le cinture di salvataggio a bordo della Laconia fossero sufficienti per tutti i suoi passeggeri: “Laconia had enough lifeboats and rafts to support all 2,700 persons aboard her, including the POWs.” [La Laconia aveva sufficienti scialuppe e galleggianti per tutte le 2700 persone imbarcate, inclusi i prigionieri di guerra] (“Hitler’s U-Boat War-The Hunted, 1942-1945”, Clay Blair jr.). Ciò nonostante le guardie polacche ricevettero l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi nelle stive, condannandoli di fatto ad una morte orribile e premeditata per affogamento. Possiamo a malapena immaginare il panico ed il terrore che si impossessarono di quegli uomini quando, davanti alle loro disperate richieste, videro le sentinelle rifiutarsi di aprire le sbarre, negando loro anche l’ultima speranza di sopravvivenza tra le acque dell’Oceano.

Le testimonianze su quei tragici momenti sono agghiaccianti, qualcuno dei prigionieri tentò addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le pareti dello scafo. Con la forza della disperazione i reduci del deserto si scagliarono contro i cancelli sbarrati, sebbene le guardie non esitassero a respingerli a colpi di baionetta o a sparargli a bruciapelo. Oltre ai racconti dei sopravvissuti la semplice evidenza del tipo di ferite riscontrate su alcuni di essi confermano purtroppo i fatti.

Nel libro ‘Sopra di noi l’Oceano’, di Antonino Trizzino, è riportata la drammatica testimonianza del caporale Dino Monti: ‘Quelli che erano più vicini alla grata, appena i morti e i feriti stramazzavano a terra, ne prendevano subito il posto. La grata si torceva, si piegava sotto la loro pressione. (…) Alla fine i nostri sforzi centuplicati dal terrore, dall’esasperazione, dalla follia collettiva ebbero ragione della grata. Calpestando i caduti ci lanciammo verso le scale.’ L’orrore proseguì sul ponte della nave, dove venne fatto fuoco sugli italiani che cercavano di trovare posto nelle scialuppe, e raggiunse il culmine tra le acque dell’Oceano dove vennero trovati alcuni cadaveri di italiani privi delle mani. La spiegazione è ancora nella testimonianza: ‘Quando si aggrappavano alle scialuppe quei maledetti gli recidevano i polsi perché non potessero più arrampicarsi. Urlavano come bestie sgozzate mentre scivolavano in acqua senza più mani’ (Trizzino, op.cit.).

L’emersione del sommergibile tedesco provocò la fine di questa barbarie imponendo una difficile convivenza tra ex prigionieri ed ex carcerieri, accomunati dalla comune condizione di naufraghi in balia delle onde. Tuttavia è facile comprendere quali fossero i sentimenti, anzi i risentimenti, degli italiani sopravvissuti nel ritrovarsi accanto i carnefici di pochi minuti prima, e sapendo che sotto di loro giacevano i corpi gonfi di centinaia di loro commilitoni.

Questa prima fase della tragedia, la più orribile, non solo non è stata mai approfondita, ma ancora oggi viene taciuta come dimostra un esempio emblematico. Il Dipartimento Storico della BBC, gloriosa e meritoria istituzione culturale autrice di documentari televisivi di grande valore, in una recentissima produzione dedicata alla “Guerra dell’Atlantico”, trasmessa domenica 21 luglio 2002 alle nove di sera, ha ricordato l’affondamento della Laconia senza fare alcun cenno alla fine degli italiani. In tutto il documentario si fa cenno agli italiani in due soli commenti: quando si parla dei passeggeri, “The liner Laconia was homebound from Cape Town with two thousand seven hundred people onboard. Eighteen hundred of them Italian prisoners of war.” [La nave Laconia si era allontanata da Cape Town con 2700 persone a bordo. 1800 di esse italiani prigionieri di guerra]; e in un breve passaggio dedicato ai naufraghi: “Hundreds of men, most of them Italian prisoners, were struggling in the sea. They were desperate for a place in a lifeboat.” [Centinaia di uomini, in gran parte prigionieri italiani, erano sparsi nel mare. Essi erano alla ricerca disperata di un posto nelle scialuppe].

L’analisi di queste parole conferma implicitamente che tra le acque vi erano soprattutto italiani cui, evidentemente, non era stato dato posto sulle scialuppe occupate dai soli civili e militari inglesi. La parte del documentario dedicata alla Laconia ha proposto le testimonianze di due sopravvissuti inglesi: una marinaio addetto alle cucine, Frank Holding; ed una donna che nella sciagura perse la figlia, Janet Walker. La vicenda viene di fatto incentrata soprattutto sulla pietosa vicenda della donna che vide per l’ultima volta la figlioletta tra le mani di un ufficiale inglese. Solo nella testimonianza del marinaio c’è un preciso riferimento alla crudeltà verso gli italiani: “…one fellow in the boat says, ‘If any of them are on – hanging onto the side,’ he said, ‘Call out and I’ll give you the hatchet, chop their fingers off” [..uno sulla barca dice, ‘Se qualcuno di loro cerca di aggrapparsi’ egli disse’ gridate ed io vi darò l’accetta per tagliargli le dita].

Di fatto il documentario della BBC non fa alcun riferimento alla tragica decisione che condannò gli italiani, concludendo lo spazio dedicato all’affondamento della Laconia con un generico commento che trasforma la vicenda in una delle tante tragedie del mare: “One thousand, six hundred people were lost with the Laconia.” [1600 persone perirono con la Laconia], senza alcun riferimento al fatto che dei 1600 morti indicati ben 1400 erano italiani!

Ciò non significa che la storiografia anglo-americana non conosca i termini della vicenda che, nel 1998, è stata ricostruita in tutti i suoi vergognosi particolari in un capitolo del libro già citato dello storico americano Clay Blair jr. (1925-1998), sommergibilista durante la guerra ed autore di numerosi saggi di storia. Ecco come Blair ha ricordato la strage degli italiani: “The Poles who were assigned to guard the POWs refused to unbolt the doors on the pens and consequently hundreds of Italians who survived the torpedoes went down with the ship. Several hundred or more broke out of one pen and scrambled topside, but they were refused places in lifeboats at gun and bayonet point.” [I polacchi cui era assegnata la guardia dei prigionieri di guerra rifiutarono di aprire i cancelli e di conseguenza centinaia di Italiani che erano sopravvissuti ai siluri colarono a picco con la nave. Diverse centinaia sfondarono uno dei cancelli e si riversarono sul ponte, ma a loro vennero negati i posti sulle scialuppe a colpi di fucile e di baionetta].

Nel corso della ricerca per la stesura di questo articolo mi sono anche imbattuto in un sito di storia dei sottomarini “subnetitalia.it” che, alla pagina ‘Battaglia dell’Atlantico – I sommergibili italian’, così sintetizza l’episodio: <…il Cappellini partecipa al salvataggio dei 1.800 prigionieri italiani affondati con il transatlantico inglese RMS Laconia silurato dall’U-boat U-156 al largo della Liberia.(…)L’operazione di salvataggio sarà eseguita assieme agli U-boat U-156, U-506 e U-507>. E’ facile osservare come la tragedia degli italiani venga qui falsamente dipinta come una normale missione di salvataggio portata felicemente a termine. Non fu assolutamente così, come conferma il racconto della seconda fase della tragedia, quella che si svolse nei giorni successivi all’affondamento. Le fonti, almeno in questo caso, concordano invece nel denunciare le colpe degli alleati.

La notizia dell’involontaria strage di ‘alleati’ italiani causata dall’affondamento della Laconia creò non pochi problemi a Berlino, tanto che la questione venne sottoposta addirittura all’attenzione di Hitler. Nonostante la crudele scelta fatta dagli inglesi (ad onor del vero bisogna ricordare che almeno il comandante della Laconia scelse di affondare con la sua nave), nelle acque intorno all’U-156 annaspavano ancora centinaia di soldati italiani che gli alleati germanici non potevano abbandonare al loro destino.

Bisogna tuttavia rilevare che il comandante del sottomarino tedesco Werner Hartenstein, al di là della ‘ragione politica’, aveva già provveduto di sua iniziativa  al soccorso dei naufraghi, come risulta chiaramente dal suo primo messaggio: <…con 1500 prigionieri italiani – sino ad ora 90 salvati>; ed è confermato dal successivo messaggio: <ho a bordo 193 uomini, tra cui 21 inglesi. centinaia di naufraghi galleggiano con cinture di salvataggio>. Hitler, pur manifestando il suo rammarico per la morte degli italiani, disse che Hartenstein non si sarebbe dovuto occupare della sorte dei superstiti. Fortunatamente fu solo un parere e non un ordine, infatti l’ammiraglio Raeder concesse a Dönitz di inviare nella zona l’U-506 e l’U-507 e non si oppose all’invio del Cappellini. I tedeschi coinvolsero nell’operazione anche i francesi di Vichy, chiedendo loro di inviare sul luogo dell’affondamento le navi di stanza a Dakar e riportare a terra i naufraghi salvati dai sottomarini.

Ma la situazione sotto gli occhi di Hartenstein era drammatica e non consentiva indugi. Pur avendo imbarcato quanta più gente possibile all’interno e all’esterno del sottomarino, ed aver preso a rimorchio tutte le scialuppe di salvataggio rimaste, intorno a lui si dibattevano ancora centinaia di corpi tra le acque. Come se non bastasse il sangue dei feriti aveva richiamato tutti gli squali della zona che avevano già fatto scempio dei vivi e dei cadaveri: <Ne guizzavano tanti in mezzo a noi – raccontò un soldato milanese ai marinai del Cappellini – addentavano un braccio, mangiavano a morsi una gamba. Altre bestiacce più grandi, orrende, trinciavano corpi interi> (Trizzino, op.cit.).

Hartenstein, inoltre, si rendeva conto che gli aiuti promessi non avrebbero potuto raggiungerlo prima di 48 ore. La cruda realtà era che un sottomarino con 50 marinai stava affrontando da solo il salvataggio di oltre mille naufraghi. Il comandante tedesco prese quindi un’incredibile iniziativa personale facendo diramare, ‘in chiaro’, un messaggio in lingua inglese in cui chiedeva aiuto a tutte le navi ‘nemiche’ in navigazione, giungendo ad indicare la sua esatta posizione: <If any ship will assist the shipwrecked Laconia crew I will not attack her, providing I am not attacked by ship or air force. I picked up 193 men. 4 degrees -52″ south. 11 degrees – 26″ west. German Submarine> [Qualsiasi nave che soccorrerà i naufraghi della Laconia non sarà attaccata, purchè io non sia attaccato da navi o aerei. Ho già raccolto 193 uomini. 4 gradi-52” sud. 11 gradi, 26” ovest. Sottomarino tedesco].

Il messaggio partì alle 6 del mattino del 13 settembre e venne ripetuto tre volte. Ma nessuna nave inglese rispose all’appello. “The British in Freetown intercepted this message, but believing it might be a ruse de guerre, refused to credit it or to act.” [Gli inglesi a Freetown intercettarono questo messaggio, ma credendo che potesse essere un trucco di guerra, rifiutarono di dargli credito o di agire] (Clay Blair, op.cit.).
Finalmente, all’alba del 15 settembre, più di due giorni dopo il naufragio, arrivò l’U-506, raggiunto nel pomeriggio dall’U-507. Il primo raccolse 132 italiani e 10 tra donne e bambini inglesi, e prese a rimorchio quattro scialuppe con circa 250 persone; il secondo prese a bordo 129 italiani, 1 ufficiale inglese, 16 bambini e 15 donne, e a rimorchio 7 lance con 330 superstiti fra cui 35 italiani. Hartenstein rimase con 131 superstiti tra cui cinque donne. Il giorno dopo Dönitz inviava questo messaggio ai suoi sommergibili: <per il gruppo laconia. avvisi coloniali Dumont-d’Urville – Annamite – arriveranno probabilmente mattinata del 17.9. incrociatore classe Gloire viene a grande velocita’ da Dakar. qui appresso istruzioni per contatto>.

A questo punto la tragedia sembrava essere giunta all’epilogo, ma un altro sanguinoso capitolo si stava per aggiungere. Alle 11.25 del 16 settembre sull’U-156 apparve un aereo, un B-24 ‘Liberator’ americano di cui si distinguevano chiaramente le insegne sotto le ali. A bordo del quadrimotore c’erano il tenente-pilota James D. Harden, il tenente Edgar W. Keller, e l’ufficiale di rotta Jerome Periman. Ai loro occhi apparve chiaramente la scena della tragedia: nelle acque circostanti il sottomarino tedesco, sul quale Hartenstein aveva fatto stendere un grande telo bianco con una croce rossa, galleggiavano centinaia di corpi, in gran parte cadaveri, e diverse scialuppe e zattere di fortuna cariche di naufraghi. Dall’U-156 si trasmise in Morse: <Qui sommergibile tedesco con naufraghi inglesi>. Il pilota americano non rispose. Un inglese chiese ad Hartenstein di trasmettere lui un messaggio all’aereo: <Qui ufficiale RAF a bordo sommergibile tedesco.Ci sono i naufraghi del Laconia, soldati, civili, donne, bambini>. Il pilota non rispose nuovamente e si allontanò.

Alle 12.32 l’apparecchio americano ritornò e bombardò il sottomarino!

Caddero cinque bombe, di cui una centrò una scialuppa e una colpì l’U-Boot causando avarie agli accumulatori ed al periscopio. Hartenstein ordinò subito di evacuare i naufraghi e, fatte tagliare le cime che trattenevano le scialuppe, s’immerse alla profondità di 60 metri. Quando dopo molte ore riemerse trasmise il seguente messaggio al suo comando: “Hartenstein – stop – liberator americano ci ha bombardato cinque volte con quattro lance cariche nonostante bandiera con croce rossa di 4 metri quadrati – stop – altezza era di sessanta metri – stop – i due periscopi danneggiati – stop – interruzione salvataggio – stop – tutti sgombrati dal ponte – stop – vado a ovest per riparare – Hartenstein.

Il 17 settembre, alle 12.22, anche l’U-506 venne attaccato da un idrovolante che sganciò tre bombe sebbene il sottomarino, con i suoi 142 passeggeri a bordo, si fosse già immerso avendolo scorto in tempo.

Nel frattempo anche il Cappellini aveva raggiunto la zona. Il mattino del 16 incontrò la prima scialuppa con 50 inglesi ben provvisti di acqua e viveri. Due ore dopo un’altra con uomini donne e bambini inglesi che rifornì di acqua e viveri. Nel pomeriggio incontrò finalmente delle scialuppe con a bordo degli italiani: <…si possono sentire sempre più distinte le invocazioni di soccorso: in milanese, in napoletano, in siciliano. Tutto intorno galleggiano cadaveri profondamente dilaniati dai denti degli squali. Altri hanno le mani staccate come con un colpo d’ascia> (Trizzino, op.cit.). Le scialuppe erano quelle dei naufraghi che erano stati salvati da Hartenstein che, dopo l’attacco americano, era stato costretto da un ordine di Dönitz a sbarcare tutti i superstiti che aveva a bordo.
Il
Cappellini, imbarcati sottocoperta 49 italiani feriti e sistemati sul ponte tutti gli altri naufraghi, cercò per altri quattro giorni le navi francesi di soccorso, che nel frattempo avevano già preso a bordo tutti i superstiti che erano stati salvati dagli U-Boot 506 e 507: più di 700 inglesi, 373 italiani, e 72 polacchi, che arrivarono a Dakar il 27 settembre. Finalmente, alle 8 di domenica 20 settembre, il Cappellini s’incontrò con il Dumont d’Urville del capitano Madelin, a cui consegnò 42 italiani e 19 inglesi. Altri 7 italiani e 2 inglesi rimasero a bordo e seguirono il Cappellini fino a Bordeaux, sede della base navale italiana nell’Atlantico ‘Betasom’. Altri naufraghi del Laconia, un centinaio di sfortunati che avevano trovato rifugio su due canotti, raggiunsero la costa dell’Africa solo dopo diverse settimane in mare. Solo sei di essi erano rimasti in vita.

Tra tutte le fonti consultate è possibile stimare il numero totale dei morti della Laconia tra i 1600 ed i 1700. L’unica cosa certa è che nemmeno un terzo dei 1800 prigionieri di guerra imbarcati a Suez si salvò dal naufragio, mentre le perdite inglesi furono minime: <Morti: 1350 italiani su 1800, contro 11 inglesi su 811”, secondo Trizzino che cita fonti ufficiali. Un sito polacco sui disastri navali della seconda guerra mondiale indica un totale di 1649 morti, di cui 31 polacchi su 103 imbarcati.

[…..]

L’attacco del Liberator all’U-156 venne ammesso dagli americani solo molti anni dopo la fine della guerra. Non risulta che dopo il conflitto il governo italiano abbia mai indagato o richiesto informazioni sulle circostanze che portarono alla morte dei 1400 prigionieri di guerra italiani imbarcati sulla Laconia”. [da “La tragedia della Laconia” di Andrea David Quinzi – www.cronologia.it].

Questo narrato fu uno degli innumerevoli crimini di guerra commessi dagli “Alleati” nel corso della Seconda Guerra Mondiale che, al pari di tutti gli altri, è sempre stato coperto, nei confronti del grande pubblico, da un omertoso silenzio e da una sempre più fitta coltre di oblìo. Mai un rappresentante di questa indecente repubblica (che non rende omaggio a martiri ed eroi perché non ne ha, ma solo a banditi e nemici della Patria) ne ha accennato per un sia pur vago ricordo e men che meno nonno Sergio, seppur incline alle commemorazioni, ma solo dei compagnucci suoi: recentemente si è persino recato a Lumellogno per onorare i sei comunisti morti il 16 luglio 1922 in quella località nello scontro a fuoco con le squadre fasciste recatesi a vendicare un camerata proditoriamente assassinato dai rossi; altrettanto dicasi dei “santi padri” succedutisi fino all’attuale Bergoglio, il quale in compenso si recò a gettare una corona di fiori nel mare di Lampedusa in memoria dei “migranti” affogati per avere loro stessi rovesciato la barca che li trasportava; ma la spiegazione è molto semplice: i 1.400 assassinati per affogamento sulla “Laconia” non erano comunisti. non erano negri aspiranti clandestini e non erano neppure ebrei, erano Italiani.

Giuliano Scarpellini

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LA CODA DELLO SCORPIONE

Da quando era stato brutalmente disarcionato e poi scavalcato, manco fosse una pulce, dall’immenso banchiere – un vero drago idolatrato da grandi e piccini al di qua e al di là delle Alpi, anzi al di qua e al di là dell’oceano – Giuseppi aveva giurato vendetta, tremenda vendetta. L’avrebbe fatta pagare cara ai suoi nemici, che intanto erano sensibilmente aumentati di numero, e avrebbe reso loro pan per focaccia non appena avesse trovato uno sgabello per risalire al di sopra dell’anonimato.

E lo sgabello glielo avevano incautamente fornito i 5 stelle, i quali erano alla disperata ricerca di un nocchiere capace di far navigare la loro barca che stava andando desolatamente alla deriva, senza però tener conto che come nocchiere Giuseppi poteva al massimo governare un pedalò.

Lui però aveva raggiunto il suo obiettivo: da quella posizione, pur mantenendosi defilato e mostrando il sorrisetto ebete modello Gioconda, poteva tenere costantemente sotto tiro l’immenso banchiere e premere il grilletto quando lo avesse ritenuto più opportuno, proprio come lo scorpione che colpisce con la coda.

Dopo il fisiologico periodo di attesa, è finalmente arrivato luglio, mese fatale, e Giuseppi, fregandosene altamente del fatto che con tale mossa avrebbe mandato la barca dei 5 stelle a naufragare sugli scogli, ha allungato il piede e fatto la cianchetta all’Immenso, convinto di farlo cadere rovinosamente e procurargli qualche serio acciacco.

Solo che per abbattere un drago non bastano dieci giuseppi, che infatti tra tutti e dieci non avevano capito che anziché fargli un dispettuccio, gli stavano facendo un grosso favore.

Da qualche tempo, infatti, l’Immenso aveva cominciato a sentire una sempre più insistente puzza di bruciato: si stavano già delineando le conseguenze dei grossi danni da lui procurati all’economia italiana per reggere il sacco agli USA, con la benedizione della Commissione UE, nella loro guerra per procura contro la Russia; ed era già evidente che tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno il disastro assumerà contorni ben precisi quanto tragici, non certo compensati dalla mancetta di 200 euri benevolmente elargiti a luglio alla maggior parte degli italiani. Quindi stava cercando il modo di potersi defilare elegantemente prima che arrivasse qualche sasso a rompere i vetri delle finestre del palazzo (Chigi, ovviamente); e Giuseppi, nel cui cervello tutto questo non poteva proprio albergare, gli aveva opportunamente fornito l’occasione che ardentemente desiderava.

Tanto che avrebbe potuto tranquillamente infischiarsene dell’appoggio di Giuseppi e dei 2 o 3 stelle, ma ciò lo avrebbe esposto poi ad una prossima pericolosa resa dei conti. Quindi, adducendo motivi di lesa maestà, grazie a Giuseppi ha potuto dignitosamente salutare la compagnia, sfilando tra due fitte ali di folla plaudente che sventola fazzoletti intrisi di lacrime.

Meglio di così non gli poteva certo andare, tanto più che sicuramente non resterà disoccupato: lo aspettano in campo internazionale alti, prestigiosi e remunerativi incarichi, tra i quali non ha che l’imbarazzo della scelta.

Da parte sua Giuseppi ha fatto come i pifferi di montagna: andò per suonare e fu suonato, ma, alla fin fine, a restare fregati sono come sempre gli italiani.

Giuliano Scarpellini

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